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A cura di: Vito Sibilio
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ALLA RICERCA DI DIO

Ormai solo un Dio ci può salvare
Martin Heidegger

DIVINA REVELATIO
La Rivelazione di Dio all’Uomo

La Divina Rivelazione è la comunicazione di sé che Dio fa all’uomo, storicamente accaduta, che ne rompe l’isolamento creaturale, essendo la natura umana impossibilitato dai suoi limiti a conoscere il mistero divino, e lo rende partecipe degli aspetti intimi del Suo essere. In poche parole, essa squarcia il velo (re-velatio) oltre il quale si cela il mistero di Dio stesso, che altrimenti nessuno mai potrebbe conoscere. Le verità che Dio si degna di farci conoscere, rendendoci suoi amici e confidenti (1), sono chiamate con parola tecnica dogma, inteso sia come singolo enunciato (p.es.: Dio è Uno in Tre Persone), sia come la somma di tutte le dottrine della fede. L’insieme delle dottrine, sia esplicitate – ossia definite come dogmi, in quanto riconducibili ad una formula che può essere oggetto di professione di fede- sia implicite – nelle verità definite - è chiamato da San Paolo Depositum Fidei, deposito della Fede (1 Tm 6,20). La negazione di uno o più dogmi è detta eresia, ed è considerata alto tradimento contro Dio (2); colui che la professa è separato dalla Chiesa e da Dio, come attesta Paolo in Gal 1, 8-9. Le verità di fede non sono tutte eguali: le principali sono professate nel Credo – Unità e Trinità di Dio; Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Cristo- le altre ne sono una conseguenza, sia pure nell’ordine soprannaturale stabilito liberamente da Dio. Esse non riguardano solo le realtà metafisiche, ma anche la vita morale, sebbene generalmente i precetti divini non siano indicati nel termine dogma, ma si preferisca riferirsi ai Comandamenti. La morale rivelata, in effetti, contiene da un lato la conferma autorevole di quei precetti che anche la ragione potrebbe conoscere – come il Decalogo – dall’altro una serie di insegnamenti superiori che l’uomo può capire e compiere solo con l’aiuto di Dio – come la pratica delle virtù teologali o delle Beatitudini evangeliche.

La Rivelazione è un gesto completamente gratuito di Dio. Egli non è mai in nessun caso vincolato nel mostrare all’uomo alcunché di sé, non avendone bisogno, né volendo costringersi in virtù di nessuna legge dell’ordine creato. Le verità rivelate sono dunque un purissimo dono della Misericordia Divina, che le comunica a tutte le intelligenze inferiori alla propria, o ad alcune di esse, creando così un legame tra Dio e le creature. Nasce così la religione, nel senso etimologico di legame.

La Rivelazione non è necessaria alla Creazione. Dio poteva creare il mondo, l’uomo e persino gli angeli senza rivelarsi loro, ossia lasciandoli con una mera conoscenza razionale di sé. Ma avendo deciso di sollevare sia l’uomo che gli spiriti alla vita di grazia, cioè alla sua stessa vita, con lo stesso decreto con cui sancì di santificarli, stabilì di rivelarsi a loro.

Il processo della Rivelazione è, come dicevamo, storico. La mente creata non potrebbe mai ricevere tutta insieme la verità di Dio, la cui piena comprensione ci impegnerà peraltro per tutta l’Eternità: perciò il Rivelatore ha voluto compiere a tappe il suo piano. Esso si articola essenzialmente in quattro fasi:

I. La Rivelazione dai Patriarchi a Mosè (3);

II. La Rivelazione da Mosè ai Profeti (4);

III. La Rivelazione in Gesù Cristo, Verbo Eterno del Padre fatto Carne e sua Sapienza Increata, in cui è l’apice della verità rivelata e autorivelantesi (5);

IV. La Rivelazione degli Apostoli, con la morte dell’ultimo dei quali si chiude il deposito della Fede (6).

Queste fasi implicano ognuna una prospettiva storico-religiosa differente, che trapassa nella successiva. La rivelazione arcaica di Dio col primo uomo trapassa nella rivelazione abramitica – dal cui ceppo culturale scaturiscono i tre monoteismi (7)– per poi puntualizzarsi nella religiosità di Israele, premosaica, mosaica, preesilica e postesilica, sino al compimento delle attese messianiche, all’inizio degli ultimi tempi con l’avvento di Cristo e alla nascita della comunità ecclesiale, destinata a sopravvivere al cosmo stesso e ad entrare nell’Eternità. Se dunque il Cristianesimo non è né la prima né l’unica né l’ultima religione rivelata (8), è altrettanto logico dedurre che esso non può considerare valida alcuna rivelazione anteriore non convogliata in sé né alcuna posteriore avvenuta fuori di sé. L’idea di irenismo e sincretismo è tagliata in radice da questa concezione. Chi sostiene di poter attingere a una verità superiore è come se desse a Dio del bugiardo.

LE FONTI DELLA RIVELAZIONE

La Rivelazione è fissata in due fonti, una scritta e una orale. Lo zampillio da esse dell’acqua della verità è cristallizzato per sempre o, se si preferisce, continua sempre uguale, che poi è la stessa cosa. La prima contiene le verità di fede ed è ispirata dallo Spirito Santo sia in ordine alla forma che alla materia, ossia al contenente e al contenuto. La seconda contiene anch’essa le verità di fede, ma il contenente – ossia le varie forme in cui l’insegnamento orale si tramanda – non è ispirato e quindi è suscettibile di modifica. L’ispirazione è, dal canto suo, l’influsso divino mediante cui viene recepito, dall’autore sacro, solo e tutto ciò che Dio vuole che egli trasmetta.

