SU ALCUNI ASPETTI DEL PONTIFICATO DI PAOLO VI

A cura di: Vito Sibilio
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Il 6 agosto 1978 moriva a Castelgandolfo, nella residenza estiva dei Sommi Pontefici, papa Paolo VI, il fondatore del Papato contemporaneo. La sua complessa figura, tormentata e sensibile, formata ad una cultura vasta e poliedrica, e supportata da un'intelligenza che "rasentava il genio", ma nello stesso tempo "a guglie gotiche" per le forti impennate con cui ripercorreva tutte le parti delle questioni, fino a far proprie angosce e dubbi degli interlocutori (le definizioni virgolettate sono del cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova), è degna di numerose riflessioni e analisi accurate. In questa sede propongo qualche spunto di riflessione su di essa.

Ho detto che Paolo VI è il fondatore del Papato contemporaneo, anche se forse pochi se ne accorgono. In realtà, le caratteristiche del Papato odierno sono tutte scaturite da iniziative di Giovanni Battista Montini. Il Papato moderno nasce con Pio IX e il trionfo dell'Ultramontanismo, ossia quella tendenza giuridico-teologica che accentra tutti i poteri nelle mani della Santa Sede: la definizione del dogma dell'Infallibilità del magistero straordinario del Pontefice e del suo Episcopato universale - per cui tutti e singoli i fedeli gli sono sottomessi - avvenuta nel Concilio Vaticano I segna il punto di arrivo di uno sviluppo millenario, avviatosi più volte nella storia (IV- V sec.; IX sec.), interrottosi e poi non più cessato a partire dalla Riforma gregoriana dell'XI secolo. Con questo dogma la monarchia pontificia sulla Chiesa Cattolica diviene un fatto irreversibile e determinato; la mancanza di tempo, per il Concilio Vaticano I, per discutere il ruolo di governo nella Chiesa dell'Episcopato - mancanza di tempo dovuta alla sospensione dell'assise conseguente alla Breccia di Porta Pia - privò inoltre il Primato di Pietro di un contrappeso di qualche altra autorità. Cosicchè dal 1870 - anno della definizione dogmatica - fino al Vaticano II (1962-1965) il Papato vive la sua età moderna - ben diversa quindi da quella della storia profana - contraddistinta da un forte accentramento e da personalità assai incisive. Bismarck poteva dire che la vita della Chiesa si compiva in quella del suo clero, e Gramsci che essa era riassorbita in quella del vertice gerarchico, la Santa Sede. Erano espressioni improprie, prive di ratio theologica, dettate anche da una polemica di parte, ma non infondate. Pio IX (1846-1878), Leone XIII (1878-1903), Pio X (1903-1914), Benedetto XV (1914-1922), Pio XI (1922-1939), Pio XII (1939-1958) regnarono in solitudine su una Chiesa monolitica. Lo stesso Giovanni XXIII (1958-1963) godeva di un'autorità analoga, e non aveva certo intenzione di sminuirla - oltre le apparenze della sua pur sincera bonomia e umiltà - quando convocò il Concilio Vaticano II. Esso era il punto di arrivo di fermenti più che decennali nel vertice e nella base della Chiesa - già i papi Ratti e Pacelli avevano meditato di convocare un sinodo universale - ma non avrebbe potuto concretizzarsi se non fosse scaturito da una volitiva decisione di Giovanni XXIII, che la realizzò a dispetto dell'opposizione, rispettosa ma forte, dei settori più influenti della stessa Curia Romana.

