Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Le vespe di Panama
Autore: Zygmunt Bauman
Edizioni: Laternza 2007

Questo piccolo opuscolo di cui vi parlo oggi non è in vendita. È un omaggio che Laterza, l’editore che pubblica in Italia l’opera di Bauman, ha fatto al grande sociologo britannico di origini ebraico-polacche in occasione dell’ultima Fiera del Libro di Torino.

Quel giorno, era il 12 maggio di quest’anno, in una sala stracolma di gente il professor Bauman, accompagnato da sua moglie, ha conquistato il silenzio della platea con il suo inglese fluido e semplice e soprattutto con i suoi pensieri. Partendo con un omaggio a Italo Calvino ed in particolare alla descrizione della città di Leonia contenuta nelle Città Invisibili, che è uno dei miei libri preferiti, Bauman entra subito nel vivo del tema con un’affermazione netta: Una vita è felice oggi quando tutto è transitorio.

Cerchiamo di capire perché.

Le Vespe di Panama, una riflessione su centro e periferia è una dissertazione che Bauman fa a partire dall’esito di una ricerca di un gruppo di ricercatori della Zoological Society of London che hanno studiato la vita sociale di 422 vespe, di 33 colonie differenti, in un arco di oltre 6000 ore a Panama. Fino ad oggi nessuno aveva pensato che qualche ape o vespa operaia potesse varcare i confini della propria colonia, della propria comunità per unirsi ad un altro alveare. I ricercatori londinesi hanno invece scoperto che il 56% delle vespe operaie cambia alveare nel corso della propria vita, assumendo la qualità di membro effettivo della nuova comunità. La conclusione parziale di questo ragionamento ci porta a dire che gli alveari sono normalmente formati da popolazioni miste che vivono e lavorano insieme. E qui Bauman fa la prima osservazione che ci aiuta a capire il senso della sua affermazione di esordio. “La fluidità delle appartenenze e il costante mescolarsi delle popolazioni sono la norma anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo naturale, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di leggi frettolosamente introdotti, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedere asilo…”

Più avanti ci spiega che i nuovi arrivati nelle colonie non erano considerati realmente stranieri, estranei si ma stranieri no, forse parenti tra loro. Questo perché altrimenti i legittimi abitanti dell’alveare le avrebbero costrette ad andarsene o le avrebbero ammazzate. La prima riflessione sugli esseri umani comincia qui.

“Ci è voluto un secolo o più di duro lavoro, a volte ricorrendo alla forza militare e altre volte al lavaggio del cervello, per convincere i prussiani, i renani, i turingi o i sassoni (come per convincere oggi gli ex tedeschi dell’Est e gli ex tedeschi dell’Ovest) che sono tutti parenti stretti e discendenti dello stesso ceppo germanico, animati dallo stesso spirito germanico, e che per questi motivi dovrebbero comportarsi come si comportano i parenti stretti: essere ospitali gli uni con gli latri e collaborare a proteggere e incrementare il benessere comune…”

Fa ricorso alla Rivoluzione francese, che dovette includere la parola Fraternità per far capire che tutti dovevano vivere insieme e con spirito di fratellanza, per dire che“…in tutte le culture conosciute, normalmente ogni casella della mappa mentale dei rapporti di parentela è collegata a un elenco di diritti, doveri e regole di mutualità, anche se questi elenchi variano sensibilmente fra una cultura e l’altra…”

Su questo concetto si sviluppa l’analisi che più c’interessa, quella che ci parla della composizione umana delle nostre città che sono oggi il risultato del passaggio dalla fase del nation-building alla fase multiculturale.

