GIUSEPPE UNGARETTI: APPUNTI DI VIAGGIO
A cura di: Mario Della Penna
Entra nella sezione LETTERATURA

Se vuoi comunicare con Mario Della Penna: mariodellapenna@theorein.it
Capitolo 4

Il dopoguerra - il ritorno all'ordine - La Ronda

La Ronda è una rivista letteraria battezzata nell'aprile 1919 a Roma e conclusa quattro anni dopo 1923. I numeri escono regolarmente fino al novembre 1922 a cui si aggiungerà un numero straordinario nel dicembre '23.

Nella storia letteraria La Ronda viene catalogata in poche parole chiare: il ritorno all'ordine; la restaurazione e il classicismo. Qualcuno ha parlato de La Ronda come dell'Aventino della letteratura. Per capire il perché di questa classificazione, bisogna rifarsi a quell'anno particolare che corrisponde al 1919 che cade nell'immediato dopoguerra. Si aprono le trattative di Versailles; l'Italia manda una delegazione che viene accolta freddamente. C'è la mediazione americana; saltano gli accordi di Londra che avrebbero dato Fiume all'Italia. Inizia sulla stampa il famoso motivo della vittoria mutilata. Nello stesso anno accadono i fatti di Fiume dove Mussolini vola a fermare d'Annunzio che vuole marciare su Trieste.

Sempre nel 1919 nasce il Partito popolare che si presenta con un programma di riforme sociali d'avanguardia.

Il programma de La Ronda è molto limitato nella sua azione: pulizia letteraria; artigianato stilistico; ritorno alla tradizione dei classici identificata soprattutto nelle pagine dello Zibaldone di Leopardi e nel Manzoni.

La Ronda polemizza praticamente con tutto ciò che vi è stato dal 1900. D'Annunzio immaginifico, poeta vate; Marinetti; Pascoli; la Voce.

La Ronda isola la letteratura; questo è il principio che porta a rinnegare rifiutare tutta la parte sperimentale, l'impegno da parte dell'intellettuale dal punto di vista sociale e politico.

Chi sono i rondisti? Non si vollero mai definire un cenacolo; sono sette intellettuali a cui si aggiunsero una schiera di collaboratori: tra loro i nomi più noti sono quelli Riccardo Bacchelli, il direttore Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Lorenzo Montano "il politico del gruppo", Bruno Barili che si occupa di arte. La Ronda inizia nell'aprile del '19 con un prologo in tre parti che apre la raccolta firmata da Cardarelli ed inizia così:

 A trent’anni la vita è come un gran vento che si va calmando.

Tante partenze, mutamenti, abbandoni, addii ai luoghi che ci piacquero, alle donne penetranti che ci sorrisero brevemente, alle idee, alle amicizie, ai grandi libri ai quali pure dobbiamo se abbiamo imparato qualche cosa, coincidono finalmente col fatto che noi non siamo più giovani. Ciò deve essere confessato prima di tutto umilmente.

O animosa e benedetta gioventù, addio! Vogliamo affrettarci a renderti gli onori che ti si devono e riconoscere che tu sei passata, dal momento che non potremmo prolungarti neppure d’un minuto senza sembrare dei ragazzi invecchiati. Altro tempo, altre condizioni, allorché tu ci rapivi nelle tue lusinghe operose! Essere giovani significava costituire una promessa, una simpatica e audace promessa, verso la quale il mondo poteva anche mostrarsi prodigo di fiducia e di condiscendenza. Da qui nasceva che a noi era dato illuderci e credere chissà a che cosa. E per conseguenza, divertirci. Ora siamo fatti grandi. La realtà è tutt’altra. Le persone che ci ritrovano dopo tanti anni ci guardano preoccupate, non riconoscono più in noi quei bravi ragazzi amabili e affettuosi che non siamo mai stati, hanno l’aria di chiederci spiegazione del tempo passato. Sostenere questi incontri costituisce un imbarazzo pietoso. E ciò vuol dire proprio che noi non siamo più giovani. Che importa che i nostri anni siano sempre pochi? Non è il tempo, è il metodo, la fedeltà temeraria a un proposito, la silenziosità delle intenzioni che rendono adulta la vita e quasi la fanno apparire come una colpa. E quando degli uomini che vogliono in ogni modo qualche cosa cominciano a stancarsi degli amichevoli temporeggiamenti e a fare una faccia imprevedutamente risoluta è naturale che le Erinni, le quali dormivano saporitamente negli orti nascosti e crepuscolari della giovinezza, si destino di soprassalto minacciando cose dell’altro mondo al primo passo falso.