Paolo VI (1963-1978), giunto al Papato alla morte di Roncalli, avrebbe potuto affossare il sinodo: nessuno poteva obbligarlo a riconvocarlo, in quanto esso giuridicamente esisteva e aveva potere perchè presieduto da lui. D'altro canto nessuno dubitava della sua volontà di proseguire i lavori conciliari, nei quali già si era distinto come arcivescovo di Milano e cardinale. Eppure, il Concilio, nonostante l'ampia libertà di dibattito lasciata ai presuli e la grande pubblicità concessa - incautamente - alle loro discussioni in aula durante le congregazioni - ossia le adunate - dell'assemblea, dovette seguire il tracciato disegnato, a volte con maggiore fermezza, a volte meno, da papa Paolo VI. Fu lui l'architetto del cantiere conciliare. E la fisionomia che esso ha impresso alla Chiesa - e che durerà presumibilmente qualche secolo, così come accadde per il Sinodo di Trento - è quella che Montini ha voluto. Potremmo dire - giustamente - che Montini era pienamente inserito nell'aristocrazia intellettuale ecclesiastica che aveva creato il clima culturale in cui il Sinodo crebbe, per cui Paolo VI non avrebbe fatto altro che seguire la corrente. Ma in realtà il Concilio fu molto dibattuto e spesso lacerato; inoltre Montini, da Sostituto della Segreteria di Stato - ossia un quasi ministro degli Interni - e poi Pro-Segretario di Stato per gli Affari Ordinari di Pio XII, e poi da Arcivescovo di Milano per volontà dello stesso pontefice e da cardinale, aveva dato un contributo notevole per la formazione di questo clima culturale in cui il Concilio era nato. Aveva in parte pagato per questo: e la sua sofferta comprensione per certi fermenti del mondo cattolico italiano - i casi dei dirigenti di A.C. Carretto e Rossi - gli era costata la fiducia del già sospettoso Pio XII, che infatti lo aveva designato alla Cattedra ambrosiana. Ragion per cui al Concilio egli fece prevalere - e fu necessario anche per evitare spinte centrifughe - la sua linea, che - pur semplicisticamente chiamata progressista - era diversa da quella di altri presuli che pur passavano per innovatori, come i cardinali Frings, Doepfner, Suenens o Alfrink, e in alcuni punti tutt'altro che secondari coincideva con quelle dei cosiddetti consevatori, come Siri o Spellmann o Ruffini, che pur tante differenze avevano tra loro. Ed è proprio qui che si giocò una battaglia dogmatica che avrà conseguenze - date le cadenze della storia della Chiesa e delle religioni in genere - millenarie. Proprio per equilibrare la monarchia papale del Vaticano I, il Vaticano II nella Lumen Gentium ha parlato dell'esistenza di un Collegio episcopale che esercita la potestà suprema nella Chiesa, succedendo al Collegio Apostolico. A tale Collegio spetta il supremo potere. Nulla di nuovo in questa dottrina, desunta dall'importanza che nei secoli avevano avuto i Concili di ogni tipo, e in genere gli Episcopati nella vita delle Chiese nazionali. Ma il testo originario escludeva riferimenti espliciti al ruolo del Papa nello stesso Collegio, ruolo consacrato dalla Tradizione e reso inevitabile dal dogma del 1870. Paolo VI impose la famosa nota praevia, esplicativa, chiariva che la suprema potestà del Collegio è cum Petro et sub Petro, e che lo stesso Papa ne ha una eguale da solo. Impedì così alla Chiesa di fratturare il suo corpo dogmatico plurisecolare. E poi applicò questa collegialità - che è la caratteristica della Chiesa contemporanea e quindi anche del Papato che la presiede - in modo creativo, istituendo il Sinodo dei Vescovi come organo consultivo - ma non deliberativo, se non per mandato papale - concedendo poteri e privilegi ai vescovi in ossequio al decreto conciliare Christus Dominus, ma anche prevenendolo - con il motu proprio Pastorale munus, emanato prima che il decreto stesso fosse votato. Inoltre agì sempre promulgando motu proprio, ossia documenti per cui non era tenuto a seguire la tradizione di consultarsi col Concistoro dei Cardinali. Diede inoltre ampio spazio alle Conferenze episcopali nazionali e regionali, facendo l'organismo comune di raccordo dei vescovi stessi. D'altro canto, col pensionamento dei presuli settantacinquenni - automatico - egli poneva un significativo limite burocratico all'unione tra vescovi e Chiese locali, che rimane tuttora.

