LA SFIDA DI CARTESIO E LA RISPOSTA DI VICO
A cura di: Mario Della Penna
Entra nella sezione FILOSOFIA

Se vuoi comunicare con Mario Della Penna: mariodellapenna@theorein.it
XI Lezione

LE MEDITAZIONI METAFISICHE

TERZA MEDITAZIONE

DI DIO E DELLA SUA ESISTENZA

La terza Meditazione si apre con la speranza di poter utilizzare le caratteristiche logiche della prima proposizione indubitabile penso, sono, come un criterio che permetta di distinguere le proposizioni vere dalle proposizioni dubbie.

«E pertanto mi sembra che già possa stabilire per regola generale, che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere». (21)

Nei Princìpi, Descartes sentirà il bisogno di definire cosa intende per idea chiara e distinta e per idea oscura e confusa:

«io chiamo chiara quella [conoscenza] che è presente e manifesta ad uno spirito attento (...) e distinta, quella che è talmente precisa e differente da tutte le altre, da non comprendere in sè se non ciò che appare manifestamente a chi la considera come si deve». (22)

Le idee possono essere chiare senza essere distinte, ma ogni idea distinta è necessariamente anche chiara. Il segno che manifesta la presenza alla mente di una conoscenza chiara e distinta è la incapacità di dubitare della sua verità. Ci sono delle proposizioni semplici ed evidenti che non possono essere messe in dubbio perchè è inconcepibile che possano essere false: è difficile difatti che la mente possa pensare che 2+3 non faccia 5. Con davanti una proposizione di questo tipo, è impossibile dubitarne l'esattezza, per il fatto che non è possibile dubitare della propria esistenza. 

Essendo certo di credere ad un Dio il quale non ha nessuna ragione ad ingannare gli uomini, Descartes per tentare di dimostrare la verità della regola generale (che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere), deve eliminare l'unico motivo di dubbio che impedisce di assumerla, ossia dimostrare che Dio esiste e che non è ingannatore.

La natura delle idee

Descartes inizia ad indagare sulla natura delle idee, e in una lettera a Mersenne del 16 giugno 1646 specifica:

«Col termine Idea (termine che non compare nel Discorso sul Metodo) io intendo tutto quello che può essere nel nostro pensiero, e che ho distinto in tre categorie: e cioè: quaedam sunt adventitiae come l'idea che si ha volgarmente del sole; alie factae vel factitiae, fra cui si può mettere quella che gli astronomi si fanno del sole con i loro ragionamenti; aliae innate, ut Idea Dei, Mentis, Corporis, Trianguli, et generaliter omnes quae aliquas Essentias Veras, Immutabiles et Aeternas repraesentant. (23)

Descartes introduce qui una divisione delle idee secondo la loro origine, che farà poi propria ed elaborerà lungamente nella quinta e sesta Meditazione. Le idee ritenute avventizie vengono individuate come il veicolo tra il pensiero e il mondo esterno (se vedo il sole, vuol dire che esiste il sole) e sono del tutto involontarie (non siamo noi a decidere se vedere o meno il sole). 

Dopo i dubbi sollevati nella prima Meditazione per dimostrare l'esistenza di un qualche ente, al di fuori dell'io, la via dell'origine delle idee, che è quella spontaneamente seguita per prestar fede nell'esistenza di un mondo e nella somiglianza di questo mondo con le idee che se ne hanno, diventa impercorribile. 

Nasce l'esigenza di analizzare le idee sotto una diversa angolatura, non più secondo la loro origine, ma secondo la loro natura. 

Descartes opera una divisione in due categorie: una ristretta (le idee in senso proprio) ed una allargata, per la quale ogni evento mentale, ogni atto del pensiero è una idea. 

«Tra i miei pensieri, alcuni sono come le immagini delle cose, come quando mi rappresento un uomo, o una chimera, o il cielo, o un angelo, o Dio stesso. Altri poi hanno anche altre forme: così, quando io voglio, temo, affermo o nego, concepisco qualche cosa come oggetto dell'atto del pensiero gli uni sono chiamati volontà o affezioni, e gli altri giudizi. Le idee, se noi le consideriamo solo in se stesse, senza riportarle ad altro, esse non possono, a parlar propriamente, essere false; poiché, sia che immagini una capra o una chimera, immagino l'una non meno che l'altra. Così restano i soli giudizi, nei quali debbo badare accuratamente a non ingannarmi. Ora il principale e più ordinario errore che vi si possa trovare consiste in ciò, che io giudico che le idee, le quali sono in me, siano simili o conformi a cose che sono fuori di me».  (24)

Nelle Meditazioni, e segnatamente nella terza, dove per la prima volta la nozione di idea è tematizzata, è centrale l'accezione di idea come stato rappresentativo, e questo perchè la prima prova dell'esistenza di Dio ivi contenuta, utilizza solo questa nozione di idea. 

