FEDERICO II E IL PAPATO 
A cura di: Vito Sibilio
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II parte

FEDERICO II E IL PAPATO II PARTE

Le aspirazioni di Federico II non erano sostanzialmente diverse da quelle del padre e del nonno, né i mezzi di cui si servì differenti. Ma in lui la sensibilità religiosa era di gran lunga inferiore rispetto a quella del Barbarossa, né capì l’importanza che gli strumenti di politica ecclesiastica potevano avere nel suo disegno. L’impronta più laica che diede al suo operato, in un’epoca in cui sostanzialmente le sue rivendicazioni universalistiche erano ancora più anacronistiche, oltre che il suo obiettivo spregiudicato cinismo, lo fecero realmente apparire, come si legge nell’epitaffio di Innocenzo IV (1243-1254) “il nemico di Cristo, il drago” precursore dell’Anticristo, figlio di una donna strappata a viva forza dal convento (cosa a cui crede pure Dante, anche se con qualche attenuazione), eretico (si veda ancora la Divina Commedia), empio e blasfemo. D’altro canto, Federico II mancava della grande visione strategica del nonno e del padre, e le scelte concrete della sua politica contribuirono non poco alla sua rovina. Alcuni errori erano conseguenza della tradizionale politica sveva e tedesca in genere: l’eccessiva attenzione riservata all’Italia, la trascuratezza nei confronti delle questioni tedesche e la conseguente concessione di autonomie ai principi germanici per coprirsi le spalle nella lotta contro i Comuni. Altri erano suoi propri, come l’eccessiva attenzione riservata alla Sicilia e l’indifferenza alle sorti dell'Outremer cristiano. 

Ma i più gravi sono insiti nell’ispirazione stessa della sua politica: il sottovalutare forze come la Chiesa o i Comuni o le monarchie nazionali, credendo di poterle mettere a guinzaglio. 

I rapporti di Federico II con il Papato nascono ambigui. Innocenzo III, dopo averlo fatto rinunciare al titolo di re dei Romani, ottenutogli dal padre, allo scopo di tenere separate Sicilia e Impero, lo oppose ad Ottone IV, nel 1211. Ottone infatti aveva invaso lo Stato pontificio e la Sicilia stessa, invece di dedicarsi alla Crociata, e Innocenzo lo aveva scomunicato e deposto. Grazie all’impegno del papa, la Dieta di Norimberga acclamò Federico re di Germania. 

L’anno successivo il puer Apuliae arriva in terra tedesca, sostenuto dall’episcopato, e crea una grande coalizione, coi principi più importanti e col Re di Francia. Rieletto re a Francoforte, incoronato a Magonza. Egli aveva promesso a Innocenzo III di tenere separate le corone tedesca e siciliana, ragion per cui il figlio Enrico, fu incoronato nel 1212 per volontà del Papa re di Sicilia. Nel 1213 Federico promulgò la Bolla d’Oro, che accordava alla Chiesa maggiore libertà nelle nomine episcopali, integrando il Concordato di Worms. Promise altresì di partire crociato. L’anno successivo nella Battaglia di Bouvines Federico Augusto II sconfigge Ottone IV e gli Inglesi suoi alleati: Federico II non aveva più rivali, e fu confermato re dal Concilio Ecumenico del Laterano nel 1215. 

Ma, morto Innocenzo III, Federico conservò il diadema di Palermo e lasciò al figlio il trono tedesco, che poteva controllare in quanto Imperatore. Onorio III (1216-1227), che lo incoronò nel 1220, lasciò correre, in quanto voleva che Federico adempisse almeno l’altra promessa, quella di organizzare una Crociata [1]. Ma anche qui il sovrano frappose mille ostacoli. 

Quando però fu eletto papa Gregorio IX (1227-1241)[2], personalità forte e intraprendente come quella di Innocenzo, di cui era cugino, le ambiguità furono smascherate. Onorio III aveva stabilito, nel Trattato di San Germano (1227), che se Federico non fosse partito lo avrebbe scomunicato. In quei frangenti, Federico si ammalò. Ma il nuovo papa non volle credere alle giustificazioni dell’Imperatore, e lanciò l’anatema su di lui (1227). Federico si discolpò, ma non attese l’assoluzione, nemmeno quando Gregorio rinnovò l’anatema, e partì alla guida della guerra santa scomunicato (1228). In Oriente, poi, com’è noto, trattò, invece di combattere, con Melek Al-Kamel, e recuperò Gerusalemme a prezzo dello smantellamento delle fortificazioni. 

Questo operato scandalizzò il Papa, che reagì con un’offensiva a tutto campo senza precedenti, promuovendo l’elezione di un anti – re in Germania, sciogliendo i sudditi siciliani dal giuramento di fedeltà e invadendo il Mezzogiorno dopo aver respinto l’attacco delle truppe imperiali allo Stato Pontificio. Non era concepibile che un empio mantenesse i suoi stati. 