La prima fonte è la Sacra Scrittura o Bibbia, plurale greco che indica la moltitudine di libri che la compongono. Essa è stata composta in epoche diverse, e ha fissato per iscritto ciò che Dio ha rivelato ai vari autori e/o ai protagonisti del racconto sacro (9). La Bibbia è Parola di Dio, nel senso che contiene il suo insegnamento, ma non va confusa con la Parola stessa, quasi che il Libro sia la Parola in sé. A differenza del Corano e, in parte, della Bibbia ebraica, la Bibbia cristiana è solo un mezzo, anche se il più eccelso e immodificabile, con cui la Parola Divina si comunica. Essa infatti, che altro non è che il Verbo di Dio, o la sua Sapienza, ossia il Figlio, si è fatta Uomo in Cristo, e non libro nella Bibbia. Ragion per cui, mentre il Cristianesimo non può in nessun modo alterare la fisionomia storica del Cristo, in cui tutto è sacro, perché Egli stesso è la Verità, può invece interpretare in modi sempre più approfonditi la Bibbia, mediante uno studio costante che è esso stesso ispirato dallo Spirito. Generalmente sono quattro i livelli interpretativi del sacro testo: letterale, morale, anagogico e allegorico (10). Il primo pertiene alla narrazione in quanto tale, redatta secondo i criteri culturali dell’epoca in cui è stata compiuta, e quindi suscettibile di integrazione da parte delle varie discipline ausiliarie della storia e della filologia in ogni epoca. Il secondo concerne l’esempio che può essere desunto dal fatto narrato, in base al grado di perfezione raggiunto dall’insegnamento etico al momento della scrittura e della lettura. Il terzo indica il contenuto di fede che il brano suppone o simboleggia. Il quarto mostra in che modo la Parola rimandi alle speranze connesse alla vita ultraterrena. Chiamiamo i tre sensi morale, allegorico e anagogico anche col solo lemma senso spirituale. E così, per esempio, i sacrifici del culto mosaico sono interpretabili come allegorie di quello del Cristo – e in genere tutte le profezie sono allegorie. I trionfi terreni di Israele sono leggibili in senso anagogico, rimandando al premio eterno. I libri sapienziali danno precetti morali, alla stessa stregua dei protagonisti dei racconti storici. I quattro sensi non sono mai separati, ma si inglobano l’uno nell’altro, come scatole cinesi. In genere, tutti i libri della Bibbia sono letti in ordine al Cristo venturo o venuto.

I libri biblici sono settantadue, divisi in un gruppo di quarantacinque e in uno di ventisette. Il primo è detto Antico o Vecchio Testamento, con una parola greca che indica l’Alleanza stipulata tra Dio e l’uomo ma caduta in disuso con l’avvento del Cristo. In realtà le Alleanze anteriori al Cristo sono almeno quattro (11), ma in genere si considera quella centrale, quella mosaica. I libri dell’AT sono divisi in storici, profetici e sapienziali. Tale suddivisione è tipicamente cristiana, essendo quella ebraica basata sulla tripartizione della Legge, Profeti e Scritti sapienziali. Non tutti i libri dell’AT cristiano sono contenuti nella Bibbia ebraica, ma tutti quelli ebraici sono contenuti in quella cristiana (12).

I libri storici sono: Genesi, Esodo, Numeri, Levitico e Deuteronomio, che costituiscono la Legge o Torah mosaica, detta anche Pentateuco, attribuita in blocco alla redazione di Mosè dalla antica tradizione rabbinica e patristica; Giosuè, Giudici, Rut, Primo e Secondo Libro di Samuele (o Primo e Secondo Libro dei Re), Primo e Secondo Libro dei Re (o Terzo e Quarto dei Re), Primo e Secondo Libro delle Cronache o Paralipomeni; Primo e Secondo Libro di Esdra (o Libri di Esdra e Neemia), Tobia, Giuditta, Ester, Primo e Secondo Libro dei Maccabei. Narrano la storia del mondo dalla Creazione al Diluvio Universale, e dopo questo fino ad Abramo, e da lui la storia di Israele fino alla fondazione della monarchia asmonea in età ellenistica. Non mancano tuttavia iati temporali. Gli autori dovrebbero essere gli eroi eponimi, ma spesso sono probabilmente pseudo epigrafici, e i redattori sono sconosciuti. Ciò tuttavia non inficia la loro validità. Religiosamente descrivono l’alleanza di Dio con Adamo, con Noè, con Abramo e, dall’Esodo in poi, con Israele tramite Mosè.

I libri sapienziali contengono massime, insegnamenti e preghiere, spesso in forma poetica: Giobbe, i Salmi, Proverbi, Qoélet o Ecclesiaste, Cantico dei Cantici, Sapienza e Siracide o Ecclesiastico. Molti sono attribuiti a Salomone, ma anch’essi sono pseudoepigrafici. Altri hanno autori precisi o più autori.

I libri profetici contengono appunto gli oracoli dei Profeti. Il Profetismo costella tutta la storia ebraica. Molti hanno scritto o hanno fatto scrivere i loro vaticini. Distinguiamo quattro profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele), autori o eponimi di altrettanti libri - più le Lamentazioni di Geremia e il Libro di Baruc suo discepolo, posti dopo il testo geremiano - da dodici minori, così detti per la brevità dei loro scritti: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

Il Nuovo Testamento contiene i libri della Rivelazione cristiana (13). Si dividono in tre gruppi: storici, didattici e profetici.

Gli storici sono i Vangeli secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni, che narrano la vita di Gesù, e gli Atti degli Apostoli, di Luca, che raccontano le vicende di Pietro fino al 42 ca. e di Paolo fino al 62 ca.