Paolo VI fu un gran riformatore: della prassi missionaria, della disciplina del clero e dei religiosi, dell'apostolato dei laici, della liturgia, dei sacramenti e delle reliquie, della pastorale, dei seminari e delle scuole cattoliche, delle Chiese orientali, della Diocesi di Roma e naturalmente della Santa Sede, ponendo mano alle strutture del Sacro Collegio cardinalizio, della Curia Romana e della Corte papale. E in queste riforme spesso o agì riservandosi l'azione esplicitamente - nella Santa Sede, respingendo le intromissioni del Sinodo ecumenico - o andò oltre il mandato conciliare. La riforma liturgica per esempio superò i dettami della costituzione Sacrosanctum Concilium, e di fatto eliminò il latino in toto. La mole di Riti promulgati dal Papa riguardò tutto l'ambito liturgico-sacramentale della Chiesa, e gli ha conferito una fisionomia che rimarrà tale per secoli, presumibilmente. Se a questo aggiungiamo il fatto che Paolo VI avviò i lavori per il nuovo Codice di Diritto Canonico - promulgato da Giovanni Paolo II - e rilanciò in modo programmatico e organizzato l'impegno socio-caritativo della Chiesa (con la Commissione di Studio Iustitia et Pax), oltre che gli studi teologici e biblici, e che seguì con zelo l'espansione dei media cattolici, possiamo dire che egli fu il più grande riformatore della storia bimillenaria del Papato. La Riforma Tridentina fu infatti realizzata da Pio IV (1560-1565), Pio V (1565-1572), Gregorio XIII (1572-1585) e Sisto V (1585-1590): ossia da quattro pontefici in trent'anni. Vero è che le riforme tridentine erano più difficili da realizzare, ma rimane il dato che Paolo VI da solo prese più decisioni di questi riformatori, che tra l'altro videro continuata la loro opera da molti altri papi (Urbano VII, 1590; Gregorio XIV, 1590-1591; Innocenzo IX, 1591; Clemente VIII, 1592-1605; Leone XI, 1605; Paolo V, 1605-1621; Gregorio XV, 1621-1623; Urbano VIII, 1623-1644), mentre la struttura fondamentale delle riforme del Vaticano II si esauriscono con Paolo VI. Analogamente, nessun Papa medievale riformatore prese tante decisioni come Montini; e anche la grande Riforma gregoriana, che prende il nome da Gregorio VII e che plasmò il volto della Chiesa per i secoli a venire, si realizzò in realtà nell'arco di un secolo e attraverso svariati Pontefici (i riformatori pregregoriani Leone IX, 1049-1054; Vittore II, 1055-1057; Stefano IX, 1057-1059; Niccolò II, 1059-1061; Alessandro II, 1061-1073; quelli gregoriani Gregorio VII, 1073-1085; Vittore III, 1086-1087; Urbano II, 1088-1099; Pasquale II, 1099-1118; Gelasio II, 1118-1119; Callisto II, 1119-1124; quelli postgregoriani: Onorio II, 1124-1130; Innocenzo II, 1130-1143; Celestino II, 1143-1144; Lucio II, 1144-1145; Eugenio III, 1145-1153). Dati alla mano, Paolo VI ha riformato da solo più di ogni altro e in tempi molto più brevi. Inoltre a Montini va addebitata la rielaborazione del concetto di Chiesa in relazione al mondo, sviluppando e applicando una teologia del dialogo che trova nell'enciclica Ecclesiam Suam del 1964, il documento programmatico del pontificato, una completa enunciazione, anteriore alla Gaudium et Spes del Vaticano II (1965). Concependo la Chiesa come una realtà organica che si relaziona alle altre confessioni religiose e agli altri gruppi umani, Paolo VI amplia la traccia dell'ecumenismo cristiano passando a quello panreligioso e filantropico, pur fondando sapientemente tutto ciò su una retta interpretazione della dottrina cristiana. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono considerati Papi del dialogo, ma il teorico della dialogicità fu proprio il colto Montini. Egli così diede uno statuto teoretico alla collocazione della Chiesa nel mondo di oggi, multicentrico e policulturale, così come i suoi predecessori altomedievali l'avevano adattata ad una società monolitica e monoculturale, facendone l'anima. In questo senso l'Ecclesiam Suam e gli organismi burocratici deputati al dialogo (i Segretariati per l'Unità dei Cristiani, per i Non - Cristiani, e per i Non - Credenti, oggi Pontifici Consigli in seno alla Curia Romana) sono importanti come la Ad Abolendam di Lucio II, o la