LA TEOLOGIA CRISTIANA. APPUNTI PER UN CORSO SISTEMATICO

A cura di: Vito Sibilio
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IMITATIO CHRISTI
appunti di etica fondamentale

“Siate perfetti com'è perfetto
il Padre vostro Che è nei Cieli”

Nostro Signore Gesù Cristo

L'imitazione di Cristo è la vera e unica definizione e ragione dell'etica cristiana. Lui è il modello, ma anche la fonte della vita etica. L'aspetto dogmatico della questione, ossia il modo con cui Egli opera in noi mediante la Grazia in virtù della Redenzione operata sulla Croce, è stato esposto nel saggio Christus Redemptor (1). In questa sede, illustreremo i contenuti e le forme dell'etica resa possibile dalla giustificazione e voluta dal decreto divino. Cominciamo dai caratteri generali dell'etica cristiana, ossia: lo scopo delle azioni umane, la Legge, la morale naturale e soprannaturale, la libertà e la responsabilità, la persona e la società nell'etica, la virtù naturale, il peccato nelle forme e nelle specie sue proprie, le sue conseguenze, i vizi, le virtù teologali, le Beatitudini. Poi riproporrò il summenzionato saggio, come esposizione del fondamento dogmatico soteriologico della morale. Infine, mostreremo come la vita morale soprannaturale scaturisca dai Sacramenti e specialmente del Battesimo, come già illustravo in Sacrum Baptisma, il saggio di teologia battesimale da me pubblicato in passato (2).

PARTE PRIMA – ELEMENTI DELL'ETICA

ELEMENTI FONDAMENTALI DELL'ETICA

Nell'etica, ossia nell'ambito che studia le azioni umane compiute secondo un criterio positivo individuato dalla ragione, il primo concetto da puntualizzare è quello dello scopo delle azioni umane. Ogni creatura è una entelechia, ossia è una realtà sostanziale che ha in sé la capacità di raggiungere il proprio fine. Ogni entelechia sviluppa una finalità che è quella propria della sua differenza specifica, ossia di quella caratteristica che la differenzia, all'interno del genere suo proprio, dalle altre specie. Per cui l'uomo, essendo un animale razionale, si realizza proprio attraverso questa sua razionalità, secondo la quale deve vivere. La ragione umana è ad un tempo il mezzo mediante il quale l'uomo scopre le regole del buon vivere e la regola stessa, in quanto essa, una volta adoperata, non può condurre ad altro risultato che all'individuazione della virtù. Essa, etimologicamente parlando, è infatti ciò che è proprio dell'uomo. La si può considerare, con Socrate, unica perchè retta da un criterio unitario, appunto quello razionale, oppure molteplice, con Aristotele, perchè declinata nelle varie circostanze della vita. In ogni caso, la regola umana della virtuosità sta nel giusto mezzo che ognuno deve seguire nelle proprie azioni, contemperando ogni cosa sul basamento delle virtù stesse, che è la giustizia. Essa è la prima ad essere individuata dalla ragione, perchè ognuno la determina sulla base di ciò che vorrebbe fosse dato a sé; infatti consiste nel dare a ciascuno il suo. Su questa prima e fondamentale virtù si innesta la consapevolezza che l'uomo ha dei suoi doveri etici, verso se stesso, verso gli altri e verso Dio. Questi, scoperto dalla ragione attraverso il creato, anche in una semplice teologia razionale appare come Colui Che è garante dell'ordine morale, perchè proprio Lui, creando le cose, lo ha costituito, evidentemente commisurandolo su Se stesso. Perciò l'uomo può, con la sua sola mente, capire che verso Dio ha il dovere diretto di adorazione e imitazione della Sua perfezione morale (3). Una volta determinato l'ambito della giustizia, l'uomo può scoprire le altre virtù che costituiscono gli atti da compiere nella morale naturale.

Tuttavia la virtù non è soltanto un concetto da scoprire, ma un principio a cui essere fedeli e da applicare. Agere sequitur esse. Per cui nella vita ogni uomo deve dapprima conoscere e poi agire. Quest'ultimo sarà dunque un'esplicitazione dell'essere proprio dell'uomo, il quale non sceglie di volta in volta cosa vuole fare, ma riconosce ciò che è giusto fare, che gli si impone per evidenza e necessità; riconoscendolo, l'uomo lo compie. Entrano quindi in gioco nella realizzazione dell'essere umano, accanto alla ragione, la volontà e la libertà. Se l'uomo non fosse libero non potrebbe vivere secondo ragione, perchè la razionalità è legata alla libertà, ma proprio perchè libero, l'uomo può anche vivere contro la ragione e addirittura ignorarla del tutto, fino a spegnere quel richiamo che in ognuno essa compie mediante la voce della coscienza. Questa non è una mera elaborazione culturale, come oggi si sostiene, sebbene il contesto in cui l'uomo viva la determina almeno in parte, ottundendone o rafforzandone la voce, ma è una struttura portante della mente umana, dell'anima dell'individuo, come anche la psicologia moderna ha dovuto ammettere, spesso a dispetto del suo stesso ateismo. Ogni uomo, depurato dalle sovrastrutture legate al proprio costume, sente sempre e solo la voce della coscienza, che reclama il dovere del bene. Una volta che l'uomo stesso si è predisposto ad esso, non lo considera più una imposizione, ma lo ama ed anela ad esso. In ragione di ciò il bene, inteso come azione razionale, è appunto l'essere in quanto voluto, essendo la razionalità la legge stessa del reale. Questo bene concettualmente è sia l'insieme dei beni terreni e umani utili e leciti, sia l'uomo stesso nella sua autorealizzazione, sia Dio, come Essere Supremo a cui conformarsi. In tal maniera il vivere secondo ragione diventa il vivere secondo Dio e quindi l'una e l'altra definizione implicano la realizzazione e la felicità dell'uomo stesso. Virtù e felicità sono congiunti concettualmente, per cui o si perviene alla loro sintesi già in terra o si deve raggiungerla nell'eternità: come già Kant aveva intuito, le due cose non solo vanno insieme, ma implicano l'immortalità dell'anima, come condizione previa per il raggiungimento di entrambe, sotto l'azione divina. L'etica sfocia nella metafisica e nella religione naturale. Ma essa trova un ostacolo insormontabile nella sua realizzazione: l'inclinazione dell'Uomo al male e la facile vittoria che questo ottiene in lui.

Non solo, infatti,va constatata la presenza del vizio come rovescio della virtù – ossia vivere contro ragione- e del male come negazione e mancanza del bene, non solo va registrato l'uso improprio che si può fare della libertà sotto l'impulso delle passioni che s'impongono all'anima, ma va denunciato come l'uomo, abbandonato a se stesso, è capace solo del male. Di questa radicale incapacità pratica dell'uomo, in assoluta dissonanza con ciò che ognuno comprende concettualmente e vuole teoricamente, solo la Rivelazione cristiana dà la spiegazione esauriente, con i concetti di Peccato Originale, Grazia santificante, Libertà e Libero arbitrio, Giustificazione e Redenzione, per i quali rimando ai luoghi citati all'inizio. Basti qui ricordare che, in virtù della Grazia divina, l'uomo redento può, attraverso la Fede, compiere tutte le opere prescritte sia dalla morale naturale che da quella soprannaturale. Lasciamo perciò il mero campo dell'etica razionale ed esploriamo l'etica cristiana propriamente detta.

I FONDAMENTI DELL'ETICA CRISTIANA

Attraverso l'azione morale, resa possibile dalla Grazia, l'uomo instaura in sé il Regno di Dio, mediante la conformità a Cristo, Che è il Regno stesso. L'uomo inizia così a collaborare con Dio nella realizzazione del Suo piano salvifico in modo libero e consapevole. Ogni azione umana converge nel progetto divino, ma l'azione morale sfocia nella dimensione spirituale e soprannaturale, perchè è l'azione del figlio adottivo, conformato a Cristo e a Lui incorporato. Essa è meritevole della Vita eterna, così come il suo contrario, offendendo Dio e la Sua santità, è passibile di dannazione. Lo scopo naturale per cui Dio ha creato l'uomo è infatti conoscerLo, amarLo e servirLo, attraverso la sua natura razionale, per poi goderLo in Paradiso. In tale azione l'uomo realizza e usa i suoi talenti, per il cui impiego riceverà potere su molto, dopo la fedeltà nel poco, entrando nella gioia del Suo Signore (Mt 25, 21). La decadenza della natura umana è stata sanata dalla Grazia, per cui l'uomo può tutto in Colui Che gli dà forza, ma nulla può senza di Lui. L'azione morale è quindi, in ultima analisi, ciò che Dio opera attraverso di noi, ciò che noi Gli permettiamo di operare in noi e con noi.

Dio ci indica cosa fare attraverso la Legge. Essa è naturale, quando verte su doveri e diritti che la ragione scopre da sola. Gli ambiti in cui quest'ultima scopre tali doveri e diritti, quando non è obnubilata dal peccato e dalla cultura elaborata attorno ad esso e surrettiziamente trasmessa di generazione in generazione, corrispondono grosso modo alle aree normative dei Dieci Comandamenti: l'onore e il rispetto verso Dio, quello verso i genitori e le legittime autorità, il rispetto della vita propria e altrui, della proprietà che la garantisce, della verità, dei vincoli affettivi coniugali nell'uso ordinato della sessualità, la purificazione delle intenzioni. Ognuna di queste aree si determina a partire dal diritto che ognuno riconosce a se' e che quindi deve rispettare negli altri. Questa legge naturale morale, scritta nel cuore di ognuno e custodita dalla coscienza, può essere derogata, a differenza delle altre leggi naturali fisiche, a cui invece non ci si può sottrarre. Ragion per cui Dio ha voluto che l'uomo, essere sociale la cui moralità è sempre interpersonale e ha valenza comunitaria, venisse retto da una autorità che potesse emanare una Legge positiva che, di volta in volta, ribadisse ciò che la natura ha fissato e la ragione può scoprire, all'occorrenza sanzionando l'inadempiente. Nasce così il diritto, che ha sempre un nucleo etico, anche se spesso può essere imperfetto o soverchiato da aspetti formali. A garanzia perfetta della validità della Legge naturale, Dio stesso ha promulgato una Legge positiva, quella Mosaica, sintetizzata nei Dieci Comandamenti ma comprendente tutti i precetti del Pentateuco, che sono vincolanti per tutti gli uomini, sfrondati degli aspetti cultuali e giuridici tipicamente ebraici. Il Decalogo è dunque naturale nei contenuti, ma divino nell'autorità. Di esso parleremo ampiamente. Per ora basti ricordarne i comandamenti nella formulazione catechetica tradizionale.

Io Sono il Signore Dio tuo:

  • I. Non avrai altro Dio al di fuori di Me.
  • II. Non nominare il Nome di Dio invano.
  • III. Ricordati di santificare le feste.
  • IV. Onora il padre e la madre.
  • V. Non uccidere.
  • VI. Non commettere atti impuri.
  • VII. Non rubare.
  • VIII. Non dire falsa testimonianza.
  • IX. Non desiderare la donna d'altri.
  • X. Non desiderare la roba d'altri.

La grande novità dell'etica viene però col Cristo. Egli non solo perfeziona e completa la Legge antica sfrondandola di quelle forme solo temporaneamente ammesse sia cultuali che giuridiche, ma introduce i precetti di una morale soprannaturale, possibile e comprensibile solo nella prospettiva della vita divina, dell'immedesimazione con essa e della beatitudine eterna. In questa Legge Dio, Che già nell'AT diceva: Siate santi perchè Io sono santo, ora in Cristo ordina: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro Che è nei Cieli, e nel Redentore dà un modello, un esempio. La morale cristiana non è dunque un insieme di norme ma una imitazione di un modello, l'Uomo perfetto, Cristo. Come tutte le imitazioni, essa è suscettibile di imperfezioni, fallimenti e riprese, ma è indispensabile: solo in questo rapporto personale con Cristo essa assume un senso, uno scopo e la sua stessa possibilità. Tale Legge è la Legge dell'Amore, perchè Cristo è venuto nel mondo per amore, ha insegnato e operato per amore, è morto per amore, per salvare coloro che vivevano nell'odio e nella morte. Cristo dunque è il Maestro dell'Amore, e noi possiamo amare solo se impariamo da Lui. Egli ci ha dato i due precetti della Carità, in progressione di perfezione. Il primo è: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente. Il secondo è simile al primo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Di questo secondo precetto, Cristo ha dato poi una formulazione più esigente: Ogni volta che avrete fatto qualcosa a qualcuno di questi miei fratelli più piccoli, l'avrete fatto a Me; ossia ha insegnato ad amare il prossimo come si ama Lui. Infine ha ulteriormente alzato la soglia: Amatevi gli uni gli altri, come Io vi ho amato.

In tale senso, l'amore del prossimo è innanzitutto l'applicazione della Regola d'Oro: Tutto quello che volete sia fatto a voi, fatelo agli altri, con il suo complemento: Non fate agli altri ciò che non volete sia fatto a voi. Infatti queste parole sono state pronunziate dal Logos con le Sue labbra umane. Esse danno sostanza al primo dei tre gradi del precetto dell'amore del prossimo. Il secondo ci insegna invece a fare il bene a Dio nei fratelli, ad amarLo in loro, per cui essi sono da amarsi con tutti noi stessi, nelle singole azioni che facciamo. Non è tanto un contenuto, ma una forma dell'etica. Il terzo è invece orientato a farci amare nelle stesse forme con cui Dio ama: il perdono e il sacrificio. Il perdono è la grande norma del Cristo, Che ci insegna che Dio non ci perdonerà se non perdoneremo. Il sacrificio è l'amore che dona se stessi e, se necessario, si immola. La morale naturale non può perdonare sempre e non può sacrificarsi mai, perchè dovendo realizzare se stessa nella ragione, trova nella morte e nel fallimento il suo limite. Ma Cristo ha vinto la morte e ha fatto del soffrire uno strumento di salvezza per sé e per gli altri, quindi l'abnegazione, che è la vetta ma anche il limite della morale naturale, diviene l'apogeo e il punto di partenza della morale soprannaturale, perchè è sempre la più feconda di bene. La bellezza irraggiungibile di questi insegnamenti ha conquistato il mondo e oggi è patrimonio anche di chi non crede, ma solo nella giustificazione operata da Cristo essa è possibile, è utile e sfocia nella felicità soprannaturale sia in terra che in cielo. Diversamente, è solo una utopia irrealizzabile. Se non pericolosa. Nella infinita superiorità della morale cristiana a dispetto della stessa ragione si coglie l'orizzonte della verità cristiana: essa non è raggiungibile dalla ragione, ma quando essa la vede ne è abbagliata. Se fosse una menzogna, allora la bugia sarebbe migliore della verità.

In questo spirito possono essere vissute quelle Sette Opere di Misericordia corporale dettate da Gesù stesso come schema sul quale saremo esaminati alla fine della vita. Esse esprimono l'atto d'amore dato al misero, che o ne ha estremo bisogno o non può avere titolo esigitivo per riceverle, esattamente come suggerisce l'etimologia della parola “misericordia”. Chi le esercita le compie verso Cristo stesso. Chi le trascura abbandona lo stesso Gesù. Perchè chi soccorre o abbandona le membra del Cristo soccorre o abbandona Lui. Sono le seguenti:

  1. Dar da mangiare agli affamati.
  2. Dar da bere agli assetati.
  3. Vestire gli ignudi.
  4. Alloggiare i pellegrini.
  5. Visitare gli infermi.
  6. Visitare i carcerati.
  7. Seppellire i morti.

A queste la catechesi della Chiesa ha aggiunto le Sette Opere di Misericordia spirituale, estrapolate anch'esse dal Vangelo e altrettanto importanti e di riferimento:

  1. Consigliare i dubbiosi.
  2. Insegnare agli ignoranti.
  3. Ammonire i peccatori.
  4. Consolare gli afflitti.
  5. Perdonare le offese.
  6. Sopportare pazientemente le persone moleste.
  7. Pregare Dio per i vivi e i morti.

Sia le une che le altre hanno creato la civiltà moderna che assiste e non emargina i bisognosi. Mense, aiuti umanitari, ospedali, cimiteri, ospizi, armadi, dispensari, scuole, centri di consiglio e orientamento, luoghi di formazione morale e di preghiera si sono sparse nel mondo a partire dalla carità cristiana e oggi sono sostenute anche dai non credenti, avendo contribuito a plasmare in modo nuovo la stessa idea di uomo.

Le forme dell'amore cristiano sono custodite nella Rivelazione attraverso le sue fonti, la Bibbia e la Tradizione, e interpretate dal Magistero, nonché vissute ed esemplificate dalla Vergine e dai Santi. Sono dunque forme viventi, anzi la vita stessa operativa del Cristo totale, la Chiesa come Mistico Corpo. Tutti i comandamenti, anche quelli più apparentemente normativi, sono riconducibili all'amore vissuto.

La norma dell'amore è la più importante di tutte, perchè chi ama Dio e il prossimo osserva di conseguenza tutti gli altri comandamenti. Essi poi possono essere osservati sempre e tutti, perchè Dio non nega mai la Sua grazia a chi lo invoca sinceramente, né alcuno è mai sottoposto a tentazione che non possa vincere. Esse infatti non sono permesse per far dannare, ma per accrescere la gloria in Cielo.

