IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 1 (I parte)
Vicenda biografica e fortuna critica di Sandro Penna

Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico amico fiume lento

Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.

La luna si nasconde e poi riappare
- lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare
(1).

Leggere qualunque poesia di Sandro Penna significa il più delle volte restare come stregati da un dettato limpidissimo e da un respiro poetico puro. In particolare, nei versi presi in considerazione, sembra quasi di ascoltare la voce di un divino fanciullo che chiede agli elementi della natura di occultarlo rispetto ad un mondo avvertito come troppo distante. In trasparenza, l’eco di un altro divino fanciullo che dall’alto del paterno ostello, in un altro tempo, evocava una notte dolce, chiara e senza vento, chiamandola a testimoniare la propria alterità rispetto alle strade percorse dagli uomini. La notte adombra e nasconde, avvolge le vicende umane e permette al poeta di costituire per sé lo spazio necessario alla sua sopravvivenza. È difficile dire quanta consapevolezza avesse Sandro Penna di questa affinità soprattutto mentale rispetto a Leopardi o a qualsiasi altro scrittore che abbia imboccato i sentieri della notte nella storia della civiltà poetante. Certo è che l’esperienza penniana rimane unica, nonostante le apparenze, in ogni sua singola manifestazione. Unica perché “scabra ed essenziale”, perché priva di retorica e di ideologia, perché viva di un dolore individuale che diventa per incanto patrimonio di chiunque voglia accostarsi ai versi del poeta perugino.

Isolare il percorso artistico ed esistenziale di Penna rispetto a qualsiasi scenario storico è impresa fin troppo semplice, dato il rapporto tutto sentimentale e scevro da implicazioni che egli ebbe con il suo tempo e con i luoghi che abitò. Dal grembo materno di Perugia il poeta si gettò fra le braccia sensuali dell’amante Roma, concedendosi solo di tanto in tanto delle piccole avventure (Milano, Trieste, Porto San Giorgio). Definire a livello storico e critico il ruolo che ebbe nell’opera dell’Autore l’arco di tempo in cui è racchiusa la sua vita non è un’operazione facile, eppure vale la pena di tentare. 1906 – 1977: estremi di un’esistenza ma anche di una Storia dai risvolti sconvolgenti e periodizzanti, destinati a condizionare a lungo la vita e la coscienza di molti. Due guerre, una dittatura durata più di 20 anni, l’Italia che si trasforma e attraversa alcune fra le fasi più critiche della sua evoluzione politica, sociale e culturale.

I poeti del Bel Paese ne hanno perlopiù seguito le sorti in modi diversi, gettandosi nell’arena politica oppure ripiegandosi in sé stessi. In ogni caso la Storia è penetrata nei loro versi, li ha contaminati irrimediabilmente impregnandoli di sé. Anche nel più ermetico degli scrittori è impressa la traccia di un rifiuto che è in primo luogo confronto, scontro, forse sconfitta.

Valutando la fortuna critica di Penna, è dato rilevare come egli sia stato etichettato spesso in vario modo. Così l’opera del poeta perugino è stata a volte paragonata a quella degli ermetici, o dei crepuscolari, o addirittura dei poeti alessandrini per la grazia cristallina di alcuni epigrammi. Di certo la critica più avvertita non ha impiegato molto tempo ad intuire la singolarità di una poesia che sfugge ad ogni genere di schedatura, riponendo tutto il suo fascino proprio nella testarda segregazione da ogni moda letteraria. Eppure ogni verso scaturisce dal tempo che gli fa da sfondo, e dietro ogni tempo c’è una storia, politica e personale. La vicenda individuale di Sandro Penna non è caratterizzata da eventi eccezionali o esaltanti, ma è composta da tanti piccoli episodi, tante strane manie, insistenti ossessioni. Ripercorrerla significa donare un volto e un’identità ad una poesia che potrebbe sembrare estratta dal tempo, e che invece proprio dal tempo, dal proprio tempo, ha ricevuto l’aspetto che la rende riconoscibile ed unica.

Il 26 luglio del 1922, a 16 anni, Sandro Penna decideva di confidare le sue riflessioni ad un diario:

«Sono un ragazzo di 16 anni, non ho vizi per niente, niente fumare, niente divertimenti, che tutti i giovani come me hanno, all’infuori delle rare volte che vado a teatro con i miei (zia Emma, papà e Beniamino) ed al cinematografo con zia e Beniamino. Studio durante tutto l’anno scolastico e non esco quasi mai nemmeno per respirare un po’…Riassumendo, i miei piaceri sono nella lettura e qualche volta nel cinema. Io non credo che siano brutti vizi. Il mio carattere molto sensibile appare esteriormente il contrario…È per questo insieme di cose che mi decido di confidare alla carta, e quindi a me stesso, i miei dolori, le mie ragioni, non avendo la soddisfazione di confidarli ad altri. Forse un giorno lontano avrò la soddisfazione di leggere qualche poco della mia vita giovanile? Sono già 2 o 3 anni che soffro così e nessuno se ne accorge… » (2)

Nella prima parte del brano è possibile notare una volontà quasi maniacale di esprimere le abitudini della propria vita attraverso una serie di negazioni.

