IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 1 (II parte)
Vicenda biografica e fortuna critica di Sandro Penna

Tu dici ‹‹fuga››, ma perché non piove
sui mietitori scalzi lungo la collina?
Lucono le fontane di San Pietro. Dove
la fuga. Il Colosseo è pavida rovina. (p.332)

Roma diventò per Sandro Penna la città d’elezione, congeniale al suo stile disordinato e indolente, proteso verso punti di fuga e oasi di pienezza vitale. Il poeta si lasciò sedurre dalla metropoli, se ne inebriò, la percorse a piedi nelle sue piazze e nelle sue periferie, subì l’incanto e il fascino dei suoi fanciulli, trasse ispirazione dai tram, dalle palestre, dalle fontane, da tutto quello che colpiva il suo occhio avido di quanto appartenesse al mondo nella sua concretezza.

Una volta trasferitosi a Roma, Sandro cercò timidamente di farsi spazio nella società letteraria e inviò alcune sue poesie a Umberto Saba celandosi dietro lo pseudonimo di Bino Antonione. Il poeta triestino gli rispose il 5 dicembre del 1929, lodando i suoi versi ed esortandolo a perseverare sulla strada della poesia. Nei primi anni Trenta Penna ebbe modo di stringere contatti con vari esponenti della cultura romana, fra cui Corrado Alvaro e Bruno Barilli. La lettura di Freud lo spinse a cercare rifugio nella psicanalisi, e per questo motivo il poeta perugino si sottopose alle cure di Edoardo Weiss, analista triestino amico di Saba. Nell’autunno del 1932 Penna progettò di scrivere un romanzo che non fu mai compiuto, trovando ispirazione in Comisso e Moravia. In ottobre Weiss fece in modo che Sandro incontrasse Umberto Saba, in visita a Roma. I due ebbero modo di conoscersi seduti davanti a un Caffè di Piazza Barberini, e solo in un secondo momento Penna rivelò al più noto poeta di essere quel Bino Antonione che qualche anno prima gli aveva inviato delle poesie. Da quell’incontro derivò una profonda amicizia mista di affetto e ammirazione. Saba fu per Penna un padre attento e premuroso, e da subito si preoccupò di creare contatti letterari per il suo giovane e inquieto pupillo scrivendo a Corrado Pavolini, che dirigeva ‹‹L’Italia Letteraria››, e a Adriano Grande, che si occupava di ‹‹Solaria››. Sempre su consiglio di Saba Sandro si decise ad inviare alcuni componimenti a ‹‹Circoli››, ‹‹Solaria›› e ‹‹L’Italia Letteraria››. Il 20 novembre del 1932, sulla prima pagina del settimanale fondato da Umberto Fracchia apparvero La vita…è ricordarsi di un risveglio e Sotto il cielo di aprile la mia pace. Quel giorno Sandro si trovava a Firenze. Nel capoluogo toscano frequentò il Caffè delle Giubbe Rosse, dove ebbe occasione di incontrare Palazzeschi, Betocchi, Moretti e Pavese. In casa Marangoni conobbe anche Eugenio Montale, e strinse con lui una sincera amicizia supportata da una fitta corrispondenza.

Nel 1933 Penna riuscì a pubblicare alcuni componimenti ancora su ‹‹L’Italia Letteraria››, poi su ‹‹Solaria›› e ‹‹Circoli››. In quel periodo si intensificarono i suoi contatti con l’ambiente letterario, tanto che Penna frequentò Carlo Emilio Gadda, Ungaretti, Falqui, Gatto, Gargiulo, De Libero, Baldini, Vigorelli, Cacciatore.