Per esplicare e commentare la Legge divina sia naturale che soprannaturale, vi è la Legge ecclesiastica, positiva, emanata per autorità divina dalla Chiesa, a cui si deve una obbedienza tanto più stringente quanto più le sue norme o canoni sono utili alla salvezza. L'autorità pontificale, che la promulga, ha solo due limiti: il giudizio della coscienza e la norma rivelata da Dio. Queste leggi sono riunite nel Codice di Diritto Canonico per la Chiesa Latina e nel Codice di Diritto Canonico delle Chiese Orientali per queste ultime (4). Tra esse, le più importanti, su cui torneremo prossimamente, sono quelle dei Cinque Precetti Generali della Chiesa, che esplicano significativamente alcuni comandamenti e vincolano gravemente in coscienza:

  1. Partecipare alla Messa la domenica e nelle altre feste comandate.
  2. Santificare i giorni di penitenza secondo le disposizioni della Chiesa.
  3. Confessarsi almeno una volta all'anno e comunicarsi almeno a Pasqua.
  4. Soccorrere le necessità della Chiesa contribuendo secondo le leggi e le usanze.
  5. Non celebrare solennemente le nozze nei tempi proibiti.

Obbedendo alla Legge nelle sue forme, l'uomo realizza la sua libertà, perchè nella grazia sceglie di fare il bene e può perseverare in esso. L'uomo infatti, compiendo anche una volta sola il peccato, ne è schiavo, anche senza accorgersene. La grazia libera l'uomo, e questi può senza ostacoli raggiungere il bene, in se stesso e poi in cielo, superando ogni condizionamento. Ogni atto umano è dunque costituito dal sapere ciò che si fa, accorgersi di farlo e volerlo liberamente. Diversamente, l'atto non è umano, perchè non è consapevole o volontario. In ragione di ciò, l'uomo è responsabile. La responsabilità è orientata ad acquisire il merito e il premio, ma la malizia dell'uomo vi ha implicato la colpa e il castigo. Ciascuno riceverà l'una o l'altra cosa, a seconda che abbia fatto più bene che male. Naturalmente l'uomo non è sempre responsabile, né sempre nella stessa maniera, dei propri atti. Vi sono alcuni elementi che attenuano la responsabilità. Il primo è l'ignoranza. Se una persona compie il male perchè non sa che è male, è almeno parzialmente scusato. Però l'ignoranza può essere vincibile, quando si ignora ciò che si è tenuti a sapere e che si può sapere, o invincibile, quando invece non si sa ciò che si dovrebbe o potrebbe sapere. Il cristiano è tenuto a sapere e può apprendere ciò che Dio vuole che Lui faccia, anche se in modi e tempi differenti per età e condizione, per cui se pecca per ignoranza, va considerato se ha violato leggi su cui doveva o no informarsi o riflettere. Il secondo è la violenza, fisica o psichica, che ci forza ad agire contro il nostro volere; essa attutisce la responsabilità, sebbene l'uomo forte possa eroicamente resistere sino alla morte con la grazia. Il terzo è la passione, ossia un moto disordinato dei sensi interni o esterni, che attutisce la consapevolezza e la volontà, sebbene l'uomo debba imparare a dominare le proprie passioni (5).

Il quarto è la malattia mentale, che causa disfunzione cerebrale e quindi impedisce l'esercizio delle facoltà dell'anima attraverso il corpo, fino a forme estreme di completa incapacità di intendere e volere, che azzerano la responsabilità sebbene sempre un'azione cattiva sia inaccettabile di per sé alla Maestà di Dio.

Compiendo sistematicamente il bene, l'uomo acquista un abito mentale e pratico, chiamato virtù. Quanto più si è allenati nel bene, tanto più la virtù è facile. Essa realizza la presenza attiva della Grazia in noi.

Come dicevamo, le virtù sono innanzitutto naturali o umane, perchè tutti possono praticarle, sia perchè tutti possono conoscerle per ragione, sia perchè ognuno riceve la grazia per compierle. Per i cristiani, le virtù naturali, compiute per amore di Dio, sono elevate al livello soprannaturale, divenendo efficaci per la vita eterna. Di tutte le virtù (6), quattro sono le cardinali, su cui cioè s'impernia tutta la vita morale e dalla cui mescolanza nascono tutte le altre. La prudenza è dell'uomo che agisce secondo la retta ragione, illuminata dalla fede, non secondo sentimenti o passioni; essa implica la preghiera, per invocare luce, la riflessione e l'ascolto dei consigli delle persone sagge. La giustizia è dell'uomo che dà a ciascuno il suo: a Dio l'adorazione, la preghiera e l'osservanza dei comandamenti; a se stesso la cura di corpo e anima; agli altri il rispetto nella Regola d'Oro. La fortezza è dell'uomo che fa il bene a qualunque costo, nonostante le difficoltà, le persecuzioni e la morte stessa, lottando contro le passioni, accettando il martirio e sacrificando se stesso. La temperanza è dell'uomo che frena le inclinazioni disoneste, fermando le cattive propensioni, moderando l'uso dei cibi e delle bevande, rinunciando ai piaceri che offendono Dio.

Sulle virtù naturali vi sono quelle soprannaturali, dette teologali, che sono tali perchè riguardano Dio. Esse sono tre: la Fede, la Speranza, la Carità. Non si acquisiscono, ma sono infuse nel Battesimo, confermate nella Cresima, corroborate dall'Eucarestia, restaurate dalla Confessione e dall'Unzione degli Infermi, esercitate di volta in volta nei vari atti che li riguardano e che sono possibili nella grazia ottenuta nella preghiera. Per ora ne basti la definizione. La Fede, poiché Dio è Verità infallibile, ci fa fermamente credere in ciò che Egli ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere. La Speranza, in base alle Promesse di Dio e ai meriti di Cristo Salvatore, ci fa attendere dalla Sua bontà la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che dobbiamo e vogliamo fare. La Carità ci fa amare Dio con tutto il cuore sopra ogni cosa in quanto Bene Infinito e nostra eterna felicità, mentre per amor Suo amiamo il prossimo come noi stessi e perdoniamo le offese ricevute (7).

Accanto alle Tre Virtù Teologali, nel Battesimo e ancor più perfettamente nella Cresima sono infusi in noi i Sette Doni dello Spirito Santo: Sapienza – che ci fa conoscere e gustare le cose divine- Intelletto – che ci fa comprendere per quanto possibile le verità rivelate- Consiglio – che ci orienta nelle scelte alla luce di Dio – Fortezza – che ci fa resistere nel bene nonostante gli ostacoli - Scienza – che ci fa vedere le cose create in rapporto al piano di Dio – Pietà – che ispira la nostra devozione - e Timor di Dio – per cui agiamo in base al rispetto a Lui dovuto.

Lo Spirito Santo poi produce in noi i suoi XII Frutti, che pure alimentano la nostra vita interiore soprannaturale, le perfezioni da Lui plasmate in noi come primizia di eternità: amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità, come attesta la Lettera ai Galati.

Agli antipodi della morale vi è il peccato. Esso è una disobbedienza alla Legge di Dio. Tre forze spingono l'uomo a peccare: il diavolo, la concupiscenza, il mondo. Satana è impegnatissimo a danneggiare il piano di salvezza di Dio e continuamente, con la sua intelligenza superiore, travia e inganna l'uomo, ma mai può dominarne la volontà e i pensieri. La concupiscenza è l'inclinazione disordinata e spesso prepotente al male che l'uomo porta nel suo corpo in conseguenza del Peccato d'Origine. Essa è triplice: quella degli occhi che è l'avidità dei beni terreni, quella del cuore che è la bramosia del sesso, la superbia della vita che cerca l'innalzamento sugli altri. Il mondo è la realtà umana strutturatasi attorno al peccato e che travia mediante il cattivo esempio. Mediante questi tre nemici l'uomo è indotto al male, che può avvenire in pensieri, parole, opere e omissioni di atti dovuti. Il peccato può essere di due specie: mortale e veniale. Si dice mortale il peccato che fa perdere all'anima la grazia, che è la sua stessa vita, privandola del paradiso e condannandola all'inferno, nel quale va quell'infelice che muore prima di essersi pentito ed essere stato perdonato della sua colpa. Perchè avvenga, vi è bisogno di tre elementi: materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso. La materia grave o ritenuta grave dal peccatore è l'infrazione in sé, se appunto gravemente contraria alla Legge di Dio o così ritenuta. Essa è individuata dalla proibizione esplicita dei comandamenti (uccidere, rubare, eccetera). Se si compie un'azione credendo che sia grave, si pecca mortalmente anche se essa non lo è, perchè vi è disponibilità a offendere Dio. La piena avvertenza è la chiara coscienza di quello che si fa. Il deliberato consenso è appunto la volontà deliberata di fare il male contro i suggerimenti della coscienza. Il peccato mortale uccide nell'anima tutti i meriti acquisiti sino ad allora e le toglie la capacità di acquisirne di nuovi, colpendo la libertà mediante la privazione della grazia. Colui che commette peccato mortale causa la Passione e la Morte di Cristo, rifiuta di essere figlio di Dio, espelle da sé lo Spirito Santo, si separa dal Corpo Mistico, offende la Maestà Divina; causa le sofferenze di Maria SS., contrista gli Angeli, i Santi e i Defunti. Non tutti i peccati mortali sono uguali (uccidere non è come masturbarsi), né un solo peccato mortale vale quanto tanti di essi, ma ne basta uno per la pena eterna. La sua remissione è possibile con la contrizione perfetta, ossia col dolore di aver causato la Morte di Gesù e offeso la Paternità di Dio, o con la Confessione unita almeno all'attrizione, ossia al dolore di aver meritato l'inferno e perduto il paradiso. La prima può supplire alla Confessione se non si fa in tempo a riceverla, la seconda non può farne a meno (8).

Quando uno dei tre elementi che rendono mortale il peccato manca, esso si dice veniale, ossia è perdonabile, perchè non toglie la grazia e si può rimettere con il pentimento e le buone opere anche senza la confessione sacramentale. Tuttavia esso è sempre dannoso all'anima perchè raffredda nell'amore di Dio, dispone al peccato mortale e rende degni di pene temporali in questa vita e in purgatorio. Ovviamente anche i peccati veniali non sono tutti uguali e le conseguenze sono differenti in base ad ognuno.

Per prevenire di cadere in peccato, è indispensabile usare i mezzi offerti dalla Bontà divina: la preghiera e i Sacramenti, ossia Confessione e Comunione. Utili sono anche il sacrificio e la penitenza. E' illusorio sottrarsi alla lotta: essa imperversa in noi e attorno a noi; solo chi è in armi può sopravvivere.

La cattiva abitudine nel peccato crea il vizio, ossia l'opposto della virtù. Il vizioso, con il suo cattivo esempio o scandalo spinge gli altri al male e lo compie attivamente, diventando così nemico di Dio e sodale di satana. Lo scandalo stesso è, nella sua pubblicità, di per sé un peccato. I vizi fondamentali sono detti capitali e sono sette, come le teste della bestia dell'Apocalisse. E' tramite essi infatti che satana seduce tutta la terra. Sono la superbia, l'avarizia, la lussuria, l'ira, la gola, l'invidia, l'accidia. La superbia è l'eccessiva stima di sé, che arriva sino alla ribellione; è sinonimo di orgoglio; fu la colpa di lucifero e dei progenitori, perchè tutti vollero fare a meno di Dio. Essa è alla base di ogni peccato e di tutti i peccati. Da essa derivano l'ambizione, intesa come desiderio smodato di onore, potere, ricchezza; la presunzione, quale fiducia eccessiva in sé tanto da esporsi, magari con altri, a pericoli; la vanagloria, come ricerca della lode e dell'ammirazione altrui, spesso arrivando al ridicolo. Il contravveleno alla superbia è l'umiltà, per cui ognuno sa che ciò che è lo deve solo a Dio. L'avarizia è un attaccamento morboso ai beni materiali, che crea spesso inquietudine e infelicità. E' il peccato del ricco Epulone. La generosità è il suo antidoto. La lussuria è la bramosia della sessualità, che uccide a volte anche la Fede e fa perdere la pace interna, se non anche la salute. La castità e la purezza la sconfiggono. L'ira è il moto di reazione disordinato a chi ci contrasta; è il peccato di Caino, che produce tragiche conseguenze. La mitezza la cauterizza. La gola cerca smodatamente di mangiare e bere, nella quantità e qualità, danneggiando anche la salute. L'ubriachezza ne è la forma più ignobile, in quanto cancella la ragione e abbrutisce l'uomo. La temperanza la contrasta. L'invidia soffre del bene altrui e gode delle sue disgrazie, è meschina, gretta ed egoista, rende infelici, spinge alla calunnia, alla maldicenza e alla delazione. Con l'amorevolezza e la benevolenza la si spegne. L'accidia è la pigrizia spirituale, spesso causata dalla preponderanza delle attività umane; essa dapprima è negligente nelle cose dell'anima – preghiera, culto, meditazione, contemplazione eccetera- e poi le tralascia del tutto. La pietà e lo zelo la neutralizzano. Sebbene il vizio renda schiavi e infelici, perchè solo Dio rende felici in terra e in cielo, esso non cessa mai di farsi una finta propaganda a cui arride fin troppo successo. Le buone opere devono bilanciare tale opera pestifera di plagio divenendo evidenti come la fiaccola sul lucerniere.

Tra i peccati, alcuni in particolare vanno segnalati per la loro malizia. I Quattro Peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio sono, come attesta la Bibbia: l'omicidio volontario, il peccato impuro contro natura, l'oppressione dei poveri, la frode nella mercede degli operai.

I Sei Peccati contro lo Spirito Santo sono l'esplicazione di quella bestemmia contro di Lui che Gesù considera la colpa più grave, perchè inibisce l'azione salvifica: disperazione della salvezza, presunzione di salvarsi senza merito, impugnare la verità conosciuta, invidia della grazia altrui, ostinazione nei peccati, impenitenza finale.

LE VIRTU' TEOLOGALI

Le virtù umane si fondano nelle teologali, che rendono l'uomo idoneo alla partecipazione alla natura divina (CCC II 1812). Le virtù teologali hanno come origine, causa ed oggetto la Santissima Trinità. Esse fondano, animano e caratterizzano l'azione morale del cristiano. Modificano il senso e il valore delle virtù umane rendendole meritevoli della vita eterna, orientando l'agire stesso dell'uomo a tale fine, anzi alla stessa comunione con Dio a livello personale. Ciò avviene perchè sono pegno della presenza attiva dello Spirito Santo.

La Fede l'abbiamo definita. Per il modo in cui essa scaturisce dal Battesimo e vi è collegata, rimando alla terza parte di questo contributo. In merito al resto, diciamo anzitutto che essa fa abbandonare a Dio liberamente, come insegna il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum. In tale virtù l'uomo conosce e fa la volontà di Dio, anzi in essa è giustificato, perchè il giusto vivrà per la sua fede, come attesta la Lettera ai Romani. Tale fede opera attraverso la carità, perchè senza di essa è morta, come testimonia la Lettera di San Giacomo. A partire dalla fede, per la carità e nella speranza, l'uomo è unito al Corpo Mistico di Cristo. Il fedele, che è colui che ha la fede, deve custodirla, viverla, professarla, testimoniarla e diffonderla, all'occorrenza anche tra le persecuzioni, conformemente a Cristo, Che morì per noi. Non a caso Gesù ha detto che rinnegherà innanzi al Padre nell'Ultimo Giorno coloro che lo rinnegheranno innanzi agli uomini.

La Fede, come fonte di conoscenza, non è in contrasto con la ragione. Essa la supera e la integra, ma non la annulla, anzi ne ha bisogno nel campo propriamente umano e per l'enunciazione dei suoi misteri. La Fede va esercitata con l'intelligenza, nella buona volontà e chiedendo l'aiuto di Dio; infatti l'intelligenza ci rende credibili i contenuti della Fede per l'autorità di Chi li rivela, anzi esige di studiare sempre la sacra dottrina per crescere nella sua comprensione, nelle sue motivazioni, nella sua professione, superando i dubbi con un impegno che dura tutta la vita; la volontà poi rende possibile la Fede, perchè nessuno può credere se non vuole farlo, come attesta Nostro Signore quando considera colpevoli coloro che non vorranno credere in M 16, 16; infine l'aiuto di Dio, ossia la richiesta della Sua Grazia, in quanto la Fede stessa è la prima grazia, che viene gratuitamente data ma che continuamente va richiesta, sia nell'aumento che nella conservazione. In essa vediamo tutto in modo nuovo. Contro di essa si pecca con l'indifferenza religiosa, come se Dio non ci interessasse e ancor meno la nostra sorte eterna, per cui non ci poniamo problemi in merito o addirittura abbandoniamo la Fede stessa senza ragione alcuna; con l'ignoranza colpevole, di chi non studia ciò di cui avrebbe bisogno per crescere nella Fede; col dubbio volontario, rimanendo consapevolmente in mezzo all'oscurità dell'incertezza sulle verità rivelate, piuttosto che chiedere lume a Dio e ai Suoi ministri; con l'eresia, negando alcune verità della Fede; con l'apostasia, rinnegandola del tutto; col rispetto umano, vergognandosi di professare la Fede dinanzi agli uomini. Perciò, per mantenerla salda, bisogna pregare con costanza, sostenerla con lo studio, difenderla contro tutto ciò che la indebolisce, specialmente l'orgoglio, l'impurità, le cattive letture, le cattive compagnie.