Il non avere vizi, il non uscire quasi mai, denotano inequivocabilmente un sintomo di disappartenenza. Lo stesso sentimento di disappartenenza marcherà inesorabilmente l’intera esistenza di Sandro Penna, ed è come se fin da adolescente il poeta presagisse il proprio destino. Nell’immagine che egli ha lasciato di sé attraverso la sua opera, Penna appare infatti irrimediabilmente altrove, eppure allo stesso tempo così visceralmente vicino alle cose, alla natura, ai piccoli oggetti del quotidiano, ai fanciulli. La voce che detta la prima pagina del diario giovanile è la stessa che si leverà in canto ad apostrofare la notte, il dolce vento, il romantico amico fiume lento. Il fiume di cui si parla nella poesia citata, tratta dalla raccolta di Poesie del 1939, è con tutta probabilità quello che scorre nei pressi di Perugia a Ponte S. Giovanni. È utile rilevare in che modo Sandro Penna, nei versi in questione, denoti il valore del possesso: “da casa mia cacciato”; “mio romantico amico fiume lento”; “il mio dolore”; “il mio capo”; “Guardo il cielo e le nuvole e le luci / degli uomini…” .(3) La casa, il fiume, il dolore, il capo, segnano il dominio del poeta. Altrove, lontano, sembra quasi che esista un altro cielo, e con esso altre nuvole e luci appartenenti agli uomini. Persino la casa entra a far parte di questo universo distante nella misura in cui il poeta è costretto ad allontanarsene. Gli restano così la natura (il fiume), la sfera sentimentale (il dolore), e il proprio corpo (il capo). Sandro Penna è già tutto qui.

Non è dato sapere in quale preciso angolo dell’infanzia di Sandro si sia depositato il malessere originario che ha segnato la sua poesia. Non è dato sapere neppure in quale momento particolare si sia compiuto il miracolo che ha fatto di Penna un personaggio eccezionale e un insigne poeta. Certamente il periodo trascorso a Perugia non deve essere stato dei più facili, soprattutto in seguito all’allontanamento della madre Angela che, stanca delle continue liti con il marito Armando, decise di lasciarlo quando questi tornò dalla guerra malato di sifilide. La partenza della madre, che portò con sé anche la sorella Elda, causò a Sandro un dolore difficilmente superabile se ancora da vecchio, rievocando quel periodo, egli scriveva:

«Le sere d’estate, guardavo le stelle e mi orizzontavo verso il Sud, che è Roma rispetto a Perugia, e pensavo con grande tristezza e passione a mia madre». (4)

Angela Antonione ispirò a Penna i primi versi, composti il 22 aprile del 1922 e intitolati Alla mia cara madre sull’imbrunire. Il rapporto con la madre è dunque un elemento cruciale nella vita del poeta, e riemerge in tanti piccoli dettagli a sottolineare un legame profondo e intenso, anche se drammaticamente contraddittorio. Quando Penna invierà le sue prime poesie a Saba, nel 1929, si firmerà con lo pseudonimo di Bino Antonione, servendosi proprio del cognome materno.

Dopo l’allontanamento della madre Sandro visse a Perugia con il padre, il fratello Beniamino e la zia Emma.

Armando Penna possedeva un negozio al n. 12 di via Mazzini:

«[…] una specie di bazar, proprio ad un angolo del ‹‹corso››. Io stavo lì dentro molto spesso, curioso dei clienti ma pronto a ricacciarmi nella lettura di Rimbaud dopo aver spinto qualcuno all’acquisto di tre saponette a lire cinque piuttosto di una a lire due». (5)

La bottega del padre ritornerà anche in versi colmi di nostalgia, in cui il poeta esprimerà uno struggente senso di rassegnazione e di impotenza di fronte all’azione corrosiva del tempo che annulla allo stesso modo uomini e luoghi:

Non era la città dove la sera
ebbro cantavo fra le sparse luci
sopra la dolce umidità del fiume.
Adesso un biondo sole sulla nera
bottega di mio padre par che bruci
la nostra assenza. E non ritrovo il fiume.(p.108)