Vergentis in Senium di Innocenzo III, o la Excommunicamus et Anathematizamus di Gregorio IX, o la Ad Extirpandam di Innocenzo IV che organizzano, in un settantennio, l'Inquisizione. C'è da ritenere che l'influsso della Ecclesiam Suam sarà altrettanto profondo nel futuro della Chiesa. Lo sforzo di ripudiare l'uso della violenza nei rapporti interreligiosi - già consolidato nella prassi dai tempi della Rivoluzione Francese - canonizzato dal magistero montiniano e ribadito ossessivamente da Giovanni Paolo II nei drammatici frangenti che viviamo è importante e profondo come il canone Quicumque del Concilio di Clermont che istituì le Crociate. Ma sbaglierebbe chi credesse che il magistero montiniano è "buono" e quello del Papato medievale o moderno - come la Summis Desiderantes Effectibus di Innocenzo VIII sulla stregoneria - sia "cattivo": sono solo modi diversi con cui il Cristianesimo, religione prensile e sofisticata, si adatta alle epoche. Certo, la nostra civiltà è più raffinata di quella medievale, per cui possiamo ben dire che dialogare è meglio di combattere, tollerare è meglio di perseguitare, ma non dobbiamo farne un valore assoluto, quasi che il futuro non possa migliorarci o peggiorarci, o dovessimo giudicare il passato come il presente, ipotecando il futuro. La complessa filosofia - etica e antropologica - che sottende le raffinate intuizioni di Paolo VI - e che in buona parte si riempie dei contenuti del personalismo cristiano innestati ovviamente su una metafisica tomista - suppone distinzioni sottili tra la dignità dell'uomo - immutabile - i suoi diritti - storicamente concepiti e condizionati - e la sua libertà - intesa come mezzo. In ragione di ciò nulla è più lontano da essa dell'irenismo o del sincretismo, anche se il rischio della perdita dell'identità è sotteso a questa nuova attitudine dialogante - lo si è visto con le erronee interpretazioni teologiche e mediatiche dell'incontro ecumenico di Assisi dell'85 - come quello della violenza era intrinseco all'attitudine della "chiusura". Sono rischi da non sottovalutare, ma che non devono far dimenticare la positività presente in entrambi gli atteggiamenti.

Da questa teologia del dialogo Paolo VI fece discendere un impegno politico complesso. Gli sforzi per l'unità dei Cristiani, già iniziati da Giovanni XXIII e proseguiti con Giovanni Paolo II, furono in lui intensi e ricchi di simbolico significato, come si confaceva alla sua cultura raffinata. E rappresentano la speranza che ancora oggi non si smarrisce di vedere i cristiani riuniti, anche se in quest'ottica qualcosa va sacrificata al futuro - in questa prospettiva papa Wojtyla ancora non concede ai Ruteni uniti un Patriarca, per non irritare il già troppo suscettibile Patriarcato moscovita ortodosso. Ma dalla dialogicità trasse linfa anche la più discussa scelta politica di Paolo VI, la prosecuzione in grande stile della Ostpolitik già voluta da Giovanni XXIII. Essa fu un'esigenza pastorale, volta a dare un pò di respiro ai cristiani perseguitati, ma anche una precisa conseguenza di una volontà di coesistenza pratica, suffragata dalla necessità. Altri avrebbero preferito una politica a muso duro, altri ancora rinfacciano a Montini di aver creduto che il comunismo fosse destinato a lunga vita. In effetti, pur conoscendo bene gli orrori del sistema sovietico, Montini credeva che lo stomaco della storia lo avrebbe digerito molto più lentamente, e guardò ad esso come il suo maestro di politica Pio XII aveva guardato al Nazismo: anzitutto come ad un fatto politico, e poi come ad una mitologia manichea (Hitler spezzava il mondo in razze elette e dannate, Lenin e Stalin in classi oppresse e opprimenti, ma i risultati sono sostanzialmente i medesimi, e il fondo dicotomico comune). Il cardinal Casaroli ha lasciato un interessante ma incompleto resoconto documentario sulle trattative di un trentennio, estenuanti in casi come la Cecoslovacchia, difficili in Ungheria, Polonia e Iugoslavia, marginali in Bulgaria. Alcune garanzie minime furono raggiunte. Su molte cose bisognò far buon viso a cattivo gioco. Molte personalità illustri furono ostili a questo neue kurs e alcune furono