La professione e la confessione di fede non può essere solo generica, ma deve esplicitarsi nelle verità maggiori:

  1. Unità e Trinità di Dio
  2. Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Cristo nonché nel Giudizio a cui tutti saremo sottoposti da Lui per le nostre opere, con la vita o la dannazione eterna. Per questo è bene recitare spesso il Credo, oltre che nella Messa, e l'Atto di Fede.
La Speranza, conformemente alla sua nozione già espressa, ci fa appoggiare sulla Grazia piuttosto che su noi stessi. La Lettera agli Ebrei esorta a mantenerla senza vacillare, in virtù della fedeltà di Chi ha promesso ciò in cui speriamo. Noi possiamo sperare perchè, giustificati dalla Grazia, abbiamo ricevuto lo Spirito tramite Cristo, per cui possiamo giungere alla vita eterna, come insegnò Paolo a Tito. Tale virtù corrisponde al bisogno umano della felicità e lo supera, lo purifica, lo ordina al Cielo e lo sostiene nelle traversie, dilatando il cuore in attesa della Beatitudine, liberando dall'egoismo e riempiendo di carità. La Speranza cristiana corona quella che fu dell'AT, trovando già in Abramo un modello impareggiabile. Dalla sua speranza infatti egli trasse la fede che lo rese padre di tutti i credenti, come insegna la Lettera ai Romani. E' nella Speranza che acquistano senso le Beatitudini, elevandoci verso la terra promessa celeste, tracciandone la mappa attraverso le traversie della vita e custodendoci nella Passione di Cristo che non delude. Essa come ancora penetra laddove Cristo è entrato come Precursore, dice la Lettera agli Ebrei. E' arma invincibile di difesa, è causa di letizia e forza nella tribolazione, si esprime nella preghiera e in essa si alimenta, specie nel Pater, in cui Gesù sintetizza tutto ciò che abbiamo diritto di sperare nel Suo Sangue. Bisogna dunque sperare in Dio e nel Suo premio in ogni circostanza e a dispetto di tutto, specie di noi stessi, ognuno per se stesso e per tutti gli uomini, anche coloro che ignorano il Vangelo. La Speranza ci apre ad una prospettiva di felicità veramente stabile, piena, inesauribile, interminabile, come la vuole il nostro cuore, che però niente in questo mondo può saziare. Essa dunque è confacente alla natura umana e nello stesso tempo la eleva. Sazia il bisogno naturale di Dio sfamandolo soprannaturalmente. Noi possiamo sperare perchè Dio è Onnipotente e può esaudirci, ma è anche buono e vuole farlo; speriamo altresì nella fedeltà di Cristo alle Sue promesse e perchè per primo ci ha preceduto nella Resurrezione; addirittura ha conformato a sé anche la Madre, Assunta in anima e corpo. Tuttavia anche contro la Speranza si può peccare: con la disperazione della salvezza, mancando di fiducia nella bontà e onnipotenza divina, che invece possono e vogliono perdonare ogni peccato e dare le disposizioni necessarie per concedere tale perdono (come accadde a Giuda Iscariota); con la presunzione, che invece pensa di ottenere la salvezza senza aver fatto nulla per meritarla o di aver già fatto abbastanza (come nella parabola dei talenti): il rischio è l'unilateralità della giustificazione per sola fede, come dicono i luterani, o addirittura dell'impossibilità di far nulla per contribuire alla nostra salvezza, come insegna Calvino. La Carità è pure stata da noi definita. Essa è la condizione per applicare il comandamento nuovo. Il suo esempio è Gesù, Che ama fino alla fine e mostra l'amore del Padre. Come Lui, ci amiamo gli uni gli altri. Come amiamo noi stessi, come amiamo Lui e come Lui ci ama. Frutto dello Spirito, è pienezza della Legge, per cui in essa osserviamo realmente tutti i comandamenti, anzi li superiamo, perchè come Cristo Che morì per noi quando eravamo Suoi nemici, possiamo amare i nostri nemici, perdonarli, farci prossimi a chi è lontano, amare i bambini, le donne, i poveri come Lui stesso. Essa è paziente, benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto spera, tutto crede, tutto sopporta (cfr. 1 Cor 13, 4-7). Senza la carità, noi non siamo nulla. Senza di essa ogni virtù, privilegio, servizio non giova a nulla. Essa è la maggior virtù e rimane in eterno, come legame definitivo tra noi e tra noi e Dio. Lo attesta la Prima Lettera ai Corinzi. Tutte le virtù sono animate e ispirate dalla carità, la forma di tutte le virtù, il loro nesso e la loro ordinatrice, la loro sorgente e il loro termine, così come della pratica cultuale. E' garanzia e fonte di purificazione per l'amore umano, perchè lo eleva alla perfezione soprannaturale dell'amor divino, completamente gratuito. Nella Carità l'uomo è libero dal precetto imposto come allo schiavo e vive volontariamente nella corrispondenza d'amore al Padre. Per questo solo le azioni dettate dall'amore sono perfette e quelle che vengono dal timore no. La carità ha dei frutti, che sono gioia, pace, misericordia, esige generosità e correzione fraterna, è benevola, suscita reciprocità, è disinteressata e benefica, piena di amicizia e comunione. Amare Dio e il prossimo sono una sola cosa, perchè Dio è di per sé infinitamente amabile in quanto Bene infinito, Bellezza suprema, Felicità eterna, Bontà senza limita, Creatore, Padre, Signore benefico, Redentore e Salvatore, Provvidenza, mentre il prossimo è amato proprio per far piacere a Dio, Che lo ama infinitamente come ama anche noi, e perchè è parte del Corpo Mistico di cui anche noi siamo membri, nonché per spingerlo in noi, con noi e per noi ad amare Dio a sua volta. Il nostro amore per tutti non deve avere limiti. Questo significa che tutti sono oggetto del nostro amore, che dobbiamo concretamente beneficarli secondo quanto Dio ci chiede e mette in condizione di fare, che dobbiamo perdonare le offese come noi siamo incessantemente perdonati, anche se ovviamente l'intensità dell'affetto e dell'impegno sono differenti, andando dai parenti, ai benefattori, agli amici, ai superiori e agli inferiori, ai concittadini, ai compatrioti, ai fratelli tutti in Cristo e a tutti gli uomini, sia in terra che nell'aldilà. La Carità è la nostra carta di identità: da essa ci riconosceranno, dice Gesù, se ci amiamo gli uni gli altri. In essa si deve per forza crescere servendosi dei mezzi che Dio ci dà, altrimenti non potremmo averla in noi: la Bibbia, la conformità alla Sua Volontà, i Sacramenti, la preghiera, l'abnegazione, il servizio ai fratelli e l'esercizio della virtù.

LE BEATITUDINI EVANGELICHE

Il cristiano che vive la vita soprannaturale sperimenta la vera natura della moralità, non come legge del dovere, ma come vocazione alla Beatitudine, in terra e in cielo, per l'unione e la conformità a Dio in Cristo per lo Spirito. Assume significato quindi la pratica di vita delle Beatitudini Evangeliche, così come Gesù le ha espresse nel Vangelo nel corso del Discorso della Montagna (Mt 5,3-12). Esse capovolgono la logica umana, non andandole contro, ma superandola e mostrandone gli aspetti fallaci:

  • I. Beati i poveri di spirito, perchè di essi è il Regno dei Cieli.
  • II. Beati gli afflitti, perchè saranno consolati.
  • III. Beati i miti, perchè possederanno la terra.
  • IV. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perchè saranno saziati.
  • V. Beati i misericordiosi, perchè otterranno misericordia.
  • VI. Beati i puri di cuore, perchè vedranno Dio.
  • VII. Beati gli operatori di pace, perchè saranno chiamati figli di Dio.
  • VIII. Beati i perseguitati a causa della giustizia, perchè di essi è il Regno dei Cieli.

Queste Beatitudini sono più di un comando, sono una canonizzazione. Coloro che scientemente vivono le condizioni descritte sono benedetti già in terra, e in esse trovano una radice eminentemente soprannaturale nella quale innestare in modo completamente nuovo la vita morale, sia del Decalogo che delle virtù. Esse possono essere vissute solo in una prospettiva divina, proprio in vista della beatitudine che assicurano, ma una volta abbracciate svelano il senso profondo della stessa esistenza in terra.

Già nell'AT erano dichiarati beati coloro che praticavano la pietà, la saggezza, il timor di Dio, specie nei Libri sapienziali (Sal 1, 1-2; 33, 12; 127, 5-6; Pr 3, 3; Sir 31, 8). Gesù fa entrare in queste benedizioni i poveri di questo mondo. In particolare le prime tre Beatitudini dichiarano felici i deboli e i miseri di questo mondo, perchè hanno la benedizione del Regno; le altre riguardano l'atteggiamento morale dell'uomo.

I poveri di spirito sono coloro che hanno un'anima da poveri. La parola povero è usata con la sfumatura morale di Sof 2,3; indica colui che, non avendo le ricchezze, non le desidera disordinatamente, oppure possedendole, non ripone in esse la sua speranza e vive distaccato dal loro stesso possesso. La beatitudine consiste nel fatto che chi è povero di spirito possiede il Regno dei Cieli, che è Gesù stesso, povero realmente a sua volta, essendosi spogliato della condizione esteriore della Divinità ed essendosi fatto privare di tutto, compresa la vita, per donarla all'uomo, in piena e assoluta fiducia nel Padre. Solo infatti colui che è povero spiritualmente e considera Dio sua sola ricchezza è completamente unito a Lui. In questa prospettiva un povero avido e insoddisfatto – non legittimamente inteso a migliorare la propria condizione – non è più beato di un possidente. Nella povertà di spirito tutti, anche i ricchi, possono essere salvati, anche se ovviamente una minore ricchezza facilita la salvezza perchè allontana dalla tentazione; di certo non vi è salvezza per chi non si distacca dai beni di questo mondo.

Gli afflitti sono coloro che, sapendo che la vita umana non è mai esente da sofferenze, le sopportano per amore di Dio in unione al Cristo Crocifisso; ciò darà loro la consolazione da parte di Dio stesso, attraverso il Suo Spirito, e alla fine della vita nella Salvezza. Va da sé che una afflizione mal sopportata non produce alcuna beatitudine.

I miti sono coloro che rimangono calmi e sereni innanzi alle cattiverie umane e alle sventure; sono coloro che vivono lontani dalla superbia che vuole sempre e comunque imporsi, che non sa perdonare le offese; sono gli umili, perchè solo l'umiltà permette la mitezza, mentre l'orgoglio rende litigiosi e vendicativi. Essi hanno imparato da Cristo, mite e umile, ed erediteranno la terra, sia perchè umanamente sopravviveranno ai conflitti, sia perchè essa, intesa come promessa, prefigura il Cielo.

Coloro che hanno fame e sete della giustizia sono quelli che bramano ardentemente di praticarla e farla praticare, dando a ciascuno il suo, e ancor di più sono coloro che desiderano costantemente la giustificazione, la santificazione, che nel linguaggio biblico spesso è semplicemente indicata come “giustizia”. Questa giustizia è Cristo stesso; noi possiamo mangiare e bere di Lui nell'Eucarestia. Ecco perchè la beatitudine consiste nell'essere sfamati e dissetati: attraverso il Pane del Cielo otteniamo la giustizia di Dio e quindi anche quella umana.

I misericordiosi sono capaci di perdonare, di donarsi a chi non merita o a chi non ha titolo, di racchiudere in sé, come nelle proprie viscere, attraverso l'amore, tutti i fratelli, conformemente alla radice della parola ebraica che indica la misericordia. Ad essi sarà riservata la stessa misericordia, da Dio stesso.

I puri di cuore sono distaccati da ogni concupiscenza e desiderio malvagio; la loro intenzione è limpida; le loro azioni terse, perciò possono essere sicuri di vedere il Santo faccia a faccia.

Gli operatori di pace sono coloro che la costruiscono attorno a sé, senza invidie, rancori, meschinità, vendette, gelosie, lotte, contese; coloro che vivono promuovendola nella serenità e nella sincerità, non con debolezza, ma con dolce fermezza. Essi sono figli di Dio, perchè Egli è l'autore della pace, e nel Suo Figlio siamo pacificati tra noi e con Lui.

I perseguitati per la giustizia sono coloro che soffrono per la loro rettitudine e in particolare per la Fede in Cristo; come Lui martirizzati, sono uguali al loro Modello, Che è dunque stabilmente in loro. Di essi infatti si dice che, quando saranno insultati, perseguitati, calunniati per causa Sua, dovranno rallegrarsi ed esultare per la grandezza della loro ricompensa nei Cieli.

In Lc 6, 20-22, in un Discorso diverso da quello della Montagna, ma simile per argomento, Gesù dà una versione ridotta e meno estesa concettualmente delle Beatitudini. Dichiara beati i poveri, perchè di essi è il Regno di Dio; quelli che hanno adesso fame, perchè saranno saziati; quelli che ora piangono, perchè rideranno; quelli che sono odiati, messi al bando, insultati e il cui nome è respinto come scellerato, a causa di Gesù stesso, perchè grande è la loro ricompensa nei Cieli. Queste Beatitudini sottolineano la predilezione che Dio ha per coloro che sono vittime del mondo nella sua cattiveria e annunziano il capovolgimento della loro sorte in cielo; sottendono tuttavia una ispirazione spirituale che proprio in Mt è resa esplicita e si rapporta alla vita interiore, rendendo ancora più perfetta la condizione dei beati stessi. E' infatti eloquente quello che segue dopo, le dannazioni, rivolte ai ricchi, ai sazi, a coloro che ridono, a coloro di cui tutti dicono bene. Costoro, evidentemente per la vita che conducono in tali condizioni, sono dimentichi dei fratelli e di Dio; il ricco ha già la sua consolazione e quindi non ne avrà altre; il sazio avrà fame e colui che ride sarà afflitto e piangerà, sia perchè la loro sorte non potrà sempre essere stabile, sia perchè stoltamente in essa hanno riposto la loro fiducia e perciò saranno puniti; coloro che poi hanno il plauso di tutti sono come i falsi profeti, dei quali ovviamente avranno il castigo.

I CONSIGLI EVANGELICI

Sempre nella morale teologale e nello spirito delle Beatitudini il cristiano può vivere, ciascuno nel proprio stato, sino nei casi estremi di una vita consacrata solo ad essi, i Consigli Evangelici praticati da Gesù stesso: Povertà, Castità e Obbedienza, liberando del tutto l'uomo dal fomite del male che si è installato nella sua stessa anima attraverso la triplice concupiscenza. Mentre il comandamento e il precetto sono obbligatori, mentre in tutte le situazioni della vita l'uomo deve scegliere la via della beatitudine o della dannazione, i Consigli evangelici non obbligano ma garantiscono una perfezione maggiore. Essi esprimono tre istanze che, se seguite alla lettera, liberano l'uomo dai beni terreni, dall'amore coniugale e dalla propria stessa libertà, non perchè cattivi, ma per fondarsi completamente in Dio. Se ogni cristiano è tenuto a vivere i tre Consigli nella propria condizione di vita, alcuni prescelti lo fanno radicalmente, i religiosi. Per essi parliamo di povertà volontaria, castità perpetua e ubbidienza perfetta. Certo, se tutti fossero chiamati, l'umanità finirebbe. Ma nessuno è esentato dallo spirito dei consigli. La povertà è appunto la concretizzazione della povertà di spirito; la castità è legata alla propria condizione e può essere osservata anche nel matrimonio senza essere totale; l'obbedienza implica l'onesta sottomissione ai superiori per quanto compete loro. Tuttavia i Consigli evangelici sono propriamente dei soli religiosi. Non è che la vetta della santità si abbia attraverso essi, perchè si raggiunge nella carità; ma in queste tre forme vi è la situazione di vita più perfetta e conforme a Cristo, Che fu povero, casto e obbediente.

Vi sono buone ragioni per praticare la povertà. L'uomo si attacca ai beni del mondo ed essi lo pervertono. Allontanandosi da essi per fondarsi in Dio e aiutare chi ha bisogno rende l'anima più sicura della salvezza. In quanto alla castità, nella sua forma totale è una vocazione, che deve essere seguita pena la perdita dell'anima, specie se funzionale alla vita sacerdotale e religiosa, così come non deve essere imposta per non ottenere lo stesso danno per l'incapacità di sopportarla. Nella castità virtuosa l'uomo può dedicarsi solo a Dio senza l'impaccio degli affetti terreni. Relativamente all'ubbidienza, essa nella sua perfezione riceve il divino volere in ciò che gli altri e non noi stessi decidiamo a nostro riguardo. In questo l'uomo, come Gesù, accetta senza riserve la volontà del Padre, riconoscendola in ogni cosa.

ULTERIORE ELABORAZIONE SUGLI ELEMENTI DELL'ETICA SULLA SCIA DEL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

Nessuna vita morale cristiana si può improvvisare, ma esige una catechesi, che è ad un tempo dello Spirito Santo e della Sua presenza in noi; della Grazia, che ispira, sostiene e corona ogni azione buona, dopo averci giustificati nel Battesimo per il Sangue di Gesù nella fede in Lui; delle Beatitudini, che conducono alla felicità eterna dimenticando quella effimera di quaggiù; del peccato e del perdono, mediante il riconoscimento della colpevolezza che ognuno deve umilmente fare per poi analogamente chiedere la misericordia, causa dello stesso duplice riconoscimento, in quanto solo la consapevolezza del perdono ci può far accettare il peso della colpa in cui siamo nati ; delle virtù umane, da acquisire e capire; delle virtù cristiane, da contemplare e vivere in Cristo e nei Santi; del duplice comandamento della Carità, modellato su Gesù; della Chiesa come famiglia di Dio in cui interagire e cooperare. Colmi della consapevolezza della nostra dignità di cristiani, confessando la nostra fede e irrobustendoci coi Sacramenti, incorporati a Cristo, in Lui giustificati, inabitati dallo Spirito, facciamo ciò che è gradito al Padre, divenendo perfetti come Lui seguendo la Via che conduce alla Vita nella Verità, ossia sempre il nostro Redentore Gesù.

