Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Istanbul
Autore: Orhan Pamuk
Edizioni: Einaudi 2006

È il libro più bello che abbia letto negli ultimi anni. L’autobiografia di Pamuk e di Istanbul, Istanbul appunto.

Un libro in cui la tristezza o tristesse o hüzün, scioglierete il nodo dopo aver letto il libro, è bellezza ed è il tratto distintivo che caratterizza e pervade tutto il viaggio che il libro ci propone.

“…Istanbul non somiglia affatto alle città tropicali dal punto di vista climatico, geografico o della povertà sociale, ma per la fragilità delle sue esistenze, per la sua lontananza dai centri occidentali, per il «mistero» delle sue relazioni mane, che un occidentale farebbe fatica a comprendere, e per il senso di tristezza, che ricorda ciò che Lévi-Strauss chiama tristesse…

Una struttura narrativa corredata, quasi in ogni pagina, da una foto. Una scelta anomala per un’opera narrativa anche perché le foto assumono lo stesso valore delle parole e ne assecondano il ritmo. Un connubio perfetto. Pamuk ci fa entrare nel suo mondo e mentre entriamo nel suo mondo entriamo nella città di Istanbul. È un viaggio affascinante, colto, essenziale, quello proposto. Attraverso la vita quotidiana del piccolo Orhan cominciamo a prendere confidenza con la città, con i suoi ritmi, i suoi colori, con la sua gente. E quando abbiamo imparato a muoverci da soli nella città inseguendo i suoi umori e i suoi odori comincia un viaggio nel viaggio: poesia, letteratura, arte. Incontriamo infatti lungo la nostra strada Yahya Kemal, Resat Ekrem Koçu, Ahmet Hamdi Tampinar, Abdülhak Sinasi Hisar, Gustave Flaubert, Gérard de Nerval, Théophile Gautier, uomini di cultura che l’hanno attraversata, vissuta, desiderata, raccontata, dipinta, amata.

“…La Istanbul della mia infanzia e gioventù era un posto dove la struttura cosmopolita della città scompariva velocemente. Gautier osserva, come molti altri viaggiatori, che nel 1852, cent’anni prima della mia nascita, nelle strade di Istanbul si parlava contemporaneamente il turco, il greco, l’armeno, l’italiano, il francese e l’inglese (e doveva aggiungere il ladino, prima del francese e dell’inglese), e molte persone in questa «Torre di Babele» ne parlavano contemporaneamente più d’una – lui allora si vergognava un po’ per il fatto di sapere soltanto il francese, come la maggior parte dei francesi…”

Un rapporto forte, fortissimo, quello tra Pamuk e Instanbul, che traspare in ogni pagina attraverso un flusso ininterrotto di parole che esprimono senso di appartenenza, piena identificazione, riconoscimento reciproco. Il giovane Orhan dipinge in maniera quasi ossessiva la città, il suo esterno e il suo interno, le navi che attraversano il Bosforo e i panorami che ne scaturiscono ma anche le scene di vita familiare, quelle rare serate in cui tutta la famiglia, la sua famiglia, è riunita. E lo fa appunto in maniera quasi ossessiva, nella ripetizione cerca il vero senso e significato delle cose e lo fa utilizzando, inizialmente, la pittura come mezzo espressivo. Più tardi scoprirà che è la scrittura il mezzo espressivo che più asseconda le sue qualità. “…cercando di raccontare me stesso racconto Istanbul e raccontando Istanbul racconto me stesso…” e in questa sua affermazione si coglie la volontà o la necessità di fare di questa sua opera un’autobiografia o un autoritratto. Un’autobiografia perché il racconto si snoda attraverso i primi anni della sua vita e racconta di se, di sua madre, di suo fratello, di suo padre, del suo primo amore e un autoritratto perché è un libro che racconta una storia anche per immagini. Le foto, non belle in sé ma belle nella loro sequenza. Raramente ho guardato foto come ho guardato quelle di questo libro. In questo senso quindi letteratura ed arte, scrittura ed immagine, si fondono in un’unica cifra stilistica come nel caso dell’immagine di copertina che per me rappresenta l’autoritratto di Istanbul ma anche di Orhan Pamuk.

Infine l’incontro con un pensiero che da sempre mi attraversa “…Ognuno di noi ha in mente un testo in parte segreto, in parte leggibile che dà un senso a ciò che fa nella vita, senso che possiamo chiamare sia coscienza sbagliata, sia fantasia, addirittura ideologia come si diceva un tempo...”

Oscar Buonamano


Theorèin- Luglio 2007