Sandro cresceva esile e malaticcio, e il suo stato di salute aggravò l’inquietudine della sua vita. Una delle peculiarità che caratterizzarono il periodo da lui trascorso a Perugia risiede senza dubbio nell’elemento dell’irregolarità. Irregolare fu in primo luogo la carriera scolastica dato che Sandro, iscrittosi all’Istituto Tecnico Commerciale “Vittorio Emanuele II” nell’anno scolastico 1919 – 1920, venne bocciato nel 1921. A causa dei continui malanni fisici fu poi costretto ad interrompere gli studi per l’intero anno 1922 – 23. In quel periodo Penna visse a Roma con la madre, e riuscì a diplomarsi ragioniere nel 1925. Irregolare fu in parte anche la condotta di vita della famiglia Penna, che in dieci anni cambiò domicilio ben sette volte, sempre a Perugia.
Negli anni giovanili del poeta uno dei pochi elementi di continuità è costituito invece certamente dai soggiorni estivi a Porto San Giorgio, dove Sandro aveva la possibilità di rivedere la madre. Proprio sulla spiaggia marchigiana Penna conobbe nel 1925 Acruto Vitali, dando così inizio ad un’amicizia che sarebbe durata per tutta la vita. Vitali gli fece conoscere Proust, Rimbaud, Gide, e fece intravedere a Sandro la possibilità di coltivare amori diversi. Fra il 1925 e il 1927 le letture di Penna, fra le quali comparivano già da tempo D’Annunzio e soprattutto Leopardi, si intensificarono spaziando da Hölderlin a Nietzsche, a Wilde, Poe, Baudelaire, Crevel.
Il 1928 rappresenta certamente un momento cruciale per la carriera poetica di Penna, tanto che il poeta fa risalire proprio a quell’anno la sua prima composizione:

«La vita…è ricordarsi di un risveglio››, la prima poesia che compare nel volume delle mie liriche, fin dall’edizione Parenti, è anche la poesia che io ho scritto per prima, e in un periodo in cui nemmeno pensavo che esistesse la poesia. La scoprii un giorno, nell’angolo di un giornale, su tutt’intorno anzi, e mi ricordai poi che l’avevo scritta in quel modo, svegliandomi di notte al mare, dove non si poteva accendere la luce per le zanzare. Quasi nel dormiveglia vidi la mia calligrafia e non capivo cosa avessi scritto; poi mi resi conto che era una poesia» (6).

«L’ho scritta al buio su un giornale e l’ho ritrovata con stupore la mattina dopo. Poi mi sono ricordato che nella semi – incoscienza la preoccupazione di scrivere al buio era meno forte della paura delle zanzare, se avessi acceso la luce». (7)

Quella che Sandro Penna definisce la sua prima poesia fu scritta il 24 agosto del 1928, di notte, sulla spiaggia di Porto San Giorgio. Al di là delle dichiarazioni del suo autore, di certo il componimento non nacque come dono di una subitanea ispirazione, ma fu il frutto di un lungo apprendistato che risale almeno ai primi anni Venti quando Sandro, oltre alla poesia dedicata alla madre, scrisse il sonetto La morte del poeta, e i versi sciolti de La stazionetta, in cui compaiono già quelli che costituiranno gli elementi topici della sua produzione futura.

Nel settembre del 1928 Filippo Tommaso Marinetti tenne a Perugia una conferenza che suscitò una profonda impressione nel poeta allora ventiduenne, il quale subito dopo appuntò delle frasi emblematiche:

«Liberazione: equilibrio. Sano, felice – attività spasmodica – coscienza del proprio genio – felicità, giovinezza – scavare la mia originalità con forza, futuristicamente». (8)

L’infatuazione per le tematiche futuriste non durò che una sera.

A ottobre Sandro Penna era a Roma, per una visita alla madre. Nella Capitale incontrò un ragazzo trasteverino, Ernesto, e se ne innamorò perdutamente affidando al proprio diario sfoghi e infuocate frasi di passione. Tornato a Perugia, il poeta sentì crescere in sé l’insofferenza verso la città natale e soprattutto verso il padre, che non aveva saputo amministrare oculatamente i suoi beni provocando il dissesto economico della famiglia. Dopo la primavera trascorsa nel capoluogo umbro e l’abituale soggiorno a Porto San Giorgio, nell’ottobre del 1929 Sandro Penna decise di ricongiungersi alla madre trasferendosi a Roma.

Il poeta rimarrà lontano da Perugia per 14 anni e, dopo una breve visita nella città natale, la lascerà per sempre. Riferimenti espliciti al capoluogo umbro sono piuttosto rari nell’opera di Penna, ma quando affiorano sono sempre colmi di accenti vibranti, traboccanti amore e tenerezza. Molto deve aver mutuato Sandro nella sua poesia dalla cittadina adagiata sul vertice di un monte, tutta in discesa, con i viottoli stretti e ombrosi srotolati fra mura antiche che serbano ancora un sentore medievale.