Ora dunque eccoci giunti sul punto di agire con prudenza.

Allorché viene alla luce qualche fatto nuovo la prima cosa che occorre di domandarsi è il perché e la ragione. Noi possiamo rispondere che l’uscita di questa rivista trova la sua giustificazione nella consanguineità degli elementi che la compongono. Quasi tutti gli scrittori che vi collaboreranno regolarmente si conoscono da lungo tempo e sono cresciuti, si può dire, insieme, amici di gioventù se non d’infanzia. Una spontanea affinità di gusti, di coltura, di educazione doveva condurli naturalmente a raccogliersi intorno a questa pubblicazione che essi promettono di curare, senza strepito e senza illusioni, come l’adempimento d’un dovere. Più che un mezzo per dare sfogo a delle vanità inconciliabili con la loro ambizione o a degli eventuali istinti polemici che cercheranno ad ogni modo di manifestare in forme alquanto diverse dalle usate finora, vogliamo dire non troppo confidenzialmente, questa rivista dovrebbe essere un luogo di ritrovo, un obbligo e una condizione di lavoro per loro stessi. Un’iniziativa di questo genere non poteva inoltre essere ispirata da altro sentimento che quello di un’onesta curiosità. Si tratta, per noi che fondiamo questa rivista, di vedere fino a qual punto le idee che siamo venuti coltivando e discutendo per anni nelle nostre conversazioni possono essere condivise dal pubblico al quale ci rivolgiamo4. Se ci siamo sentiti in qualche momento, attese le nostre simpatie per il passato, o meglio le nostre spregiudicate preferenze, e la tenace riluttanza ad accettare le condizioni di attualità che ci venivano offerte, come degli uomini fuori tempo, intollerabili alla loro epoca, il fatto matematico e controllabile della nostra esistenza ci è sempre parso un fenomeno abbastanza interessante, degno di essere conosciuto, e noi siamo tuttora così ostinati da non voler costituire un cenacolo. Fidiamo d’intenderci col pubblico accessibilmente e sommariamente. Non ci rifiuteremo, quando sarà il caso, di far conoscere la nostra retorica. Se anche dovessimo sembrare degli scolari i nostri maestri furono grandi e meritano qualche rispetto. È la bontà e sono gli esempii della loro scuola che c’interessa di far valere.

Non sembrerà un paradosso se diciamo che dai classici, per i quali, come per noi, l’arte non aveva altro scopo che il diletto, abbiamo imparato ad essere uomini prima che letterati. Il vocabolo lo vorremmo scrivere nobilmente con l’h, come lo si scriveva ai tempi di Machiavelli, perché s’intendesse il preciso senso che noi diamo a questa parola. Dai romantici abbiamo ereditato un razionale disprezzo per la poesia che si fa ancora ai nostri tempi sotto il pretesto della sensibilità e delle immagini.

Successivamente Cardarelli spiega i punti principali del programma rondista:

Abbiamo poca simpatia per questa letteratura di parvenus s’illudono di essere bravi scherzando col mestiere e giocano la loro fortuna su dieci termini o modi non consueti quando l’ereditarietà e la famigliarità del linguaggio sono le sole ricchezze di cui può far pompa uno scrittore decente. Per ritrovare, in questo tempo, un simulacro di castità formale ricorreremo a tutti gli inganni della logica, dell’ironia, del sentimento, ad ogni sorta di astuzie. Non ignoriamo del resto che se la nostra lingua ha regole prescritte e il nostro alfabeto esisteva appena da qualche secolo che già il genio preistorico dei nostri antichi ne aveva sfiorato e immortalato tutte le lettere, dall’alfa all’omega, ciò che importa è il variare delle correnti fresche e salutari dello spirito che mutano l’ambiente. Eviteremo perciò di proposito di far fracasso con delle formule che mandano odore di muffa e di giovinezza. Immaginiamo degli ordini abbastanza vasti che ci permettono di pensare privatamente alla salute della nostra anima senza trascurare per questo le esteriori pratiche del culto che noi dobbiamo al passato: anzi cercando di metterci con esse d’accordo. Ci sostiene la sicurezza di avere un modo nostro di leggere e di rimettere in vita ciò che sembra morto. Il nostro classicismo è metaforico e a doppio fondo. Seguitare a servirci con fiducia di uno stile defunto non vorrà dire per noi altro che realizzare delle nuove eleganze, perpetuare insomma, insensibilmente, la tradizione della nostra arte. E questo stimeremo essere moderni alla maniera italiana, senza spatriarci. L’Italia sta per divenire un paese moderno, ecco la stupenda e sconfinata promessa che si offre al nostro avvenire artistico e spirituale. Ritardata la nostra modernità di più d’un mezzo secolo, a causa di avvenimenti storici che non è il caso di discutere, e rifatta l’Italia grettamente nazionalistica e provinciale nelle arti, la nostra letteratura intraducibile e poco valida ad attestare della nostra universalità tra le nazioni contemporanee, forse è giunto per noi il momento di uscire e di farci intendere in questo contagioso crepuscolo della civiltà moderna europea. Essa s’iniziò con un eroico e rude movimento di distacco da quest’antica piccola patria ma le sue ultime sillabe indistinte furono di nostalgia e di rimpianto. Dobbiamo farci coraggio e raccogliere questo vago anelito che i più grandi spiriti della modernità hanno mandato verso di noi, illuminati forse dal sentimento che qualche cosa mancasse tuttavia alla loro opera sul punto di esiliarsene per sempre. Nessun paese più del nostro ha tanto da vivere e da sperare per mettersi in regola coi tempi. Ma questo, se non sbagliamo, è il Regno dei Cieli che ci si apre. (1)

Sia pur minimo il programma rondista consente loro di intervenire su numerosi campi. Non troviamo solo fatti circoscritti a fenomeni nazionali ma si segue un serie di fenomeni di ampiezza europea.

Tra i collaboratori de La Ronda troviamo i nomi di De Chirico, Savigno, Pareto. Tra gli argomenti da segnalare nell'attività della rivista ve ne sono due di particolare importanza: il primo è un referendum su Pascoli, che rappresenta uno degli obiettivi polemici dei rondisti, sia per le scelte linguistiche, che per motivo culturale antico. Su Pascoli i rondisti hanno una posizione che è molto vicina a quella che ha Benedetto Croce che analizzata la poetica e la produzione pascoliana ed attacca sotto forma di saggio uscito il 20 gennaio 1907 sulla rivista La critica di cui ne era il fondatore.  Croce, filosofo quarantenne, che già da qualche anno, dopo la pubblicazione nel 1902 dell' Estetica come scienza dell' espressione e linguistica generale, aveva cominciato una fitta ricognizione su quella che chiamava la letteratura della nuova Italia, messo a punto il suo pensiero estetico in sede teorica, cominciava a usarlo, trasformandosi in critico letterario. Aveva già scritto di Verga, Carducci, Fogazzaro, D'Annunzio: ora toccava a Pascoli (Ognuno ha la sua croce, pare commentasse D'Annunzio. Noi abbiamo anche il Croce da sopportare). L' inizio del saggio dedicato dal filosofo all'autore delle Myricae era, a suo modo, folgorante.

"Leggo alcune delle più celebrate poesie di Giovanni Pascoli, e ne provo una strana impressione. Mi piacciono, mi spiacciono? Sì, no, non so".

Sembrava una parodia di certi modi pascoliani, di certi suoi ritornelli onomatopeici. Ma Croce andava avanti:

"Non mi smarrisco per questo, e non me la prendo né con la insufficienza mia né con quella del poeta... Non mi smarrisco, mi rimetto all' opera, rileggo e rileggo ancora. Ma, per quanto rilegga, per quanto ritorni a quella lettura dopo lunghe pause, la strana perplessità si rinnova. Odi et amo: come mai? Nescio: sed fieri sentio et excrucior. Proprio così: L' odio e l' amo. Non ne so il perché: ma so che accade e me ne dispero".

Croce incernia la sua polemica antipascoliana soprattutto da un punto di vista psicologico; gli rimprovera la sua poetica del fanciullino; quel farsi piccolo per guardare le cose e da questo deriva anche la visione etico-politica del Pascoli, il socialismo evangelico. Su questa lunghezza d'onda si collocano i rondisti.