I didattici sono le Epistole o Lettere. Quattordici sono di Paolo: ai Romani, Prima e Seconda ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi e ai Colossesi, Prima e Seconda ai Tessalonicesi, Prima e Seconda a Timoteo, a Tito, a Filemone e agli Ebrei, oggi generalmente non più attribuita all’Apostolo, e che però non è una lettera, ma un sermone di altissimo livello. Sette lettere sono dette Cattoliche per il loro indirizzo universale: di Giacomo, Prima e Seconda di Pietro, Prima, Seconda e Terza di Giovanni, di Giuda.

Uno solo è il libro profetico, l’Apocalisse di Giovanni, afferente a un genere specifico, tipico delle rivelazioni.

I libri entrarono in uso spontaneamente, per l’autorevolezza dell’epigrafe, per la vicinanza ai fatti narrati, per il ruolo svolto nella storia religiosa. Si costituirono perciò in un elenco normativo o canone, che conteneva in sé una dottrina coerente, tale da escludere i testi difformi, o non riconducibili all’autore epigrafico, anche se ortodossi, e detti perciò non-canonici o apocrifi, sia nel Giudaismo che nel Cristianesimo. Il canone è dunque il punto di arrivo, e non di partenza, del riconoscimento dell’ispirazione della Scrittura, e perciò una volta fissato è irreformabile (14).

La seconda fonte della Rivelazione è quella orale, detta Tradizione, dal latino tradere, tramandare. Essa è irreformabile nei contenuti ma non nei contenenti. Infatti attinge all’insegnamento orale degli Apostoli, ossia a quello non scritto nella Bibbia, ma scritto evidentemente altrove. Il succo dottrinale della Tradizione trapassa da una generazione all’altra nella letteratura ecclesiastica (15) e in tutte le forme in cui si esprime la vita della Chiesa: la liturgia, la preghiera, l’arte sacra, ecc (16). Tale tradizione, rifiutata dai protestanti per il principio della sola Scriptura (17), non può invece essere espunta dalla Rivelazione (18), sia perché ogni testo – Bibbia compresa – è sempre il punto di arrivo di una tradizione orale (19), che in parte le sopravvive, sia perché la Bibbia stessa fa riferimento alla Tradizione nel corso della quale essa si produce (cfr. 2 Ts 2, 15; 2 Gv 12; 3 Gv 13-14). La Tradizione è dunque sia costitutiva delle verità di fede che interpretativa della Scrittura. Ma non vi è dicotomia tra le verità dell’una e dell’altra. La moderna ermeneutica letteraria ci aiuta a capire il complesso rapporto tra il testo scritto e quello orale, che è scritto anch’esso in modi e luoghi diversi. L’uno e l’altro si interpretano e costituiscono a vicenda (20). E così il dogma trinitario o cristologico o soteriologico sono espressi nella Scrittura, spesso in modo implicito o discorsivo, e sono invece fissati nel linguaggio tecnico dalla Tradizione. L’una interpreta il senso dell’altra. In modo ancor più chiaro ciò s’intende con i dogmi mariani dell’Immacolata o dell’Assunta, espressi solo in modo allegorico, il cui significato è univocamente fissato dalla tradizione, che però non potrebbe costituirsi come fonte rivelante di questi dogmi, senza i luoghi biblici di quei dogmi. La distinzione tra funzione costitutiva e interpretativa della Tradizione, su cui tanto si discusse per favorire l’avvicinamento coi Protestanti, non ha dunque più nessuna ragion d’essere, essendo esse due modi dell’unica funzione propria di entrambe le fonti della Rivelazione (21).

L’INTERPRETE DELLA RIVELAZIONE: IL MAGISTERO

La Rivelazione divina nelle sue due fonti esige di essere interpretata. Questa ermeneutica, che è cosa diversa dalla Rivelazione stessa, è un’esigenza impostata da Gesù stesso, e avviene anch’essa sotto l’influsso dello Spirito Santo, come attesta Lui in persona quando dice: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera (Gv 16,13)”. La Chiesa, depositaria della Rivelazione, ne è l’interprete in modo infallibile. Diversamente, l’atto del rivelarsi sarebbe inutile, in quanto nessuno potrebbe comprenderlo. Il noto principio luterano, per cui l’approccio alla Scrittura si deve basare sul libero esame del singolo credente, interpretato alla lettera slega il singolo dalla comunità e crea il presupposto della confusione (cfr. 2 Pt 1, 20-21). Non a caso in nome del libero esame il Protestantesimo si è frantumato in una miriade di Chiese. E’ dunque evidente che l’esame libero può essere rettamente compiuto dal fedele libero dall’ignoranza, e ciò avviene in seno alla Chiesa, alla quale sola, nel suo complesso, Dio ha affidato la capacità di intendere rettamente la verità rivelata. E’ essa come istituzione, le cui fondamenta sono nello Spirito Santo, ad essere garante dell’intellezione autentica del deposito della Fede (22). Questa infallibilità della Chiesa si esplica su due livelli.

Il primo è quello della Chiesa nel suo complesso, quale Mistico Corpo di Cristo, che, conformemente al suo Capo, non si inganna nel conoscere i segreti del Padre. La fede professata e creduta, anche se non esplicitamente tematizzata, dalla Chiesa universale, non è suscettibile di errore. La facoltà che garantisce tale infallibile sentire è il sensus Fidei, il senso soprannaturale della Fede. Verità come l’Immacolata Concezione o l’esistenza del Purgatorio, prima di essere presenti in qualsiasi atto del magistero, sono state professate dal popolo fedele, infallibilmente. Tale suo sentire era vincolante per il magistero stesso. Il senso della Fede è capace di intuizione immediata del significato della Bibbia e del deposito contenuto in essa e nella Tradizione.

Il secondo grado di infallibilità è di pertinenza del magistero propriamente detto. Esso, come facoltà dell’insegnare, è proprio della Chiesa docente, la quale, in virtù di tale dono, svolge la sua funzione nei confronti di quella discente. La prima è costituita dall’Episcopato, la seconda da tutti gli altri fedeli. All’Episcopato, i cui membri sono i successori degli Apostoli, perché da qualsiasi vescovo si può risalire, di ordinazione in ordinazione, a uno dei XII, in virtù di questa successione apostolica, si applica la promessa di Gesù ai suoi discepoli eletti: “Chi ascolta voi, ascolta me (Lc 10, 16)”.