sacrificate - come Beran o Mindszenty . Inoltre questa politica trovò il suo naturale sbocco nell'offensiva di Wojtyla e Reagan, perchè essa non era fine a se stessa. Ma fu utile e umana. Del resto, dopo la morte di Giovanni XXIII, il grande primate di Polonia Stefan Wyszinsky, che certo non può passare per debole, ammonì i cardinali dal voler tralasciare l'esempio di Roncalli, il cui cauto ottimismo aperturista aveva permesso ai cristiani d'Oriente di riprendere a respirare. E Paolo VI continuò su questa scia, sebbene spesso il potere sovietico barasse, e lui lo sapesse. Per esempio, il famoso gesto della liberazione dell'arcivescovo ruteno Slipy da parte di Kruscev, con conseguente espulsione dalla Russia, fu certo meno clemente dell'atto con cui Beria, nei brevi mesi del suo primato politico dopo la morte di Stalin, aveva restituito il presule alla sua diocesi, riconoscendo l'esistenza della Chiesa uniate che il despota scomparso aveva invece forzatamente annesso al Patriarcato russo. Del resto, Kruscev, sotto Stalin padrone dell'Ucraina, aveva fortemente perseguitato i poveri ruteni cattolici. Ma la volontà di tutelare i fedeli in Paolo VI fu costante e sincera. E gli sforzi a tutto campo: verso Zivkhov, Ceausescu, Tito, Husak, Podgorny, Gomulka, Gierek, che almeno in minima parte e certo anche per propaganda, corrisposero, ma anche verso chi, come Castro o Mao Tse-Tung, non lo degnarono neanche di una risposta. E ancora oggi le condanne di Giovanni Paolo II, tanto chiare nei confronti di tutte le violazioni dei diritti umani, debbono spesso essere poco meno che velate, quando ci sono, per evitare di aggravare le condizioni dei credenti in paesi ancora ostili, come la Cina, o addirittura sigillati, come la Corea del Nord. Segno di come in alcuni casi al dialogo non c'è alternativa. Nel quadro di questa politica internazionale va visto l'impegno di Montini a trovare una soluzione negoziata alla Guerra del Vietnam. Sebbene i seguaci di Ho Chi - Min non fossero affatto teneri con la Chiesa - come del resto Diem, cattolico, non lo era stato a Saigon con la Pagoda, anche se senza l'odio sanguinario dei Vietcong - Paolo VI cercò un'imparzialità il cui successo si vede nel fatto che non fu apprezzata nè dagli USA nè dal blocco cino-sovietico. E in questo quadro va valutato il suo articolato rapporto con la politica italiana.

Si dice che le massime interferenze pratiche del Vaticano nei fatti politici italiani si ebbe con Pio XII. Ed è vero. Molti furono i veti, e parecchi i suggerimenti. Tutti peraltro a posteriori saggi. E perfettamente legittimi sia canonicamente che ai sensi del Trattato Lateranense. Ma nessun papa più di Montini "pensò" la politica italiana. Il suo contributo appare esangue perchè coperto dalla sua collimanza di vedute con i massimi statisti dell'epoca in Italia. Ma ci fu. E diede copertura, se non teologica, almeno pastorale alle scelte della Dc di Fanfani e di Moro. Condividendone errori e successi. Momtini arcivescovo di Milano fu l'unico presule a rifiutare solo temporaneamente l'apertura a sinistra della Dc, mentre gli altri prelati - Siri e Ruffini in testa - dissero un no definitivo che però i fatti smentirono. Giovanni XXIII aveva subordinato il suo sì al Centrosinistra se negoziato su un programma - e in tal senso fu ingannato dalla Sinistra Dc e da qualche curiale - Paolo VI invece mise da parte queste pregiudiziali. Egli condivise il progetto fanfaniano di allargare le basi della democrazia parlamentare coinvolgendo Nenni nella piattaforma di governo, per isolare il PCI. Credette evidentemente che valesse la pena tentare un sistema misto liberal-dirigista in cui far realizzare le nobili aspirazioni contenute nelle sue encicliche sociali - Populorum Progressio, Octogesima Adveniens. Certo non smentì mai la politica dello statista aretino, e l'atteggiamento dei più clericali dei democristiani, come Andreotti, passati senza troppi patemi dal Centrismo puro di Scelba a quello annacquato del connubio tattico coi socialisti, dimostrano che nelle Sacre Stanze nessuno meditava anatemi. In realtà Paolo VI era convinto che l'esperienza del socialismo in Italia