Ciò mostra egregiamente la nostra dignità, conferita, innalzata, perduta, restaurata e ancor più nobilitata. Creati ad immagine e somiglianza di Dio, abbiamo compimento nella beatitudine divina, a cui liberamente tendiamo; i nostri atti liberi ci conformano o no al bene divino che anche la coscienza ci attesta, edificandoci interiormente nella vita fisica, psichica e spirituale; con la Grazia compiamo il bene e fuggiamo il male del quale, se l'abbiamo commesso, chiediamo perdono. Così diventiamo, per grazia, perfetti.

L'uomo infatti è immagine di Dio, per la sua anima immortale, per le sue facoltà e per la sua libertà; Cristo ci mostra la pienezza della nostra dignità che viene a restaurare con la Sua Morte dopo che l'abbiamo sfigurata col peccato; in virtù di ciò non solo possiamo sentire la voce della coscienza, ma obbedirle, cogliendo la natura del vincolo a cui essa ci assoggetta, a dispetto della ferita che ancora permane in noi inclinandoci al male, ma che non è più invincibile. Inizia dunque una vita nuova, che germoglia in terra e fiorisce in cielo.

Siamo perciò chiamati alla Beatitudine, perchè ciò è conforme alla nostra natura, anche se questa, ferita, la cerca laddove non c'è; la chiamata in Cristo perfeziona anche quella già operante nell'AT. Tale Beatitudine è più della felicità stabile naturale a cui l'uomo aspira e che poteva essere il suo destino ultraterreno se non fossimo stati chiamati alla vita soprannaturale: è un dono purissimo della bontà di Dio, che ci rende partecipi della Sua stessa felicità. Questa chiamata innalza la nostra vocazione naturale ed è ora strutturata nell'uomo, che perciò anela, anche senza saperlo, alla visione di Dio, alla partecipazione alla Sua Natura, alla vita eterna, alla filiazione di Lui e al riposo in Lui. Vivendo le Beatitudini evangeliche, scegliamo nettamente tra il mondo e Dio, purificandoci per amare solo Lui, nonché dandoci i criteri per usare rettamente dei beni terreni.

La libertà umana è indispensabile per aderire a Dio ed essere come Lui, sovranamente libero. Essa è mezzo, non fine; strumento, non valore. L'atto umano dev'essere libero, ma non necessariamente è meritorio, né la libertà dev'essere tutelata di per sé, ma per il bene che rende possibile. Dio stesso l'ha fatto, anche se ha tollerato che essa servisse per il male. Quando perciò essa si è danneggiata invischiandosi nel male, Egli ha mandato il Figlio a redimerci, restaurando la nostra libertà con la Grazia e rimettendoci in condizione di fare il bene, inteso come Dio stesso, quale nostro fine supremo sia naturale che soprannaturale. Essendo liberati in Cristo, dobbiamo rimanere liberi: la lotta al peccato è la lotta per rimanere uomini.

L'atto umano è dunque necessariamente libero, ma la sua moralità dipende, come dicevamo, dall'oggetto, dall'intenzione e dalle circostanze che possono modificarle. L'oggetto scelto specifica moralmente l'atto del volere, facendolo buono o cattivo, mediante il giudizio che il soggetto agente formula. In ragione di ciò, nessuna azione cattiva può farsi con una buona intenzione. Il male intrinseco moralmente agli oggetti scelti è una mancanza di bene e quindi è un dato di fatto ontologico che nessuna intenzione o consapevolezza può cancellare, ferme restando le attenuanti della responsabilità individuali. Il peccato filosofico, ossia compiuto senza offendere Dio, non esiste, come sentenziò giustamente papa Alessandro VIII (1689-1691). La colpa è sempre sgradita a Dio, anche se chi la compie non può esserne imputato.

A offuscare la ragione e a spingere al male sono spesso le passioni, come abbiamo detto. In sé neutre, se non atte a presentire bene e male, esse sono colpevoli nella misura in cui dipendono dal nostro controllo; da esse vengono, se pervertite, i vizi o, se elevate, le virtù. Quando l'uomo vuole il bene con la sua natura passionale purificata, allora è libero e perfetto.

In tutto ciò fondamentale è il ruolo della coscienza, il nostro nucleo più intimo, il nostro sacrario, il luogo dove abita Dio soprannaturalmente e dove Egli opera, anche naturalmente. La coscienza morale è un giudizio morale che riconosce la qualità buona o cattiva dell'atto concreto. La coscienza rimprovera il male e loda il bene che facciamo. Ben formata, essa è retta e veritiera; segue la ragione assoggettata alla Grazia; deve perciò essere oggetto di cura da parte di ognuno di noi. Naturalmente essa può sbagliare. Molte volte la scelta può essere difficile tra una azione e l'altra. Possiamo ragionevolmente scegliere un'azione quando ci sono buoni motivi per ritenerla giusta, anche se meno probabili di quelli opposti (sistema del probabilismo), specie se il soggetto che deve scegliere ha una coscienza rigida che gli crea facilmente difficoltà di giudizio. Esiste tuttavia anche il criterio più lineare che privilegia l'azione la cui moralità è suffragata da prove e ragionamenti più probabili (sistema del probabiliorismo, approvato dal beato Innocenzo XI [1678-1689]), più atto a coscienze meno strette. In genere, vale il criterio che nel ragionevole dubbio vi è libertà di scelta. Ma quando il giudizio della coscienza è chiaro, si deve sempre seguire. In quanto poi all'ignoranza e al dubbio che offuscano il giudizio della coscienza, bisogna combatterli, perchè permanere in essi non è una attenuante ma una aggravante, come ognuno può capire. La Parola divina diventa dunque un faro sicuro da seguire nelle nebbie della vita.

Se nella Grazia l'uomo raggiunge la virtù, nel peccato la perde. Tutti siamo nati nel Peccato originale e nessuno, ad eccezione di Cristo e Maria, l'Uno Nuovo Adamo l'altra redenta in modo preservativo, è privo di peccato individuale, anche minimo o una volta sola. Dio tuttavia ha permesso che tutti fossimo peccatori per salvarci tutti per misericordia. Sebbene il peccato è essenzialmente una offesa a Lui, e quindi infinita, perchè negazione di bene che Lui è in grado sommo, la misericordia è superiore alla colpa e la lava. Il peccato è eclissi della ragione, allentamento della volontà, corruzione del sentire, perdita di libertà, morte eterna e terrena, causa di dolore; la sua radice è nel nostro cuore; la sua proliferazione ci corrompe e corrompe, presente in tutti gli uomini simultaneamente, l'umanità tutta, anzi crea le proprie strutture per dominare e spacciarsi per bene, sotto la regia occulta di satana, che trama la nostra rovina. Diviene quindi un fatto anche sociale.

La società umana non è il frutto di un contratto, ma il naturale compimento della personalità dell'uomo, per la quale egli è tale solo se in relazione con altri. Essa deve esistere per forza ed è il secondo livello, accanto a quello individuale, nel quale l'uomo si compie ed esplicita. Inoltre, siccome tutti gli uomini sono usciti da Adamo, la socialità umana intesa come umanità ha un fondamento ontologico preciso, che ne fa una realtà organica, interconnessa, retta da leggi essenzialmente oggettive, in cui interagiscono la libertà e la necessità fisiologica, conosciute e studiate in forme sempre più complete dalle scienze umane, illuminate anche dalla Fede. I diritti e i doveri che infatti sovrintendono alla società stessa esistevano anche prima del Peccato originale (come insegnò papa Giovanni XXII [1316-1334]) e la società umana non è una conseguenza della colpa, anzi ne è stata essa stessa danneggiata, lacerata, divisa. Tuttavia, così come il singolo è assoggettato alla legge morale, così anche la comunità, perchè tale legge è per l'uomo integralmente inteso; anche la società è inclinata al male in modo irreparabile dopo la Colpa d'origine ed è redenta da Cristo e in Lui è resa capace del bene, sia naturale che soprannaturale. Naturalmente parlando, principio soggetto e fine delle società umane è la persona, come insegna il Vaticano II. In ragione di ciò è normale incoraggiare la partecipazione degli uomini ad associazioni ed istituzioni elettive, come anche rispettare le funzioni proprie di ogni corpo sociale senza accavallarsi ad esso da parte di quello superiore (principio di sussidiarietà), così come il corpo sociale non deve fare altrettanto con la persona singola. In tale contesto, bisogna agevolare e non ostacolare l'esercizio della virtù, che attraverso la sua diffusione diviene non solo dei singoli, ma della società stessa. Anche questa è infatti capace di virtù e vizi, per cui deve sapersi convertire, sia alla legge naturale che la guida nella coscienza collettiva che va interpretata innanzitutto dai capi, sia alla legge soprannaturale per quelle nazioni che sono state inserite in Cristo mediante il Battesimo, inteso tanto come Sacramento ricevuto dalla totalità dei membri della stessa quanto come liturgia collettivamente celebrata nel passato ma, proprio per questo, incancellabile, come per quelle nazioni che invece a tale legge vanno chiamate e formate, nei loro membri e nella loro totalità.

Nella società l'autorità viene solo da Dio, perchè nessuno può comandare al suo simile. La Lettera ai Romani mostra come ogni potere è emanazione di quello divino; deve perciò seguire e far seguire, per quanto di sua competenza, la legge morale naturale e soprannaturale per diritto divino, non solo umano. L'autorità è indispensabile per l'ordinamento sociale, ma la sua legittimazione sta nella persecuzione del bene comune mediante mezzi moralmente leciti; solo in questo parametro è legittima la molteplicità dei sistemi politici ed istituzionali, senza che la Fede ne imponga uno proprio, anche se può giudicare il più adatto alla natura umana, a seconda delle epoche. L'autorità politica ha dunque come suoi limiti il diritto divino e quello naturale, oltre che la libertà personale come mezzo di realizzazione umana. Il bene che essa deve perseguire è l'insieme di quelle condizioni che permettono ai singoli e ai gruppi di raggiungere i propri fini, ivi compresi e svettanti quelli soprannaturali. Implica dunque rispetto e promozione dei diritti fondamentali rettamente intesi; prosperità e sviluppo dei beni materiali e spirituali della società; pace e sicurezza del gruppo e dei suoi membri. In tale prospettiva ogni persona è tenuta ad adoperarsi per questo scopo, mentre ogni Stato deve concorrere alla persecuzione di esso a livello mondiale, in collaborazione con quelle istituzioni che è bene esistano in ogni epoca per promuoverlo globalmente. Lo sforzo in tal senso è notevole perchè il peccato inclina la società al bene di pochi, alla sovversione della legge di natura, alla persecuzione dei giusti e alla lotta con altri gruppi sociali simili, superiori o inferiori, sino alla stessa sovversione del diritto di natura e divino, con la negazione di Dio o l'indifferenza verso di Lui, considerata a volte persino condizione di libertà e convivenza civile.

Di converso, la società deve assicurare la giustizia sociale, realizzando le condizioni che permettono ai singoli e ai gruppi di ottenere ciò che loro spetta. Il suo fondamento sta in quei diritti naturali che ognuno deve rispettare nell'altro e la comunità in tutti. Tali diritti sono l'aspetto sociale dell'uguaglianza umana, basata sulla loro dignità, indipendentemente dalle forme giuridiche assunte nelle varie epoche. In tale uguaglianza si commisurano quelle differenze inevitabili tra i singoli, che si riverberano anche socialmente, che sono volute o permesse da Dio, che creano sinfonia nella società ed esigono la solidarietà e la carità fraterne che edificano la società stessa e che poi a loro volta impongono l'impegno per superare quelle differenze che invece non sono necessarie o addirittura sono dannose. In tal modo la solidarietà si configura come la virtù cristiana sociale per eccellenza. Ciò è possibile solo nella Grazia del Cristo, Capo della Nuova Umanità, la società vivente che si identifica col Suo Corpo.

Da questo punto di vista anche la Legge, di cui dicemmo, è suscettibile di ulteriori riflessioni. Già come frutto della ragione di chi guida i popoli, orientato al bene comune e debitamente promulgato, il suo comando è atto della paternità di Dio, vietando il male e conducendo al fine ultimo attraverso quelli intermedi, anch'essi da Lui fissati. Termine di ogni legge è, per divina bontà, Cristo stesso, Che solo insegna e dà la giustizia di Dio. La legge naturale esprime la dignità umana e ne fonda diritti e doveri, come espressione della sapienza e della bontà divine. Essa è immutabile, anche se le circostanze in cui essa è compresa e vissuta implicano una dilatazione o una restrizione del suo ambito applicativo, della sua comprensione concettuale, senza pregiudizio alcuno della sua essenza. Di tale legge, quella mosaica è, come dicevo, la promulgazione positiva maggiore perchè fatta da Dio stesso, in quanto gli uomini da soli non possono più facilmente ritrovare in sé ogni suo comando con la propria ragione. Tuttavia, sebbene non la implichi, la Legge mosaica prepara a quella di Cristo. Essa è Grazia dello Spirito Santo ricevuta nella Fede in Cristo, che opera nella carità; la sua massima espressione è il Discorso della Montagna e si serve dei Sacramenti per comunicarci la Grazia stessa, per cui la pratica cultuale e la professione della Fede ne sono parte integrante e vincolante, ne sono fondamento e basamento. Essa compie, supera e perfeziona la Legge antica, le sue promesse con le Beatitudini e i suoi comandamenti con la trasformazione del cuore. E' dunque di grazia, di amore e libertà. E' composta non solo di precetti, ma anche di consigli, che sono lo scheletro della santità, che a sua volta ne è la corona.

Tale santità è il frutto della giustificazione. La Grazia dello Spirito ci conferisce la giustizia di Dio; Egli ci rende partecipi della Sua vita mediante la fede e il Battesimo, unendoci alla Passione di Cristo. Perciò l'etica ha un fondamento dogmatico soteriologico. La giustificazione implica la mozione dell'uomo verso Dio e poi il suo accoglimento del perdono e la giustizia stessa dall'alto, senza cui nessuno ha una vita etica. La remissione dei peccati, la santificazione e il rinnovamento, ordinariamente compiuti dai Sacramenti, sono percorso obbligato della vita morale, ne sono il presupposto e l'integrazione. Diveniamo dunque giusti non per il nostro sforzo morale, ma per la Morte di Gesù. Dio ci rende giusti, realmente, ma senza che siamo noi ad iniziare il processo né che possiamo compierlo e completarlo da soli. Il suo fine è la Gloria di Dio, nella quale siamo chiamati ad entrare, definitivamente nella vita eterna; ciò è il capolavoro della misericordia divina, che ci fa santi come il Signore e fa approdare l'etica nella dimensione escatologica attraverso un rinnovamento ontologico dell'uomo e del cosmo. Da ora, per la giustizia, diventiamo figli di Dio, e allo scopo naturale di vivere secondo ragione in vista di Dio, sostituiamo quello soprannaturale di vivere secondo Dio direttamente, in una razionalità illuminata dal Suo Verbo. In tale processo entriamo nel cuore della Trinità; la Sua Grazia previene, sostiene e corona il nostro bene, sia come santificante che come sacramentale ed attuale e di stato, nelle forme che io stesso ho esposto in Christus Redemptor. Questa Grazia sacramentale è attrice fondamentale della vita etica e va oltre essa, come vita divina in noi, come capace di renderci graditi a Dio, come scopo dell'agire divino in noi, a cui sono ordinati i carismi che ci sono concessi, sia naturali che soprannaturali. Perciò il merito morale non è nostro, ma di Dio, sia come azione sua diretta, che come dono concessoci per averci associato alla Sua azione suscitando e coronando la nostra. Solo in tale ottica noi abbiamo dei meriti, come dono realmente ascrittoci, ma non conseguito con le nostre sole forze, bensì col concorso determinante di Dio. In virtù della Grazia esso è vero merito, per gratuità divina, ma mai la Grazia prima può essere meritata, solo ricevuta per il merito di Cristo. Le grazie seconde, debitamente assecondate, ci permettono di meritarle progressivamente come dono divino. Ognuno naturalmente può raggiungere la vetta, perchè il dono, sebbene gratuito, è offerto a tutti. La strada per la vetta è sempre quella: Chi vuol essere Mio discepolo, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24). La salita alla perfezione diviene quella al Calvario.

Questa ascesa è un culto spirituale, reso possibile da quello liturgico che gli dà nutrimento e forza per costituirsi. In tale ottica, la norma cultuale e quella morale sono unite nella legge della Chiesa, il Cristo Totale, mediante cui il Cristo Capo è unito ad ognuno. Il Magistero diventa così indispensabile per rettamente orientarsi nell'etica, perchè insegna e interpreta autenticamente la Legge divina, in modo sempre più perfetto della ragione umana, che converge con esso se rettamente usata. Per questo il Magistero è autorevole e infallibile nelle forme sue proprie anche nell'etica, sia naturale che soprannaturale, e in tutto quanto pertiene alla custodia, alla esposizione e alla osservanza delle verità di fede,perchè siano osservate sempre in modo integro, onde condurre l'uomo alla salvezza (9).