Questo magistero può essere esercitato da tutti i Vescovi nel loro complesso, guidati dal loro capo, il Vescovo di Roma, detto Papa, oppure dal Papa soltanto. Agli Apostoli tutti insieme e al solo Pietro, poi primo Vescovo di Roma, del quale sono successori tutti gli altri Vescovi della città dopo di lui, Cristo disse, rispettivamente: “Tutto ciò che legherete sulla terra sarà legato nei cieli; tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 18, 18)”; “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli; tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 16,19)”. Nel linguaggio rabbinico, legare e sciogliere indica proprio l’atto di imporre dei doveri agli uomini e di insegnare loro la verità divina, da cui promanano tali doveri. E’ cioè una assicurazione di infallibilità. Naturalmente, non essendo finita la Chiesa, non è finita neanche la validità della promessa (23).Ma tale promessa si articola su due livelli: quella del magistero ordinario e quello del magistero straordinario.

L’ordinario svolge l’ammaestramento dei fedeli continuamente (24). Esso è infallibile solo indirettamente:

1. quando è universale – ossia del Papa da solo o di lui con tutti i Vescovi (25)– e propone a credere una dottrina di fede come divinamente rivelata (26);

2. quando propone a credere in modo definitivo una verità di fede o dei costumi (27)(ossia morale), anche se non contenute nella Rivelazione, purchè ad essa connessa (28);

3. non è invece infallibile (29), quando esplicitamente non vuol porre un atto definitivo di insegnamento (30), e ammaestra in merito ad un approfondimento o ad una esplicitazione della Rivelazione (31), o alla conformità o difformità di una dottrina alla fede cattolica (32);

4. non è neanche infallibile quando interviene su questioni dibattute in cui sono presenti elementi congetturali o contingenti (33).

Agli insegnamenti formulati nel primo caso, è dovuta la fede teologale, ossia la fede che salva e che si rivolge alla Parola di Dio, così esplicitata e interpretata. A quelli del secondo, bisogna riservare un’accettazione ferma e una conseguente conservazione (34). All’insegnamento del terzo si deve l’ossequio religioso della volontà e dell’intelligenza. A quello del quarto, la volontà di ossequio leale. Il fatto che gli insegnamenti del terzo e quarto tipo siano infatti di per sé fallibili non significa che siano falsi. Significa solo che per il tipo di argomento che trattano non hanno ricevuto dallo Spirito Santo il crisma dell’infallibilità immediata, legata o alla forma o alla materia dell’insegnamento, perché non ne hanno bisogno (35).

Il magistero infallibile e indefettibile propriamente detto è quello straordinario, che per definizione si adopera per chiudere una grave controversia o per suggellare un processo di comprensione dottrinale (36). Esso implica la definizione di un dogma, ossia la dichiarazione che una data dottrina, debitamente formulata, è contenuta nella Rivelazione e non può essere oggetto di dubbio alcuno (37). Tale magistero può essere esercitato dal Papa o dai Vescovi con lui, generalmente in Concilio Ecumenico (38). Il magistero papale infallibile è detto ex cathedra, perché formulato dalla cattedra di Pietro, lo scranno metaforico dal quale egli insegna.

Il magistero è in un rapporto particolare con la Rivelazione e con la Tradizione. I loro tre contenuti coincidono. Perciò il magistero è, nella sua materia, parte della Tradizione stessa. L’insegnamento dei dottori e dei padri fu infatti in origine insegnamento di vescovi, e quindi magisteriale. C’è dunque un nesso tra Tradizione e magistero a livello di contenuti, e la costanza del magistero fallibile è essa stessa una parte qualificante della Tradizione.

Un tema particolarmente importante è quello del fondamento dell’infallibilità magisteriale. Nella Chiesa Cattolica, per evitare che tale infallibilità sia svuotata di reale contenuto, si parla di un fondamento ex sese, di per sé, per la persona o l’istituzione che ne gode. E’ una concezione teologica che si sostanzia di un elemento giuridico forte: il Papa o il Concilio sono infallibili anche se nessuno crede a quello che essi insegnano. Nella Chiesa Ortodossa si sottolinea la necessità della recezione nella fede delle verità definite, parlando di infallibilità ex consensu Ecclesiae. Ossia è la totalità del popolo fedele che ratifica il magistero realmente illuminato. In effetti, il magistero è al servizio della Chiesa, e non il contrario, ed esiste per essa. Ma come ignorare che nel corso dei secoli ampie porzioni di Chiesa hanno abbracciato altre fedi, creando scismi ed eresie? Cosa è dunque il consenso e chi lo esprime? Le due visioni si possono a mio avviso conciliare se consideriamo il consenso non come punto di arrivo, ma di partenza: una fede universale, ritenuta già in modo almeno implicito, che fonda e motiva il magistero, il quale, sebbene infallibile per sé, mai potrebbe essere dissonante dal sentire dei fedeli, per cui inevitabilmente troverà in essi anche il consenso posteriore alla sua definizione. Una distonia è impossibile, e ogni magistero infallibile rifiutato produce scisma, come ogni consenso negato ad una dottrina mai produrrà un magistero opposto.