fosse inevitabile, e come tanti cercava solo di dilazionarlo. Per questo trangugiò in silenzio - senza nè approvazioni nè condanne - persino il Compromesso storico. E la sua commossa partecipazione ai funerali di Moro attestò che non vi erano dubbi sull'onesta intenzione ortodossa dello scomparso. Ma Moro aveva torto. E anche Paolo VI. Ma era difficile capirlo allora. La marea sconcertante del '68 - con i suoi prodromi ecclesiastici fatti di Catechismi olandesi, Franzoni, Mazzi ecc., che oggi sono archeologia religiosa ma allora erano apparentemente minacciosi - i successi sconvolgenti - e immeritati - del Maoismo, il diffondersi in forme sempre più radicali del comunismo nel Terzo Mondo - penso all'allucinato inferno di Pol Pot nella Kampuchea Democratica, ma anche all'Angola, al Mozambico, all'Etiopia di Menghistu - e del modello terrorista in America Latina - Sendero Luminoso - e in Italia - BR, Lotta continua e via farneticando - non erano certo segnali che i più potessero facilmente interpretare come sintomi di decadenza, anche se le crepe della storia già si aprivano silenziose nell'edificio marxista. Se Paolo VI avesse avuto la tempra dell'uomo di lotta, forse si sarebbe opposto a muso duro a tutti i fautori dell'appeasement, ma egli era anzitutto un intellettuale, convinto appunto della ineluttabilità dell'affermarsi del bolscevismo, e agì di conseguenza, come del resto agirono tutti gli statisti della sua generazione, con Kissinger e Nixon in testa, che rispettivamente nel 1971 e nel 1972 andarono a ossequiare Mao Tse-Tung a Pechino. L'mserimento della Cina popolare nell'ONU al posto di quella nazionalista sembrava consolidare il bipolarismo capital-comunista (1971), e la prontezza dell'intervento sovietico in Cecoslovacchia (1968) facevano credere che il blocco comunista europeo fosse inespugnabile. In questo contesto l'appoggio tacito di Montini alla controversa linea morotea va visto come comprensibile, incoraggiato dall'aperturismo di Berlinguer e dell'Eurocomunismo, e reso impellente dal temuto sorpasso elettorale del PCI sulla DC. Il regresso in tutto il mondo delle Destre antibolsceviche, con le morti di Franco, Salazar e Peron, nonchè la caduta dei Colonnelli greci, e la loro screditata sopravvivenza solo nel Terzo Mondo, con personaggi discutibili come Mobutu, Barre o Pinochet sembravano davvero non lasciare altro spazio, nella politica "corretta", se non a svariate forme di Centrosinistra. Salvo però registrare forme sotterranee di anticomunismo e di oltranzismo atlantista, che lavoravano, anche scorrettamente, alle spalle del conformismo filocomunista imperante. E' il caso della P2 in Italia, le cui propaggini non a caso lambirono la Santa Sede, proprio per una contiguità politica tra gruppi di potere legittimamente preoccupati dell'avanzata rossa. E a farne le spese fu la finanza bianca e lo IOR, incautamente coinvolti - e poi screditati - da personaggi di cui però all'epoca si disse tutto il bene possibile. Va detto, tra l'altro, che la situazione finanziaria del Vaticano, alla morte di Montini, era piuttosto grave, a prova del fatto che la Chiesa fu essa stessa vittima dei raggiri di certi manutengoli, che continuarono anche nei primi anni Ottanta.

Ma Paolo VI fece politica in modo nuovo rispetto al passato: non solo la finanza e la diplomazia furono i suoi strumenti, ma anche altri atti a raggiungere quelle masse che egli giustamente considerava sue interlocutrici in un'epoca di fitte comunicazioni globali: i pellegrinaggi internazionali e nazionali. E' una lezione che, come quella riformatrice e quella dialogica ed ecumenica, egli ha lasciato al successore Giovanni Paolo II, che l'ha applicata fino alle estreme conseguenze. Paolo VI si chiamò così per la volontà evangelizzatrice, e i suoi viaggi furono altamente simbolici: la Terra Santa - dove incontrò il patriarca ecumenico Atenagora I, altro grande personaggio storico - e l'India (1964), l'ONU (1965), Fatima e la Turchia (1967), la Colombia (1968), Ginevra e l'Uganda (1969), l'Estremo Oriente e l'Oceania (1970), e svariati altri in Italia. Ovunque potè toccare con mano i problemi e far sentire la sua voce.