ERRORI SULL'ETICA SECONDO LA VERITATIS SPLENDOR

Nel 1993 il beato Giovanni Paolo II promulgò la prima enciclica che un Papa abbia mai dedicato alle questioni sui fondamenti della morale, intaccati da tendenze odierne. Ricordarli completa il quadro che andiamo tracciando, ponendo i paletti che la Chiesa ha piantato a tutela della legge morale. Ne possiamo enucleare dieci.

Il primo è l'esaltazione della libertà, fino a farne la sorgente dei valori con la conseguente separazione tra essa e la natura, tra la coscienza e la legge morale. In ragione di ciò la coscienza è intesa come legislatrice, come normativa, come autoreferenziale, orientandosi così verso il relativismo, in base ad una perversa tendenza le cui ascendenze stanno nella filosofia di Stirner e di Nietszche con la sua ontologia del superomismo. Ciò nega la verità fondamentale, per cui solo Dio stabilisce ciò che è buono o cattivo.

Il secondo errore è la concezione della ragione come autrice della legge morale, e non piuttosto come colei che scopre o constata la razionalità della legge fondata sul Logos divino.

Il terzo, connesso al primo, sostiene che la legge morale non solo scaturisce dalla ragione, ma si impone solo se essa la riconosce come conforme a sé nella coscienza individuale, come se la morale dovesse essere confermata nella sua razionalità dalla valutazione di ognuno, perdendo la sua oggettività.

Il quarto errore è la separazione tra l'ordine etico, che sarebbe solo umano e mondano, e l'ordine della Salvezza, in cui conterebbero solo alcune intenzioni e atteggiamenti interiori; non vi sarebbe dunque alcun nucleo etico nella Rivelazione, tanto meno permanente e universale, quasi che Dio non avesse dato all'uomo alcuna norma di bene e di male o Gli fosse indifferente l'agire specifico degli uomini singoli.

Il quinto è designato sia come fisicismo che come naturalismo; per essi la morale presenta come leggi sue quelle che sono solo biologiche, erroneamente assolutizzate e invece mutabili. In tali concezioni l'elemento corporeo o è anteriore o estraneo alla morale, per cui l'atto compiuto nel corpo e per il corpo non è assoggettato alla legge morale. Si dimentica qui che il soggetto morale non è solo l'anima dell'uomo, ma l'uomo stesso, come composto di anima e corpo.

Il sesto errore è lo storicismo, che nega l'immutabilità della legge morale, confondendo la modificazione delle circostanze in cui la legge viene osservata con la modificazione, in realtà mai accaduta, della legge stessa.

Il settimo è costituito dal presunto primato della coscienza sul Magistero nella determinazione della moralità degli atti umani e dall'esaltazione dell'opzione fondamentale, ossia della scelta di fondo che l'uomo fa per Dio o contro di Lui; laddove l'uomo scelga Dio, nessun atto, sebbene grave, potrebbe modificare tale opzione. In realtà non solo il Magistero gode di quell'ausilio divino che lo esonera dalla fallacia del pensare umano individuale o comune, ma neanche l'opzione fondamentale si configura come irreformabile, sia nel bene che nel male, per cui ognuno può orientarsi al male o convertirsi in base agli atti che compie.

L'ottavo errore è la negazione tra peccato mortale e veniale, quasi che fosse semplice casistica e non riflesso di una graduata organizzazione del bene da parte di Dio.

Il nono è il teleologismo. Esso valuta l'atto umano in vista dei fini perseguiti dall'agente e dei valori da lui intesi. L'atto quindi andrebbe valutato o in base alle conseguenze previste (conseguenzialismo) o in base alle proporzioni tra gli effetti buoni e cattivi preventivati (proporzionalismo). Tali concezioni rifiutano ogni proibizione assoluta, come se la materia morale cattiva in se stessa non esista. In tale ottica qualunque sacrificio morale non avrebbe senso e il martirio, la più alta testimonianza di amore per Dio, superfluo e dannoso.

Il decimo errore è la possibile alleanza tra democrazia e relativismo etico, che toglie alla coscienza civile i punti di riferimento stabile posti dalla Legge divina, naturale e soprannaturale.

Il Papa ricorda infine che la teologia morale è al servizio della verità e deve muoversi nell'alveo della Rivelazione, assoggettandosi all'occorrenza al Magistero.

PARTE SECONDA- LA FONDAZIONE SOTERIOLOGICA DELL'ETICA (10)

Quello che segue enuncia i caratteri generali della soteriologia (sotèr= salvatore), ossia di quella branca della dogmatica che spiega il modo in cui Dio ha operato la nostra salvezza, le ragioni e i fini di tale operazione e le sue conseguenze. Attore della salvezza è sempre Cristo, per cui quanto andiamo a dire si colloca nello stesso alveo della teologia che verte sulla Seconda Persona della Santissima Trinità incarnata e fatta Uomo. Per enunciare il più chiaramente possibile tale dottrina, andiamo a vedere cos’è la salvezza, ossia perché e da cosa dobbiamo essere salvati, da chi e con quale vantaggio. Cominciamo però dai concetti fondamentali.

QUESTIONI TERMINOLOGICHE DELLA SOTERIOLOGIA

La parola chiave della soteriologia è Giustificazione. Essa è il processo mediante cui l’uomo, da peccatore, viene costituito giusto innanzi a Dio; suo sinonimo è Giustizia, spesso nella Bibbia detta più specificamente Giustizia di Dio. Essa si compie mediante Gesù Cristo, il Quale è, secondo San Paolo, Egli stesso la Giustizia di Dio. S’impone subito una puntualizzazione: nella Chiesa Cattolica la Giustificazione è un atto mediante il quale Dio modifica lo stato ontologico e morale del giustificato, ossia l’uomo, che è peccatore prima di essere giustificato e portatore di una natura guastata – come vedremo- dal Peccato d’Origine, dopo essere giustificato recupera una natura restaurata e diviene realmente giusto innanzi al suo Creatore, in quanto può compiere azioni che meritano di essere ricompensate da Lui con la Beatitudine Eterna. Questa concezione si è in parte perduta nel Protestantesimo, dove la Giustificazione è un atto con cui Dio conferisce all’uomo uno statuto formale di santità che non modifica il suo stato ontologico né quello morale, ossia l’uomo, che è solo peccatore prima di essere giustificato, dopo esserlo stato diviene anche giusto, in quanto Dio ha deciso di considerarlo tale. In altre parole, se nel dogma cattolico la giustificazione è un processo che pone capo ad una res, in quello protestante giunge solo ad un nomen. Infatti, alle spalle della teologia luterana c’è il nominalismo della Tarda Scolastica (11). Tale concezione trapassa, in modi differenti, anche negli altri maestri della Riforma, come Calvino (1509-1564) e Zwingli (1484-1531). Naturalmente, l’insegnamento cattolico si regge sulla Tradizione che, in modo sempre unanime, interpretò la Sacra Scrittura, fissandone i pilastri sin dai tempi del Concilio di Orange (529), e riproponendoli nel modo più autorevole possibile con il magistero infallibile del Concilio di Trento (1545-1563). Esso esprime la ricchezza della misericordia e della potenza di Dio, il Quale non si limita a considerare l’uomo giusto, ma lo rende tale realmente. Il grande dottore della Giustificazione e dei temi connessi fu Agostino di Ippona (354-430), al quale – commentatore insigne della Lettera ai Romani di Paolo, dalla quale prende le mosse tutto il dibattito interconfessionale cristiano sull’argomento – si sono poi riagganciati tutti gli altri pensatori, sia ortodossi che eretici, in una serie di posizioni concettuali che hanno sviluppato tutte le implicazioni possibili del magistero dell’Ipponense, anche quelle rifiutate dalla Chiesa ufficiale. Solo partendo da questo dato – il plesso ermeneutico Paolo-Agostino e la pluralità dei suoi sviluppi – si può addivenire ad una comprensione tale del dogma che permetta di recuperare le istanze positive presenti anche nell’interpretazione protestante della soteriologia. Il che oggi, in seguito ai numerosi passi fatti tra le Chiese per venirsi incontro sull’argomento, non è istanza da trascurarsi.

La Giustificazione può essere detta per fede e per opere. Entrambe le locuzioni sono bibliche, l’una di San Paolo nella Lettera ai Romani, l’altra di San Giacomo nella sua unica Epistola; la prima mette in evidenza il fatto che l’uomo è giustificato se crede in Colui Che Dio ha mandato nel mondo per salvarlo, ossia Gesù Cristo; la seconda sottolinea che l’uomo salvato deve compiere le buone opere che gli meritano il Paradiso. Ossia l’uomo, redento da Gesù, credendo in Lui, viene giustificato e può compiere le buone opere necessarie alla salute eterna, fuggendo il male e facendo il bene. Ragion per cui la Giustificazione per fede implica e postula quella per opere, come l’albero il frutto, e quella per opere presuppone quella per fede, come sua radice (12). In questo plesso ermeneutico trovano collocazione altri quattro concetti: la fede, la carità, la speranza e la Grazia. Le prime tre sono le cosiddette virtù teologali, ossia concernenti Dio stesso, in quanto permettono all’uomo (vir, da cui virtù) di agire in relazione a Lui, per cause, modi e fini che Lo riguardano e sono quindi soprannaturali. La fede è la virtù soprannaturale per la quale l’uomo crede in Dio e in ciò che Egli può operare, a cominciare dalla salvezza. La carità è la virtù soprannaturale con cui l’uomo ama, facendo il bene, il prossimo per amore di Dio e Questi per Se stesso, compiendo atti che meritano la celeste ricompensa. La speranza è la virtù soprannaturale per cui l’uomo attende dalla misericordia divina l’aiuto per compiere il bene nella carità e il premio per il bene fatto, oltre che il perdono per il male commesso (13).

La Grazia è il dono gratuito – come indica il nome – che Dio fa della Sua stessa vita all’uomo, comunicandogliela in modo analogico e come forza operatrice trasformante (14). Quando la Grazia s’insedia nell’anima, questa diviene conseguenzialmente dimora dello Spirito Santo, che vi rimane finchè l’uomo non perde la Grazia stessa. Essa previene ogni merito umano, perché è il frutto della Redenzione operata da Cristo sulla Croce (15); in prima istanza essa comunica all’uomo la fede, suscitandola e sostenendola nell’atto con cui essa crede in Cristo come Redentore (16); in seconda istanza viene comunicata all’uomo che ha fede perché possa scegliere di compiere, intraprendere e completare le opere di carità gradite a Dio; in terza istanza suscita nell’uomo che opera il bene la speranza dei beni celesti; simultaneamente a tutte queste istanze, la Grazia conferisce agli atti di fede, carità e speranza compiuti dall’uomo un valore soprannaturale o divino, per cui essi meritano realmente di essere graditi a Dio e da Lui ricompensati. La corresponsione a tali gradi di perfezionamento implica e permette il passaggio da un grado all’altro. Tale Grazia è detta dunque santificante, proprio perché rende chi la riceve santo, ad immagine di Dio, il Quale dice: Siate santi perché Io, il Signore Dio vostro, sono santo (Lv 19, 2b). Tale Grazia santificante compie il suo scopo attraverso due modulazioni di efficacia: la Grazia di stato, per cui l’uomo può compiere i suoi doveri legati alla condizione che vive (l’uomo sposato, per esempio, può amare sua moglie ed esserle fedele); la Grazia attuale, per cui, di situazione in situazione, l’uomo può compiere sempre il bene, per cui egli passa di buona azione in buona azione, in base ad una efficacia proporzionale allo scopo da raggiungere.

La Grazia si comunica in due tipologie di modi: gli ordinari e gli straordinari. Gli ordinari corrispondono ai Sette Sacramenti, che producono di per sé nelle anime la Grazia, che diventa operativa in ragione della disposizione di chi la riceve. Perciò colui che formula per la prima volta il suo atto di fede in Cristo Redentore deve ricevere il Battesimo, che genera la Grazia nelle anime rendendole cristiane, ossia imprimendo in loro il carattere indelebile della Redenzione compiuta. Da sola infatti la fede non produce, ma ottiene la Grazia. Gesù infatti dice: Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo (Mc 16, 15 a). Gli altri sacramenti producono la Grazia loro propria o sacramentale in base alle circostanze in cui devono essere ricevuti (17).

In quanto ai mezzi straordinari, che solo Dio conosce in modo preciso, essi distribuiscono a coloro che sono fuori della Chiesa la Grazia prodotta e messa in circolo dai sacramenti celebrati in essa. Si fondano quindi sulla natura sacramentale della Chiesa stessa, istituita da Dio per conferire la Grazia a tutti gli uomini. Il mezzo straordinario più semplice è il Battesimo di desiderio, da imputare sia a chi si farebbe battezzare se sapesse che è gradito a Dio (18), sia a chi vorrebbe essere battezzato ma non fa in tempo a farlo (19). In ragione di tale mezzo tutti coloro che professano, in buona coscienza e per incolpevole ignoranza, un’altra religione, possono giungere alla salvezza, sempre per i meriti di Cristo, e non per validità della propria fede (20). Infatti bisogna ricordare l’antica massima: Extra Ecclesiam nulla salus, Fuori della Chiesa non c’è salvezza, ma anche puntualizzare che nella Chiesa sono inseriti tutti quelli che professano, almeno implicitamente e potenzialmente, la vera fede. Questo realizza il volere divino, espresso dall’Apostolo: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi (2 Tm 2,4).

Ciò ci introduce ad un altro termine chiave della soteriologia, la Predestinazione. Essa è l’atto con cui Dio, conoscendo in anticipo coloro che corrisponderanno alla Grazia concessa per la Giustificazione, sanziona la loro scelta e li destina alla beatitudine eterna. Coloro che sono predestinati sono perciò detti eletti; essi sono compresi nel novero dei chiamati, ossia tutti gli uomini, che hanno la vocazione alla vita soprannaturale e che sono appunto giustificati nel modo descritto sopra. I giustificati che perseverano sino alla fine sono detti santificati (anche se essi sono santi in senso lato – perché provvisoriamente – anche in questa vita); il loro stato dopo la morte è quello dei glorificati, sebbene la gloria della Grazia sia presente, invisibilmente, anche nei giusti che ancora sono in questo mondo. I giustificati sono detti Figli di Dio per adozione (Ef 1, 5) perché riempiti della vita stessa di Dio, la Grazia; perché inabitati dal Suo Spirito; perché inseriti nel Corpo Mistico del Figlio di Dio secondo natura, Gesù Cristo. In questo senso tutti gli uomini, in quanto giustificati, sono predestinati ad essere costituiti Figli di Dio, anche se non tutti permangono in tale stato. Infatti il Signore dice: Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti (Mt 22, 14 (21)). Coloro i quali, pur essendo chiamati e giustificati e costituiti Figli di Dio nella Grazia, non perseverano, si determinano alla dannazione eterna, della quale Dio non è artefice. Infatti Egli ha per gli uomini solo una volontà di salvezza, con cui corregge il destino di dannazione che essi si sono procurati col Peccato. Inoltre Egli a tutti fornisce i mezzi per salvarsi. Per cui nessuno è dannato per divino volere, ma sempre e solo per volontà propria, la cui cattiveria è sanzionata dalla giustizia celeste (22). Infatti non vi è, né vi è stato né mai vi sarà un uomo per il quale Gesù Cristo, Redentore dell’Uomo, non abbia sofferto per salvarlo, pur sapendo che per molti la sua sofferenza sarebbe stata vana (23).

IL PECCATO ORIGINALE

Quando Dio creò l’uomo, lo costituì in un perfetto equilibrio naturale, in cui i due elementi che lo formano, l’anima e il corpo, erano nella massima armonia. Tuttavia, arricchendo quella natura che Lui stesso aveva creato, le aggiunse delle caratteristiche che non le erano proprie, i cosiddetti doni preternaturali: immunità da dolore e morte, assenza di passioni, capacità di conoscere senza difficoltà. Infine, non contento di aver volontariamente eliminato per l’uomo quei limiti che avrebbe dovuto avere, Dio volle elevarlo al livello della vita soprannaturale: gli conferì la Grazia Santificante – di cui abbiamo già detto – che lo costituì Suo figlio adottivo. Il primo uomo – Adamo, ossia “fatto di terra”- e la prima donna – Eva, ossia la “madre dei viventi” – non avevano nessuna colpa da cui essere giustificati, perché erano stati creati e posti simultaneamente in questo stato di Grazia (giustizia originale); ma naturalmente anche per loro esso fu un dono assolutamente gratuito. La Grazia in loro preveniva, sosteneva e coronava le opere compiute in perfetta sintonia con essa. Costituito in piena armonia con il mondo naturale, benedetto per causa sua (Paradiso Terrestre), l’uomo e i suoi discendenti avrebbero dovuto vivere in uno stato di felicità e armonia, per poi passare, al termine della vita terrena, nella beatitudine eterna, con l’anima e col corpo, senza il trapasso doloroso del morire. La mancanza delle passioni – ossia dei desideri spontanei – e dell’ignoranza avrebbe reso facile la vita spirituale, segnata dall’ossequio alla legge morale dettata dal Creatore. In questa obbedienza Dio pose l’unica condizione per mantenere l’uomo in questo stato. Egli volle che Adamo e Eva fossero confermati in Grazia, con tutti i doni connessi, in virtù di un solo atto di obbedienza, il cui merito sarebbe stato tramandato ai loro discendenti per sempre. Tale atto nel racconto biblico è rappresentato dal divieto di cogliere il frutto dell’albero della scienza del bene e del male, ossia dal divieto di farsi legge a se stessi. Ma l’uomo e la donna, che non potevano commettere altro genere di peccato che un gesto di volontaria insubordinazione, cedettero all’inganno del diavolo. Questi, appartenente alla schiera degli esseri celesti immateriali creati da Dio prima dell’uomo, aveva, con altri suoi simili, già rifiutato di riconoscere Dio come suo Signore, era stato condannato ed era divenuto, da puro spirito, uno spirito impuro, assieme ai suoi sodali. Ora, per vendicarsi di Dio, consigliò ad Eva di mangiare il frutto proibito, ossia di fare a meno di Dio per determinare il giusto e lo sbagliato, per diventare come Lui. La donna si lasciò irretire e suggerì al marito di trasgredire. Questi ascoltò lo scellerato consiglio e commisero perciò il Peccato originale. Preferì alienarsi il favore divino, pur di essere legge a se stesso. Consapevole delle conseguenze che ne sarebbero derivate, l’uomo tuttavia volle ribellarsi a Dio, considerando questo atto una liberazione dall’unico limite che gli era stato imposto. Perciò, in seguito alla colpa commessa al posto dell’atto virtuoso, quello che doveva tramandarsi ai discendenti come merito passò a loro come colpa, come macchia, che segnò definitivamente la razza umana e il mondo, ad essa affidata.

