IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 2 (II parte)

Rapporto fra prosa e poesia: le tematiche del tempo e delle stagioni.

 

Per avvalorare questa ipotesi di lettura viene in soccorso prontamente la produzione in prosa, nella quale il pensiero del poeta si sviluppa in maniera certamente più estesa ed esplicita.

Fra i racconti inediti pubblicati recentemente in Cose comuni e straordinarie, a cura di Elio Pecora ce n’è uno brevissimo, dal titolo Il ragazzo (39), scandito in tre parti, ciascuna delle quali reca il nome di una stagione, dalla Primavera all’Autunno. Attraverso queste fasi il poeta osserva i mutamenti subiti da un fanciullo con intensa e partecipe malinconia, con un senso vivissimo e pungente dell’irreversibilità:

[…] Ma il mio fanciullo ha perduto qualcosa della sua estiva fermezza (40).

[…] Ricerco solo dentro dentro i suoi occhi, non fermi, l’incerto ragazzino di poco tempo (poco tempo!) fa. (41)

E ancora:

[…] Non vuol più staccarsi dalla sua stagione. Ma non è più in essa naturalmente. Forse è già solo in essa, nel sole, come quando diceva, ma tutto e solo volontà, ‹‹Pedaliamo, pedaliamo››. Capisco. Il sole era il suo vero compare. E forse egli si sente, adesso, abbandonare (42).

In queste righe trova la sua più piena ed esplicita rappresentazione il tradimento operato dal tempo. L’illusione del sole che sosta perennemente a garanzia della felicità giovanile viene rovesciata nel flusso inesorabile che divora la giovinezza, e con essa la vita. La categoria dell’atemporalità, che spesso sembra governare la percezione penniana, consegnandoci l’immagine di un poeta fanciullo tra i suoi fanciulli, subisce dunque il suo scacco nel momento stesso in cui viene fondata: la concezione dell’atemporalità non può darsi senza la preliminare acquisizione della nozione lineare del tempo. Vale a dire che Penna può abbozzare i suoi scenari di vita perenne solo perché ha sperimentato dolorosamente la categoria del divenire.

È vero che nelle sue poesie gli eventi si presentano spesso come semplici accidenti, che le sue immagini appaiono come subitanee folgorazioni, ma non è credibile attribuirgli la fisionomia del poeta che, ponendosi inconsapevolmente di fronte alla Natura, all’eterna vita del tutto, la canta.

Proseguendo nell’esame dei racconti, si scoprono facilmente persino delle spie indirette, che permettono di cogliere una spiccata propensione malinconica e nostalgica da parte del poeta anche nel bel mezzo di rappresentazioni vitali e gioiose. In Un giorno in campagna, racconto che apre la raccolta di prose Un po’ di febbre, viene descritta ad esempio una giornata serena trascorsa dal poeta in mezzo alla natura in compagnia dei suoi cuginetti. L’autore si sofferma a rievocare le corse nel verde, lo stordimento dolce della felicità che nasce dal contatto genuino con le cose semplici. All’interno di una simile rappresentazione, però, vengono citati alcuni versi dannunziani, declamati dai protagonisti, che sorprendentemente introducono una nota malinconica, provocando una lieve stonatura all’interno della cornice che li contiene:

E si vivrà, oimé,
si vivrà tuttavia!
E il tempo fuggirà,
fuggirà sempre!
(43)

L’autore stesso aggiunge delle parole profondamente enigmatiche, che ci restituiscono intero il senso di un’interiorità complessa e infinitamente sfumata:

[…] Ma eravamo ebbri e infelici insieme. Ragazzi, ci avveniva del resto di vederci piangere in quelle corse, non so più se per l’aria frizzante o solo per effetto di quella buffa nostra felicità. (44)

Ebbrezza e infelicità, gioia allucinata e tristezza. Sono queste le contraddizioni feconde che contrassegnano una produzione scrittoria ricca, profonda, fluida come un unico lungo poema che dura lo spazio di un’intera vita e che della vita descrive l’aspirazione impossibile all’eterna durata.

Certo, la poesia di Penna non tocca mai toni drammatici e patetici. In essa regna sempre una serena accettazione attraverso cui il poeta sfuma la vita nel sogno e cerca di convivere in pace con la sua malattia:

Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
Ma più belli di te ragazzi ancora
dormiranno nel sole in riva al mare.

Ma non saremo che noi stessi ancora. (p. 315)

L’ultimo verso di questa poesia dal titolo Guardando un ragazzo dormire, staccato anche graficamente dai primi tre, introdotto da un’avversativa forte, appare, più che un assioma asserito con convinzione, una sentenza consolatoria, ultimo baluardo contro la percezione nettissima del tempo che fugge e travolge le cose, i fanciulli, e li sostituisce. La vita trionfa sul sacrificio delle vite singole e la cristallina grazia serena che governa molti dei versi di Penna non può prescindere da questa verità, anzi, necessariamente la presuppone. Nel primo verso di Guardando un ragazzo dormire, l’uso del pronome “tu”, collocato in posizione forte, a inizio verso, indica il riconoscimento, da parte del poeta, di un particolare individuo. Simmetricamente, il subito dopo utilizzato pronome “io” implica evidentemente che il poeta stesso si riconosca come individualità. L’individuo prende coscienza di sé solo quando si colloca nel tempo, altrimenti non sarebbe che Natura, o meglio, non riuscirebbe a comprendersi come “altro” rispetto alla Natura. Penna non si confonde panicamente con la natura, tutt’altro: egli si pone continuamente in disparte, è poeta che guarda, ascolta, annusa, raramente parla. È poeta che si individua nel tempo e nel tempo scruta in profondità la vita, ne riconosce i cicli, il ritmo, le stagioni. Penna ritaglia frammenti di tempo e li sistema in cristalli. Solo dopo averli confrontati può rilevare che la vita non muta (p.34).

Il gioco sentimentale è un racconto contenuto in Un po’ di febbre (45).