Questa fu tra le più significative del magistero papale del XX secolo. Se gli insegnamenti di Leone XIII (1878-1903) hanno preparato l'incontro tra Chiesa e modernità, quelli di Paolo VI l'hanno concluso. Credo che Montini, oltre che l'aureola di Santo, meriterebbe anche quella di Dottore della Chiesa. Le sue encicliche hanno segnato una scia di attenzione ai problemi socio-culturali ma nel contempo di sobria e decisa difesa della dottrina che Giovanni Paolo II ha ampiamente proseguito. Dell'Ecclesiam Suam, della Populorum Progressio e dell'Octogesima Adveniens ho detto. Queste ultime due hanno ampiamente modificato e integrato il pur ricco insegnamento dei predecessori, e hanno inserito la Questione sociale sul tronco di quella della Giustizia sociale internazionale, e anche questo schema è stato seguito da Giovanni Paolo II, che con la Laborem Exercens, la Sollicitudo Rei Socialis e la Centesimus Annus ha dato il più cospicuo contributo della storia all'elaborazione della dottrina sociale. Encicliche come la Mysterium Fidei ed Esortazioni apostoliche come la Marialis Cultus sintetizzano in modo vivace grandi filoni dottrinali come quello eucaristico e quello mariano, in un'età di dura contestazione. Encicliche come la Sacerdotalis Coelibatus o la Humanae Vitae o Dichiarazioni come la Humana Persona hanno ribadito con coraggio la dottrina tradizionale. Le Esortazioni apostoliche Evangelii Nuntiandi e Catechesi Tradendae - che è farina del sacco dell'ultimo sinodo montiniano, anche se promulgata da Papa Wojtyla - toccano temi come la missionologia e la catechesi, mentre in un gioiellino come la Gaudete in Domino il tema delicato della gioia cristiana viene rilanciato in un momento di profonda crisi mondiale. Il Credo del Popolo di Dio pose un freno all'orgia di revisionismo teologico che impazzava nel postconcilio. Infine, il testamento del Papa lascia un'eredità morale fatta di delicata ed eletta spiritualità: una personalità cristiana scolpita nel vivo dello spirito emerge nitida da queste pagine commoventi.

Ci fu un vuoto di potere negli ultimi anni di Montini, specie in relazione alla contestazione ecclesiastica ? Forse la riduzione allo stato laicale di Franzoni e la sospensione a divinis iudiciis di Lefebvre furono un po' troppo leggere ? Probabilmente un personaggio meno amletico e più forgiato al governo non avrebbe avuto tante incertezze. Avrebbe per esempio temuto meno lo scisma olandese, tenendo in maggior conto le ambizioni dei presuli batavi, più desiderosi di influenzare Roma che di lasciarla. Forse credeva che pure nella Chiesa dovesse accadere una esperienza rivoluzionaria. Ma se lo credette, non si ingannò mai sulla sua natura, e parlò di fumo di Satana. E negli ultimi anni meditò una svolta restauratrice e autoritaria che, se fosse stata realizzata, avrebbe modificato la storia del Papato. A conti fatti, nonostante che qualche sterzata più energica non avrebbe fatto male, gli esiti fallimentari della contestazione ecclesiastica dimostrano che Paolo VI non si era ingannato sulla natura transitoria di certi fermenti solo apparentemente epocali.

Chi fu realmente l'uomo Montini ? Il suo contegno riservato, la sua indole riflessiva, la sua natura problematica lo tennero sempre celato. Chi voglia capire a fondo quest'uomo deve leggersi i suoi Dialoghi col filosofo francese Jean Guitton, l'intellettuale che più di tutti lo capì, vero interprete della sua raffinata cultura d'Oltralpe. Montini fu essenzialmente un intellettuale e un contemplativo, chiamato a governare in frangenti difficilissimi, quali non si vedevano dalla Rivoluzione Francese. Ma fu fedele alla sua vocazione di pontefice amante della moderazione e dell'equilibrio. Per questo fu spesso frainteso dagli spiriti della sua epoca. Ma essi erano troppo grossolani per capirlo. E' sicuramente questo un motivo di ulteriore stima postuma.


Theorèin - Novembre 2004