Nel 1935 il poeta accarezzò l’idea di pubblicare un’edizione completa delle sue poesie e cercò di concretizzare il progetto rivolgendosi alle edizioni di ‹‹Solaria››. L’ombra della censura politica si stese però anche sui versi di Sandro, non meno di quanto accadde all’incirca nello stesso periodo per Lavorare stanca di Cesare Pavese. Montale avvertì Penna dei rischi che avrebbe corso dando alle stampe i suoi componimenti, e alla fine il poeta perugino dovette desistere, rimandando a tempo indeterminato la pubblicazione del suo primo volume. Sandro Penna visse dunque la problematica della censura parallelamente a Cesare Pavese, ma la vicenda sembra aver toccato i due scrittori in maniera totalmente differente. Pavese pagò infatti con il confino il suo coinvolgimento in attività ritenute sovversive come la direzione della ‹‹Cultura››, e fu costretto a trascorrere lunghi mesi in esilio a Brancaleone Calabro, sullo Ionio. Le problematiche politiche e civili costituirono sempre un assillo per il poeta piemontese, che rinunciò alla vita stessa per il rimorso di essersi sottratto ad un più concreto impegno storico e sociale. L’autore del romanzo La luna e i falò fu dunque travolto dalle circostanze, e il suo tentativo di fuga dalla storia fu perennemente colmo di dubbi e di ripensamenti. La sua intera opera è percorsa da una velleità sempre tradita di partecipare attivamente agli eventi della propria epoca, e allo stesso tempo costituisce un tentativo di analizzare e giustificare la propria inettitudine. In ultima analisi in Sandro Penna, così come in Pavese, l’elemento fondante è costituito proprio da una profonda incapacità di adattamento rispetto alla realtà. Come è possibile dunque che nel caso di Pavese il reale abbia lasciato vistose cicatrici sia nell’opera dello scrittore sia nella sua memoria e che in Penna sia stato invece così poco incisivo? Come ha potuto il poeta perugino attraversare con estrema disinvoltura eventi storici tanto drammatici e laceranti senza che i suoi versi ne venissero violati?

La risposta sta forse nel valore stesso della sua opera: se Penna era un disadattato, la sua poesia ha sempre dimostrato invece una straordinaria capacità di adattamento. Se Sandro consumò la sua vicenda in un perenne altrove in cui le case, gli uomini e le luci erano così lontani, i suoi versi hanno invece assorbito il reale in modo pressoché totale ed assoluto, senza inibizioni. Come un fanciullo Penna osservava ogni cosa ingenuo e attento, e con attenzione e disarmante ingenuità registrava gli impulsi e i messaggi che la realtà gli trasmetteva. Capriccioso e incosciente, il poeta umbro ha attraversato leggero e costante le vicende legate alla storia e non si è lasciato scalfire da esse, perché tutto ciò che lo interessava era probabilmente soltanto il dolce rumore della vita. A dispetto di tutte le apparenze, quindi, Sandro subì dolorosamente lo scacco del tempo e soffrì in modo indicibile la beffa del divenire, ma riuscì a risolvere questo dramma su di un piano tutto lirico e individuale, biografico e cronachistico, che lo preservò da ogni genere di contaminazione storica o ideologica.

Alla fine degli anni Trenta Penna, bisognoso di un impiego che gli permettesse di vivere dignitosamente, si trasferì per un breve periodo a Milano. Nella città lombarda si offrì di collaborare presso alcuni giornali, conobbe Titta Rosa, Sinisgalli e Ferrata. Fu proprio quest’ultimo, sollecitato da Solmi, a proporre la pubblicazione delle poesie di Sandro presso le edizioni Parenti. Il 20 marzo del 1938 il poeta trovò lavoro come correttore di bozze nella Casa Editrice Bompiani, ma, da sempre refrattario ad ogni genere di impiego, riuscì a resistere solo fino a metà maggio. Nel giugno del 1939 finalmente vide la luce la sua prima raccolta dal titolo Poesie, edita da Parenti e depurata di sette componimenti ritenuti “scandalosi” che avrebbero trovato spazio soltanto nel volume garzantiano del 1957. Con il prezioso aiuto di Bobi Bazlen e di Elio Vittorini, Sandro Penna intraprese in quel periodo anche la traduzione di Paul Claudel e dei racconti di Mérimée.

Il poeta trascorse a Roma gli anni della guerra, durante i quali strinse amicizia tra gli altri con Elsa Morante. Le vicende belliche segnarono la vita e l’opera di Penna soltanto di striscio, ed i riferimenti ad esse da parte del poeta ribadiscono un atteggiamento piuttosto distaccato. Nei versi dell’Autore il secondo conflitto mondiale e il fascismo entrano infatti in punta di piedi, e costituiscono quasi dei tratti accessori immersi in una quotidianità ben più pregnante ed esigente. Quando i richiami si fanno più espliciti, si accentua addirittura la sensazione che Penna abbia vissuto in un mondo parallelo, svolgendo la funzione di spettatore passivo e indifferente. Mentre molti fra gli scrittori degli anni Trenta e Quaranta si interrogavano infatti sui perché della storia e arrivavano a combattere in difesa dei propri ideali, consumando a livello letterario la vicenda del neorealismo, Penna era come perso nei suoi sogni di fanciulli e paesaggi, completamente estraneo al clima culturale che gli si era creato intorno. Da questo punto di vista quasi non sembra possibile cercare di accostarlo agli intellettuali suoi contemporanei. La sua opera sembra infatti proiettare immediatamente il lettore in un mondo alieno da qualsiasi implicazione ideologica. Non per questo però la poesia di Penna risulta meno aderente al reale rispetto al mondo storico e politico raffigurato in tanta letteratura di quegli anni, e anzi in più di un caso la sua rappresentazione del quotidiano appare infinitamente più autentica e convincente. La chiave di lettura delle raccolte del poeta consiste proprio in questo: se il mondo che lui ci dipinge somiglia poco a qualunque altro luogo storicamente collocabile, nello stesso tempo non molti altri artisti hanno saputo tracciare il volto del reale in modo altrettanto aderente. L’apparente estraneità e lo scarso coinvolgimento rispetto alle tragedie della storia rientrano infatti in una visione delle cose in cui non esistono gerarchie e per la quale una guerra non è poi così diversa dai piccoli e grandi drammi di ogni giorno. D’altra parte è lo stesso Penna a dichiarare di amare ogni cosa nel mondo (13), definendo così in modo inequivocabile un atteggiamento di totale imparzialità nei riguardi della realtà. La grande messa in scena dell’umanità impressiona l’occhio del poeta, ma non assume nessuna funzione preponderante nella sua opera:

Una folla gridava ‹‹a noi›› ‹‹a noi››
ed il nero imperava sotto il sole.
Ma il nuovo Piano Regolatore!
L’irrequietezza degli orinatoi!
E la sera la calma paura dei gatti. (p. 376)

Nella poesia presa in esame, raccolta in Stranezze all’altezza del 1976, il chiaro riferimento al fascismo e agli sventramenti urbani operati a Roma da parte del regime allo scopo di conferire alla città un’immagine austera e imponente, si stempera negli ultimi versi. L’uso del vocabolo orinatoi potrebbe, in questo contesto, fungere da provocazione e da rovesciamento della retorica ufficiale, se non fosse termine che ricorre frequentemente in Penna. Ciò che colpisce maggiormente l’attenzione, però, è la focalizzazione dell’attenzione sui gatti, su una realtà dunque neppure umana, sulla quale la paura agisce non come riflesso della dura situazione politica ma come la conseguenza di un istinto privo di ragione. Al di là dei possibili riferimenti metaforici agli effetti prodotti dalla dittatura sulle menti degli uomini, l’impressione più forte che deriva da questi versi è quella di un progressivo svuotamento e scivolamento verso ciò che della storia è ai margini perché incapace di produrla. La paura provata dagli esseri umani coinvolti in un disegno delirante è la stessa avvertita dai gatti, e in questo abbassamento di prospettiva non esiste nulla di programmatico né tantomeno di ideologico. La folla, il nero, gli orinatoi, i gatti, sono elementi allineati su di un piano del tutto paritario, in cui l’irrequietezza e la paura appartengono alle cose e agli animali non meno che agli uomini. Il dato storico non si trasfigura dunque in legge universale, ma viene schiacciato sullo scenario variopinto del reale, pur conservando intatta la sua drammaticità. Dai versi del poeta emerge un atteggiamento disincantato e quasi ironico che dimostra come il reale sia degno di considerazione nella sua totalità, senza alcuna scala di valori.

Qualcuno vi parlava e voi rispondevate
sullo strano argomento delle vendite a rate.
Poi d’un tratto – chiudeste gli occhi per un momento
come per rivedere – e d’un fiato: chi era
intorno a una fontana, solitario e di sera?
C’era allora la guerra, è vero, e c’era il coprifuoco,
ma fuggir spaventato per un soldato ignoto!
Forse non era un’ombra, quell’uomo, era un fanciullo
e la sua fuga un giuoco soltanto volontario.
E riprendeste il corso del discorso interrotto.
Ma d’un tratto affondaste in un pianto dirotto.
Così tra i chiari affari la ria malinconia
s’introduce vestita di buia nostalgia. (p. 148)

Nei versi considerati, la storia sembra comparire ancora una volta come pura contingenza, assumendo la funzione di un dato accidentale immerso nel flusso del ricordo. Nella poesia vengono mescolati elementi disparati e non è possibile stabilire quali di essi rivestano una maggiore importanza. Lo strano argomento della vendita a rate, posto in primo piano a chiusura del secondo verso, viene subito accantonato ad apertura del terzo, in cui viene presentato un evento misterioso e inatteso. La guerra viene introdotta con un imperfetto narrativo che, oltre a delineare la dimensione della memoria, immerge il dato realistico in un’atmosfera sfocata e quasi da sogno, che rievoca il C’era una volta delle fiabe dell’infanzia.