In esso, così come in altri componimenti, sono presenti molti elementi - chiave che percorrono tutta la produzione penniana emergendo in maniera evidente nella poesia. Il brano preso in considerazione è imbastito sulla base di un filo conduttore che si snoda fra il dato concreto di una giornata trascorsa dal fanciullo protagonista e l’elemento del sogno che trasfigura la realtà, e che rappresenta un vero e proprio leitmotiv nella poetica penniana. In primo piano, all’inizio del racconto, vengono poste le condizioni atmosferiche della giornata descritta:

Quel giorno non pioveva più. Si poteva anzi indovinare, sebbene dietro le nuvole, remoto, un sole ancora caldo. (46)

Lo stilema utilizzato per connotare il sole ricorre frequentemente e in modo molto simile nei versi penniani:

La mattina di estate è ancora fresca. (p.65)

La mattina di ottobre è ancora buia. (p.67)

Ad una certa altezza della narrazione viene introdotto un elemento che pare appartenere in questo caso specifico alla dimensione onirica, e che riveste un ruolo in certo modo fondante nella produzione del poeta umbro:

Allora sentì, proprio sentì un odore di mare. Gli parve di essere in dormiveglia […] (47)

Il mare, che compare quasi ossessivamente nei versi costituendo il polo sempre agognato della fuga e della liberazione, invade con la sua presenza anche la prosa, ed è quasi sempre accompagnato da un altro topos tipico in Penna:

Il sole e la sua luce sono tutta una cosa con la sua bianca divisa.(48)

Non sarà forse superfluo insistere sul fatto che i due elementi del mare e della bianca divisa, unitamente a quello dello stato di semi – coscienza sospeso fra il sonno e la veglia, costituiscono l’ossatura di quella che Penna ha deliberatamente consacrato come sua prima poesia:

La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.

Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
(p. 3)

Il mare, la divisa di marinaio, il treno, compaiono anche in Arrivo al mare:(49)

In treno si era sentito felice. […] Lo aprì desideroso e vide nel buio una divisa di marinaio tutta bianca e azzurra.[…] Il mare era […] azzurro denso.[…] E il mare tutto azzurro intenso, intatto e assente […]

Nella relazione biunivoca intercorrente fra la prosa e la poesia, l’azzurro e il bianco invadono i campi semantici del mare e della divisa quasi confondendoli. Se nella poesia infatti l’azzurro e il bianco connotano soltanto l’abbigliamento del giovane, nella prosa il mare, che i versi dipingono come tutto fresco di colore, è descritto come azzurro denso e intenso. È come se nella narrazione il poeta sciogliesse la sinestesia usata nella pagina poetica esplicitando il legame fra la freschezza e l’azzurro dell’acqua.

Nella prosa esaminata fa la sua comparsa anche un rozzo cassettone odoroso di vuoto e così casto . La memoria corre immediatamente a quella mano casta e odorosa di ferro (p. 70) della poesia, a conferma del selezionatissimo vocabolario penniano, così disponibile ad accogliere ogni sfumatura, anche sgradevole, del reale, e allo stesso tempo così puro nel suo rigoroso e sceltissimo repertorio, in questo caso di evidente matrice leopardiana nell’uso dell’aggettivo odoroso.

Tornando al racconto Il gioco sentimentale, nel corso della lettura l’attenzione è catturata in particolare da una frase:

Finiva il giorno festivo e si accendevano le prime luci.

All’interno della produzione prosastica si insinua prepotentemente l’eco della citazione poetica, ed è ancora una volta Leopardi ad ispirare la produzione penniana:

[…] Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede […]

Nella Sera del dì di festa il poeta di Recanati affrontava proprio la tematica del trascorrere del tempo che tutto distrugge portando con sé ogni umano accidente. Il riferimento leopardiano dimostra inequivocabilmente come in Penna sia forte ed estremamente lucida la percezione lineare del tempo. Fra i due poeti intercorre però una differenza sostanziale e per questo non sottovalutabile. Nel suo componimento Leopardi, dopo aver cantato la fugacità del giorno di festa a partire dalla considerazione di ogni singola esistenza umana, si inoltra infatti nella considerazione della caducità della Storia:

[…] Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma […]

In Penna non si trova la benché minima traccia di simili riflessioni. Si direbbe, anzi, che quasi volutamente il poeta umbro attui una nettissima deviazione rispetto al suo modello:

Finiva il giorno festivo e si accendevano le prime luci. Le prime luci delle ultime ore di vacanza. […] E poi ancora un’intera giornata: sigarette, vagabondaggio per la città, sale dei biliardi, cinematografo ancora.

La fedele citazione dell’attacco subisce dunque una trasformazione ridimensionante e certamente non casuale. Al tempo della Storia così come era inteso da Leopardi, Penna sostituisce infatti il tempo biografico e cronachistico della quotidianità. Al grido dell’antica Roma, che non ha quasi lasciato orma di sé, il poeta novecentesco sostituisce le ultime ore di vacanza, unitamente al pensiero delle sigarette e dei ritrovi abituali in una metropoli. Nella sua prosa, dunque, Penna ripropone la riflessione sul trascorrere inesorabile del tempo, ma la filtra attraverso una citazione sfruttata con tutta probabilità al fine di evidenziare lo scarto estremo fra una visione storicizzata del divenire e una percezione invece tutta individuale e quotidiana di esso.

Uno dei modi per misurare la condizione umana al cospetto del tempo è senza dubbio quello di affrontare la tematica della morte. L’idea della morte appare in Penna quasi sempre avvolta da un alone insieme ingenuo e mitico che ne dimensiona la portata in senso non tragico. La confusa morte implica un distacco che può essere solo immaginato, e che comunque nella mente del poeta appare meno vivo, di quello che può comportare Amore.

Nelle prose di Un po’ di febbre Penna affronta la morte nel racconto omonimo in cui viene rievocata una visita alla tomba del padre. Sempre attento alle note climatiche e paesaggistiche, l’Autore ricorda che pioveva e non pioveva. Il discorso si dispiega ampiamente nella descrizione della ricerca della tomba. Il poeta esprime il desiderio di deporre alcuni dei fiori già avvizziti fra le mani presso la tomba di un ragazzo quindicenne morto annegato. La vena malinconica è accentuata da meste notazioni paesaggistiche e dal ricordo della figura paterna:

Guardavo la campagna desolata e umida. […] Mi pareva di risentire i soliti rimproveri di mio padre vivo alla mia indolenza. […] era lieve il sorriso di mio padre, la sua tomba tanto cercata. […] la luce fuggiva portandosi via le nubi e tutta l’umidità del giorno.