L'episodio sul referendum su Pascoli non avrebbe di per se un grande valore critico, però ci sono due aspetti interessanti: il primo riguarda la storia del costume, cioè di come, secondo Pareto, "il pascolismo rappresenti una tendenza della borghesia italiana"; il secondo riguarda la storia interna della Ronda rispetto alla posizione di Cardarelli che colpisce duramente Pascoli, c'è quella di Cecchi che mostra una conoscenza profonda dei meccanismi linguistici e psicologici dei paesaggi mentali della poesia e quindi preferisce glissare l'argomento riconoscendo al di là delle interpretazioni del gruppo, la preparazione di Pascoli.

Tra gli interventi c'è un interessante panorama sulla cultura francese tratta dalla rivista Due mondi. Riccardo Bacchelli scrive un articolo sul Dadaismo il quale dice: "sono state distrutte le nostre cattedrali, le nostre città dalla guerra ora con il dadaismo distruggiamo la nostra cultura".

Come detto uno degli elementi portanti del movimento rondista è il recupero dei classici, una rivalutazione tra l'altro di Leopardi dello Zibaldone di cui esce a cura del movimento una scelta molto ampia dei pensieri. L'opera del Leopardi non ebbe che pubblicazioni alla fine dell'Ottocento, quindi l'operazione di Cardarelli di pubblicare e commentarlo ha una sua attualità critica. Cardarelli premette anche qui un prologo al testamento letterario di Leopardi. Per Cardarelli egli rappresenta un maestro di stile, per cui non lo interessa per niente il Leopardi pensatore, filosofo, le teorie leopardiane sulla natura, sulla storia, lo tocca invece la teoria sullo stile, della lingua, dell'eleganza dei vocaboli. L'insegnamento Leopardiano è vivo soprattutto in Cardarelli, possiamo confrontare le poesie di entrambi e trovare dei punti comuni; ad esempio in Autunno:

Già lo sentimmo venire
nel vento d'agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

In particolare negli ultimi versi si legge: "ora passa e declina in quest'autunno che incede con lentezza indicibile, il miglior tempo della nostra vita e lungamente ci dice addio".

Questo ritornare ai classici da parte dei rondisti ha avuto nella storia letteraria un personaggio come Saba, che non si è mai allontanato dalla lezione degli autori tradizionali, rimanendo un caso isolato. Intorno al '20 sono frequenti gli interventi di Alfredo Gargiulo sul campo della teoria estetica in particolare su d'Annunzio. Sul poeta vate dice: "Il d'Annunzio de Il Notturno ci piace molto più e cita un passo:

Usciamo. Mastichiamo la nebbia.
La città è piena di fantasmi.
Gli uomini camminano senza rumore, fasciati di caligene.
I canali fumigano.
De i ponti non si vede se non l'orlo di pietra bianca per ciascun gradino.
Qualche canto d'ubriaco, qualche vocio, qualche schiamazzo.
I fanali azzurri nella fumea.
Il grido delle vedette aeree arrochhito dalla nebbia.
Una città di sogno, una città d'oltre mondo, una città bagnata dal Lete
o dall'Averno.
I fantasmi passano, sfiorano, si dileguano.
Non so se io abbia più sete d'acqua o più sete di musica o più sete di libertà.
Sento il sole dietro le imposte. Sento che c'è un'afa di marzo chiara e languida
sul canale. Sento che è bassa marea.
La primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una
sonnnolenza rotta di sussulti e di tremori.

Ascolto.
Lo sciacquio alla riva del battello che passa.
I colpi sordi dell'onda contro pietre grommose.
Le grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risa stridenti,
le loro pause galleggianti.
Il battito di un motore marino.
Il chiocciolìo sciocco del merlo.
Il ronzio lugubre d'una mosca che si leva e si posa.
Il ticchettio del pendolo che lega tutti gli intervalli.
La gocciola che cade nella vasca da bagno.
Il gemito del remo nello scalmo.
Le voci umane nel traghetto.
Il rastrello su la ghiaia del giardino.
Il pianto d'un bimbo non racconsolato.
La voce di donna che parla e non s'intende.
Un'altra voce che dice: "A che ora? a che ora?"