Ma Federico, tornato, ebbe facilmente ragione delle truppe papali e domò l’opposizione germanica. Evitando comunque di invadere lo Stato della Chiesa, creò il presupposto per un accordo, siglato a San Germano e ratificato a Ceprano (1230). Le clausole della pace, in cui Federico faceva ampie concessioni in materia ecclesiastica, concedendo immunità fiscali e giurisdizionali persino in Sicilia, mostrano chiaramente che al Papa stavano a cuore essenzialmente le questioni religiose. L’Imperatore, che fu assolto dalla scomunica, voleva tuttavia mantenere buona la Chiesa in vista di una restaurazione della sua egemonia sull’Italia. Durante gli anni di tregua i due sembrarono poter collaborare con profitto, anche contro il Comune di Roma. La promulgazione delle Costituzioni melfitane (1231), che riorganizzavano in modo centralizzato il Regno di Sicilia, erano tuttavia il primo passo verso il suo obiettivo assolutista. Non a caso Gregorio IX scorse in esse una concezione pericolosa per la Chiesa e le biasimò, ricordando a Federico che anche i sovrani erano soggetti al Pontefice. In effetti, proprio per le immunità ecclesiastiche e per le libere elezioni delle 140 diocesi meridionali spesso Federico II e Gregorio IX ebbero scontri. Inoltre questi tentò di comporre le dispute tra lo Svevo e i Comuni, ma senza successo, in quanto Federico, con le Diete di Cremona (1226) e di Ravenna (1231), aveva ripreso la politica del nonno, e aveva spinto i Comuni a formare la Seconda Lega Lombarda. Gregorio fu leale con Federico, e non appoggiò mai sottobanco i Comuni, anzi lo aiutò a reprimere la rivolta del figlio Enrico, scomunicandolo. Ma l’Imperatore non solo boicottò i suoi sforzi diplomatici per la pace con i Lombardi, ma – una volta sconfitti i ribelli a Cortenuova (1237) – inviò in Sardegna, che era feudo della Chiesa, come re suo figlio Enzo, e tentò di estendere la propria sovranità su Roma. In aggiunta, trescò con una fazione cardinalizia contro il Papa, cosa che questi scoprì ben presto. Era un attentato alla sovranità della Chiesa. Annodata una lega coi Comuni per evitare la loro disfatta definitiva, alleatosi con Genova e Venezia e recuperato il controllo di Roma, Gregorio IX inflisse nuovamente la scomunica a Federico (20 e 24 marzo 1230). Ormai il Papa era deciso a saltare il fosso e a condurre la lotta ad oltranza. Gli eventi assunsero aspetti drammatici. Federico, dopo aver richiesto che il Papa fosse giudicato da un concilio ecumenico, assediò Roma. Gregorio convocò a sua volta lui un concilio per risolvere il conflitto (1241), ma l’Imperatore lo impedì, sbaragliando la flotta genovese che trasportava i vescovi spagnoli e francesi (Montecristo, 4 maggio 1241). Alcuni morirono, altri furono arrestati. Era un atto sacrilego senza precedenti, che chiarì al mondo fin dove osava arrivare Federico, che pure dichiarava di combattere contro la persona di Gregorio e non contro la Chiesa. In effetti, nell’agosto del 1241 Federico assediò Roma, con l’intenzione di imporsi definitivamente al Papa. Quale sorte volesse riservagli non sappiamo, ma la morte liberò l’anziano Gregorio, coraggioso fino all’ultimo, da ogni pericolo. Coerentemente con le sue dichiarazioni di principio, Federico si ritirò, in attesa degli eventi. La sede papale rimase vacante a lungo: le divisioni tra cardinali gregoriani e filoimperiali fecero sì che il conclave solo dopo sessanta giorni eleggesse Celestino IV (1241)[3], che però morì dopo 16 giorni. La Sedis La vacantiasi protrasse per due anni: solo nel 1243 fu eletto Innocenzo IV (1243-1254)[4], che passava per filoimperiale. 

Federico si rallegrò di questa elezione e iniziò trattative che furono ad un passo dal successo: la liberazione dello Stato della Chiesa, la penitenza personale, la liberazione dei prelati prigionieri, il loro risarcimento e l’impunità per i guelfi erano le condizioni per la riconciliazione. Ma la questione dei Lombardi non era trattata – con loro disappunto – e nessuna questione di principio era risolta. La pubblicistica in quegli anni ne aveva sollevate tante, sia in relazione ai contendenti (Gregorio e Federico si erano dati reciprocamente dell’eretico, dell’anticristo e via di questo passo) sia in relazione ai principi, in quanto né lo Svevo voleva riconoscere alla Chiesa una vera sovranità, né il Papa voleva che l’Impero rifiutasse le sue interferenze ratione peccati. Questa tesa situazione psicologica pesò a tal punto che Innocenzo ruppe gli indugi e fuggì a Lione. Da qui prese a governare la Chiesa con una libertà maggiore di quanta ne avessero goduta i suoi predecessori e lui stesso nella Città Eterna, lontano dalle lotte comunali e aristocratiche, ma soprattutto dalle ingerenze imperiali. 