Cartesio invece di andare direttamente dal pensiero alle cose, deve disegnare un triangolo, andando prima dal pensiero a Dio, e una volta accertato Dio, essere sicuro delle cose. 

L'esistenza di Dio. La prima prova a posteriori

Le prove dell'esistenza di Dio elaborate da Descartes sono tre. Due di queste sono prove a posteriori, ovvero partono dagli effetti per ricercare la causa, e compaiono nella terza Meditazione; la terza invece, è una prova a priori, e viene presentata nella quinta Meditazione. In tutte e tre queste prove l'idea di Dio svolge un ruolo centrale. La prima prova a posteriori parte dall'analisi dell'idea in senso proprio. 

«Cioè, se queste idee son considerate solamente in quanto sono certe maniere di pensare, io non riconosco tra loro nessuna differenza o ineguaglianza, ma, considerandole (prospettiva gnoseologica) come immagini, di cui le une rappresentano una cosa e le altre un'altra, è evidente che esse sono differentissime le une dalle altre. Perché, in effetti, quelle che mi rappresentano delle sostanze sono senza dubbio qualche cosa di più, e contengono in sé (per così dire) maggior realtà oggettiva, cioè partecipano per rappresentazione ad un numero maggiore di gradi di essere o di perfezione, di quelle che mi rappresentano solamente dei modi o accidenti». (25)

Cos'è la realtà oggettiva? Secondo Cartesio è la realtà rappresentativa. L'idea di una sostanza rappresenta qualcosa di più perfetto che non l'idea di un accidente. Per accidente si intende ciò che per esistere ha bisogno di una sostanza per inferire. 

«Di più, quella per la quale io concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente e creatore universale di tutte le cose che sono fuori di lui, quell'idea, dico, ha certamente in sé più realtà oggettiva di quelle, da cui mi sono rappresentate le sostanze finite. Ora è una cosa manifesta per luce naturale, che deve esserci per lo meno tanto di realtà nella causa efficiente e totale, quanto nel suo effetto: perché, donde l'effetto può trarre la sua realtà, se non dalla propria causa? E come questa causa potrebbe comunicargliela, se non l'avesse in se stessa? E da ciò segue non solamente che il niente non potrebbe produrre nessuna cosa, ma anche che ciò che è più perfetto, cioè che contiene in sé maggior realtà, non può essere una conseguenza ed una dipendenza del meno perfetto». (26)

«S'accresce a poco a poco, ed aumenta per gradi? Di più, anche se la mia coscienza aumentasse sempre maggiormente, ben comprendo che essa non potrebbe essere attualmente infinita, poiché essa non arriverà mai a si alto punto di perfezione, da non essere ancora capace di qualche maggior incremento. Ma io concepisco Dio come attualmente infinito che non si può nulla aggiungere alla sovrana perfezione che esso possiede. Ecco perché voglio qui passare oltre, e considerare se io stesso, che ho quest'idea di Dio, potrei esistere, nel caso che non ci fosse Dio. E domando: da che trarrei la mia esistenza? Forse da me stesso, o dai miei genitori. Ora se io fossi indipendente da ogni altro, e fossi io stesso l'autore del mio essere, certo non dubiterei di nessuna cosa, non concepirei più desideri, ed infine non mi mancherebbe nessuna perfezione; perché mi sarei dato io stesso tutte quelle di cui ho in me qualche idea, e così sarei Dio. E' stato molto più difficile che io sia uscito dal niente». (27)

Descartes aggiunge un principio manifesto "per luce naturale", in base al quale "deve esserci per lo meno tanta realtà nella causa che nell'effetto". Il principio di causalità è presentato come un principio fondamentale, tanto che il principio "da niente non viene niente" ne consegue.

In forza al principio di causalità, allora, si dovrà dire che il contenuto rappresentativo di ogni idea proviene da qualunque causa, che contiene in sè per lo meno tanta realtà formale quanta realtà oggettiva è contenuta in quell'idea.