LA RISPOSTA DELL’UOMO ALLA RIVELAZIONE: LA FEDE

A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede (Eb 11, 18). La fede è un ossequio dell’intelletto, della volontà e del sentimento, alla verità rivelata. L’intelletto riconosce la ragionevolezza del credere in Dio, Sapienza Eterna, la cui autorità si fa garante di ciò che insegna, nonostante tali insegnamenti siano superiori – ma non opposti – alla ragione umana. La volontà aderisce liberamente alla Rivelazione e ne accetta le implicazioni nella vita quotidiana. Ogni conoscenza infatti, come ben mettono in luce le epistemologie contemporanee, è anzitutto un atto volitivo di fiducia in quello che ancora non si può dimostrare. La fede fonda ciò che crede sull’autorità di Dio, e tale autorità è liberamente accettata. Agostino infatti diceva che la fede è un atto di volontà. Il sentimento aderisce alla Rivelazione ricambiando l’amore di Dio che ci parla, accogliendo ciò che Egli ci insegna. Con questa virtù, tutto l’uomo, nella pienezza del suo ordine naturale, si realizza.

Ma essa investe anche l’ordine soprannaturale, a cui l’uomo è chiamato grazie alla fede stessa. Essa è infatti un dono, una grazia, che Dio fa all’uomo singolo e alla specie umana (Mt 16,17). Tale dono è suscitato, confermato e portato a compimento da Dio stesso, il solo che può realizzare le sue proprie opere. Tale dono permette all’uomo di aderire a Dio non come aderirebbe a un suo simile, ma come Dio stesso aderirebbe a sé. La fede dunque è un atto di vita soprannaturale, in cui l’uomo opera divinamente. Operando in tal maniera, l’uomo si rende degno della ricompensa divina: piacendo a Dio per la sua fede soprannaturale, è meritevole di Dio stesso, ossia della Beatitudine. La fede non è dunque solo la recezione di una gnosi, ma è l’inizio di una economia esistenziale sovrannaturale. Essa introduce nell’amicizia di Dio. Essa, rivolta al Redentore, produce la grazia che giustifica il peccatore – come vedremo meglio prossimamente.

La fede investe la dimensione sociale dell’uomo. Egli non crede solo come singolo, ma come comunità. Dio si rivela ai Suoi, e tramite essi parla ai lontani, per cui ognuno crede nella comunità, con essa e tramite essa, custode della Rivelazione. Avere un rapporto diretto con Dio, intendendo con ciò che egli si debba manifestare ad ognuno, è impossibile, perché smentito dai fatti, in quanto nessuno vede Dio. Una via personale alla fede, per cui ognuno sa da sé cosa credere, è contraddittoria, perché dovrebbero esistere così innumerevoli verità. La fede è dunque comunitaria, sia in senso naturale che soprannaturale, ed è ecclesiale.

Essa non è in contrasto con la scienza, intesa come conoscenza umana. La conoscenza umana interroga la fede, chiedendole lumi su ciò che non può scoprire, e la fede si serve della ragione umana per chiarire i propri elementi costitutivi. Intelligo ut credam et credo ut intelligam, diceva Agostino. E Anselmo e Tommaso insegnavano che fides quaerens intellectum. La fede ha tuttavia un fondamento di autorevolezza e di sicurezza che la ragione e la scienza non hanno. La scienza si regge sulla falsificabilità (Popper), sui paradigmi interpretativi (Kuhn), sui programmi e sui giochi di ruolo (Feyerabend, Lakatos). E’ in ultima analisi priva di un fondamento assoluto. La ragione opera secondo criteri che non può mettere in discussione né costituire da sé. La fede invece si basa sull’autorità divina: essa non si deve dimostrare né elaborare, perché, appunto, si rivela. E la Rivelazione non viola alcuna legge naturale perché, nel momento stesso che avviene, mostra che essa non la vincola in nessun modo, né alcuna legge cosiddetta scientifica, perché non ne esiste una che, concettualmente, non sia stata violata più volte di fatto e di diritto (Feyerabend). Era ciò che Benedetto XVI doveva andare a dire alla Sapienza, all’inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009, impostando in modo rivoluzionario il rapporto tra l’epistemologia contemporanea e quella teologica. A tutto vantaggio della seconda. Ed è il motivo per cui la sua visita è stata boicottata.

Con la fede, l’uomo può dunque conoscere le verità più intime di Dio e del cosmo. Può costruire il discorso su di Lui, ossia il discorso teo-logico, di cui la Rivelazione è la metafisica connessa, mutuando la celebre espressione di Watkins. Può vedere Dio all’opera nella sua vita e chiedergli di intervenire in suo soccorso, purchè abbia fede come un granello di senape.

Vedremo meglio, le prossime volte, proprio l’oggetto principe della fede, la duplice verità suprema, a cui feci prima riferimento. L’Unità e la Trinità di Dio, e l’Incarnazione, la Passione, la Morte e la Resurrezione di Gesù.


  1. Gesù stesso chiama amici i suoi discepoli proprio in virtù di ciò che fa conoscere loro (Gv 15, 14-15). Analogamente i depositari di altre rivelazioni sono chiamati amici di Dio, come Mosè. Di lui l’AT dice che Dio gli parlava come ad un amico.

  2. Vergentis in Senium, 1199 di Innocenzo III (1198-1216).
  3. La Genesi contiene tutti i racconti degli insegnamenti dati da Dio stesso ai Patriarchi, sia antidiluviani – da Adamo a Noè – che postdiluviani – fino ad Abramo. Contiene altresì le rivelazioni divine ai Patriarchi d’Israele. Questi testi – la cui nozione di storicità è da spiegare in un secondo momento, per le questioni che comporta- sono il prototipo della Rivelazione divina e il suo fondamento biblico: Dio si mostra, si presenta, compie un gesto e rivela qualcosa. Nei casi maggiori stipula un’alleanza. Questa Rivelazione arcaica confluisce in quella mosaica, che è la prima scritta e sistematica, come attestano i libri biblici in cui è contenuta. E’ di capitale importanza sapere che Dio si rivelò direttamente al primo uomo, per cui la razza umana conosce sin dal principio il Vero Dio, che dimentica per sua corruzione. Questa Rivelazione viene confermata a Noè, capostipite dell’Umanità scampata al Diluvio, e costituisce il fondamento della cosiddetta Alleanza delle Genti, quella per cui Dio regge il mondo mediante le leggi di natura e gli uomini, divisi in popoli e nazioni, tramite quelle della Storia, mediante gli Angeli. Tale Alleanza cede il passo a quella mosaica, valida solo per gli Ebrei, anch’essa data per mano degli Angeli, ma che ha in Dio stesso il suo mentore e la sua guida.