Il narratore non manca di notare un ragazzo dal viso sereno e roseo, la madre consunta e china su di una tomba. Nella seconda parte del brano, il ritmo si mantiene lento sostenuto dalla paratassi ma poi, improvvisamente, si altera. Le frasi diventano brevi e spezzettate, assumendo le caratteristiche di nervose e frettolose annotazioni:

Gita al cimitero. Sole e freddo. Gelido vento che inasprisce la stanchezza. Il sole la calma. […] Miseria. Dolore. Non libera miseria. Occhi segnati, bucce di mandarini.

Compare nuovamente il giovinetto con la sua giovane mamma. Nella conclusione l’autore registra un senso di liberazione provato all’uscita dal cimitero, accostando all’idea della vita che ricomincia, dopo il fugace ed esterno contatto con la morte, un’immagine quanto meno insolita per il contesto delineato:

Quando esco dal cimitero ricomincio la vita. Nel pisciatoio un buco lascia vedere l’altro ‹‹cittadino››. […] Un mozzicone di sigaro annega nell’orina.

Mio verso ultimo di un’antica poesia. ‹‹Ricordati di me, dio dell’amore››.

Nella poesia dal titolo La tomba del padre, ricompaiono gli elementi principali che caratterizzano il brano in prosa. Innanzitutto è utile sottolineare la presenza del titolo, che orienta la comprensione del lettore e spiega inequivocabilmente quale sia la tematica trattata.

Cimitero nell’est. Un sole insiste
inutilmente sulla nuvolaglia.
Un ragazzo si stacca dalla mamma
e piscia verso il coro dei soldati
su i campi desolati lieto e triste
. (p.82)

Gli elementi comuni alla prosa e alla poesia in questione sono la tomba del padre, il cimitero, le condizioni di tempo incerto, il ragazzo con la sua mamma e l’abbassamento di tono che si fa quasi triviale quando vengono menzionati il pisciatoio e il ragazzo che piscia. Nei versi una esposizione di carattere impersonale rovescia la situazione della prosa, in cui l’autore parlava invece in prima persona.

La scelta di non comparire in prima persona nei versi, però, ad un’analisi più attenta può apparire non casuale. Nel brano in prosa la presenza del poeta è piuttosto vistosa, dal momento che egli registra ogni suo stato d’animo filtrando la descrizione del cimitero e del paesaggio attraverso il suo punto di vista. A ben guardare, però, sebbene il poeta si presenti nel racconto come protagonista della vicenda, egli riveste in effetti il ruolo passivo dell’osservatore piuttosto che quello attivo dell’attore. A conferma di ciò, nella seconda parte del brano Penna rimarca ancora una volta la sua condizione di essere isolato e assente:

Ero ancora nel buio. Solo. Con quelle povere immagini che non capivo.

A livello esistenziale la situazione sembra essere molto simile a quella descritta nei celebri versi di Letteratura:

Di là dal fiume un canto di ragazzi
ebbri, nella sera di luglio.
Io buio, sul sedile, e vuoto.
Ero una volta Hölderlin… Rimbaud…
(p. 421)

Il senso di solitudine e di assenza rispetto al mondo circostante è un elemento ricorrente che connota di frequente la prosa:

[…] restai solo di nuovo.(63)

Io resto solo.(64)

Io resto solo.(65)

Io solo.(66)

Nella poesia il motivo della solitudine diventa addirittura ossessivo e gli esempi sono innumerevoli. Il senso di disagio derivante dalla sensazione di essere solo spesso viene dunque esplicitato dal poeta, ma in svariate occasioni Penna preferisce utilizzare una formula impersonale che marchi la sua assenza in modo implicito ma ugualmente efficace. In La tomba del padre, dunque, il poeta adombra il medesimo senso di solitudine descritto nella prosa. Nel riversare quest’ultimo sentimento nei versi, però, egli preferisce evidenziare il suo senso di alterità e isolamento attraverso un’esposizione in terza persona che rasenti una freddezza quasi asettica.

Azzardando un’ipotesi interpretativa non sostenuta purtroppo da un valido appoggio cronologico, nel caso del brano La morte e della poesia La tomba del padre, alcuni indizi lasciano supporre che il poeta abbia attinto dal materiale della prosa per elaborare i suoi versi e non viceversa. Se si valuta il racconto nel suo insieme, infatti, si nota una specie di processo di riduzione che, dall’esposizione ampia e paratattica del primo paragrafo, giunge nella seconda parte alla forma dell’annotazione frettolosa e fortemente frammentata. Si direbbe quasi che l’autore abbia prosciugato e ridotto all’osso l’idea originaria sottesa al racconto per poi distillarla nella poesia. Se si presta fede a quanto dichiara Penna (67), il racconto La morte non dovrebbe essere successivo al 1941, mentre La tomba del padre è stata sistemata nel volume di Poesie (68) edito da Garzanti nel 1957 fra i versi composti all’interno degli estremi temporali che vanno presumibilmente dal 1938 al 1955.

