IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 4 (II parte)

Rapporto fra prosa e poesia
in relazione alle tematiche dell'amore e della poesia

 

L’eco di antichi riti pagani sembra ispirare i versi in cui la terra, il sesso e il sangue sono i segnali di una fortissima componente ferina e orgiastica. Naturalmente si tratta di un caso limite. Quasi mai la poesia di Penna si accende di tonalità così cupe, eppure l’esempio mostra chiaramente come il sostrato animalesco e arcaico abbia un suo peso specifico nella poetica dell’autore perugino.

Lungi dal rappresentare semplicemente una predisposizione dell’amante, la crudeltà caratterizza soprattutto i fanciulli, naturalmente e ingenuamente inclini a comportamenti malvagi. Penna sottolinea spesso questo genere di atteggiamento, contrapponendolo talvolta all’inettitudine degli adulti:

Strisciavano con forza la rozza scarpa contro la terra dura, si divertivano anche a schiacciare delle lumache, annullandone il corpo in una striscia molle e scintillante. […] Io sono confuso e non saprei se baciare o punire tanto candore. […] Gli adulti spesso sono sciocchi, solo i fanciulli crudeli.

Pensai che il bimbo cattivo fosse bello.

La bellezza, il candore e la crudeltà non possono essere separati, costituiscono il fascino dei fanciulli, il motivo per cui essi possono essere amati. L’amore stesso dunque è crudele, ed è un sentimento difficile da gestire per chi, come Sandro Penna, si sente in fondo così isolato dalla realtà. L’impressione generale e ripetutamente confermata, infatti, è quella di un poeta che cerca l’amore e continuamente lo fugge per incapacità e per paura, forse per destino:

A me solo è negata la vera felicità. […] Per me la legge consente il vizio, non il puro amore.

La citazione è tratta dal brano Paura , dove Penna esemplifica precisamente il timore in lui suscitato dall’amore e dalla bellezza, che potrebbero irretirlo fino a renderlo schiavo. L’idea dell’amore come prigione e quella della schiavitù d’amore da cui bisogna a tutti i costi fuggire costituiscono una tematica costante nel poeta perugino:

[…] Dovette fingere di non volerlo più, perché sentiva di essere infelice tanto fortemente lo amava, ormai.

Come l’amante fugge l’altro amante
solo perché non pesi troppo amore,
così sogni un paese dove un vento
gelido abbia distrutto ogni fanciullo.

Poeta continuamente attratto dall’amore, Penna non sa sopportarlo, teme la sua prigionia, vagheggia la gioia di un sentimento puro ma cede più facilmente al vizio. L’affetto per i fanciulli si trasforma dunque in crudeltà, la stessa crudeltà infantile dei ragazzi che annientano le lumache e picchiano le ragazzine , la medesima crudeltà originaria che prelude all’amore.

In una simile visione l’amore si confonde spesso con la malattia, mentre quest’ultima in più di un caso si costituisce come tramite per la poesia. D’altra parte il racconto Un po’ di febbre , che dà il titolo all’intera raccolta di prose, si conclude con una riflessione paradigmatica:

Ma ripassando il giorno dopo davanti al negozio del parrucchiere, e rivedendo quel ragazzetto come tutti gli altri, sporco ed elementare, capì che la febbre può, dopo tutto, esser utile a far della poesia.

Stando alla dichiarazione finale, dove non arriva la bellezza naturale giunge in soccorso la malattia che, distorcendo la percezione della realtà, riesce a renderla piacevole e “poetica” più di quanto essa lo sia effettivamente.

Il già citato brano Tutte storie contiene diversi fattori molto utili al fine di avanzare alcune ipotesi interpretative riguardanti il pensiero penniano. In esso, infatti, il poeta inizialmente solleva interessanti riflessioni riguardanti l’amore e la religione:

[…] Nei giorni precedenti quella sensazione di aver rifiutato in me, ormai, l’amore dei ragazzi. Quell’intenso amore per tutti i ragazzi senza sensualità provato al cinema Palazzo […] Adesso Tagore mi aiuta a credere alla nascita di una religione (?). Ma quale? Non so.

Il rifiuto dell’amore sensuale coincide con il tentativo di accostarsi ad una religione. Subito dopo Penna afferma che la sua poesia è quasi religiosa, e che parte sempre dalla contemplazione di un’‹‹umana figura››. Il sentimento carnale, dunque, viene abbandonato nel momento in cui Penna riconosce la natura mistica e ascetica della sua poesia. La sensualità e la religiosità dunque si autoescludono, a conferma della distinzione fin qui ipotizzata fra amore per i ragazzi e poesia. Nel brano in esame, inoltre, Penna dichiara esplicitamente l’esistenza di un’altra forma di amore , quello nutrito per la città vista come unico grande organismo di cui i fanciulli non sono che cellule. A questo proposito, nel racconto dal titolo Giulietto , il protagonista Mario avverte chiaramente che in lui sta nascendo un amore ben diverso da quello sensuale.