  4. Per gli Ebrei, furono profeti tutti i grandi di Israele. Sebbene il Cristianesimo non accetti questa classificazione indifferenziata, la Rivelazione postmosaica è detta profetica, in tutti i suoi contenuti e autori. Per gli Ebrei, la Rivelazione mosaica fa da ponte tra quella patriarcale, che supera e ingloba, e quella profetica, da cui è integrata ma mai sostituita. Nella rivelazione profetica, i libri profetici e quelli sapienziali – di cui diremo e i cui autori parlano, esplicitamente, in nome di Dio – sono i testi paradigmatici e probanti del perdurante rapporto tra Dio e l’uomo. Nei racconti storici della Bibbia questa presenza è diluita nella narrazione, ma più volte attestata e solennemente confermata da prodigi e visioni e segni.

  5. Nel prologo della Lettera agli Ebrei l’Autore sacro dice che Dio, dopo aver tante volte in passato parlato a noi tramite i profeti, ai giorni nostri ha parlato per mezzo del Figlio (1,1-2). Il Prologo di Giovanni attesta che il Verbo è venuto nel mondo e ci ha rivelato il Padre (1, 1-18). Gesù stesso parla di sé come rivelatore, anzi come della stessa Verità vivente. La sua Rivelazione non abolisce, ma completa, come dice Lui stesso, quella di Mosè. In tale completamento, ciò che è caduco viene abolito, come per esempio le norme civili, penali e legali della legge mosaica. E’ Gesù stesso che modifica d’autorità i precetti precedenti. La Rivelazione di Gesù, raggiungendo i popoli pagani, soppianta l’Alleanza delle Genti e la sublima nella Nuova Alleanza nel suo Sangue.

  6. Gli Apostoli sono essi stessi rivelatori a nome di Dio. I fatti storici che li riguardano sono punteggiati di colloqui divini, e le loro lettere sono emanate d’autorità, mentre i testi profetici sono giocati in una diretta relazione tra loro e Dio. Essi ne ebbero coscienza: Pietro per esempio mette le Lettere di Paolo allo stesso livello dell’AT.

  7. Essendo la rivelazione maomettana successiva a quella della morte dell’ultimo apostolo, essa non può essere accettata dai cristiani, mentre i maomettani accettano una parte di quella cristiana, anche se non essenziale – rifiutando la Trinità e la Divinità di Cristo. Perciò il dialogo cristiano-islamico non è teologico in senso stretto, in quanto si basa su diversi presupposti dogmatici, ma teologico-culturale, per la comune matrice abramitica, integrata e modificata nei secoli nelle varie fedi monoteiste.

  8. Storicamente, sono religioni rivelate i tre monoteismi e lo zoroastrismo, tra le religioni esistenti. Era rivelata anche l’antica religione etrusca. Le religioni antiche (egizia, sumerica, greco-romana) e molte asiatiche si basano sul mito (come l’Induismo o lo Shinto). Le più moderne (Buddhismo, Confucianesimo, Taoismo) sono religioni filosofiche, basate sull’illuminazione implicita e esplicita.

  9. Il testo ha una storia redazionale antichissima, che va almeno dal X sec. a.C. al I d.C., ma potrebbe essere di molti secoli anteriore, con una preistoria ancor più complessa e remota. I fatti documentati e senza soluzione di continuità vanno come minimo dal XIX sec. a.C. al I sec. d.C., ma il terminus a quo potrebbe anche risalire, stando alla cronologia interna, sino al XXIV sec. a.C.

  10. Gli apostoli hanno esplicitamente asserito che tutta la Bibbia è utile per ammaestrare e insegnare; hanno anche affermato che essa è un insieme di figure che fanno capo a Cristo per la loro interpretazione (1 Cor 10, 6.11; Eb 10, 1; 1 Pt 3,21). Tali temi erano presenti anche nella Bibbia ebraica, anche se senza il riferimento a Cristo. I libri sapienziali leggono in modo simbolico e morale la storia biblica. E’ dunque nella Bibbia stessa il fondamento della quadruplice esegesi. Senza di essa, molte parti del libro sacro sarebbero oggi perfettamente inutili.

  11. Con Adamo, con Noè, con Abramo, con Mosè.
  12. La Bibbia ebraica è stata scritta, ovviamente, in ebraico. Importante è la prima traduzione greca, fatta ad Alessandria dai cosiddetti Settanta, nell’età ellenistica. I libri in corsivo sono stati scritti direttamente in greco e sono stati aggiunti dalla Chiesa all’AT, riconoscendoli come ispirati. Naturalmente sono tutti anteriori a Cristo, per cui facevano parte della letteratura ebraica. I Protestanti spesso li mettono tra AT e NT. Alcuni libri ebraici, come i Cinque Libri di Enoc, sono riconosciuti come canonici da alcune Chiese orientali. Il loro influsso si rintraccia nella letteratura biblica canonica.

  13. Sono stati ovviamente tutti scritti in greco. E poi tradotti in innumerevoli altre lingue. La traduzione latina più importante è la Vulgata, aggiornata più volte.
  14. Solo nel I sec. d.C. gli Ebrei si diedero un canone. Ciò non significa che prima non avessero una Bibbia vincolante. I cristiani fecero lo stesso entro il IV sec. Naturalmente i canoni vanno a fissare il risultato di una selezione interna basata sulla coerenza di fede, ispirata anch’essa. Come la filosofia di Hegel, anche il canone è simile alla nottola di Minerva, che esce sul far del crepuscolo. Con buona pace di chi crede che gli apocrifi siano stati occultati da ebrei e cristiani. Essi furono letti, usati, commentati, criticati e respinti, in modo palese. E dopo ciò, spesso – ma non sempre – obliati.