“…Ci sono quasi un milione e mezzo di individui nati in Gran Bretagna che vivono in Australia, quasi un milione in Spagna, varie centinaia di migliaia in Nigeria e ce n’è una dozzina perfino in Corea del Nord. Lo stesso discorso vale per la Francia, la Germania, La Polonia, L’Irlanda, e sicuramente anche per l’Italia…In ogni paese, ormai, la popolazione è una somma di diaspore. In ogni città di una certa dimensione, gli abitanti sono ormai costituiti da un aggregato di differenze etniche, religiose e di stili di vita, dove la linea fra insider e outsider è tutt’altro che palese…Ormai siamo tutti come le vespe di Panama…Le oltre duecento unità sovrane presenti sulla mappa politica del pianeta ricordano sempre più i trentatré alveari presi in esame dalla spedizione di ricerca della Zoological Society of London”.

A questo punto non resta che andare a scoprire l’esito della ricerca condotta su questi trentatré alveari. Nessuno di questi alveari era in grado di mantenere chiusi i propri confini e quindi in grado di respingere eventuali nuovi arrivi. Questo dato ha fatto si che tutti si sono abituati all’interscambio di popolazione e che la gestione di questo interscambio continuo non ha procurato né conflitti né cattivo funzionamento del lavoro degli alveari. In realtà ogni soggetto nuovo che arriva porta con se la conoscenza accumulata in un altro luogo di lavoro e la mette a disposizione di tutti gli altri. In questo modo ogni alveare gestisce il continuo cambio della popolazione senza aver bisogno di nessun coordinamento. Da qui Barman deriva i tre punti fondamentali della ricerca per arrivare alla affermazione che più c’interessa di questo suo ragionamento.

“Primo: i ricercatori londinesi non sembrano aver trovato prove di guerre tra alveari. Secondo: il flusso di quadri fra un alveare e l’altro apparentemente costituiva una forma di compensazione di eccedenze o ammanchi di popolazione determinati da cause locali. Terzo: il coordinamento e la cooperazione indiretta tra gli insetti sociali di Panama sono avvenuti, a quanto sembra, senza bisogno di coercizione né di propaganda, senza alti comandamenti e quartier generali, senza, in definitiva, un centro”.

Questa considerazione desunta dalle osservazioni degli studiosi londinesi sembra quasi voler rafforzare la tesi degli studi di questi ultimi anni di Bauman che infatti arriva a teorizzare che “La centralità del centro è stata smantellata” con un ragionamento molto semplice. “E lo si voglia ammettere o no, gli esseri umani sparsi fra le oltre duecento unità sovrane note come Stati, ormai sono in grado, almeno per un certo periodo di tempo, di vivere senza un centro, anche se l’assenza di un centro globale chiaro, onnipotente, incontestato e dotato di autorità indiscutibile rappresenta, per i potenti e gli arroganti, una costante tentazione a cercare di riempire questo vuoto”.

Da questo momento in poi il suo viaggio mentale ci accompagna su un territorio che è più politico e che ci aiuta a comprendere, anticipandoli o comunque definendone i contorni, i temi dell’agenda mondiale del futuro prossimo.

“L’assenza di una divisione netta tra il centro e la periferia del pianeta…non equivale…a un graduale avanzamento dell’uguaglianza. Nell’odierna costellazione di condizioni…splende…dove un tempo splendeva la stella dell’uguaglianza, la stella della parità…Le lotte di classe sono state spinte fuori dalla scena, e il loro posto sul palco è stato occupato dalle lotte per il riconoscimento”.

E più avanti precisa meglio il concetto concentrando l’attenzione sulla nuova questione che definisce come lotta per il riconoscimento.

“Le lotte per il riconoscimento prendono ormai il posto un tempo occupato dalle rivoluzioni: la posta delle lotte in corso non è più la forma del mondo che verrà, ma la possibilità di avere un posto tollerabile e tollerato in quel mondo: non sono più in palio le regole del gioco, ma unicamente l’ammissione al tavolo da gioco…la versione aggiornata dell’equità adattata alle condizioni della modernità liquida: riconoscimento del diritto a prendere parte al gioco, del diritto di essere riammessi al gioco in caso di esclusione, e/o prevenire la possibilità che in futuro si possa venire esclusi”.