Resta da chiedersi come mai, in seno ad una tematica come quella della morte, il poeta abbia deciso di operare nel finale un abbassamento di tono vistosamente netto e stridente. L’appello alla parte più istintiva e animale dell’uomo appare in effetti piuttosto provocatoria e incongrua nel contesto di un cimitero. La prima immagine del ritorno alla vita, infatti, nel caso della prosa è quella di una latrina, mentre nella poesia è rappresentata da un ragazzo che piscia. Sembra quasi che Penna abbia voluto esorcizzare la morte sbeffeggiandola, ma una lettura di questo genere sarebbe ovviamente riduttiva. La morte rappresenta il suggello del tempo, l’irreversibilità di un divenire distruttivo e inesorabile. Quale difesa può adottare l’uomo per sottrarsene? Evidentemente nessuna, eppure, come si è già accennato, per Penna la morte costituisce un evento che può essere aggirato e ridimensionato attraverso il ricorso alle immagini vitali dei fanciulli e dell’amore:

Morte se tu mi domini, alla vista
del mare o di un fanciullo
io trasalisco come
di fronte ad un segreto
caro, e che sappiamo chiuso.
(p. 351)

L’idea del fanciullo, in Penna, è inscindibilmente collegata a quella dell’istintività e dell’animalità, dell’ingenuo e atavico trionfo dei sensi:

Animale lucente di sole:
il mio cuore riluce di te.
Animale di sole lucente:
il mio cuore riluce e la mente
.
(69)

Se l’immagine vitale del fanciullo - animale rappresenta l’ultimo baluardo contro la morte, l’estrema vitalità dei sensi e dei bisogni primari costituisce di conseguenza l’approdo più sicuro in cui rifugiarsi. Di fronte al mistero inesplicabile della fine della vita il poeta trova un punto di riferimento solido nel nocciolo duro dell’istinto primitivo, oltre che nella rassicurante banalità del quotidiano. Così Penna può indugiare persino sul mozzicone di sigaro che annega nell’orina, (70) citando poi, quasi distrattamente, il verso ultimo di un’antica poesia. ‹‹Ricordati di me, dio dell’amore.›› (71)

La poesia in questione chiude la raccolta Stranezze, data alle stampe nel 1976. Accogliendo con tutte le precauzioni del caso le parole del poeta, che fa risalire le prose di Un po’ di febbre per lo più agli anni che vanno dal 1939 al 1941, ci si può riferire con assoluta certezza soltanto al 1973, anno di pubblicazione della raccolta. Il fatto che Penna definisca la poesia citata nel racconto come antica, crea una certa confusione nella mente di chi voglia avanzare un’ipotesi di datazione anche approssimativa sia per la narrazione sia per i versi. Il termine ante quem per la poesia Un altro mondo si dischiude: un sogno (72) è ovviamente il 1973 ma, a partire da questo dato, nulla di più preciso può essere azzardato, ad eccezione del fatto che il componimento è inserito nella terza parte di Stranezze, che accoglie versi composti dal 1970 al 1976. I criteri di datazione della raccolta citata, però, sono messi in discussione dallo stesso Cesare Garboli che ne ha curato la postfazione (73).

Si può soltanto formulare l’ipotesi dell’esistenza di una certa struttura organizzativa sottesa all’elaborazione di Stranezze dato che, il componimento che Penna ha voluto porre a conclusione della raccolta, non è certo l’ultimo in ordine di elaborazione. La sensazione di essere di fronte ad una scelta programmatica da parte del poeta si intensifica nel momento in cui si riflette sul fatto che il brano La morte, che termina con la citazione del verso in questione, è anche l’ultimo del libro. Per ben due volte, dunque, e a distanza di tre anni, Penna ha deciso di chiudere i suoi volumi con lo stesso verso, creando così un sistema di reciproca relazione fra la prosa e la poesia sottile ma allo stesso tempo stabile e saldo.

L’invocazione al dio dell’amore appare quasi come una preghiera funebre, un canto levato all’eternità dei sensi che non corrisponde all’eternità dell’esistenza individuale:

Un altro mondo si dischiude: un sogno
fanciulla mia beata sotto il sole
medesimo ( oh gli antichi
e dorati fanciulli). Un lieve sogno
la vita…
Ricordati di me dio dell’amore
.
(74)

È difficile non pensare che la fanciulla beata sotto il sole possa essere assimilata alla morte. Nel canto leopardiano la Morte appare infatti come una Bellissima fanciulla,/Dolce a veder (75), alla quale il fanciullo Amore si accompagna sovente (76).

Gli antichi e dorati fanciulli di cui parla Penna, a differenza della personificazione attuata da Leopardi, non sono però atavici simboli, ma creature in carne ed ossa. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il dio-fanciullo del poeta non è un archetipo: egli si incarna in tanti piccoli dèi, ciascuno con il proprio colore, la propria carne, persino il proprio odore. Dove si era mai visto, nell’Olimpo della tradizione poetica, un dio che corre in bicicletta (p.64), che fuma un sigaretto (p.50), o bagna il muro con disinvoltura (p.64)? Il dio dell’amore è investito dal tempo della cronaca, e, sia pur incarnando l’ideale eterno dei sensi e della giovinezza, subisce le mode, gode e al tempo stesso patisce il susseguirsi delle stagioni:

Veloce va l’atleta adolescente […]
Se si riveste noi assistiamo all’epoca
dei calzoncini.
(p. 178)

Che resta di una festa
ove gli azzurri dèi
cavalcano una ‹‹vespa››?[…]
(77)

Ma la primavera passa su di lui, insomma, risparmiandolo. […] Un giorno, l’estate minaccia di cadere.[…] Il sole era il suo vero compare. E forse egli si sente, adesso, abbandonare. (78)

Penna riempie dunque il tempo della sua scrittura con il tempo della cronaca, dei sensi, dell’amore, dei piccoli oggetti del quotidiano. Creando un legame quasi impercettibile fra le varie espressioni della sua vena artistica, egli elabora la sua personale difesa nei confronti del divenire. Non si è forse troppo lontani dal vero se si afferma che, nell’accogliere le innumerevoli sfaccettature del reale, il poeta tenta di farsene scudo e di esorcizzare così, attraverso la solida e insieme effimera consistenza delle cose concrete, la certezza incontestabile della morte.

La tematica del tempo, finora considerata nella sua dimensione individuale e cronachistica, è strettamente connessa a quella dell’avvicendarsi delle stagioni. Nell’opera di Sandro Penna, infatti, l’attenzione al trascorrere circolare dei mesi dell’anno è costante e facilmente verificabile. Un tale orientamento cronologico potrebbe essere immediatamente collegabile ad una visione ciclica del divenire, in cui i ritmi perenni ed immutabili che regolano l’anno solare garantiscono una continuità inarrestabile almeno sub specie aeternitatis. Si è già cercato di dimostrare, però, come l’apparente immobilità acronica del sistema penniano sia solo un aspetto appartenente ad una ben più articolata concezione della problematica temporale.