Nella prosa Tutte storie Penna conclude quelli che lui definisce cattivi appunti con alcune frasi profondamente emblematiche:

Angoscia d’amore.
Ma tutto DIFFICILE a dire. Mi vergogno.
Nasce qualcosa che non conosco.

Una volta constatati la natura mutevole dell’amore e il carattere quasi religioso della sua poesia, Penna denuncia l’estrema difficoltà della scrittura. L’uso di un carattere diverso per l’aggettivo “difficile” è già piuttosto eloquente nel sottolineare un concreto disagio avvertito nei confronti del linguaggio. La difficoltà di espressione genera vergogna, ma l’aspetto più interessante è costituito dall’affermazione finale in cui Penna dichiara che sta nascendo qualcosa di sconosciuto. Probabilmente la difficoltà di dire è causata proprio dal fatto che l’autore sente di misurarsi con una dimensione a lui ignota. La poesia nasce dunque da un mistero di fondo, che la rende quasi religiosa e al tempo stesso inadeguata a rappresentare la sensualità viva. Non bisogna dimenticare infatti che, stando alle parole di Penna, la poesia nasce dalla contemplazione, il che implica un atteggiamento distaccato e distante dall’oggetto. Il non conoscere si avvicina concettualmente al non sapere. Nella poesia e nella prosa di Sandro Penna, il non sapere è un fattore che ricorre costantemente :

Mi avevano lasciato solo
nella campagna, sotto
la pioggia fina, solo.
Mi guardavano muti
meravigliati
i nudi pioppi: soffrivano
della mia pena: pena
di non saper chiaramente…

E la terra bagnata
e i neri altissimi monti
tacevano vinti. Sembrava
che un dio cattivo
avesse con un sol gesto
tutto pietrificato.

E la pioggia lavava quelle pietre. (p.4)

I versi citati sono percorsi da alcune espressioni tematiche che marcano soprattutto una forte impressione di solitudine e di silenzio. Il senso di abbandono avvertito dal poeta è accentuato dalla ripetizione dell’aggettivo solo alla fine del primo e del terzo verso. I pioppi muti partecipano con meraviglia e addirittura soffrono della stessa pena del poeta, che è quella di non saper chiaramente. Lo scenario delineato si caratterizza dunque per una palpabile atmosfera di cupo abbattimento che interessa allo stesso modo l'uomo e la natura. Su ogni elemento del paesaggio grava il silenzio. Anche i monti tacciono rafforzando così l’impressione che tutto sia stato trasformato in pietra da un dio cattivo. La pena di non sapere e l’atto di tacere sono qui evidentemente connessi, e si riflettono tanto nel silenzio della natura quanto nell’insensibile durezza della pietra. La coesistenza di tali elementi non implica necessariamente un riferimento alla poesia, ma di certo esprime il profondo smarrimento e la difficoltà comunicativa di chi non sa.

In altri casi, la relazione del non sapere al fare poetico è decisamente più esplicita:

[…] l’anima non sa se le parole
che inventa sono valide o non buone.

Il limite della poesia è costituito da ciò che non si sa, e in ultima analisi da ciò di cui non si ha esperienza. Le parole, infatti, possono essere valide o non buone soltanto in rapporto alla vita, ma l’esperienza che manca al poeta è proprio quella di una vita consumata attivamente, pienamente, come quella dei fanciulli. L’esperienza contemplativa che Penna ha del mondo gli concede la poesia, ma non è sufficiente a cogliere i colori di un’esistenza condotta concretamente:

Amico, sei lontano. E la tua vita
ha intorno a sé colori ch’io non vedo.
Ha la mia vita intorno a sé colori
che io non vedo. (p. 250)

In questo caso il non vedere è chiaramente affine al non sapere nel senso di non conoscere, perché la visione che qui manca è quella attiva che permette di godere appieno dei colori della vita. Soltanto la dimensione religioso - contemplativa può dunque generare la poesia. A conferma di ciò, ancora una volta nei suoi versi il poeta dichiara lo scarso potere delle parole:

Era un mattino di un dolce gennaio
pieno di sole. E la mia vita apparve
nel silenzio ricolma di parole.
Così non fu, perché le mie parole
furono scarse, e forse senza sole.
Ma resta nel mattino di gennaio
forse già un vecchio, ma pieno di amore. (p. 349)

L’illusione di una vita ricolma di parole è destinata a spegnersi presto. Anche nel caso esaminato appare piuttosto netta la contrapposizione fra la parola poetica e il sentimento amoroso: le parole non possono competere con la pienezza del sole e della vita, ma il poeta anche da vecchio può trovare consolazione al di fuori della scrittura rifugiandosi nell’amore. Se in questo caso si tratti di un amore sensuale o di altra natura non è dato sapere. Nei versi citati l’amore sta ad indicare genericamente una condizione di pienezza vitale forse inaccessibile alla poesia.