Oggi perciò messa alle spalle l’era della fratellanza sulla quale abbiamo costruito l’intero continente siamo nell’era della rete, dove ciò che conta è l’individuo. Le reti tagliano i ponti con il passato anche nella loro evoluzione, infatti nascono, crescono e cambiano nel corso della propria azione e sono vive grazie solo ad una successione di atti comunicativi. “Diversamente dai gruppi o da qualsiasi altro tipo di insieme sociale, le reti sono attribuite all’individuo, legate all’individuo e incentrate sull’individuo. L’individuo, il perno su cui poggia la rete, lo snodo della rete, è il suo unico elemento permanente e irremovibile…Con le reti il fatto di appartenere non è più precedente, ma successivo all’identità. L’appartenenza riferita ad una rete…tende a diventare un’estensione dell’identità mutevole. Nello stesso senso, le relazioni istituite e sorrette da connettività di rete si avvicinano all’ideale della relazione pura, senza una durata predeterminata e senza il fardello di una fedeltà eterna o di promesse di impegni a lungo termine”.

E dopo aver collocato ed attribuito funzioni alla Rete porta alle estreme conseguenze il concetto di questo nuovo Io: “Lo smembramento e la disabilitazione dei centri tradizionali…sembra correre in parallelo con la centralità emergente dell’io reso orfano. Nel vuoto lasciato da autorità in ritirata e sempre più evanescenti, ora è l’io che si sforza…riforgiando il mondo come propria periferia…il compito di tenere insieme la società…ricade sotto l’egida della politica della vita quotidiana”.

E così dalla osservazione di 33 alveari e dal comportamento delle vespe di Panana, Zygmunt Bauman ci consegna questa lunga riflessione sulla perdita del centro come luogo fisico ma anche come luogo della mente e ci restituisce la visione di una società liquida dove tutto si costruisce attorno all’unità che rimane sempre tale e che per sua nuova natura accetta la transitorietà come paradigma della felicità.

Il piccolo volume opuscolo si conclude con un ultima riflessione su un concetto molto interessante e conseguente alla teoria che si viene formulando, lo sciame che sostituisce il gruppo.

“In una società di moderna liquidità, lo sciame tende a sostituire il gruppo, con i suoi leader, la sua gerarchia di comando e il suo ordine di beccata…Gli sciami…si assemblano, si disperdono e si ricompongono a seconda dei casi, guidati ogni volta da priorità differenti…e attirati da obiettivi che cambiano in continuazione…Lo sciame…non ha un centro; è solo la direzione contingente del suo volo che colloca lacune delle unità di questo sciame a propulsione autonoma nella posizione di leader, da seguire per la durata di un determinato volo o per una parte di esso, ma difficilmente più a lungo di così…Gli sciami…non sono latro che la somma delle loro componenti…L’immagine che meglio le esemplifica è quella delle figure di Warhol, copiate all’infinito senza che esista un originale, o con un originale che viene scartato dopo l’uso, rendendo impossibile rintracciarlo e recuperarlo…Nel caso delle unità umanesenzienti/pensanti, la comodità del volare in gruppo deriva dalla sicurezza data dal numero…quanto a fiducia in se stessi e sentimento di sicurezza, i movimenti miracolosamente coordinati di uno sciame sono il miglior surrogato dell’autorità di un leader…”.

Infine facendo ricorso a Jorge Luis Borges, Bauman si congeda, chiedendosi quale sia il mistero che connota il problema del centro e della periferia nell’era della moderna liquidità e per farlo utilizza ancora una volta lo sciame. “Guardando uno sciame che persegue un obiettivo, potremmo tranquillamente ipotizzare che i suoi componenti stiano seguendo il comando di qualcuno…Guardando una qualsiasi unità dello sciame, potremmo tranquillamente ipotizzare i suoi desideri e le sue intenzioni a muoverla, ma poi troveremmo assai difficile spiegare le svolte e le giravolte del suo itinerario. Se volgiamo comprendere il mondo nel modo in cui esso si presenta a noi, e acquisire le abilità necessarie per operare in un simile contesto, dovremmo, presumo, imparare con questo dilemma.”

Oscar Buonamano


Theorèin- Ottobre 2007