«Dovrei dire delle mie case. Delle case dove mi rivedo. Una è via Vermiglioli n.5. Due passi dal centro della città. Passando sotto l’arco dei Priori, per via dei Priori in ripida discesa, è poi a destra la via Vermiglioli che, pur brevissima, è fatta di un tratto di strada normale: una scalinata una piazzetta un arco. Io stavo sulla piazzetta, che vedevo da alcune finestre, e di quella la cosa importantissima è il fracasso infernale che veniva da una bottega di fabbri. In ogni stagione il rumore era eterno e assorbe ogn’altra mia sensazione di quel luogo e di quel tempo. Se quelle finestre mi tenevano ancora dentro alla città, nella stessa casa avevo una terrazza vastissima che era già in campagna. Ricordo i liberi voli delle rondini che si frangevano contro quella terrazza sospesa sul vuoto di quel panorama. […] Ma è doveroso parlare del ‹‹centro››. […] In fondo in fondo s’indovina che il ‹‹corso›› finirà su l’infinito. Se si percorre infatti completamente, si arriva ad un parapetto dal quale la vista è una delle più belle d’Italia» (9).

L’amore portato alle piccole cose, l’immersione sempre vagheggiata nella purezza dell’aria, la pennellata poetica attenta alla nitidezza del paesaggio e alla bellezza dei particolari, sono tutti aspetti che non potevano nascere altrove se non in una città che aveva conservato nel tempo la fisionomia rassicurante del piccolo borgo:

«Ma tutti ci si poteva poi rivedere, era quasi certo, al passeggio del ‹‹corso››. C’erano delle ore in cui era difficile non essere presenti. L’assente era sospettato in disgrazia» (10).

Roma ha certamente arricchito il repertorio penniano con lo sfarzo di una monumentalità quasi sovrumana, con l’esuberanza vitale delle sue piazze brulicanti e della sua pittoresca periferia. Le radici della sensibilità di Penna affondano però profondamente nelle viscere della terra umbra. Non è possibile sorvolare infatti su certe descrizioni che l’artista affronta quasi di passaggio, ma che tanto valore hanno nel definire la matrice della sua poesia:

«[…] là dove io dovevo lasciare la celeste luminosa aria della primavera umbra per calarmi entro uno dei soliti archi che in quel caso mi portava al buio della scuola». (11)

Il 2 agosto del 1943, in un momento drammatico per la storia italiana, Penna si era ritrovato di nuovo a Perugia, in piazza Giordano Bruno, e nel cuore della notte aveva fermato le sue impressioni con parole gravide di un amore indimenticato da cui in seguito sarebbe sgorgata la poesia:

«Sono tornato a Perugia dopo 14 anni. Quante volte ho sognato di tornarvi all’alba, sconosciuto per meglio risentire ogni ricordo. E sono arrivato all’alba. Ricordo certi sogni della mia città quando mettevo in un suo paesaggio una mia ritrovata felicità paradisiaca (è la parola che non dà niente di quello che voglio dire, ma è ancora poco forte!). Una felicità fisiologica e mentale impossibile a ricreare nemmeno nella memoria.

E il ritorno non è stato una delusione. In me la nostalgia o il sogno non vengono quasi mai delusi.

[…] La realtà è una cosa assai bella. Solo l’abitudine rende tutto non dirò sbiadito ma corrotto […]» (12)

Era la mia città, la città vuota
all’alba, piena di un mio desiderio.
Ma il mio canto d’amore, il mio più vero
era per gli altri una canzone ignota.
(p.156)


(1) S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970 (ora in S. Penna, Poesie, prefazione di C. Garboli, Garzanti , Milano 2000, p.18; d’ora in avanti si farà riferimento a questa edizione).

(2) Cfr. Sandro Penna, appunti di vita, a cura di Elio Pecora, Electa 1990, p. 63.

(3) I corsivi sono miei.

(4) E. Pecora, Sandro Penna: una cheta follia, 1984 Frassinelli, p. 34; poi col titolo Sandro Penna. Una biografia, 1990.

(5) S. Penna, Un po’ di febbre, Garzanti, Milano 1973 (il riferimento è all’edizione del 1994, p.44.).

(6) Cfr. V. Masselli, G.A. Cibotto, Sandro Penna, in Antologia popolare dei poeti del Novecento,    Vallecchi, Firenze 1964, pp. 45-47.

(7) Da un’intervista a M. Castelli, in ‹‹Il Pensiero Nazionale››, giugno 1963.

(8) E. Pecora Sandro Penna: una cheta follia, op. cit. p. 68.

(9) Cfr. Un po’ di febbre, op. cit. pp. 41- 42.

(10) Ibid. p. 45.

(11) Ibid. p. 43.

(12) Cfr. Sandro Penna, appunti di vita, op. cit. p. 63.


Theorèin - Aprile 2007