Papa Fieschi era un grande canonista, come il predecessore, e voleva definitivamente risolvere la questione federiciana con un verdetto appropriato e super partes. Ragion per cui convocò un Concilio ecumenico, il I di Lione (1245) [5], in cui, tra le tante questioni, si trattò soprattutto del negotium politico-ecclesiastico. Federico fu citato a comparire, per rispondere di diverse accuse: spergiuro, violazione della pace, sacrilegio, eresia sospetta. Le trattative con cui le due parti tentarono fino all’ultimo di accordarsi fallirono tutte; l’Imperatore si recò a Torino, ma non raggiunse mai Lione; l’abile difesa di Taddeo di Suessa non fu sufficiente a discolpare il suo signore, che Innocenzo accusò di persecuzione della Chiesa. Il dibattito divenne infuocato per le tesi connesse alle posizioni politiche. Federico affermava che la Chiesa doveva essere povera e priva di potere, rivestendo di pauperismo il suo giurisdizionalismo cesaropapista, e prendendo lui stesso la penna per promuovere una riforma radicale – e distruttiva – della Chiesa. Inaugurava così un’alleanza tra pauperisti eretici e ghibellini, che avrebbe dato motivo e pretesto alla Chiesa, fino al XIV sec., di perseguitare i propri nemici politici come eretici. Era una svolta significativa in un Imperatore che aveva permesso al legato di Gregorio IX, Corrado, di terrorizzare i tedeschi a caccia di catari, che aveva introdotto il rogo in Italia per i nemici della Fede (senza che la Curia glielo avesse chiesto), e in subordine il taglio della lingua – pena che, sia detto per inciso, non entrò mai nel diritto canonico.        

Innocenzo invece rivendicava per sé la pienezza dei poteri, sia religiosi che politici, in quanto Vicario di Cristo, a cui queste prerogative spettano entrambe. In che misura questa tesi fosse la riproposizione della dottrina gregoriano-innocenziana della superiorità dell’auctoritas sacrata pontificum sulla regalis potestas, o piuttosto una sua radicalizzazione, che dava al papa una potestas plena in temporalibus per diritto divino, non possiamo dirlo con certezza. L’esegesi delle fonti si presta ad entrambe le interpretazioni. In ogni caso, il punto di arrivo della dottrina innocenziana, e cioè la deposizione dell’Imperatore, scaturiva dall’applicazione di un principio affatto nuovo, ossia quello della XII proposizione del DictatusPapae di Gregorio VII: Quod illi liceat imperatores deponere. Lo stesso papa Fieschi, nei suoi Commentaria super libros quinque Decretalium, spiega il decreto del Concilio lionese, affermando che Papa iure deponit imperatorem, perché egli è il Vicario di Cristo, dominus naturalis dei Re e degli Imperatori, che dunque li fa e li depone. A prova di ciò, adduce il fatto che la consacrazione abilita il sovrano al potere, e viene data dal potere religioso, che dunque può annullarla. Una simile tesi non implica affatto però che la pienezza del potere politico stia nelle mani del papa, ma soltanto che il Sacerdotium sia superiore all’Imperium[6]. Cosa pensasse realmente Innocenzo lo sapeva solo lui, ed è certo che dopo di lui nessuno più – neanche Bonifacio VIII (1294-1303)- rivendicò per se la plenitudo potestatis in temporalibus. D’altro canto, i Re occidentali si mantennero neutrali nella disputa, anche a sentenza inferta, forse perché si sentivano minacciati dal curialismo temporalistico di Papa Fieschi. 

Eppure, quand’anche Innocenzo IV fosse arrivato a questo estremismo canonico, la radice sarebbe sempre religiosa: egli avrebbe rivendicato per sé tale potere proprio per allontanare definitivamente la minaccia della teocrazia imperiale, ma anche quella della secolarizzazione della politica. In ogni caso, rivendicando il diritto di fare e disfare il potere regio in virtù della consacrazione, egli rifuggiva da ogni averroismo politico, e degradava la concezione sacramentale dell’unctio regia a una visione al massimo sacramentalista: non più un atto valido ex-opere operato, ma un gesto efficace in ragione delle preghiere della Chiesa. Era un punto di arrivo della teologia sacramentale implicito nella dottrina di tutto il Papato gregoriano, che cacciava i sovrani dalle res sacrae e li respingeva tra i semplici fedeli. 