Il Peccato originale, ossia l’atto di superbia primordiale con cui l’uomo rifiuta radicalmente il ruolo di Dio dopo aver ricevuto da Lui tutto il possibile, è un fatto realmente storico, senza del quale non solo non potremmo capire il fatto della Redenzione, ma la stessa storia umana e la natura degli uomini, drammaticamente segnata dal male, odiato, temuto e però continuamente commesso. Una forma di soggezione della teologia nei confronti delle acquisizioni, vere o presunte, della storia umana e naturale, della filologia e della scienza, ha fatto sminuire il ruolo del Peccato originale, degradato al rango di racconto popolare, di leggenda, di mito, di teologumeno, di proiezione psichica. In realtà, la narrazione biblica è di alto livello letterario, avendo come modello i testi dell’antica epica mesopotamica, e riveste delle migliori forme narrative dell’epoca il suo oggetto (24). Il predominio dell’ipotesi evoluzionista nella storia naturale ha fatto credere che il Peccato originale non fosse possibile, perché in realtà non vi è mai stato un primo uomo, né tanto meno uno stato di primordiale armonia tra lui e la natura (25). Ma in realtà l’evoluzionismo non c’entra niente col Peccato originale. Anzitutto, il racconto biblico insegna esplicitamente che Dio ha creato direttamente l’uomo, insufflando l’anima in una materia preesistente debitamente plasmata e predisposta. Tale materia può essere benissimo un animale superiore come le scimmie antropomorfe, o un ominide o un Homo di tipo non sapiens, ma anteriore ad esso. Ma è di fede che la creazione dell’uomo rompe il normale schema evolutivo, perché introduce nel cosmo materiale un essere composto di materia e spirito (26). Peraltro, proprio la storia naturale ha scoperto un salto genetico intorno ai centomila anni fa, per cui, in modo discontinuo rispetto alle forme umanoidi precedenti, comparve l’Homo Sapiens. Un salto che rimanda all’intervento superiore, che integra ciò che aveva creato introducendo un elemento nuovo: un genoma utilizzabile da una forma spirituale, l’anima. Inoltre, la costituzione dell’uomo in uno stato preternaturale e soprannaturale non è il punto di arrivo di nessuno sviluppo evoluzionistico, ma una volontaria immissione, da parte di Dio, di elementi superiori in un mondo inferiore, assolutamente incapace di produrli da sé. L’uomo infatti, come essere naturale, non doveva necessariamente essere chiamato da Dio alla Salvezza. Diversamente, la Grazia non sarebbe più un dono assolutamente gratuito. Ci sono quindi le coordinate storiche in cui inquadrare la creazione dell’uomo e della donna, la prima coppia interfeconda della nuova specie, a cui Dio, in un tempo ancora imprecisato e in un luogo non identificato (27), ha dato, sia pure per poco, uno stato di vita superiore, perduto per propria colpa. Non dunque una narrazione che esprime un concetto teologico, ma un fatto storico le cui premesse, i cui fattori concomitanti e le cui conseguenze sono oggetto di fede (28). Non una proiezione psicologica ancestrale ma l’oggetto corrispondente alla fenomenologia della mente in materia di origini: l’evento primordiale che ha drammaticamente segnato la vita della razza umana e del quale tutti conserviamo un inconsapevole ricordo e una drammatica conseguenza.

Le conseguenze del Peccato originale furono devastanti per tutti noi. Tramandato per traducianesimo – ossia con la generazione sessuale, che produce corpi macchiati dal Peccato stesso e che subito contaminano le anime che Dio immette immediatamente in loro – esso implicò per l’uomo la perdita della Grazia Santificante e della giustizia originale, assieme alla dignità di Figlio adottivo di Dio, per cui le porte del Cielo si chiusero irrevocabilmente; ruppe l’equilibrio con la natura trasformando l’ambiente in un luogo ostile; causò la perdita dei doni preternaturali e il ritorno allo stato base di natura, peraltro irrimediabilmente danneggiato; ampliò a dismisura la percezione del dolore, le tenebre dell’ignoranza, il terrore della morte e la forza delle passioni: la triplice concupiscenza (del sesso, della ricchezza e della grandezza) divenne la tiranna dell’anima; infine danneggiò irreparabilmente la capacità umana di autodeterminazione. Infatti, se l’uomo conservò la capacità di scegliere se fare il bene o il male (libero arbitrio), perse la libertà, ossia la capacità di perseverare nel bene stesso, e rimanendo capace di fare volontariamente solo il male (29). In conseguenza di ciò, tutti gli uomini avrebbero potuto fare solo cattive azioni e, dopo aver perduto il Paradiso, meritare di soffrire, morire e di andare poi inevitabilmente all’inferno. Il Peccato Originale e la pletora infinita dei peccati attuali commessi dagli uomini aprivano inoltre un drammatico contenzioso con la Giustizia Divina: avendo offeso un Dio infinitamente buono, meritavano una punizione eterna, contraendo un debito immenso che nessuno avrebbe potuto ripagare. L’umanità, incapace di fare alcunché di buono, era destinata alla completa rovina, se Dio, nell’atto più sovrano, più clemente e più misericordioso mai compiuto, non avesse mandato un Redentore, promesso immediatamente dopo la Caduta: Porrò inimicizia tra te e la Donna, tra la sua stirpe e la tua stirpe; tu le insidierai il calcagno, ma Essa ti schiaccerà il capo (Gen 3,15). Il senso profetico fu subito compreso dai due destinatari: l’uomo, con sollievo; il diavolo, con terrore. Il piano di Dio, per cui l’uomo doveva essere suo Figlio adottivo, danneggiato dalla sua rivolta, venne così restaurato e fu predisposta la Giustificazione, secondo quanto descritto prima, attraverso il Sangue del Redentore.

IL REDENTORE: GESU’ CRISTO

Prima ancora di creare il mondo, Dio sapeva che l’uomo che avrebbe fatto e chiamato alla comunione con Lui Gli si sarebbe ribellato; fin da allora aveva previsto che avrebbe dovuto scegliere se abbandonarlo – e poteva farlo in base alla Sua giustizia – o salvarlo, e sin da allora aveva ovviamente deciso che l’avrebbe salvato, e che l’avrebbe salvato attraverso un atto redentivo. In Dio infatti non vi è scansione di tempo e Lui vede tutto ciò che accadrà nel Suo eterno presente. Il decreto della Creazione e della Redenzione è dunque unico, anche se solo la Caduta diede il motivo per applicarlo completamente, ossia fornì la ragione della Redenzione stessa. Per questo Dio la permise, perché Gli avrebbe dato la possibilità di mostrare in pienezza il Suo amore per l’uomo e di chiamarlo ad una giustizia ancora migliore. In seno alla Sua famiglia trinitaria, Dio ebbe compassione della rovina dell’uomo; Egli, Che era infinitamente offeso dal peccato umano, sia appena compiuto, sia nelle molteplici forme che avrebbe assunto in futuro, volle che l’immenso oltraggio fatto gli fosse lavato da una riparazione proporzionata, ossia infinita anch’essa; tale riparazione poteva venire solo da Lui stesso, in quanto solo la Sua Santità immensa e infinita può soddisfare la Sua Giustizia altrettanto incommensurabile. La Sua Misericordia, che è anch’essa incalcolabile, colmò l’abisso tra Santità divina e colpa umana, in una sintesi che poteva placare la Sua Giustizia, e con arcano decreto l’Uno e Trino Dio decise di mandare Uno della Trinità per soffrire nella Carne (30). Il progetto della Salvezza fu proferito, nel silenzio trinitario, dal Padre alle Due Persone Consostanziali, Figlio e Spirito. Ad esso Entrambi assentirono: nulla infatti in Dio non è voluto dalle Tre Ipostasi insieme. Il Padre chiese: Chi andrà per noi? (Is 6,3b). E il Figlio, per l’amore di cui arde per il Padre Suo, volle realizzare il Suo desiderio più grande, che era anche il Suo, e disse dinanzi allo Spirito, rivolto a Colui Che Lo genera in eterno: Ecco, manda Me (Is 6,3 c). Il Padre, che nel Verbo Incarnato aveva posto l’archetipo sul quale aveva modellato l’uomo, per renderlo partecipe di questa somiglianza, avendo amato la Sua creatura, l’amò fino alla fine e volle che il Figlio Unigenito patisse per lui. Lo Spirito, in eterno assenso con le Sue Due eterne scaturigini, volle che l’Una donasse l’Altra all’uomo peccatore, nel quale Lui stesso aveva insufflato la vita.

Nel momento in cui inizia l’attesa del Redentore, la storia dell’uomo si divide in due ere: quella di coloro che credono nel Cristo venturo – e che sono giustificati in vista di Lui, in Cui credono almeno implicitamente – e quella di coloro che credono nel Cristo venuto – e che sono giustificati per Lui, in Cui credono almeno implicitamente e nel Cui Nome sono battezzati almeno per desiderio. Prima della Sua Morte, il Cielo rimane chiuso anche per i Giusti: essi, quando muoiono, vanno in un luogo di attesa, il Limbo dei Padri, il biblico Sheol (31). I malvagi invece vanno all’Inferno. La lunga attesa è punteggiata di richiami profetici: figure ed eventi (la morte di Abele, l’Arca di Noè, il Sacrificio di Isacco, Giuseppe venduto dai fratelli, il Serpente di Bronzo nel Deserto, i sacrifici prescritti dalla Legge mosaica ecc.), profezie e scritture (di Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele e di tutti gli agiografi del VT) descrissero con dovizia di particolari la Vita e i Dolori del Redentore (32). Non mancarono luci anche ai pagani (33). Perciò quando Gesù venne nel mondo, tutti potevano riconoscerlo.

Per ciò che concerne il mezzo della Redenzione, diciamo che il Figlio dunque decise di assumere la Carne umana, nei modi descritti nella lezione dedicata alla cristologia. Dio avrebbe potuto sovranamente perdonare l’uomo senza nessuna espiazione, lasciando in ombra la Sua Giustizia; avrebbe potuto redimerlo facendo versare al Verbo Incarnato una sola goccia di sangue o di sudore, facendo risaltare la Sua Santità; volle invece che la Persona del Verbo, nella Sua Natura umana, soffrisse in modo proporzionale alla gravità delle colpe che gli uomini avrebbero commesso sino alla fine del mondo, sia quelle di cui si sarebbero pentiti sia quelle di cui non avrebbero mai fatto penitenza; in ragione di ciò il Verbo Incarnato, Gesù Cristo, soffrì ciò che mente umana o angelica mai potrà neanche immaginare nella Sua Passione e Morte, ma di cui abbiamo un pallido riflesso nella ricostruzione dei tormenti inflittigli, i più atroci inventati dall’uomo, e nella meditazione dei suoi dolori interiori. Egli soffrì per ognuno dei peccati di ognuno degli uomini, e tutti li conobbe nella Sua Passione. Egli pagò il prezzo del peccato con il Suo Sangue, che biblicamente è appunto la Vita dell’Uomo. Egli espiò nel Suo Corpo, che è la Sua stessa Umanità assunta nella Persona divina. Egli riparò nelle Sue Piaghe, perché lo Spirito Santo attesta tramite Isaia: Nelle Sue Piaghe siamo stati guariti (Is 53,5d). Peraltro, tutta la Vita di Cristo, dall’Incarnazione in poi, è espiazione. Per il semplice fatto che Egli, Persona divina, abbia vissuto l’esistenza creaturale, ha meritato la nostra salvezza, per la Sua umiltà; in essa, inoltre, ha provato le sofferenze proprie dell’umana vita. Inoltre Gesù, Che sapeva di dover morire e come ciò sarebbe accaduto, trascorse la Sua Vita in questa angosciosa attesa, che fu essa stessa espiazione. Ma naturalmente la vetta dell’espiazione fu la Passione e Morte. In questa maniera Dio mostrò al mondo il Suo volto più vero: la Misericordia e l’Amore. Essi non oscurarono la Giustizia, ma trionfarono su di essa; non eclissarono la Santità, ma la coronarono. Infatti l’Uomo Gesù è veramente tale, e perciò può patire per i Suoi simili, offrendosi Lui – con la Sua volontà umana – per loro; ma non è progenie di Adamo, in quanto la Sua Incarnazione avviene come conseguenza riparatrice del Peccato d’Origine, per cui è immune da tale colpa, ossia è costituito in quella innocenza originaria perduta dal primo uomo e per giunta potenziata infinitamente dal contatto con la Natura Divina nel vincolo ipostatico. In ragione di ciò Gesù è Santissimo, privo di ogni macchia, adorno di ogni santità: Egli dunque poteva non solo offrirsi, ma offrirsi come vittima gradita. Come infatti avrebbe potuto riparare per gli altri, se Lui stesso fosse stato macchiato? Inoltre, essendo la Persona che si offre umana ma anche divina, questa Divinità dava al sacrificio un valore infinito, che compensava ampiamente la Giustizia del Padre. Infine, proprio perché Uomo e Dio, Cristo, venuto nel mondo, divenne subito e di diritto, il nuovo capo del genere umano, per cui era abilitato a soffrire per esso. L’Amore di Dio ha dunque escogitato un sistema in cui la Persona che si offriva fosse anche Colei a Cui si offriva: nell’Umanità Cristo soffriva, nella Divinità riceveva, e nel vincolo che unisce le Due Nature l’una soddisfava e l’altra salvava. Ecco come la cristologia calcedonese mostra la sua intima connessione con la soteriologia.

Il Verbo Incarnato, Gesù Cristo, potè, con la Sua Vita tutta, dalla Sua Concezione, sino alla Passione e Morte, salvare e redimere tutta l’Umanità. La Sua Resurrezione mostra che il sacrificio fu gradito a Dio: come avrebbe infatti potuto restituire la vita agli altri, se Lui stesso l’aveva perduta? E nell’Ascensione Egli fu costituito realmente Capo dell’Umanità, unita a Lui come le membra in un Corpo, la Chiesa. Il Redentore, con la Sua Umanità glorificata, chiama, giustifica, elegge, santifica e glorifica i Suoi fratelli, conferendo loro la Grazia preveniente, quella della Fede, la Santificante, le Grazie attuali, quelle di stato, le concomitanti e le susseguenti, quella della Speranza e quella della Carità. E’ Gesù, l’Uomo Dio, la causa di tutto il bene che c’è nel mondo: Egli lo ispira, lo sostiene e lo porta a compimento. E’ Lui che impedisce che si compia tutto quel male che l’uomo riesce ad evitare. E’ Lui che perdona e ripara tutto quel male che è stato fatto contro la Sua Volontà. L’Uomo Gesù è lo strumento consapevole di cui si serve la Sua Divinità per compiere in eterno il mistero della Giustificazione: tutte le azioni che abbiamo descritto a proposito di tale processo divino sono le Sue azioni.