Affrontando la questione da un punto di vista differente, invece, l’insistita rappresentazione delle stagioni da parte di Penna, sembrerebbe essere determinata da una logica interna più sottile, volta a registrare la compresenza conflittuale della luce e del buio.

Si è già notato come spesso nell’opera del poeta umbro il tempo sia colto nella sua natura meteorologica: puntualizzando le condizioni atmosferiche che fanno da scenario e da contenuto alle sue composizioni, Penna trae spunto per porre in primo piano gli effetti di luce e di buio da cui dipendono la bellezza o la tristezza di un paesaggio. Ciò che maggiormente colpisce nelle realizzazioni penniane, però, è che il conflitto che sembra stabilirsi fra i due poli sia in realtà un contrasto soltanto apparente, che cela invece un continuo rovesciamento di un elemento nell’altro. Certamente il polo privilegiato è rappresentato dalla luce, verso la quale Penna sembra anelare costantemente, ma la luminosità che investe la maggior parte della produzione penniana, se spesso si presenta come centro di un irraggiamento assoluto e incontaminato, in molte altre occasioni è compromessa irrimediabilmente con l’ombra, elemento disturbatore e allo stesso tempo qualificante.

[…]
Lumi del cimitero, calmi diti
contano lente sere. Non mi dite
che la notte d’estate non è bella.
(p. 152)

È difficile non notare come nei versi presi in esame ci sia una dicotomia temperata da una forte interazione fra gli elementi della luce e del buio.

Il cimitero e la notte appartengono inequivocabilmente alla sfera dell’oscurità, mentre i lumi e l’estate si situano nel polo opposto della luminosità vitale. I lumi evocati da Penna sono però quelli di un cimitero, mentre la notte descritta è estiva. La zona umbratile e mortuaria si rovescia così senza apparente soluzione di continuità nell’ambito vitalistico e diurno.

Alcuni studi su Penna hanno cercato di dimostrare come l’antinomia fra luce e buio sia riconducibile al contrasto esistente nella concezione del poeta fra una pienezza panica e irrazionale e il ritorno ad una condizione vigile e meditativa:

A conferma del coincidere dell’ombra con il momento introiettivo, di assimilazione e quindi meditativo, varrà la pena notare l’acuirsi della sensazione uditiva rispetto a quella visiva, come per una sopravvenuta cecità che dirige lo sguardo in una zona esclusivamente interna. (79)

Una riflessione simile rischia però di esasperare i termini di una polarità che spesso invece si risolve sul piano della coesistenza osmotica. La rappresentazione del contrasto esistente fra luce e ombra, infatti, è spesso condotta su di un piano in cui i due elementi si confondono e confondono, impedendo così una percezione razionale e lucida della loro alterità:

La luminosa giornata cadeva lentamente in un crepuscolo entro il quale non pareva più vera la sua pienissima luce trascorsa. (80)

Uscì di casa con un sole davvero troppo bello per essere di gennaio. (81)

[…]
Ma effimero è alle cave
ansie il sole che ami.
Al vespro aspro, è grave
il cielo ai secchi rami.
(p. 21)
(82)

La giornata luminosa si spegne in un crepuscolo che fa dubitare della sua consistenza, il sole invernale è costantemente ingannevole. I sensi dell’uomo non riescono ad orientarsi nella continua metamorfosi della luce, nel perpetuo alternarsi e confondersi dei due poli della coscienza. L’impeto vitale e il ripiegamento nelle zone umbratili dell’Io coesistono dunque senza alcuna possibilità di separazione, rappresentando la non dissolubilità di due condizioni apparentemente opposte. Il poeta non riesce a risolvere l’antinomia sottesa ad una visione di questo genere, quasi si compiacesse di rappresentare e vivere il paradosso di una luminosità continuamente frustrata e compromessa, trionfante e allo stesso tempo ripetutamente sconfitta. Nella forma lirica, la rappresentazione della luce che scivola progressivamente nel buio, resa percepibile soprattutto dal trascorrere delle stagioni, è resa spesso con accenti vibranti, con un trasporto travolgente e nostalgico in cui il vitalismo è per lo più temperato da un atteggiamento fortemente malinconico:

Baciami sulla bocca, ultima estate.
Dimmi che non andrai tanto lontano.
Ritorna con l’amore sulle spalle,
ed il tuo peso non sarà più vano.
(p.316)

L’estate è apostrofata con note sensuali e appassionate, ma non si può fare a meno di cogliere il valore dell’aggettivo ultima. L’estate è colta nel suo sfiorire. Il poeta già anela al suo prossimo ritorno, consapevole però dell’inevitabile caducità che nemmeno la disposizione circolare del tempo è in grado di arginare. La certezza del ritorno, infatti, non riesce a mitigare la mesta amarezza del distacco.

La compresenza della luce e del buio non sempre è resa però esplicita dal poeta che, soprattutto nella prosa, spesso distende i toni in un descrittivismo meno propenso all’esasperazione delle contraddizioni:

È arrivata improvvisamente in città la primavera. […] Il sole è già laggiù […] a illuminare neri e lenti treni che lì passano di continuo. (83)

In questa nota meteorologica e paesaggistica, apparentemente non vengono registrati contrasti. La primavera è arrivata, il sole non è offuscato da nubi tanto che il poeta indugia sulla rappresentazione della sua forza luminosa.

Nel quadro diurno e sereno, però, Penna inserisce quasi di passaggio una sfumatura piuttosto stridente, anche se in lui piuttosto tipica: i treni sono neri, oltre che lenti. I due aggettivi sono frequentissimi nell’opera del poeta perugino, tanto da assumere una valenza caratterizzante. I treni, ad esempio, sono neri anche nella poesia Fantasia per un inizio di primavera, (p. 28) in un’affinità certamente non casuale con il brano in prosa, in cui è proprio la primavera a rappresentare l’elemento qualificante. Il nero rientra nel campo semantico del buio e della notte, e crea un contrasto in questo caso appena percettibile eppure evidente. Il treno rappresenta quasi una macchia scura in un quadro dai colori solari e vivaci. Naturalmente non bisogna trascurare il fatto che in Penna il treno rivesta quasi sempre il valore positivo della fuga verso l’altrove. È pur vero però che il risveglio in un vagone all’alba può essere triste, sia pur nel preludio di una liberazione improvvisa e dolce. Il nero del treno potrebbe dunque insinuare ancora una volta la presenza del buio nel suo perenne incombere sulla luminosità.