Ci occupiamo del saggio sul fascismo (1922) di Pareto, sociologo, economista e polemista. Questo saggio è ricco di acutezza con un'analisi storica lucida, con un finale però completamente sbagliato. L'analisi parte da due punti per Pareto: il primo è il nazionalismo che non analizza perchè crede che si tratti di una fase già superata dal fascismo; il secondo è la violenza extra legale. Inizia con l'analizzare la nascita di questa fase, attraverso lo scontro tra fascisti e socialisti. Prende poi ad analizzare la borghesia. La giustizia delle leghe rosse inclinava a sostituirsi ad una certa giustizia ideale stimata manchevole nello Stato disconoscente dei diritti del proletariato. D'altra parte la giustizia del fascismo inclinava a sostituirsi alla giustizia dello Stato che lasciava impunemente violare leggi e diritti sanciti dai pubblici poteri o che peggio ancora dalla violazione si faceva complice con arbitrari decreti legge. Il parlamento è diventato una riunione di combriccole di cui scopo principale è di spartirsi i beni dello Stato perciò hanno origine i governi di coalizione, la non curanza per gli altri uffici del Parlamento un tempo stimati per approvare bilanci fare leggi ora sostituite da decreti legge. Intanto compagnie di ventura scorazzano in Parlamento offrendo contro adeguati compensi politici o negando il proprio appoggio ai ministeri. Questo disprezzo per il parlamentismo sarà una delle origini della violenza. Tutto sembrava portare come logica conseguenza a queste analisi ad una ascesa del fascismo, invece Pareto compie una virata, facendo questa considerazione: vi sono due generi di coraggio: quello fisico e quello morale. Il fenomeno del fascismo mostra che il primo non manca alla nostra borghesia, come in generale non mancò alle classi elette del passato, scarso invece è il coraggio morale che ha l'uomo a confessare la propria fede e ad esaltarla. Sostanzialmente Pareto dice, la borghesia finanzia segretamente il fascismo, sta con il fascismo ma non avrebbe il coraggio di dichiararsi apertamente fascista. Parecchi di questi borghesi trovano modo di sfuggire sia pure per poco ai mali comuni, anzi sperano di trarne vantaggio e potrebbero dirsi aspiranti pescecani. Fra essi stanno coloro che vorrebbero la collaborazione socialista, infine pare che dicano perchè contendersi il potere, c'è da rosicchiare per tutti. Altri si lasciano cullare dalle dottrine tanto care ai deboli e rinunciare alla difesa e all'offesa, sognando una umanità migliore con un pò più di giustizia. In questo passo ci appare evidente una critica spietata alla borghesia. L'economia di guerra ha favorito la grossa borghesia, gli operai i contadini, ma impoverito le classi medie, quelle che in Italia formano l'opinione pubblica. Sostanzialmente Pareto dice: il fascismo ha perso l'occasione per imporsi; la borghesia non ha il coraggio morale di sostenerlo, tutto il fascismo è un fenomeno transitorio destinato a finire. (Norberto Bobbio: Profilo ideologico del 900 Garzanti)

Una critica frequente rivolta al gruppo de La Ronda è quella di aver convissuto pacificamente con il fascismo. Si cerca di capire se tale gruppo sia strettamente collegato al momento pre-fascista o se invece fosse totalmente estraneo a quel clima, o se addirittura fosse un movimento di opposizione. Quest'ultima ipotesi apparentemente paradossale in realtà viene accreditata dallo stesso Cecchi, quando afferma che in quegli anni loro volevano preservare la tradizione, quindi uno scopo intellettuale e non di impegno. A carico de La Ronda Lorenzo Montano, uno dei fuorusciti, manda una lettera a gli altri amici rondisti in cui dice: noi non ci siamo resi conto che il fascismo era questo fenomeno di grande portata, noi non seguivamo la politica, però in fondo avevamo la sensazione di vivere fra cadaveri e macerie e quindi in qualche modo abbiamo preparato il rinnovamento. A questa lettera di Montano nessuno risponde. Caretti che fornisce queste notizie, dà una interpretazione della rivista come di un gruppo di intellettuali giolittiani convinti che dopo la guerra sarebbe tornato al suo posto e che avrebbero continuato a fare letteratura senza occuparsi della vicenda politica. E' una interpretazione che non convince lo stesso Caretti che si chiede perchè nessuno allora aveva risposto a Montano della non appartenenza al fascismo. Il dilemma sulla appartenenza o meno de La Ronda al fascismo rimane ancora tale.


Theorèin - Settembre 2014