In quanto all’effetto della Redenzione, essa anzitutto salda il debito della Giustizia, e l’uomo non deve né più pagare le conseguenze innanzi a Dio il Peccato Originale – che può essere lavato con il Battesimo – né scontare i vari peccati attuali di cui si penta, per cui riceve il perdono attraverso le vie ordinarie o straordinarie della Grazia. In conseguenza, l’uomo riceve nuovamente la Grazia Santificante, nei modi di cui abbiamo parlato, e può ottenere nuovamente la vita eterna. La Grazia Santificante infatti restaura la natura umana devastata dal peccato, e mette la libertà umana in condizione di fare il bene, purchè voglia accettare l’ispirazione divina in tal senso e collabori con essa nei modi descritti. E’ per questo che Gesù ci ha uniti a Se’ in un Corpo Mistico, nel quale la Grazia dello Spirito scorre come il sangue, e in cui siamo nutriti del Suo Vero Corpo e dissetati del Suo Vero Sangue: per operare Lui in noi. Infatti Gesù dice: Senza di Me non potete fare nulla (Gv 15, 5 c). La Grazia Santificante quindi non solo restituisce all’uomo che corrisponde la vita soprannaturale, ma permette anche all’uomo che non persevera di compiere qualche azione apparentemente buona o almeno tale da un punto di vista naturale, anche se non meritevole del Cielo. Questo effetto è valido per tutti e per sempre, in seguito alla comunicazione della Grazia stessa che ogni uomo riceve almeno una volta nella vita. Ecco perché non vi è nulla di buono che non venga da Cristo. Specularmente, alla stessa maniera, la Grazia rende meritevole l’astensione dal male o almeno rende possibile che essa avvenga. In quanto poi alla restaurazione dello stato base della natura umana, la Redenzione, tramite la Grazia, permette al giustificato di dominare la triplice concupiscenza, nonostante essa sia rimasta forte, come mezzo di prova per ognuno. I doni preternaturali non sono stati restituiti, ma alla fine dei tempi, quando l’ultimo discendente di Adamo sarà nato e l’ultima conseguenza della sua colpa sarà stata esplicitata, allora anche l’ultima Grazia Santificante sarà conferita e l’umanità tutta sarà restaurata nello stato primigenio. Infatti è necessario che chi da Adamo ha avuto colpa e pena, sia innestato in Cristo per ricevere santità e premio. Allora dunque tutta l’umanità salvata riceverà una natura migliore, spiritualizzata, superiore a quella data ad Adamo stesso nell’Eden, nella Resurrezione dei Corpi. Ecco perché Cristo è il Nuovo Adamo: in Lui siamo innestati tramite la fede e il Battesimo. Egli non ha avuto bisogno di generare una nuova umanità, ma di innestare in Se’, Uomo nuovo, la vecchia umanità restaurata. Allora il numero dei predestinati, conosciuto da Dio prima ancora della Caduta, in conseguenza della quale alcuni sarebbero stati salvati e altri persi, sarà compiuto, e il disegno di salvezza realizzato. Così, a dispetto di satana e della Colpa di Adamo, chi avrebbe dovuto salvarsi, si salverà, e chi avrebbe dovuto dannarsi, andrà dove ha scelto di andare.

LA NOSTRA COOPERAZIONE ALLA SALVEZZA

Completo nel mio corpo ciò che manca alla Passione di Cristo a vantaggio del Suo Corpo che è la Chiesa (Col 1,24b). Così si esprime San Paolo, esprimendo il ruolo che ogni cristiano ha nella Salvezza del mondo. Nessun uomo può salvare se stesso né i fratelli. Ma il battezzato, redento e innestato nel Corpo di Cristo, quando soffre e offre, soffre e offre la Sofferenza e l’Offerta di Cristo stesso. Tutta la sua vita è oblazione con Cristo, ma in particolare i suoi dolori sono una partecipazione alla Passione, in quanto essi, ordinariamente dovuti a cause naturali o umane, possono essere volontariamente accettati e vissuti con spirito oblativo. Cristo stesso continua così a soffrire nelle Sue membra, mentre queste attingono al capitale infinito della Sofferenza del Redentore, che nella Sua Passione ha già causato, finalizzato, santificato e vissuto i loro dolori. Noi infatti non potremmo soffrire con Lui, se Egli non avesse predestinato tale buona opera, e non le avesse conferito valore nel Suo dolore che anticipa, riassume e ricapitola il dolore di tutti.

Questo è necessario non per la redenzione oggettiva – ossia per la liberazione delle anime – ma per la redenzione soggettiva – ossia per l’applicazione del merito e la partecipazione ad esso. Finchè Cristo fu sulla terra, fu Vittima e Sacerdote, ossia Colui Che offre ed è offerto. Il Padre ricevette il Sacrificio e ne trasmise la validità anche alle Altre Due Persone Divine. Da quando però Cristo ascese, Egli stesso, in qualità di Mediatore, offre ancora Sé stesso nella liturgia tramite la Chiesa, ma anche riceve ciò che viene offerto, in quanto Dio. Tutte le volte in cui l’umana iniquità rende vana l’offerta di Cristo per il mondo, si contrae un debito di giustizia, che può essere ripianato in questo mondo solo se un termine medio tra Cristo stesso e il peccatore ripete l’offerta stessa, associandovisi. Tale associazione è indispensabile, perché Cristo è sempre Vittima e Offerente, e nessuno può essere l’uno e l’altro separatamente e senza Cristo stesso. Perciò ognuno, come Cristo, può intercedere per i vivi e i morti, per sé e gli altri. Non sono dunque meriti nuovi prodotti dal nulla, ma l’esplicitazione dei meriti stessi del Redentore, che in noi sono fecondi nella generazione di nuovi elementi di salvezza, di per sé inutili, ma in unione a Cristo realmente efficaci. Non si tratta di un sadismo divino, che moltiplica all’infinito le sofferenze dei buoni per la salvezza dei cattivi, ma dell’unica strada per la quale l’inevitabile sofferenza umana, alla quale in ogni caso la Redenzione ha posto un argine che sarà definitivo alla Fine dei Tempi, assume un valore e un senso, quello della carità e della misericordia verso gli altri e verso Dio, oltre che, di conseguenza, verso se stessi. In questa sofferenza, che fa parte della vita umana e cristiana allo stesso titolo della gioia, è sempre presente la letizia cristiana, che sa che nulla è inutile per gli eletti.

La prima e fondamentale associazione ai Dolori di Cristo è quella della Madre Sua, nel corso di tutta la Sua Vita e ai piedi della Croce, quando il Suo soffrire, sia pure in modo assolutamente subordinato a quello del Figlio, fu chiamato a partecipare alla Salvezza degli altri uomini. Come vedremo infatti, Maria, redenta in modo speciale in vista della Sua missione e quindi addirittura preservata dal Peccato originale, non aveva bisogno di espiare per Sé, ma non fu esentata dal dolore perché fu chiamata all’amore: Ella applicò per prima le Sue sofferenze, scaturenti in modo diretto, per contemplazione, da quelle del Figlio, all’umanità peccatrice, e compiendo quindi l’opera della Salvezza, per quanto stava in Lei, a vantaggio della Chiesa, di cui è Madre. Al di sotto di questa immolazione meravigliosa e tremenda, stanno le immolazioni di tutti i Santi e dei giusti, offerte in questo mondo per i loro fratelli. Un posto eminente tra esse hanno quelle dei martiri, dei confessori, dei mistici, specie di quelli che rivivono la Passione di Gesù, per quanto è concesso loro. Un terzo livello è l’espiazione delle anime purganti, che è solo per se stesse. Un quarto è il soffrire dei Santi in modo mistico nelle membra del Corpo di Cristo, attraverso il mistico soffrire del Cristo stesso nel Suo Corpo. E’ il caso per esempio dei giusti calunniati o obliati da morti, che in Cielo offrono per noi.

Ognuno dunque porta la sua stilla di sofferenza alla fonte che sgorga dall’albero della Croce, quello che in eterno dà la vera vita, nella quale lo stesso dolore si trasforma in gioia, in attesa della felicità piena, nella Beata eternità, apertaci dal Cristo nella Sua Morte.

PARTE TERZA- FONDAZIONE SACRAMENTALE DELL'ETICA SOPRANNATURALE(34)

Al battezzando, nel momento centrale del rito sacramentale, si chiede la Fede. Come insegna Gesù stesso, chi crede e si fa battezzare si salva. La Fede richiesta è quella in Cristo Salvatore. Tale Fede permette di ricevere con profitto il Battesimo, che dà la Grazia che ci rende capaci del bene. Infatti san Paolo insegna che è giustificato chi crede in Cristo. La Fede tuttavia non viene fuori dalla volontà e dall’intelligenza del battezzando, ma dalla Chiesa stessa, alla quale egli – o chi per lui – la chiede. Ossia viene comunicata al catecumeno in virtù dell’efficacia della Chiesa quale sacramento di salvezza e quindi per effetto anticipato del Battesimo stesso, senza cui nessuna Grazia può essere conferita al neofita. Ossia, quel Dio che chiama al Battesimo suscitando la fede in esso, tramite esso conferisce la pienezza della Grazia che la fede stessa reclama. Perciò diciamo che il Battesimo è Sacramento della Fede. Tale Fede è dunque embrionale all’atto del Battesimo, appunto più un abito che un atto. Dovrà crescere. Diciamo quindi che si è giustificati per le opere in modo altrettanto esatto. In entrambe le formule soteriologiche la scaturigine strumentale della Grazia è il Battesimo. In ragione di tutto ciò, da un lato il Battesimo può essere ricevuto anche dai bambini, perché essi sono capaci di ricevere la Fede come Grazia, anche se non possono ancora fare atti della Fede stessa; dall’altro proprio per conto dei bambini i loro genitori e i cosiddetti padrini possono chiedere alla Chiesa il dono della Fede nel Battesimo stesso in vista della Salvezza, facendo essi in prima persona un atto di questa virtù teologale e impegnandosi ad educare i figli nella religione cristiana . In poche parole, battezzare un bambino anche se questi non ha la consapevolezza di ciò che gli accade non è pedagogicamente diverso dal fatto che egli sia educato dai genitori in valori che non ancora conosce e capisce, ma ai quali è sottinteso che debba e voglia dopo dare il suo assenso, proprio perché educato in essi. Ragion per cui le obiezioni della plurisecolare disputa sul Battesimo dei bambini non hanno una ragion d’essere, ancor meno se si considera che il Sacramento non è solo un atto pedagogico, ma produce una mutazione ontologica nel soggetto che lo riceve, di cui andiamo a dire.

EFFICACIA SOTERIOLOGICA DEL BATTESIMO

Nostro Signore in Persona ha insegnato che il Battesimo è necessario per la salvezza: da esso si rinasce e dallo Spirito, come dal grembo materno (Gv 3, 5), come si è detto all’inizio. Perciò tutte le genti debbono essere battezzate, o altrimenti saranno perdute (Mt 28, 19 ss.): Morte o Battesimo è l’alternativa che San Bernardo mostrava ai pagani . Coloro che dunque sanno che Dio ha istituito tale Sacramento e lo rifiutano o lo disprezzano o lo trascurano, pur potendolo richiedere, sono fuori della Chiesa e quindi privi della Salvezza (Mc 16, 16). Non esiste infatti alcun altro mezzo per cui la Chiesa stessa possa comunicare la Grazia santificante. Dio ha legato la salvezza a questo Sacramento.

Tuttavia Egli non è vincolato ai Suoi Sacramenti. Perciò vi sono altre due forme battesimali mediante cui viene comunicata la Grazia ai non battezzati nell’acqua. La prima è il Battesimo di Sangue, ossia la testimonianza del martirio: chiunque muoia per la Fede senza aver ancor ricevuto il lavacro, è asperso dal Sangue di Cristo nell’uniformazione alla Sua Morte. Il già citato Battesimo di desiderio vale sia per coloro che sono morti prima di ricevere il Sacramento a cui si preparavano (ossia i citati catecumeni) sia per coloro che, pur non conoscendo il precetto di Cristo sul Battesimo, sarebbero desiderosi di riceverlo se lo conoscessero, come anche coloro che, non conoscendo Cristo stesso o finanche Dio, sarebbero disposti a servirLi se fossero loro noti, con zelo e amore. Costoro desiderano, senza saperlo, un Battesimo che non conoscono. Almeno una volta nella vita, tutti i non cristiani sono messi in condizione di desiderare il Battesimo e di entrare così invisibilmente nella Chiesa, anche se magari mai la conosceranno in terra. Tale Battesimo trae la sua efficacia dalla mediazione universale e strumentale della Chiesa, Sacramento di Salvezza. In quanto ai bambini morti senza Battesimo, è certo che senza la sua Grazia essi sono perduti alla Salvezza e destinati ad una mera felicità naturale o Limbo dei Fanciulli; ma non è detto che essi non possano essere raggiunti, per vie a noi ignote, dalla Grazia stessa e quindi entrare anch’essi nel Regno di Dio. In ogni caso è bene battezzare i bambini entro otto giorni.

Tale universalità del Battesimo si deve al fatto che tramite esso si compiono azioni insostituibili:

  1. innanzitutto esso cancella il Peccato originale; restituisce quindi l’innocenza in cui Adamo fu creato e conferisce la Grazia santificante, ossia la vita divina, mediante cui lo Spirito Santo opera e risiede in noi; diventiamo perciò membra del Cristo, figli del Padre, tempio dello Spirito;
  2. inoltre cancella i peccati personali in chi lo riceve da adulto, sia in ordine alle colpe (ossia l’imputabilità) sia alle pene, di qualunque genere: mortali e veniali; chi muore dopo il Battesimo, anche se adulto, se dopo non ha commesso alcun nuovo peccato, va diritto in cielo perché innocente;
  3. cancella altresì le conseguenze personali del peccato, sia originale che individuale; dunque restaura la libertà perduta col Peccato d’origine, per cui l’uomo può non solo scegliere il bene con il libero arbitrio, ma perseverare in esso; altresì annulla le conseguenze sulla libertà umana causate dai peccati individuali, specie se mortali; non fa scomparire invece le conseguenze del peccato sulla natura: la sofferenza e la morte, l’ignoranza, la concupiscenza, nonché le loro declinazioni individuali, come difetti e limiti della mente e del corpo, della volontà e del sentire;
  4. conferisce la Grazia sacramentale, ossia quella specifica per vivere per sempre come fedele cristiano, a dispetto e in contrasto con le stesse conseguenze naturali del peccato, mantenendo almeno l’opzione fondamentale per Dio nell’anima;
  5. in virtù della Grazia santificante, infonde le tre virtù teologali, chiamate così perché riguardano Dio, che possono essere praticate di conseguenza. Esse sono: 1) la Fede, che ci fa credere fermamente in Lui, in quanto verità infallibile, e in ciò che ci ha rivelato e ci è proposto dalla Chiesa, vivendo di conseguenza, a partire dalla Due Verità principali del Cristianesimo: A) Unità e Trinità di Dio; B) Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, Vero Uomo e Vero Dio, Giudice dei Vivi e dei Morti; la Speranza, che ci fa attendere dalla Sua bontà, per le Sue promesse e i meriti di Cristo Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che si vogliono e devono fare; la Carità, che ci fa amare Dio sopra ogni cosa, sopra la nostra stessa vita e sopra noi stessi, perché Bene infinito e nostra felicità che ci amati per primo e infinitamente, nonché il prossimo, per amor suo, come noi stessi, come amiamo Lui e come Lui lo ama, perdonando le offese;
  6. sempre per la Grazia santificante, rende capaci di vivere e agire sotto l’azione dello Spirito Santo, che è la Grazia increata, riempiendoci dei Suoi doni: la Sapienza, l’Intelletto, il Consiglio, la Scienza, la Pietà, la Fortezza, il Consiglio e il Timor di Dio;
  7. infine, in relazione alla Grazia santificante e alla sacramentale, permette di praticare il bene naturale, elevato al rango sovrannaturale, tramite le virtù morali;
  8. esplicando quanto detto, esso ci incorpora alla Chiesa, rendendoci membra gli uni degli altri (Ef 4, 25), facendoci partecipi del sacerdozio reale dei fedeli, dandoci in proprietà a Cristo e sottomettendoci a Lui e ai Suoi rappresentanti in Terra, nonché conferendoci i diritti ai beni soprannaturali custoditi nella Chiesa stessa e legandoci ai doveri della professione pubblica e dell’apostolato della Fede, nonché del culto e dell’osservanza dei Comandamenti;
  9. imprime quindi il carattere o sigillo indelebile che ci fa cristiani, ossia ci scorpora da Adamo e innesta in Cristo stesso; tale sigillo non è cancellato da nessun peccato, anche se i peccati successivi impediscono, specie se mortali, al Battesimo di portare frutti; tale sigillo, custodito con zelo, sarà motivo di gloria per gli eletti; negletto, sarà ragione di vergogna per i dannati.

1. Il saggio è consultabile nell'archivio del sito www.theorein.it ed è confluito nell'e-book Il Dogma Cattolico. Appunti per una esposizione sistematica, da me edito su amazon.com.

2. Consultabile nell'archivio del sito www.theorein.it e confluito nell'ebook Il Culto Cattolico. Appunti per una esposizione sistematica, edito su amazon.com.

3. Già Anassagora intuì il ruolo del Nous nella regolamentazione del cosmo e ne fece l'unico Dio. Socrate, suo seguace, predicò la razionalità come criterio dell'azione umana proprio come imitazione della razionalità cosmica. Platone considerò la conformità dell'uomo alla morale come un mezzo per l'ascensione al Divino Uno. Aristotele pose in Dio, Motore Immobile, la causa finale dell'agire degli esseri tutti e in particolare di quelli senzienti – e tra essi l'uomo – volti a vivere secondo ragione per essere conformi alla razionalità suprema. La sintonia tra ragione individuale e universale divina è alla base dello sforzo etico degli Stoici e dei Neoplatonici. La fondazione naturale dell'etica è sottolineata anche dai filosofi cristiani. Il ruolo di garanzia di Dio verso l'ordine morale è espresso, sia pure in forme diverse, da Agostino come da Bonaventura, da Tommaso, da Duns Scoto, da Ockham, da Cartesio, da Locke, da Spinoza, da Kant, da Fichte, da Schelling, da Hegel, da Kierkegaard, dagli Spiritualisti, da Croce, da Gentile, da Marcel, Mounier, Maritain, Jaspers, da molti filosofi della Scuola di Cambridge e degli Analitici di Oxford, da Arendt, da Stein, Levinas e da molti altri pensatori sino ai giorni nostri, nonostante essi non abbiano tutti la stessa concezione del Divino.