Il sole riappariva a rari intervalli e poi le grosse nuvole rioscuravano la terra. (84)

[…] là dove io dovevo lasciare la celeste luminosa aria della primavera umbra per calarmi entro uno dei soliti archi che in quel caso mi portava al buio della scuola. (85)

Il buio si presenta agli occhi del poeta come una necessità ineluttabile, mentre la luce, pur con la sua carica vitale, appare come un’entità continuamente minacciata. Il desiderio della luce può essere appagato solo al prezzo della sua continua perdita forzata. Rinunciarvi appare spesso come un dovere imposto, quasi che la felicità sia un bene troppo sacro e prezioso per poter essere consumato.

La luce, in connessione con l’acqua, rientra nella sfera occupata dal fanciullo, o meglio, dai fanciulli:

Immobile nel sole la campagna
pareva riascoltare il suo segreto.
Un giovane passò ma non so ancora
se vero oppure vivo come fiamma
che il sole riassorbiva nel silenzio.
(p. 143)
(86)

La luminosità che emanano e di cui allo stesso tempo sono investiti i fanciulli, non viene quasi mai intaccata dalle ombre. Assieme alla luce e all’estate, infatti, i ragazzi sono collocati nel polo distante e solare della vita, da cui il poeta si sente escluso. Le ombre che offuscano il giorno sono reperibili soltanto nell’universo di chi, montalianamente, rimane a terra. Non a caso, similmente a quanto avviene per Esterina di Falsetto (87), i ragazzi rappresentati da Penna trovano nell’acqua e nel mare l’elemento più naturale e consono alla loro vitalità (88). Il mare, così come l’acqua, assume infatti in Penna un valore catartico e liberatorio, rappresenta la possibilità di fuga e di immersione nella vita, e non a caso il poeta si rappresenta sempre ai margini di esso. In primo piano si collocano sempre i fanciulli, con la loro lucente fisicità:

Ecco il fanciullo acquatico e felice.
Ecco il fanciullo gravido di luce
più limpido del verso che lo dice.
Dolce stagione di silenzio e sole
e questa festa di parole in me.
(p. 162)

Nel racconto Sulle rive di una marrana (89), si compie la medesima teofania del fanciullo acquatico:

Quando l’acqua stava per renderlo alla luce così intero e nudo la donna stornò gli occhi dalla visione […] (90)

Simile ad una divinità il fanciullo, in questo caso un monello che nuota nelle acque di un fiume appena fuori Roma assieme ai suoi amici provocando i rimproveri della madre, pare condividere la sostanza stessa della luce. Proprio come nel mito, l’apparizione del dio può risultare addirittura mortale (91), tanto che la donna è costretta a stornare lo sguardo dalla visione. Naturalmente in Penna è del tutto perduta la dimensione tragica e liturgica della religiosità pagana, anche se il lessico adoperato ne conserva una sottilissima e labile traccia. Il fanciullo di Penna conserva sempre in sé, accanto a caratteristiche mitiche, componenti naturali e ferine, che il poeta e narratore non manca mai di sottolineare (92):

[…] la mancanza dell’abito consueto me li rendeva, come accade per gli animali, quasi senza un’età. (93)

I nudi corpi e il fiume ritornano in particolare in una lirica:

Il sole di settembre indora i canti
degli operai. È già lontano il tempo
quando vinti al gran sole i nudi corpi
turbavano il mio cuore. Adesso brilla
deserto il fiume. Ritornato è l’uomo
in piedi. Io rido a più sereno amore.
( p. 232)

In primo piano è il sole di settembre, un sole quasi crepuscolare, che spegne l’estate. Il gran sole appartiene ad un tempo ormai lontano, il fiume brilla vanamente come in un deserto. Le stagioni nel loro lento ritmo trascinano via le passioni, lasciando spazio ad un sentimento meno turbolento e incontenibile, più sereno. Fra i versi si intravede a tratti la trama di un altro racconto, Giulietto (94), in cui il poeta ipotizza proprio l’esistenza di un amore ben diverso da quello sensuale:

Seguitava infatti a sentire di non desiderarlo. Ma cos’era allora quella voglia di piangere, di riaverlo, di riaverlo subito domani. Ma senza alcun furore, alcuna amarezza; si sentiva sereno e migliore del solito. […] (95)

Ritornando a Sulle rive di una marrana, il racconto prosegue sulla scorta di elementi che nutrono tanta parte della produzione poetica. Penna, ad esempio, si sofferma a considerare che il fanciullo protagonista della vicenda camminava davanti a noi (96), in un atteggiamento tipico dei tanti ragazzi che popolano l’universo penniano, quasi a sottolineare una volta ancora la distanza che intercorre fra il poeta e l’oggetto del suo desiderio:

Ma il fanciullo che avanti a te cammina
se non lo chiami non sarà più quello…
(p.32)

Le ultime battute sono giocate ancora una volta sulla contaminazione ossimorica fra luce e buio:

[…] due ombre contro il cielo chiarissimo del crepuscolo. […] (97)

Le ombre che si stagliano contro il cielo non presentano ovviamente alcuna difficoltà interpretativa, ma lascia qualche perplessità quel cielo chiarissimo del crepuscolo. L’elemento umbratile del tramonto, infatti, mal si presta ad essere accostato ad un cielo chiarissimo. La perplessità si riduce immediatamente, però, se viene riconsiderata all’interno del complesso rapporto che intercorre fra la luce e il buio nella concezione penniana, e che nelle pagine precedenti si è tentato di delineare.

