Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Un cappello pieno di ciliegie
Autore: Oriana Fallaci
Editore: Rizzoli 2008

Un cappello pieno di ciliegie è un libro pieno di donne, di coraggio, d’idee, d’ideali, di film, di amori, di tradimenti, di morte, di vita. Un libro pieno. In un percorso affascinante che è un vero e proprio spaccato antropologico dell’Italia tra il 1700 e la fine del 1800, la Fallaci affonda le mani nel suo passato e senza reticenze ci rende partecipi e protagonisti in prima persona di una vera e propria saga familiare che corre parallela e s’interseca con la storia e la nascita della nostra nazione. Una storia collettiva che ci fa riflettere su noi stessi, sulla nostra identità. Il romanzo si costruisce attraverso quattro parti apparentemente autonome e slegate tra loro e che scopriremo essere direttamente connesse e in continuo confronto tra la vita dell’autrice e quella dei suoi antenati. In questo gioco di rimandi, due aspetti più di altri ricorrono: una consuetudine familiare con il mal dolent, lo stesso male che ucciderà la Fallaci nel 2006 e il rapporto con la religione. Il mal dolent generatore di morte gioca in questo caso un ruolo anche positivo. E quando la vita ti sfugge e sai che la morte arriverà in un giorno non più indefinito ma relativamente vicino ai giorni che stai vivendo, in quel momento, quando capisci che la tua fine inesorabilmente si avvicina, la voglia di sapere da dove vieni e come hanno vissuto tutti coloro che ti hanno dato forma e vita si fa più forte, e raccontare le vite più o meno epiche di chi ti ha generato acquieta per un po’. E accompagna. Vite epiche non solo perché scritte e magari enfatizzate. Vite comunque epiche perché vissute in un’Italia epica. Un’Italia con idee e valori che vale la pena raccontare ancora oggi a distanza di centocinquantanni. Nel rapporto con la religione emergono, si precisano e si enfatizzano le differenze tra i protagonisti maschili e femminili del romanzo. Personaggi fortemente caratterizzati, come scolpiti nella pietra. Caterina Zani, il mito; María Ignacia Josepha chiamata più semplicemente Montserrat, il coraggio di scegliere; Teresa Nardini, l’amore; Anastasìa Ferrier o Ferrieri o Ferreri, l’indipendenza; Francesco Launaro, il coraggio, sono solo alcuni dei protagonisti che incontreremo in Un cappello pieno di ciliegie. Differenze che emergono in maniera molto evidente nei commiati dalla vita che molti dei protagonisti ci regalano. “Sorella Morte, io vi accetto volentieri e vi offro questa agonia in omaggio alla Vostra sovranità e autorità. Gioisco in Voi, sorella Morte, e Vi ringrazio dal profondo del cuore di questa letizia.” Il rapporto sofferto con la religione è ben testimoniato dalla preghiera del terziario che rende l’anima a Dio che l’autrice fa recitare a uno dei primi maschi a morire. Sul contrappunto tra accettazione senza discussione del dogma e autonomia della ragione si sviluppa un registro dialettico interessante che ci accompagnerà per tutta la durata della lettura e che prende le mosse dall’addio alla vita di due dei protagonisti, Luca Fallaci e Apollonia. Il primo a parlare è Luca Fallaci. “Allora non mi resta che rivolgervi qualche raccomandazione: non disamoratevi mai della terra, non vergonatevi mai d’essere contadini. È la terra che ci sfama. Sono i contadini che danno da mangiare al mondo. E non siate mai furbi, non pensate mai che Dio non esiste. Chi è furbo non è intelligente, e se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo per non farmi morire arrabbiato come un cane idrofobo. Perché, speriamo che San Francesco non se ne abbia a male e che questo non mi costi l’assoluzione, morire a cinquant’anni è un gran dispiacere.” Parole e messaggi diametralmente opposti troviamo invece nel commiato di sua moglie, Apollonia. “Io i discorsi belli non li so fare. Sono una pitocca che ha sempre dovuto star zitta, una lazzara a cui è sempre stato permesso d’essere una bestia da soma e basta. Non ho mai contato nulla. Non ho mai potuto dire la mia. E nessuno mai si è accorto che avevo una testa. Un giorno chiesi a vostro padre perché m’avesse presa in moglie, e lui mi rispose: Perché avete due braccia, due gambe, buon cuore, e non siete gobba. Fu ingiusto. Oltre alle braccia e alle gambe e al buon cuore avevo una testa. Pensavo. E siccome ho pensato parecchio prima di morire voglio darvi un consiglio. Smettetela di pregare ogni cinque minuti e di lavorare ventiquattr’ore su ventiquattro. La vita è fatta anche di sorrisi. Divertitevi un poco. Sposatevi. E mettete al mondo gente che sia più fortunata di me…vogliatevi bene, e non piangete troppo. Piangere fa male agli occhi.” La storia di Caterina Zani e Carlo Fallaci, due persone che più diverse non si può, è la storia che apre il romanzo. Carlo e Caterina si ameranno talmente