4. Gli ultimi due Codici sono stati entrambi promulgati dal beato Giovanni Paolo II (1978-2005).

5. Sant'Agostino elenca diverse passioni: la superbia, l'ambizione, la crudeltà di terzi, la seduzione subita, la curiosità, l'ignoranza, l'insipienza, la pigrizia, la lussuria, la prodigalità, l'avarizia, l'invidia, l'ra, la paura, l'amarezza.

6. Che sono centotrentatrè per San Tommaso d'Aquino.

7. Ad esse papa Benedetto XVI ha dedicato tre Encicliche: Deus Charitas Est, Spe Salvi e Charitas in Veritate (2005, 2007, 2009).

8. Sull'argomento mi sono dilungato nel saggio Remissio Peccatorum, sulla Confessione, nell'ebook Il Culto Cattolico, edito su amazon.com. Il saggio è consultabile nell'archivio del sito www.theorein.it.

9. L'argomento è stato da me esposto nel saggio Divina Revelatio, consultabile nell'archivio del sito www.theorein.it e nell'ebook Il Dogma Cattolico, già citato.

10. E' questo il saggio Christus Redemptor dell'ebook Il Dogma cattolico, qui riprodotto per congruenza di argomento.

11. In particolare il magistero di Guglielmo di Ockham (1285-1349) il quale, affermando che il nomen corrisponde alla res solo perché Dio ha voluto così, per cui è inconoscibile all’uomo la vera definizione della cosa, ha permesso di considerare giusto ciò che Dio vuole, senza che esso debba esserlo di per sé. Le implicazioni ereticali del pensiero di Ockham furono condannate dal papa Giovanni XXII (1316-1324).

12. La teologia luterana,volendo sottolineare il primato dell’azione salvifica divina, ha ripreso la sola Giustificazione per fede: all’uomo è concesso solo di credere che Dio possa salvarlo. Credendo questo come si crede in un dogma – ossia avendo l’assoluta certezza di essere salvato- l’uomo riceve la Grazia che gli fa compiere le buone opere che di per sé non lo salvano, o perché non hanno un reale valore sovrannaturale o perché avendolo lo devono tutto all’azione di Dio, che quindi non può attribuirle agli uomini come merito. Il nocciolo ortodosso di questa teologia è che il fondamento della salvezza è la fede nel Redentore, non la pretesa di conquistare il cielo con le proprie azioni. Ma la svalutazione delle opere - conseguenza della convinzione del fatto che l’uomo non subisce una reale trasformazione ontologica nella giustificazione, per cui continua, per quanto dipende da lui, a fare sempre e solo il male, anche quando sembra che faccia il bene – non può essere accettata: il redento è pienamente in grado di fare ciò che piace a Dio.

13. San Paolo insegna che nessuno può sapere se, davanti a Dio, è degno di salvezza o di dannazione. Per cui il Concilio di Trento ha definito che la propria salvezza non può essere oggetto di fede, ma di speranza, a differenza di quanto insegnato da Lutero (1483-1546).

14. Paolo VI (1963-1978) la definì energia spirituale.

15. Calvino, insistendo unilateralmente sulla natura previente della Grazia, ossia sul fatto che essa è comunicata primordialmente da Dio, evidenziò che l’Autore della salvezza è Dio stesso attraverso di essa, per cui l’uomo non è giustificato né dalle opere né dalla fede, ma da Dio, che ha deciso di conferire la Grazia che rende possibile le une e l’altra. Questa dottrina è erronea perché implica che la Grazia non sia gratuita solo nel dono, ma anche nell’efficacia, ossia che l’uomo abbia fede non per suo merito, sia pure assecondando la Grazia stessa, ma solo per opera della stessa. Invece Dio conferisce all’uomo una Grazia che gli permette realmente di avere una fede gradita a Lui. Il nocciolo ortodosso sta nel fatto che Dio, comunicando la Grazia, avvia il processo di salvezza, di cui è l’Autore principale, ma non unico. Come diceva Agostino: Colui che ti creò senza di te non ti salverà senza di te. Ma è sintomatico che il maggior discepolo di Agostino, san Fulgenzio di Ruspe (467-532), anticipasse molte posizioni di Calvino, senza essere condannato come eretico, a causa della fluidità del dibattito che c’era all’epoca sull’argomento.

16. La Grazia Santificante previene la fede. Ossia quest’ultima è possibile per la Grazia. L’uomo poi corrisponde a tale Grazia e fa sua la fede, assumendone merito. La disputa sulla Grazia, iniziata dopo il Concilio di Trento, continua a tutt’oggi nel mondo cattolico e forse troverà nel dialogo con i Protestanti una possibilità di soluzione. I seguaci di Tommaso d’Aquino (1225-1274) e del suo interprete controriformista, Domingo Bañez (1528-1604), sottolineano con forza la necessità della Grazia preveniente, parlando di premozione fisica, praemotio physica, di messa in movimento, da parte di Dio, dell’uomo attraverso la Grazia stessa, che dunque ha una efficacia primordiale, attivante, della possibilità di credere e di fare il bene. Ciò sulla base della causalità universale di Dio che è valida nel mondo soprannaturale come in quello naturale. Essi sostengono che la Grazia data da Dio è sufficiente sempre per porre un atto meritorio, ma che essa diviene efficace solo se sostenuta da un ulteriore intervento soprannaturale. La mozione divina è detta irresistibile e infallibile, ma Dio muove ogni creatura in modo conforme alla propria natura, per cui l’uomo agisce nella libertà. I gesuiti, attorno a Luis Molina (1535-1600), sostengono la necessaria collaborazione dell’uomo. La sua libertà rimane intatta anche sotto l’azione della Grazia. Per lui non esiste alcuna premozione. L’azione di Dio accompagna la scelta dell’uomo. La Grazia è sempre sufficiente, e spetta all’uomo, con il suo assenso, di renderla efficace. Non operando la Grazia sulla volontà, l’elargizione della prima dipende dalla consapevolezza (scientia media) che Dio ha dell’assenso che l’uomo le accorderebbe nelle varie circostanze (futuri contingenti). Le due teologie della Grazia che abbiamo esposto sono due poli oretici in perpetua dialettica tra loro. Di certo c’è che la Grazia si dona in modo assolutamente libero e fonda la possibilità stessa di avere fede e quindi di fare il bene. Personalmente credo nella premozione fisica, come atto divino che avvia la fede come principio di giustificazione; sono convinto che ogni atto buono necessiti di una premozione divina e che Dio sostenga ogni atto meritorio nel suo farsi. Credo che la distinzione tra Grazia sufficiente ed efficace sia più di modo che di tipo, almeno ordinariamente. Una soluzione del problema in termini completamente diversi venne formulata da Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787). Egli distingue una doppia efficacia della Grazia: l’intrinseca e l’estrinseca. La seconda – detta Grazia comune – è accordata a tutti gli uomini, che con essa adempiono i precetti più semplici, specie quello della preghiera. Quest’ultima – definita il grande mezzo della salvezza – ottiene a ciascuno le Grazie intrinsecamente efficaci o speciali – perché Dio non le nega mai a chi le chiede – con cui si può adempiere a precetti più difficili. In tale ascesa alla perfezione anche terzi possono pregare per il peccatore, in particolare la Beata Vergine. Nell’ottica alfonsina possono essere lette le grandi devozioni cristiane che promettono la Grazia della perseveranza finale a chi le compie in virtù di particolari pratiche di pietà, come i Nove Primi Venerdì del Mese del Sacro Cuore di Gesù o i Cinque Primi Sabati del Mese del Cuore Immacolato di Maria o le Tre Ave Maria mattina e sera o le Quindici Orazioni di Santa Brigida, e molte altre legate a grazie particolari ultraterrene (lo Scapolare del Carmine o la Corona Angelica ecc.).

17. I sacramenti di iniziazione, dopo il Battesimo, confermano la Grazia Santificante in modo stabile (Cresima) o pieno (Eucarestia); quelli detti di guarigione restaurano la Grazia perduta col peccato (Confessione e Unzione degli Infermi); i sacramenti di stato abilitano a condurre la vita secondo le principali vocazioni cristiane (Matrimonio e Ordine). La validità assoluta dei sacramenti è detta da Agostino ex opere operato, perché indipendente dalla santità di chi li amministra. E’ sintomatico che i sacramenti siano rimasti anche nel Cristianesimo evangelico, anche se ridotti ai due maggiori (Battesimo e Eucarestia).

18. In questo modo possono giungere alla salvezza anche coloro che non professano il Cristianesimo perché non lo conoscono o non ne hanno compreso la natura salvifica. Anzi, maggiore è il patrimonio spirituale che con esso condividono, maggiore è il mezzo loro fornito per salvarsi, come insegna il Concilio Vaticano II (1962-1965).

19. Questa dottrina del Battesimo di desiderio è a mio avviso il mezzo con cui risolvere il problema della salvezza dei bambini morti senza Battesimo sacramentale. Sicuramente indegni del Paradiso perché nati col Peccato Originale, i bambini non battezzati, privi di altre colpe imputabili, sono posti in un luogo di felicità naturale detto Limbo. Di tale luogo oggi si parla molto, affermando che non esista. Ma destinare genericamente tutti i morti senza battesimo al Paradiso in nome di una generica Misericordia divina – a cui pure essi vanno affidati – significa svuotare di contenuto tutta la Redenzione. Il Limbo esiste, ma i bambini morti senza battesimo, anche prima di nascere, non ci vanno, se i genitori hanno avuto l’intenzione – cioè il desiderio – di farli battezzare, anche se poi non ne hanno avuto il tempo. Infatti, se la fede dei genitori supplisce alla fede del battezzando al momento della ricezione del sacramento, in quanto il bambino non intende, allora anche il loro desiderio, basato sulla fede, può supplire a quello di ricevere il Battesimo che il piccolo non può avere dentro di sè. Tale desiderio per conto terzi si può considerare valido anche per i genitori di bambini morti in altre religioni, ancora nell’età dell’innocenza, purchè tali genitori abbiano avuto una coscienza talmente retta, da desiderare per i propri figli una piena conformità ai voleri divini, per cui avrebbero desiderato per loro anche il Battesimo, se lo avessero conosciuto quale necessario alla salvezza. Analogamente si può supporre per tutti i bambini affidati ad altri educatori forniti delle medesime intenzioni. Forse, innanzi alla condotta omicida con cui tanti genitori non solo tralasciano di battezzare i figli, ma persino negano loro il diritto di nascere con l’aborto o con la distruzione degli embrioni soprannumerari nella fecondazione assistita, il pio desiderio di battezzarli prima della morte prenatale, formulato da chiunque potrebbe, almeno ipoteticamente, farlo, o da chiunque vorrebbe avere tale possibilità, potrebbe aprire a questi sventurati, mai venuti alla luce, le porte del Cielo.

20. Cornelius Jansen, latinizzato Giansenio (†1638), interprete unilaterale dell’ultimo pensiero di Agostino, aveva sostenuto l’infallibilità e l’irresistibilità della Grazia, che dunque è concessa solo ai salvati, in quanto se fosse concessa a tutti, non vi sarebbero dannati. Aveva cioè sviluppato le implicazioni ereticali presenti nel sistema di Bañez. Il rigorismo di Giansenio esclude quindi dalla salvezza non solo tutti cristiani che non sono santi, ma anche tutti quelli che non sono cristiani. A questa eresia si oppose papa Clemente XI (1700-1721) che, nella costituzione apostolica Unigenitus Dei Filius (1716), ribadì la destinazione universale alla salvezza e l’esistenza delle vie straordinarie, già teorizzate da San Giustino (†165 ca.).

21. La frase sembra riferirsi più che altro agli Ebrei – eletti – soppiantati dai pagani – chiamati. Ma vale anche oggi, quando gli eletti sono tra i cristiani, scelti tra i chiamati battezzati. Indipendentemente dalla quantità dei salvati, la frase insegna l’esistenza di una differenza tra la chiamata alla salvezza e il suo conseguimento, con conseguente possibilità di fallimento per una parte degli uomini. Parliamo di possibilità, in quanto di nessuno nella Bibbia è data per certa la dannazione, anche se le stesse Scritture presentano un futuro escatologico in cui alcuni sono salvi e altri dannati. Vedi nota 12.

22. L’idea calvinista di un Dio che predestina alla salvezza dando la fede ad alcuni e che quindi, negandola agli altri, li determina alla dannazione, è da respingere. La polemica sull’efficacia della Grazia, che essendo invincibile e infallibile non può non adempiere il suo scopo, è mal posta da Calvino come da Giansenio. La Grazia è invincibile e infallibile perché giustifica tutti, ma non ha lo scopo di salvare gli uomini contro la loro volontà né di surrogarne le funzioni.

23. Alcune correnti teologiche contemporanee hanno ipotizzato un inferno vuoto (H.U. Von Balthasar, Giovanni Paolo II) come conseguenza trionfale dell’onnipotenza della Misericordia Divina. Tale ipotesi va presa come relativa all’esito della Redenzione ma non considerata – come erroneamente fanno molti – una negazione della possibilità stessa della dannazione, che anzi nella Bibbia è presentata molto spesso e come assai incombente.

24. La tradizione letteraria mesopotamica, la cui forma classica è la letteratura sumera, ha custodito il racconto eziologico delle origini, in contesti religiosi anche differenti, con un medesimo significato e con la costante convinzione della sua storicità. Sarebbe interessante ricostruire la storia filologica e concettuale del racconto, per vedere se la forma fissata nella Bibbia, incentrata sul monoteismo, sia più recente o – come sarebbe più logico aspettarsi – più antica di quelle legate al politeismo. In questo caso la redazione ebraica sarebbe solo il punto d’arrivo di una tradizione scritta e orale di un racconto antichissimo, arricchito in parallelo di fatti e personaggi nelle epiche pagane. In ogni caso, nessuno potrebbe credere che la Genesi sia fatta nei suoi primi capitoli da un racconto popolare: tanto varrebbe credere che gli antichi potessero facilmente credere che i serpenti potessero parlare. In realtà i lettori contemporanei alla stesura sapevano bene che il nuovo testo echeggiava figure religiose anteriori, aventi uno specifico significato. Non dunque letteratura ingenua e scoordinata, ma consapevole e unitaria nel suo scopo didattico.

25. In realtà ogni specie deve iniziare da una sola coppia. Quindi un primo uomo e una prima donna, in cui il genoma si sia modificato, e che abbiano ricevuto l’anima, devono essere esistiti per forza. In quanto poi al Paradiso Terrestre, creato per l’uomo innocente, scomparve senza traccia quando egli si corruppe.

26. Il lodevole sforzo di conciliare Darwin con la Creazione fatto da Tehilard de Chardin (1881-1952) non può essere accettato quando tenta di mostrare che la Creazione si sviluppa sino ad essere capace di accogliere l’elemento spirituale e men che meno quello soprannaturale. Ciò fu rilevato da Pio XII nella Humani Generis, e ribadito dal Sant’Uffizio sotto Giovanni XXIII, nonché confermato dalla Segreteria di Stato sotto Giovanni Paolo II.

27. La cornice geografica del racconto, il Medio Oriente – come si deduce da due dei quattro fiumi nati dall’Albero della Vita, il Tigri e l’Eufrate – probabilmente è la spazializzazione data dall’autore, ignaro dei luoghi reali. In quanto ai tempi, stando alla lettera biblica dovrebbe risalire a quattromila anni avanti Cristo, che naturalmente si basava su una cronologia mitica oggi inaccettabile.

28. A dispetto di quei teologi che affermano che il Peccato originale è solo l’inclinazione al male che l’uomo ha in sé, evidentemente invincibile se bisognoso di Redenzione, quasi che Dio abbia creato l’uomo stesso corrotto. Analogamente, il Peccato originale è ereditario, contrariamente a quanto diceva Pelagio, altrimenti la natura non si sarebbe corrotta e la Redenzione sarebbe stata inutile.

29. Lutero, affermando che l’uomo perse anche il libero arbitrio, asserì che egli poteva fare solo e necessariamente il male, per cui vi era condannato. Ma così non si vedrebbe neanche la colpevolezza di chi, capace di scegliere solo il male, di fatto non avrebbe più avuto possibilità reale di scelta.

30. E’ l’antica Formula di fede detta Teopaschita: Uno della Trinità ha sofferto nella Carne.

31. Da esso sono liberati dall’Anima di Cristo, Che vi discende dopo la Morte, e li porta con Sé subito dopo, prima ancora della Resurrezione.

32. Alcune descrizioni sono impressionanti nella loro precisione cronachistica: il Salmo XXII, i Canti del Servo del Signore in Isaia, la II Lamentazione. Eppure sono scritti da un minimo di 400 a un massimo di 900 anni prima di Gesù.

33. In molte letterature pagane ci sono riferimenti, sia pure occasionali, alla necessità che un Dio salvi l’uomo o a tale credenza. Avviene per esempio in Cicerone o in Euripide, ma anche negli Annali degli Imperatori Cinesi, in epoca coeva a quella di Cristo. L’istanza di un Salvatore divino è peraltro drammaticamente e profeticamente presente anche nella cultura contemporanea, anch’essa in attesa di Qualcuno che però è già arrivato (Heidegger, Beckett, Horkheimer, Adorno ecc.).

34. Tratto da Sacrum Baptisma, il saggio sul Battesimo dell'ebook Il Culto Cattolico.


Theorèin - Ottobre 2011