Le ipotesi interpretative fin qui avanzate poggiano sulle dichiarazioni di poetica che l’autore stesso ha inserito nelle sue opere in prosa e in poesia, e che ricorrono piuttosto assiduamente. Naturalmente, la diffidenza da parte di Penna nei confronti delle effettive potenzialità della poesia di rappresentare la vita non deve essere assunta come elemento condizionante. Il poeta, infatti, pur ironizzando e a volte denunciando i limiti della scrittura non si chiude nel silenzio, dunque non assume le sue riflessioni come veri e propri elementi utili a costruire un’articolata e operativa concezione teorica. D’altra parte, nelle sue dichiarazioni esplicite e indipendenti dalle opere, Penna ha sempre sostenuto una concezione della poesia apparentemente piuttosto diversa da quanto si è argomentato finora:

Voglio una poesia gocciolante di viva passione, grezza di tutte le scorie che ne attestano la presenza. Non amo la poesia che sopra la passione si alza serenamente e domina.

L’ideale poetico di Penna è legato ad una poesia totalmente fusa con la vita, in cui le passioni non devono essere rivissute con serenità ma assecondate nella pienezza della loro vitalità. Naturalmente una simile linea di principio non è praticabile, e le riserve mostrate dallo stesso Penna in sede poetica lo dimostrano chiaramente. In fin dei conti, inoltre, le parole citate esprimono una pura volontà teorica. La poesia gravida di passione si scontra infatti con il limite della parola, che inevitabilmente non può essere altro che riflessiva. Si è già accennato al fatto che, nel parlare della poesia La vita…è ricordarsi di un risveglio (p. 3) Penna abbia attribuito i versi ad un’ispirazione improvvisa e quasi indipendente dalla sua volontà. Sull’effettiva modalità di composizione che Penna adottò non è dato indagare, e forse non è neppure corretto. È possibile invece ripercorrere l’opera per cercare di stabilire quale rapporto il poeta abbia effettivamente avuto con la parola. La scrittura non è mondo, può soltanto tentarne la rappresentazione, ed è chiaro che nella coscienza di Penna possa essersi delineata l’eventualità di una frattura fra il verso e il suo oggetto, fra vita e poesia. Questa possibilità, però, non implica la fine della poesia, solo una sua riconsiderazione. Il passaggio dall’ideale di una poesia gocciolante di viva passione alla concezione di una scrittura quasi religiosa può essere forse considerato in questo senso una tappa del tentativo di rielaborazione avanzato da Penna. Un’ipotesi del genere può essere formulata in virtù del raffronto fra le riflessioni sollevate nei racconti e le dichiarazioni metapoetiche inserite nelle composizioni liriche.

Nel rapporto fra prosa e versi così come è stato fin qui investigato, si è notata costantemente una continuità tematica e formale confermata anche dalle parole usate dal poeta nell’Avvertenza che chiude le prose di Un po’ di febbre. Per giustificare la sua raccolta, infatti, Penna afferma chiaramente che essa attesta un rapporto febbrile con la realtà e con il lavoro di poeta . Agli occhi dell’Autore, dunque, prosa e versi sono due momenti fondamentali di un’unica ricerca volta a chiarire il rapporto fra poeta, mondo e scrittura. Non a caso in un buon numero di brani sono stati rilevati elementi utili a chiarire passaggi teorici fondamentali per la comprensione dei testi lirici. Al di là delle consonanze formali e della trasposizione in poesia di interi brani in prosa - che pure sono fattori essenziali e illuminanti - ciò che maggiormente orienta la lettura delle opere in versi è infatti la frequentazione delle prose. La chiarezza quasi elementare di alcuni passaggi, fa senza dubbio dei racconti una miniera preziosissima da cui attingere per superare le difficoltà poste da alcune liriche che, come è naturale, conservano una certa opacità indispensabile alla poesia. D’altra parte si è anche rilevato che, come accade nel caso di tanti autori novecenteschi, Penna utilizza a volte la poesia come strumento per parlare della poesia stessa, per interrogarla, per saggiarne i limiti. In questa prospettiva la prosa, lungi dall’essere concepita come genere autonomo, pare costituire un vero e proprio serbatoio teorico, un sostegno grazie al quale sperimentare le possibilità della parola e trarne conseguenze utili all’elaborazione della poesia. Può anche darsi il caso inverso in cui siano i versi a gettar luce su alcuni aspetti delle prose, grazie alla perizia del poeta che quasi distrattamente dissemina preziosi dettagli.