  15. I Padri, i Dottori, gli oratori sacri, i Papi, i Concili, i Santi, gli altri scrittori teologici.
  16. L’aspetto iconico e artistico della Tradizione andrebbe più efficacemente sottolineato, essendo l’immagine o anche il suono un mezzo di comunicazione universale a maggior titolo della parola parlata e scritta, perché non bisognosa di traduzione.

  17. Solo il Protestantesimo, in seno al Cristianesimo, l’ha rifiutata. Ma esso stesso si è dato e strutturato secondo modi differenti (Calvinismo, Luteranesimo, Anglicanesimo ecc.) che sono vere tradizioni, e ha accettato almeno una parte della tradizione antica, non sapendo farne a meno per la recezione intellegibile del dogma rivelato. Segno che antropologicamente la Rivelazione è sempre una Tradizione di un insegnamento , in parte scritto e in parte orale. Anche la Sinagoga ha le sue tradizioni, a mio avviso sotto certi aspetti autorevoli anche per noi cristiani. Si pensi al Talmud o alla Mishnah. Segno che il Libro rimanda sempre ad un ambito di recezione e comprensione più vasto della Verità rivelata. Una simile dicotomia culturale si trova persino nell’Islam, in cui accanto al Corano c’è la tradizione della Sunna, e in genere in tutte le fedi dove ci sono libri sacri assai antichi.

  18. Sono gli Apostoli che sottolineano l’importanza della Tradizione lasciata ai discepoli, accanto alle scritture stesse, in luoghi che citeremo a breve, exempli gratia.

  19. Gesù stesso non scrisse nulla. I Vangeli sono dunque stati prima una tradizione orale e dopo un testo scritto.
  20. Analogamente al canone, il fissarsi dell’intangibilità della tradizione avviene a valle del suo costituirsi: le dottrine apostoliche, sempre uguali ma suscettibili di esplicitazione, una volta estrinsecate, escludono dalla tradizione quelle forme di conservazione che le hanno custodite in modo imperfetto.

  21. Il ripudio implicito di molta parte della Tradizione dagli Anni Sessanta del XX sec. a oggi è stato fonte di sfracelli, che ormai si cerca di correggere.
  22. I riformatori protestanti, pur avendo posto il principio formale della Riforma dottrinale nel libero esame, non hanno mai pensato di abdicare alle proprie convinzioni, neanche quando esse, in nome dello stesso libero esame, erano rigettate e confutate da altri. Hanno cioè istituito una infallibilità carismatica per se stessi, sostituendola a quella, ai loro occhi screditata, della Chiesa Cattolica. Ma tale infallibilità, camuffata dalla presunta chiarezza del testo sacro – contraddetta dalla molteplicità delle sue letture possibili, una volta mandata in soffitta la Tradizione e il Magistero – non poteva essere accettata se non da chi già, per fede, si riconoscesse nell’insegnamento del proprio riformatore di riferimento. Era cioè autoreferenziale, e quindi basata su un diallelo teologico. Del resto, nessuno dei grandi riformatori potè rinunciare a tutta la Tradizione e al Magistero che la fissava: Lutero riconobbe i primi sette concili ecumenici, Calvino e Zuingli i primi quattro, ecc.

  23. Diversamente, la Chiesa non avrebbe possibilità di risolvere le controversie dottrinali che l’accompagnano sempre, il che vorrebbe dire che Dio l’ha volontariamente lasciata nel caos. Il che è palesemente assurdo, come del resto annotava un grande storico dei rapporti tra Cattolicesimo e Riforma protestante, Joseph Lortz, assai sensibile alle ragioni del mondo evangelico.

  24. E’ il magistero comune della Chiesa, sia delle autorità universali – Papato e Collegio Episcopale nel suo complesso – sia di quelle locali – gli Episcopati locali e i Vescovi nelle loro diocesi – che hanno solo questo tipo di magistero.

  25. Un Concilio Ecumenico può esercitare il proprio magistero in modo anche solamente ordinario. Così il Vaticano II (1962-1965), che munì i suoi decreti del sigillo dell’insegnamento ordinario supremo.

  26. Senza definire un dogma, si può tuttavia dare un insegnamento dogmatico da ritenere per fede. Giovanni Paolo II (1978-2005), nella Lettera sul Sacerdozio maschile, dichiarò che l’esclusione delle donne dai Sacri Ordini è stabilita dalla Rivelazione e pertanto ogni disputa sull’argomento è inutile, mentre la questione in quanto tale è chiusa. Papa Benedetto XII (1334-1342) risolse la controversia sulla visione beatifica delle anime dei giusti prima del Giudizio Universale con una Costituzione apostolica, la Benedictus Deus, senza definire alcun dogma. Papa Pio XII (1939-1958) enunciò la dottrina dogmatica della Regalità della B.V.M. in una enciclica, senza nessuna definizione dogmatica. E di esempi del genere se ne possono fare a bizzeffe.

  27. Mai nessuna verità sui costumi è stata definita dal magistero infallibile. La loro sicurezza riposa solo sulla costanza del magistero ordinario e sulla chiarezza della tradizione.