Fino a questo punto si conosce un solo ente dotato di realtà formale, e questo è la sostanza pensante. Ora delle idee chiare e distinte delle sostanze finite l'io potrebbe essere causa formale, mentre delle idee chiare e distinte degli accidenti potrebbe essere causa eminente. A maggior ragione l'io ha sufficiente realtà per produrre le idee oscure e confuse.

Solo un'idea ha maggiore realtà oggettiva di quanta realtà formale sia contenuta nell'io. Si tratta dell'idea della sostanza infinita, ovvero di Dio, una idea che non può essere prodotta dall'io. Da ciò ne consegue che deve esistere, fuori dal pensiero, una sostanza infinita capace di causare in noi l'idea dell'infinito.

Per sostenere la legittimità di considerare positiva e primitiva l'idea dell'infinito, Descartes non esita a rovesciare l'argomentazione scolastica: non è l'idea dell'infinito che deriva da quella del finito, ma piuttosto l'idea del finito che deriva da quella dell'infinito.

Ne consegue che l'io non potrebbe percepirsi come dubitante, e quindi imperfetto, se non si paragonasse ad un ente interamente perfetto. L'idea dell'infinito è una idea primitiva, e già implicata nell'idea dell'io dubitante.

L'esistenza di Dio. La seconda prova a posteriori

Descartes propone una seconda prova a posteriori (o una riformulazione della prima), per rendere più agevole la comprensione al lettore. Questa prova si avvicinerà di molto ad uno degli schemi più celebri di prove a posteriori dell'esistenza di Dio, quella causale formulata da Tommaso come seconda via per dimostrare l'esistenza di Dio, che così recitava:

«Nel mondo, ogni ente deve avere una causa;
Nella ricerca delle cause non si proseguire all'infinito;
Dunque esiste una causa prima incausata, che è Dio».
(28)

Dopo l'esempio del pezzo di cera, Descartes si cimenta da vicino ancora con i modelli di prova elaborati dalla cultura scolastica, introducendo però modifiche rilevanti.

Non si cerca più la causa dell'infinito, ma del finito che possiede in sè l'idea dell'infinito. In sostanza il ragionamento è così impostato: l'io, in possesso dell'idea di Dio, deve avere una causa.

Descartes non giudica in sè contraddittoria l'ipotesi che un ente sia causa di se stesso, ipotesi respinta da tutta la scolastica, ma respinge l'ipotesi dell'autocausalità dell'io, solo perchè l'io non possiede tutte le perfezioni di cui ha idea.

Descartes prende in considerazione l'ipotesi che l'io non abbia mai avuto causa, ossia che l'io sia eterno.

Secondo Descartes il tempo è discontinuo e di conseguenza quel che accade in un istante del tempo non ha relazione con quel che accade nell'istante successivo. Da questa premessa, egli ricava una interpretazione estremista della teoria scolastica seconda la quale è necessario un intervento costante della causa prima per conservare nell'essere le creature. L'io deve dunque avere una causa diversa da se stesso.

Il principio di causalità impone di ricercare una causa che abbia almeno tanta realtà quanta è contenuta nell'effetto. Quindi la causa che conserva l'io nel tempo presente deve essere una sostanza pensante, che possieda l'idea di tutte le perfezioni divine. Questa causa o è per sè, o è per altri. Nel primo caso l'ipotesi esclude l'autocasualità dell'io; nel secondo caso, si dovrà ricercarne la causa in un ente che o si è dato l'essere o l'ha ricevuto da altri, rischiando un regresso all'infinito.

La seconda premessa della prova tomista (è impossibile il regresso all'infinito delle cause) viene trasformata da Descartes in: nel tempo presente è impossibile il regresso all'infinito delle cause. Si dovrà pervenire ad una causa ultima, che non essendo causata da altri, sarà causata da se stessa, e che, essendosi data l'essere, si sarà data anche tutte le perfezioni di cui ha idea, e quindi sarà Dio. La conclusione tomista - esiste una causa prima incausata, che è Dio - si è trasformata nella conclusione cartesiana: esiste una causa prima, che è causa di se stessa, e che è Dio.


(21) CARTESIO: Opere filosofiche 2. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, Laterza, Bari, pp.33-34
(22) CARTESIO: I princìpi della filosofia , I, § 45 (OF III, p.44)
(23) CARTESIO: Opere filosofiche 2. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, Laterza, Bari, p.36
(24) Ibidem, pp.35-36
(25) Ibidem, p.38
(26) Ibidem, pp.38-39
(27) Ibidem, p.45
(28) TOMMASO D'AQUINO:Summa theologiae, I, qu. 2, a.3


Theorèin - Ottobre 2004