Tuttavia la reazione imperiale sollevò da subito un problema canonico che avrebbe tenuto banco per secoli: appellandosi ad un Papa futuro e a un Concilio veramente ecumenico, Taddeo di Suessa poneva una questione di delegittimazione di principio. Innocenzo ebbe facile gioco a dimostrare l’ecumenicità di quel Concilio, in quanto tutte le assenze erano causate dall’ostilità dell’Imperatore, che controllava le vie di terra verso Lione di tutta l’Europa centrale, meridionale e orientale. Conseguenzialmente, nessuno prese sul serio l’appello al Papa futuro. Ma l’idea avrebbe fatto strada. D’altro canto, la propaganda imperiale, rifiutando le nuove teorie canoniche del Concilio, poneva su basi nuove il problema dell’origine del potere civile: dalla contestazione federiciana alla concezione dell’origine naturale dello Stato, che non ha bisogno di alcuna consacrazione religiosa, il passo è breve. Del resto, il dibattito era virtualmente aperto da quando l’Occidente aveva riscoperto le opere dello de facto e poi de iure. Innocenzo agì con coerenza per applicare i deliberati lionesi, e considerando Federico nemico di Cristo, bandì la Crociata contro di lui in Sicilia e Germania. Inoltre, promosse l’elezione dei nuovi Re tedeschi Enrico Raspe (1246-1247) e Guglielmo di Olanda (1247-1256). Infine, come signore feudale della Sicilia, si diede a trovare una nuova dinastia per Palermo. Il suo entourage diede addirittura il benestare a un tentativo ante litteram di tirannicidio, a cui è incerta la partecipazione del Papa stesso. 

La morte di Federico nel 1250 regalò la vittoria a Innocenzo. Egli, di lì a poco, fece cadere la proposta di investitura della Sicilia a Edmondo d’Inghilterra da lui stesso fatta, perché la morte di Corrado IV (1250-1254)[7], figlio di Federico, lo mise in condizione di annettere il Mezzogiorno allo Stato Pontificio. Il Papa pose la sua residenza a Napoli, e inviò il nipote a conquistare la Sicilia, per snidare da lì gli ultimi Svevi. Mai trionfo era stato più completo: gli Hoenstaufen erano detronizzati, in Germania sedeva un fantoccio della Curia, l’Italia era riserva di caccia papale, il potere temporale restaurato e triplicato d’estensione. Le condizioni materiali per un’assoluta libertasEcclesiae nell’Europa c’erano tutte. 

Ma la sorte fece un brutto tiro al Papa genovese. Sic transit gloria mundi, e lui vide la fine della propria addirittura pochi istanti prima della morte, quando gli giunse la notizia che la flotta del nipote era stata sbaragliata da quella di Manfredi (1254-1266)[8]. Questo colpo lo portò alla tomba, e la Chiesa doveva ricominciare di nuovo. Sappiamo tutti come proseguì la lotta in Italia e come agli Svevi subentrassero gli Angiò. Ma ciò non ci interessa. Possiamo concludere con una valutazione dell’operato di Federico in relazione ai papi. Sebbene egli non seppe capire che i tempi non erano più maturi per i suoi disegni, l’Imperatore ebbe vastità d’intenti e generosità di propositi. Se non può essere considerato un precursore dell’unità nazionale, perché gli Italiani lo percepirono come oppressore, va tuttavia valutato come un sovrano attento al nostro paese. Infine, se non fu un vincitore, fu tuttavia un testimone di un ideale antico e nobile, e mise al suo servizio tutte le sue doti, che erano grandi, e i suoi difetti, altrettanto grandi. A distanza di secoli dunque sopravvive la sua personalità, che ancora affascina ed entusiasma. E questo è certo il senso più profondo della sua commemorazione qui, ancora oggi.


[1] Cfr. sull’arg. R.MANSELLI, Onorio III e Federico II (Revisione di un giudizio?), in StRom 11 (1963), pp. 142-159.
[2] Cfr. su di lui S.SIBILIA, Gregorio IX (1227-1241), Milano 1961.
[3] Cfr. su di lui in DBI, XXIII, 398-402 (A. Paravicini Bagliani).
[4] Cfr. G.v.PUTTKAMER, Papst Innocenz IV, Münster 1930.
[5] H.WOLTER – H.HOLSTEIN, Lyon I e Lyon II, Parigi 1966, in Hist. des Conc. Oec., VII, Parigi 1966.
[6]
Cfr. Apparatus in quinque libros Decretalium, Francoforte 1570, Venezia 1575.
[7] Cfr. E.MICHAEL, Innocenz IV und Konrad IV, ZKTh 18 (1894), pp. 457-472.
[8] Cfr.A.BERTMANN, König Manfred von Sizilien, Heidelberg 1909. 

Theorèin - Aprile 2004