Nel racconto Passeggiata notturna (98) è dato rilevare alcune tracce del medesimo rapporto, che lega indissolubilmente le prose e le poesie in una netta continuità di intenti e realizzazioni. Nella passeggiata fra le strade di Roma, il poeta non manca di sottolineare i vari elementi sui quali si posa il suo sguardo. Il meccanismo che si innesca fra i campi semantici e concettuali della luce e del buio si ripropone puntualmente, si direbbe in modo quasi inconscio:

Faccio in tempo a vedere l’alta buia scaletta e un leggero gatto bianco […]. Questa facciata, che è la principale, è meno tetra perché illuminata e moderna e, in ogni modo, subito dietro di essa si snoda in salita una buia strada […] (99)

La buia scaletta e la buia strada fanno da contraltare rispettivamente al gatto bianco e alla facciata illuminata. In un caso come questo non si possono certamente avanzare azzardate ipotesi interpretative, perché la concentrazione concettuale del brano non è tale da permettere di caricare gli elementi presi in esame di sensi ulteriori. Semplicemente Penna dovette avvertire in modo talmente profondo la problematica connessa al rapporto luce – buio, da improntarne l’intera sua produzione anche in maniera talvolta automatica. Il contrasto fra i due piani semantici diventa così una sorta di marchio, una caratteristica peculiare e costante in tutta l’opera penniana (100).

Il racconto in questione, comunque, offre un forte motivo di interesse perché con tutta probabilità rappresenta la fonte da cui deriva quasi letteralmente una poesia:

[…] Se rientro là, con la memoria, rivedo ancora lo sguardo di un ragazzo. Io mi vestivo per ‹‹andarmene››. Ma lasciavo gli altri, più o meno, malati. Nella fretta impacciata, vestendomi fra uomini, non ebbi forse il pudore di una fanciulla. So solo che ‹‹il ragazzo›› rialzò, dal basso verso i miei occhi, uno sguardo che mi sembrò tutt’insieme turbato d’invidia e di speranza. Certo l’adolescente doveva avere in sé, se non la guarigione, di essa almeno la speranza viva. (101)

Il brano registra il ricordo di un soggiorno presso un ospedale romano di fronte al quale il poeta si è ritrovato nel corso della sua passeggiata notturna.

Lasciavo l’ospedale. Rivestivo
con indolenza il mio giovane corpo.
Con indolenza ne restava fuori
- già nella stanza mi toccava il sole -
come in un guizzo una semplice cosa.
Restavano i malati. Tra questi un ragazzo.

E risaliva ai miei occhi uno sguardo
dolcemente colpevole, turbato
di una speranza viva…
(p. 69)

Il rapporto di dipendenza fra la prosa e i versi è qui evidentissimo. Basti sottolineare lo sguardo del ragazzo che si alza verso gli occhi del poeta, la presenza dei malati, il gesto del rivestirsi, dell’andarsene via, ma, soprattutto, il riferimento alla speranza viva. La costruzione adoperata nei versi, con l’uso del participio turbato in relazione allo sguardo, risente fortemente dell’impianto prosastico in cui, nel penultimo periodo, viene descritto uno sguardo […] tutt’insieme turbato d’invidia e di speranza. Gli ultimi due versi della poesia, in effetti, sembrano risultare proprio dalla fusione fra il frammento di brano appena citato e l’enunciato successivo che si conclude con l’accenno alla speranza viva. Nel volume garzantiano, la lirica è collocata nel gruppo di versi inediti composti presumibilmente fra il 1927 e il 1938 in appendice alle Poesie del ‘39. Se dovessimo prestare ascolto a Sandro Penna, che colloca le sue prose in un periodo compreso fra il 1939 e il 1941, il racconto sarebbe successivo alla composizione della poesia. L’impressione generale è però quella di un rapporto di derivazione inverso. I versi presentano infatti i segni di un forte lavoro di rielaborazione e di riduzione . A partire da essi sarebbe difficile immaginare di poter ricavare l’amplificazione dettagliata e certamente meno sorvegliata che si ritrova nella prosa, senza contare il fatto che quest’ultima svela particolari determinanti per la comprensione della lirica, in cui non viene affatto rivelata, ad esempio, la ragione della speranza viva che si accende nello sguardo del ragazzo. Soltanto nel brano, infatti, si specifica che la speranza del giovane era legata alla guarigione. Questo particolare lascia presupporre che la prosa sia il frutto di una rielaborazione del ricordo precedente alla composizione della poesia, nella quale è stato utilizzato un criterio chiaramente selettivo proprio rispetto al racconto. La precisione dei richiami, inoltre, lascia presupporre una certa vicinanza temporale per le due realizzazioni. A questo proposito, un riferimento cronologico più preciso è reperibile attraverso la lettura della raccolta postuma Cose comuni e straordinarie, in cui il poeta con tutta probabilità fa accenno proprio al medesimo episodio appena esaminato:

(c’è ancora nel cuore un ragazzo ventenne che lasciammo – ci parlammo per cinque minuti soltanto – un ragazzo che lasciammo malato all’ospedale militare). (103)

Nella note di chiusura all’opera, Elio Pecora informa il lettore sul fatto che il raccontino da cui è tratto il brano citato, dal titolo Primavera, presenta nell’autografo la data del 19 settembre 1928. All’epoca Penna si trovava ancora a Perugia, ma le sue visite a Roma fino a quel momento erano state piuttosto frequenti, e dunque non è improbabile una sua degenza in un ospedale capitolino. Significativo è certamente il fatto che il poeta per due volte abbia riportato nei suoi brani in prosa un episodio legato ad un ricovero, avvenuto presumibilmente prima della fine del 1928. Ipotizzando che si tratti della medesima circostanza registrata in Un po’ di febbre e nei versi, ne consegue che entrambi i componimenti abbiano visto la luce successivamente al 1928, e che, con ogni probabilità, il racconto sia precedente al 1939. È in effetti piuttosto plausibile che in questo caso, come già sottolineato, dal respiro ampio e memoriale del testo prosastico Penna abbia poi ritagliato i versi della poesia, limandoli e impreziosendoli. In questo senso la prosa rappresenterebbe davvero una grande fucina in cui, grazie ad un magistrale lavoro di intaglio e di cesello, il poeta avrebbe realizzato le sue liriche. Naturalmente si può ipotizzare un simile procedimento soltanto nel caso di derivazioni così vistose. Per tutti gli altri richiami di carattere tematico o formale fin qui esaminati, è più prudente e sensato pensare ad uno scambio reciproco che non sia unilaterale e meccanico.