L’impressione generale che ne deriva è quella di un dialogo profondo e incessante in cui le due parti si rivelano reciprocamente secondo un disegno forse esile ma certamente ben preciso, frutto di una composizione lucida, di certo non ingenuamente istintiva. L’intero orizzonte poetico penniano, infatti, può essere ricostruito grazie allo scambio capillare intercorrente fra i due generi letterari: la concezione del tempo, il paesaggio, la figura umana, l’amore, la morte, sono aspetti che si comprendono appieno soltanto leggendo nella profondità del tessuto connettivo sotteso all’opera del poeta perugino concepita nella sua interezza. Quella che può apparire una produzione frammentaria, volutamente confusa nell’impossibilità di fissare qualsiasi riferimento cronologico, risulta essere invece una costruzione meticolosamente architettata, magari priva di una fredda volontà puramente teorica ma viva, questa sì, e gocciolante di uno sforzo febbrile teso al raggiungimento di una sofferta unità fra poesia e realtà. Tale unità, forse solo pensabile e comunque perseguita con costanza, passa proprio attraverso la contiguità fra prosa e versi, confermata da puntuali rimandi anche architettonici, primo fra tutti l’uso del verso Ricordati di me dio dell’amore come conclusione sia della raccolta di prose sia di Stranezze, ultimo volume pubblicato da Penna ancora in vita. Un simile elemento non può lasciar dubbi sull’intima coerenza e progettualità insita nell’operare penniano. Non a caso le prose, pubblicate soltanto nel 1973, sono il frutto di una sistemazione ragionata, attuata allo scopo di ottenere una progressiva chiarificazione per il lettore. All’altezza del 1973 Penna aveva ormai dato alle stampe buona parte del materiale poetico che aveva in mente di pubblicare e Stranezze, che vide la luce tre anni dopo, è concepito in evidente armonia con la struttura editoriale conferita ai racconti. Se Un po’ di febbre può dunque apparire come una riflessione attuata a posteriori sulla poesia, l’analisi fin qui condotta permette di postulare ben altre conclusioni. Le prose e i foglietti sparsi raccolti nel ’73, per dichiarazione stessa dell’autore risalgono al periodo che va dal ‘39 al ’41. Se tale dato è reale, soltanto le poesie del ’39 risulterebbero autonome rispetto alla produzione prosastica. Si è già accennato, però, alla scarsa attendibilità di Penna riguardo alla datazione delle sue opere.

In ultima analisi, l’impressione che deriva dal confronto fra in due generi di scrittura, come più volte rilevato, è quella di uno scambio che dalla prosa giunge al verso. Questa ipotesi è suffragata sia dal lavoro di riduzione e di cesello che caratterizza le liriche rispetto all’ampiezza dei brani, sia dalla natura dei brani stessi. Questi ultimi, infatti, non sembrano essere concepiti come composizioni autonome, ma come luogo di riflessione e di sperimentazione da relazionare alla poesia. In questa prospettiva è difficile immaginare che Penna abbia elaborato i suoi racconti a partire dai versi. Naturalmente una dinamica di questo genere non ha nulla di meccanico. Si è già notato infatti come anche le poesie possano far luce sui racconti, e porre rispetto ad essi diverse possibilità interpretative, ma si tratta di circostanze piuttosto rare. Il più delle volte, invece, i brani in prosa contengono posizioni teoriche illuminanti per la ricostruzione della poetica penniana, anche al di là delle evidenti relazioni tematiche e formali. In questo lavoro di riflessione, alle prose possono essere affiancate le pagine dei diari, che in alcuni casi riportano impressioni ed episodi poi confluiti nei versi. Penna, però, non diede alle stampe i suoi diari. Soltanto alle sue prose egli volle conferire dignità letteraria, pur limitando la loro autonomia al formato editoriale. I racconti contenuti in Un po’ di febbre, infatti, non sono pensabili indipendentemente dalle poesie. Le tematiche, l’andamento melodico della scrittura, il repertorio delle immagini, ma soprattutto lo spessore teorico di alcune notazioni, ne fanno una vera e propria fucina in cui la parola vaglia e sperimenta sé stessa in attesa di fluire nella poesia. L’esigenza stessa dell’autore di sistemare il materiale prosastico edito e inedito in un unico volume e di dotarlo di un’Avvertenza che lo rendesse libro invece che semplice raccolta, testimonia la volontà di Penna di privare i suoi foglietti sparsi della relativa autonomia che li aveva caratterizzati nelle isolate pubblicazioni su giornali per restituirli alla funzione originaria di veri e propri laboratori tematici e linguistici.

In essi la scrittura, piegata a saggiare le molteplici sfumature del mondo, ha affinato con pazienza la sua voce per poi riversarsi nel limpidissimo cristallo del verso.


Theorèin - Gennaio 2008