  28. Alcuni esempi. Non c’è bisogno della Rivelazione per scoprire l’immortalità dell’anima, ma il V Concilio Lateranense (1512-1516) ne formulò una definizione, per condannare l’aristotelismo circolante all’epoca, che invece la negava. La condanna della fecondazione assistita non è desunta dalla Bibbia o dalla Tradizione – essendo tale tecnica contemporanea – ma è postulata dai principi rivelati relativi alla sessualità e alla vita umana. Stesso dicasi dell’eutanasia in relazione alle moderne tecniche mediche. L’affermazione che l’uomo riceve l’anima nel primo istante del concepimento – affermazione relativamente recente come oggetto di ferma convinzione, vincolante per i credenti – non è contenuta nella Rivelazione, ma postulata dalla conoscenza biologica recente, illuminata dalle dottrine della fede. La dichiarazione Nostra Aetate del Vaticano II sulla libertà di coscienza, che risolve il plurisecolare rapporto tra religione cristiana e coercizione, afferma chiaramente sia il fatto che tale tema non è presente nella Rivelazione, sia che esso è tuttavia definitivamente risolto a favore della libertà individuale. Giovanni Paolo II dichiarò che l’insegnamento suo e di Paolo VI (1963-1978) sulla contraccezione non era più materia disputabile tra teologi, fornendo così un altro esempio di questo tipo di magistero. Diverso è il discorso dei rapporti tra fede e cultura. Nelle epoche in cui si è ritenuto che il sapere fosse un tutto unitario e gerarchicamente costituito, l’autorità religiosa – compresa quella cristiana-cattolica- è stata considerata competente anche in campo extrareligioso, in base all’interpretazione che si dava delle nozioni profane presenti nel testo sacro. Tale competenza non è mai stata dichiarata parte della Rivelazione, né si è asserito che le fosse collegata. In base poi alle varie correnti culturali, questa accentuazione dei rapporti tra sapere profano e sacro è stato accentuato o ridotto. Per cui, sebbene Agostino e Tommaso credessero che la Bibbia non dovesse essere presa alla lettera nella cosmologia e nella storia naturale, e i loro contemporanei condividessero, in altri periodi scienziati come Galilei o Copernico furono censurati in nome di una recezione letterale delle concezioni scientifiche del testo biblico. Tali condanne non sono assolutamente vincolanti da un punto di vista dottrinale, anche se hanno esercitato – come le aperture di credito – forti influenze sulla cultura in genere.

  29. La non –infallibilità non è necessariamente una fallibilità, perché in ogni insegnamento della Chiesa deve esserci un nocciolo di verità. Concerne piuttosto la riformabilità del paradigma teologico che lo sottende. Una precisa teologia regolava i rapporti tra fedele e Chiesa nell’epoca dell’Inquisizione, che però oggi è stato superato attraverso una serie di integrazioni e precisazioni, spesso in rapporto a riflessioni non connesse alla verità rivelata in quanto tale, e quindi suscettibili di sviluppo storico. Così il rapporto tra Chiesa e Sinagoga, o con le altre fedi in genere, o tra Fede e violenza nelle Crociate, ecc.

  30. Come l’importantissima enciclica di Pio XII, Humani Generis, che evitò di fulminare condanne sulle nuove tendenze teologiche dell’epoca, definendole solo opinioni e non errori.
  31. Pensiamo al corpo di dottrine denominate Dottrina Sociale della Chiesa.
  32. Tutto il magistero di condanna nei confronti delle dottrine sociali, politiche e filosofiche nel corso dei secoli. Esso non è infallibile, non perché siano sbagliate le condanne, ma perché ha un oggetto per sua natura contingente: la verità negata in un modo sempre parziale e suscettibile di modifica. Perciò, se la Chiesa condanna il materialismo storico, non è infallibile, non perché esso sia vero, ma perché tale dottrina è falsa nella misura in cui erroneamente contraddice la verità rivelata. Spesso tale misura di contraddizione si può cogliere solo nel tempo.

  33. Le condanne dei Diritti dell’Uomo nell’Ottocento, perché concepiti in chiave laica e antireligiosa – si pensi al Sillabo di Pio IX (1846-1878)– ne sono un esempio.

  34. Non fede teologale, perché non sono rivelate da Dio.
  35. Il tipo di magistero non si distingue solo da atto ad atto, ma spesso da passo a passo di singoli atti. La ripetizione di una forma magisteriale, di per sé fallibile, in modo costante e unanime nel tempo, è garanzia di infallibilità, non di forma, ma di contenuto.

  36. Tutti i dogmi della fede, ad eccezione dell’Immacolata Concezione, dell’Assunzione e dell’Infallibilità Papale, sono stati definiti per chiudere una controversia. Questi tre hanno suggellato delle dottrine sempre più unanimemente condivise.

  37. Infallibile è perciò in senso stretto solo la definizione, e non le argomentazioni, anche se esse ne sono il presupposto argomentativo. Cambiate perciò le argomentazioni, la definizione rimane valida.

  38. I Papi hanno definito solo due dogmi: l’Immacolata Concezione (Pio IX, 1854) e l’Assunzione (Pio XII, 1954). Tutti gli altri li ha definiti il Concilio Ecumenico. Il dogma della Perpetua Verginità di Maria è stato definito da un Concilio Generale dell’Occidente presieduto dal Papa, Martino I (649-653; 649). Esso è considerato emanazione del magistero papale, ma può a mio avviso essere considerato anche prolungamento del magistero dell’Episcopato sub Petro per la sua ratifica da parte degli episcopati che non vi parteciparono, quindi per un assenso passivo. Storicamente, molte controversie sono state chiuse o segnate da pronunciamenti di Concili non ecumenici, ma recepiti da tutta la Chiesa, perché approvati dal Papa – almeno implicitamente - e quindi partecipi della sua autorità su tutta la Chiesa. Importanti dispute sulla Grazia furono composte da Sinodi generali nell’Alto Medioevo, e furono normativi tali atti, fino a quando non furono rimessi in discussione dai Protestanti e nuovamente promulgati dal Concilio di Trento.


Theorèin - Settembre 2009