L’ambiguità esistente nel rapporto luce – buio e il sistema di prestiti fra prosa e poesia si ripropongono anche nel brano Due Venezie (104). Il racconto presenta in apertura la descrizione di una prima visita a Venezia, avvenuta d’estate:

La mia prima Venezia, una Venezia di un’ora, è una Venezia piovosa, non autunnale, estiva. […] Estate, ho detto, e per di più la pioggia teneva forse a casa i veneziani […] (105)

Del tutto simmetricamente, poche righe sotto il narratore parla di una sua seconda visita:

La mia seconda Venezia, una Venezia di un giorno, è una Venezia luminosa, non estiva, quasi ancora invernale. […] tutto era luce, anche le loro voci. (106)

Contrariamente ad ogni senso comune, la Venezia piovosa è estiva, quella luminosa è invernale. Ancora una volta luce e buio, estate e inverno si mescolano confondendo il lettore, mentre l’autore sembra compiacersi di intessere ambigue simmetrie. La mano del poeta nel corso della scrittura scioglie però in questo caso l’enigma, con l’effetto di intensificare la portata del suo significato:

Ma qualcosa che non so mi spinge, sempre, verso i luoghi della vita, della più fitta vita, proprio quando si ritrovano deserti. Amo le grandi città, e quando ci sono dentro finisco col dormire di giorno e girare di notte. (107)

La più profonda antinomia penniana, registrata in questo come in altri casi attraverso una forte vena lirica che informa il discorso in prosa enfatizzandone i termini (i luoghi della vita, della più fitta vita), risiede proprio nell’irresolubile disagio provato da un poeta che rincorre la vita nel deserto, rovescia il giorno nella notte e, pur amando la luce e l’estate, preferisce andare in giro nel buio dell’inverno. I due piani si mescolano, si confondono, si separano e tornano ad unirsi, quasi che Penna volesse a tutti i costi riversare la propria condizione umbratile di disadatto alla vita nella pienezza luminosa e vitale dell’esistenza. Da questo tentativo il poeta esce continuamente sconfitto, mai però disperato. La sua consolazione risiede ancora una volta nella felicità dell’osservatore innamorato, distante ma allo stesso tempo sentimentalmente partecipe:

Ma quando fui sulla grande sabbia, di fronte al grande solito mare, ogni malinconia sparì […] Fu la felice malinconia dell’amore. Il mare, il solito mare, con le più solite onde e intorno a me nessuno. Forse una vecchia laggiù. Forse due ragazzi in corsa verso una palla cadente. […] (108)

Nella seconda parte del frammento di brano appena citato, si nota ancora una volta uno spiccato andamento lirico. Sarebbe addirittura possibile scomporre le frasi e realizzare una struttura poetica formata da sei versi, quattro composti da otto sillabe e due da sette:

Il mare, il solito mare
con le più solite onde
e intorno a me nessuno.
Forse una vecchia laggiù.
Forse due ragazzi in corsa
verso una palla cadente.

L’impressione di trovarsi di fronte ad un brano fortemente ritmato in senso metrico e lirico si rafforza di fronte all’anafora del forse, che ricorre ripetutamente nella tradizione poetica ad inizio di verso. Notevole è anche l’amplificazione a cui viene sottoposta la parola mare nell’ipotetico primo verso e la ripetizione dell’aggettivo “solito” per caratterizzare appunto il mare e le onde del “verso” successivo. La vena lirica di Penna affiora dunque prepotentemente anche nella prosa, e non solo per quanto riguarda la sensibilità profusa e le tematiche trattate. Il respiro poetico, nella lunghezza del metro e nella scansione del ritmo, si insinua fra le righe dei racconti a confermare la continuità di un’ispirazione che non si spezza nel passaggio reciproco fra prosa e versi.

Il sistema di richiami e di rimandi, la trasposizione in versi di interi brani in prosa e, non da ultimo, le citazioni da altri poeti all’interno dei racconti, sono segnali che mostrano inequivocabilmente come Penna abbia lavorato per tutta la vita alla ricerca di un’espressione perseguita attraverso tutte le varie forme della scrittura. La continuità tematica trova dunque un riscontro piuttosto vistoso anche sul piano formale, sia per il ricorrere di termini e di stilemi, sia perché in alcuni brani è possibile individuare un ritmo melodico molto vicino alla poesia. Non bisogna poi trascurare il fatto che il più delle volte i versi di Penna presentano un forte andamento prosastico.

Un confronto reciproco fra prosa e versi, inoltre, consente di avanzare ipotesi certamente più fondate riguardo ad alcune problematiche affrontate dal poeta umbro. Finora ci si è soffermati sulla questione temporale, partendo dal tempo della storia per arrivare a quello della cronaca, alla ricerca della complessa e sfumata dimensione cronologica in cui è immerso l’universo penniano. Tale tematica, legata inscindibilmente a quella delle stagioni, ha offerto lo spunto per soffermarsi a considerare uno degli aspetti più vistosi della poetica di Penna, quello cioè legato alla enigmatica compresenza dell’ombra e della luce. Naturalmente sarebbe un’ingenuità pensare di poter indagare in maniera del tutto esauriente una tematica che rappresenta per così dire il nocciolo duro e quasi noumenico della produzione penniana.

L’opera di qualsiasi poeta, infatti, conserva sempre in sé una traccia di mistero insolubile che ne costituisce il fascino e la grandezza. Cercare di fare maggior luce possibile su questo mistero, però, è un’operazione irrinunciabile.

Una volta abbozzato lo scenario temporale nelle varie sfaccettature che esso dovette assumere nella concezione di Penna, è possibile ora procedere all’analisi delle figure umane e dei paesaggi che, assieme ai fanciulli, animano il mondo disegnato dal poeta.


Theorèin - Settembre 2007