La confusione dei piani e la trasformazione degli elementi avviene in effetti subito dopo se il soldato ignoto, nel giro di due versi, diventa prima un’ombra e poi un fanciullo, così come la guerra si muta in un giuoco soltanto volontario. In chiusura il discorso interrotto dal flusso dirompente del ricordo riprende il suo corso, ma i chiari affari non riescono a reggere il peso di una nostalgica malinconia. In questi versi non è possibile quindi individuare un tema dominante che non sia quello della memoria, così forte e così tipicamente penniano. In una prospettiva del genere nessun elemento può prendere il sopravvento sull’altro, a dimostrazione del fatto che Penna raffigura una realtà colta nell’interezza delle sue manifestazioni. Sulla base di una simile concezione non può emergere alcuna ideologia o sistemazione gerarchica, mentre qualsiasi dato concreto riceve diritto di asilo in una poesia priva di pudori e pregiudizi. Nei passi in prosa la posizione di Penna si mantiene inalterata, a dimostrazione della sostanziale continuità di intenti e di resa fra le varie modalità espressive impiegate dall’Autore:

[…] Pensavo che molti erano già morti per quelle esplosioni nel momento che io le sentivo, ma questo mi sembrava assai banale perché logico, mentre più mi interessava il piccolo pubblico della mia terrazza. Ero felice di pensare che non potevo più fare le visite che avrei voluto fare quella sera. […] Io sentivo che da un momento all’altro anche quelli se ne sarebbero andati e allora sarebbe stato il segno più chiaro, quello che aspettavo entro di me, come se non riguardasse che me. Quando la cosa avvenne, gridai invece con tutti che era finita, e non guardai più i piccoli aeroplani scendere e scaricare le loro piccole bombe sui medesimi ponti dove i tedeschi morivano in silenzio (14).

In queste righe, scritte in occasione dell’abbandono di Roma da parte dei tedeschi, quello che dovrebbe costituire l’evento principale appare come un elemento del tutto esteriore, degno di essere preso in considerazione solo per il fatto che inevitabilmente va ad incidere e a condizionare la vita del poeta nei suoi rapporti interpersonali. Questo non significa che Penna non avverta l’impatto emozionale degli avvenimenti. Lo stesso pensiero dei tedeschi che morivano in silenzio implica un’implicita partecipazione rispetto a quanto si sta svolgendo, ma ciò non cancella la sensazione che il poeta voglia presentare sé stesso come immerso in una dimensione in cui il contesto storico non riveste alcuna posizione privilegiata rispetto agli altri dati del reale. Allo stesso modo l’attenzione riservata al piccolo pubblico della mia terrazza, l’accenno alle visite serali, gli aeroplani e le bombe connotati come piccoli, attestano ancora una volta come per Penna il teatro della vita non sopporti gerarchie fra le sue maschere.

Nella Capitale Sandro fu amico di molti artisti, fra cui De Pisis, Festa, Scialoja, Rosai, Schifano, Levi, Mafai, Mirko, verso i quali esercitò un fascino fortissimo che li portò ad ammirare grandemente i suoi versi e la sua persona. Penna ebbe spesso da loro in dono quadri dei quali a volte non esitò a fare commercio, secondo un atteggiamento che rientra perfettamente nei singolarissimi canoni di un personaggio straordinariamente contraddittorio. Fra il 1947 e il 1948 Carlo Levi dipinse un ritratto di Penna, e negli anni ricordò sempre con affetto e immensa stima la sua eccentrica e accattivante figura:

Sandro Penna (o il Bracco dell’Orologio che come un bracco andava puntando nella selva di Roma, gonfio di maglie e calze e giacche da vendere, e di orologi, macchine fotografiche, cannocchiali, e ogni altra cosa) angelico e materno … Oh, così materno per gli antichi padri (15).

Nonostante i continui contatti, Sandro Penna si mostrò tuttavia sempre molto diffidente nei confronti della società letteraria, e arrivò a maturare delle vere e proprie manie persecutorie nei confronti degli intellettuali che provavano ad accostarglisi. Dei letterati condannava soprattutto l’intricante ipocrisia (16), e spesso invocava la solitudine e l’isolamento rispetto ai loro cenacoli. 