tanto che l’una non sopravvivrà alla morte dell’altro. Ecco il commiato di Carlo Fallaci, marito di Caterina. “Appena rimase solo con Caterina…e a lei rivolse un addio assai diverso. Le disse che moriva amandola di più di quanto l’avesse amata in oltre mezzo secolo di matrimonio, perché col tempo il suo amore si era irrobustito come un buon vino vecchio conservato bene. Le disse che era contento di non essere emigrato in Virginia col signor Mazzei, perché laggiù non l’avrebbe incontrata e senza di lei sarebbe stato povero anche se fosse diventato ricco. Le disse che il giorno in cui era andato a cercarla alla fiera di Rosìa era stato un giorno benedetto, un dono del Signore, quindi la ringraziava di tutto…Infine le disse che era stata l’unica donna della sua vita, la sola che avesse desiderato e toccato, sicché delle altre donne lui non sapeva nulla e gli pareva di essere Adamo che si accomiata da Eva: compagna insostituibile, irripetibile, assoluta.” Poco dopo morirà anche Caterina che negli ultimi momenti di vita avrà ancora la forza per coniugare sinteticamente due grandi temi: il rapporto con Dio e l’amore per Carlo. “A settantasei anni me ne vado con un bel pentolin di saggezza e sapendo due cose: che non ho nulla da farmi perdonare da te e dal tuo Dio, e che costui non ha tempo per me. Né io per lui…Poi disse: Arrivo Carlo, arrivo. E spirò.” Lo spirito forte e combattivo delle donne viene fuori anche in Mariarosa Mazzella la moglie del mitico Giobatta che anche sul letto di morte non si lascia andare a facili piagnistei ma con orgoglio e grande forza dirà al marito: “Ce l’hanno messa in culo, Giobatta. Invece della Repubblica, ci troviamo sul groppone i discendenti di re Tentenna. Eh! Ci vorranno cent’anni per mandarli via, quei forcaioli.” Una figura femminile cui Oriana sembra essere molto legata è Anastasìa e l’epopea di Anastasìa è, forse, la più coinvolgente di tutto il romanzo. Quella che più ci attraversa, che più attraversa la nostra storia e che più rappresenta e sintetizza la nostra indole. Anastasìa vive la morte di Cavour, è presente ai funerali di Lincoln in America. La sua storia inizia in una piccola, piccolissima valle valdese sperduta tra i monti del Piemonte e proseguirà in giro per il mondo. Torino, Cesena, New York, Utah nel Far West, Firenze e poi di nuovo Cesena per l’epilogo della sua vita. “Il passato è scomparso dalla mia mente insieme al mio futuro, e dal nulla emerge solo la memoria dell’esile fata che mangiava i fiori. L’immagine della graziosa sconosciuta che mi partorì e che scivolò nel torrente di Rodoret, di fiume in fiume giunse al mare nel quale prestò finirò anch’io…Tutto diventa buio e non posso dire dir nulla di ciò che accadde lungo i trentadue chilometri che portavano al mare nel quale quarant’anni prima era finita Marguerite. Però so che non venni mai ritrovata.” Una scrittura ispirata questa della Fallaci, che ti fa ricordare e ringraziare il giorno e la persona che ti ha insegnato a leggere. Una scrittura semplice e per questo complessa. Una scrittura che ti trasmette emozioni forti, vere. E quando alzi lo sguardo dalla pagina e ti accorgi che la gente che ti circonda parla al telefono, prende il sole distesa su un lettino in riva al mare oppure litiga sempre al telefono, pensi che hai sbagliato tempo e che il tuo tempo, quello che vorresti vivere, è tra quelle pagine e, che per riprendertelo non devi far altro che abbassare di nuovo lo sguardo e continuare a leggere. E così fai. Perché lì, tra quelle pagine scorre un tempo che è anche il tuo tempo. Una scrittura a colori quella di Oriana Fallaci. Una scrittura senza tempo. E mentre le pagine da leggere diminuiscono, ti accorgi che hai letto, che stai leggendo, un classico. Un libro che ha già attraversato la contemporaneità e ti porta direttamente nella storia. La storia della letteratura italiana, quella dei Calvino, dei Manzoni, degli Ungaretti o dei Pasolini. Raffaele La Capria in una lunga conversazione pubblica che avemmo lo scorso anno in occasione del Festival delle Letterature di Pescara, parlando della scrittura disse: “Per trasmettere un’emozione uno scrittore ha bisogno di una strategia e non deve essere emozionato. Trasmettere un’emozione è una finzione”. E poi ancora, “Per valutare bene uno scrittore bisogna chiedersi e rispondere a tre domande: Cosa voleva dire, c’è riuscito, ne valeva la pena”. Oriana Fallaci è riuscita a trasmettere tante emozioni in questo che resterà il suo ultimo libro e rispetto alle tre domande che si pone La Capria, mi sento di rispondere senza indugi alla terza e dico, si, ne valeva la pena. Chapeau, passa Oriana. Oriana Fallaci. Una grande storia. La storia di ognuno di noi. Buona lettura a tutti. Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire…

Oscar Buonamano


Theorèin- Settembre 2008