Negli anni Cinquanta si moltiplicarono per lui le pubblicazioni, tanto che uscì Appunti (1950). Nel 1955 L’editore De Luca stampò a Roma Arrivo al mare, racconto accompagnato da cinque acqueforti di Vespignani. L’anno seguente vide la luce presso Scheiwiller Una strana gioia di vivere seguito da Poesie (1957), raccolta recensita, tra gli altri, da De Robertis, Debenedetti, Zolla, Citati, Giuliani. L’opera fruttò al suo autore il Premio Viareggio, che Penna condivise con Pier Paolo Pasolini e a Alberto Mondadori. Nel 1958 Longanesi diede alle stampe Croce e delizia, che raccolse le recensioni di Gramigna, Frattini, Titta Rosa, Barberi Squarotti, Garboli.

Per dodici anni Penna non pubblicò più nulla fino a quando, nel 1970, presso Garzanti apparvero Tutte le poesie, lavoro in certo modo riassuntivo dell’attività poetica svolta fino a quel momento. Al libro andò il Premio Fiuggi, e nei riguardi del poeta si accrebbe notevolmente l’attenzione della critica e del pubblico. L’interesse degli intellettuali per Penna si intensificò tanto che, nel 1974, sul quotidiano ‹‹Paese Sera›› venne pubblicato un annuncio sul quale si denunciava la condizione di indigenza del poeta con relativa richiesta di sostegno. Nel 1973 erano frattanto usciti il volume di prose Un po’ di febbre e Poesie, scelta antologica effettuata dallo stesso Autore. Nel 1975 fu data alle stampe L’ombra e la luce, raccolta composta da sette poesie con sette acqueforti di Cristiana Isoleri. Alla fine del 1976 fu stampata la raccolta Stranezze a cui, pochi giorni prima della morte del poeta - avvenuta il 21 gennaio del 1977 - fu assegnato il Premio Bagutta. Negli anni seguenti la scomparsa di Penna, vennero pubblicati molti inediti scovati fra le carte dell'Autore. Già nello stesso 1977, infatti, videro la luce Il viaggiatore insonne e Segreti. L’anno successivo fu la volta della piccola raccolta Il rombo immenso, che conteneva due poesie con altrettante acqueforti di Cristiana Isoleri. Nel 1980 Elio Pecora mandò in stampa Confuso sogno. La Casa editrice milanese Scheiwiller pubblicò inoltre nove anni dopo Peccato di gola (poesie al fermoposta), mentre risale al 2002 la divulgazione di Cose comuni e straordinarie, che contiene racconti inediti raccolti da Elio Pecora.

L’ultimo periodo dell’esistenza di Penna si consumò fra malanni, nevrosi e ossessioni. Il poeta non usciva più dalla sua stanza di via della Mole de’ Fiorentini, nella quale aveva serrato le finestre e ammucchiato una quantità impressionante di libri, abiti e oggetti di ogni genere. Stanco e malato, Sandro provò a dettare le sue memorie al registratore, e intanto si spegneva afflitto soprattutto da un’inguaribile insonnia che lo spingeva a chiamare gli amici nel cuore della notte costringendoli ad ascoltare i suoi lamenti. Come sempre dotato di una candida incoscienza, nelle ultime settimane della sua vita rilasciò al ‹‹Messaggero›› un’intervista che apparve lunedì 24 gennaio, subito dopo la sua morte. Sulle colonne del giornale il poeta si era lasciato andare ad una lunga rassegna dei suoi mali e ad una dura critica nei confronti di molti illustri personaggi del suo tempo. L’intervista suscitò scalpore e polemiche, che questa volta però dovettero subito placarsi poiché Sandro era sprofondato finalmente nel suo ultimo, lungo sonno ristoratore. Così il poeta uscì di scena nello stesso modo in cui aveva condotto la sua esistenza, silenzioso e pungente, privo di rispetto per ogni forma di autorità, diffidente e allo stesso tempo limpido come un fanciullo. Elio Pecora, che lo ha assistito nelle ultime ore, racconta come Sandro avesse detto che nei silenzi della sua notte insonne, dal letto aveva sentito passare e abbassarsi sulla città la morte, singhiozzando la chiamò come nel verso leopardiano ‹‹bellissima fanciulla›› (17).

Fino alla fine il poeta narrò con voce biascicante dei fanciulli che aveva amato, rievocò la luce e le stagioni, conservando nel momento del trapasso la medesima “cheta follia” impressa indelebilmente nei suoi versi e nei suoi giorni.


(13) Cfr. Poesie, op. cit. p.151.

(14) Sandro Penna, appunti di vita, op. cit., pp. 64 – 65.

(15) Cfr. E. Pecora, Sandro Penna: una cheta follia, op. cit. p. 179.

(16) Ibid. p.134.

(17) Cfr. E. Pecora Sandro Penna: una cheta follia, op. cit. p.10.


Theorèin - Maggio 2007