LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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SACRA QUADRIGA

Brevissima introduzione ai Quattro Evangeli

Dei Libri Storici del NT i Vangeli sono senz’altro i più importanti; anzi essi sono i Libri più importanti in assoluto della Bibbia e i testi sovrani della Rivelazione di Dio, avendo come oggetto la Vita e l’Insegnamento del Verbo stesso di Dio, la Sua Sapienza Incarnata, il Figlio, quella Seconda Persona della Trinità Che ha sofferto nella Carne.

Questi Quattro Vangeli sono in realtà, proprio per il contenuto, un solo lieto annunzio (che è il significato greco del loro nome), un solo Vangelo quadriforme, scritto secondo San Matteo Apostolo, San Marco, San Luca e San Giovanni Apostolo. Sono i Quattro Viventi della Corte del Dio Altissimo, l’Uomo alato, il Leone alato, il Bue e l’Aquila, coperti di occhi dentro e fuori, ossia partecipi della Divina Sapienza; sono i Quattro motori del Cocchio di Dio visto da Ezechiele. La loro unità nella pluralità viene dal Signore stesso. Come ha insegnato la Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Rivelazione Dei Verbum, essi si sono formati progressivamente, iniziando da una predicazione orale, passando per una stesura formularia e sussidiaria della predicazione stessa e giungendo ai Libri cosi come sono oggi. Tocca ovviamente alla scienza biblica puntualizzare le circostanze, la modalità e le particolarità della formazione e della concomitanza delle fasi individuate o anche solo supposte. E’ tuttavia ovvio che i Vangeli trasmettono, nell’integrità storica, nell’attendibilità della testimonianza, nella certezza della trasmissione testuale e nella contemporaneità agli eventi, tutta intera e senza difetti la Rivelazione di Gesù Cristo. Né avrebbe senso credere il contrario, come ha fatto certa esegesi influenzata dall’Idealismo e dal Positivismo, perché a quel punto la nozione stessa di religione rivelata e storica verrebbe meno e nemmeno più si porrebbe il problema di fondare su quei testi la Religione cristiana.

Sebbene nessun Vangelo sia una biografia di Gesù in senso moderno, volendo ognuno di essi mostrare un certo aspetto del Maestro, la pienezza della Sua luce risplende attraverso questi Libri di uno splendore unico e ineguagliabile, facendo di essi il centro e il faro di tutta la vita spirituale del genere umano, sovrastrando ogni letteratura, filosofia e teologia e ispirando qualsiasi forma di interiorità soprannaturale e naturale, sino ad innervare di sé ogni maniera di umana convivenza ed esistenza.

Custoditi dalla Chiesa i cui primi esponenti li hanno preparati, redatti e predicati, i Vangeli sono il luogo dell’intersezione tra la Vita di Cristo e quella di coloro che lo hanno testimoniato, quello dell’incontro tra una tradizione divenuta scritta e la Tradizione viva che scorre parallela alla Scrittura, che nello stesso tempo la fa scaturire da sé.

Unici del I sec. e quindi superiori agli innumerevoli apocrifi che sono stati scritti o semplicemente senza ispirazione o addirittura per pervertire nell’eresia il Cristianesimo, i Vangeli sono perciò entrati nel numero di Quattro nella Scrittura. In quanto segue tratteremo i due temi principali che vertono su tutti loro complessivamente: la Questione sinottica e la datazione dei testi. Con quest’ultima si connettono quelle dell’autenticità e della storicità dei testi medesimi, oltre che la loro contestualizzazione storico-culturale e linguistico-letteraria.

In appendice tratteremo brevemente della Questione della ricerca sul Gesù storico, mostrando come si è evoluta sino ai nostri giorni, a tutto vantaggio delle fondamenta storiche della Fede cristiana.

LA QUESTIONE SINOTTICA

E’ bene iniziare la questione partendo da un dato magisteriale, ossia il pronunziamento della Pontificia Commissione Biblica, che, pur essendo oggi largamente ignorato, rimane ancora valido e trova a distanza di cent’anni diverse nuove conferme. Ecco i due quesiti e le rispettive risposte pubblicate da San Pio X (1903-1914) nel 1912:

“Ai seguenti dubbi presentati, la Pontificia Commissione biblica ha parimenti deciso di rispondere come segue:

I. Osservando secondo le precedenti decisioni quanto deve essere osservato, particolarmente riguardo all'autenticità e all'integrità dei tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca, alla sostanziale identità del Vangelo greco di Matteo con il suo primitivo testo originale, ed anche riguardo all'ordine delle date di composizione di questi, è lecito agli esegeti discutere liberamente, in mezzo a tante opinioni diverse e opposte degli autori, e ricorrere alla ipotesi della tradizione scritta o orale o anche della dipendenza di uno di essi da quello o da quelli che lo precedono, per spiegare le loro somiglianze o diversità reciproche?

Risposta: Sì.

II. Si deve ritenere che osservino le decisioni espresse più sopra coloro che, non fondandosi su alcuna testimonianza della tradizione né su alcuna prova storica, facilmente abbracciano l'ipotesi comunemente detta delle due fonti, che pretende di spiegare la composizione del Vangelo greco di Matteo e del Vangelo di Luca principalmente con la loro dipendenza dal Vangelo di Marco e da una collezione chiamata «dei discorsi del Signore», e possano così sostenerla liberamente?

Risposta: No per entrambe le parti.”

Numerose conferme a queste posizioni magisteriali sono venute da studi recenti, che indicheremo soprattutto trattando della datazione dei Vangeli. Per ora ripercorriamo le varie fasi con le altrettante soluzioni della Questione sinottica stessa. Una fase iniziale è stata quella in cui si è affrontata la questione dei rapporti tra i Vangeli, per spiegare analogie e differenze e cercare di individuare contatti reciproci. Infatti, i Vangeli si differenziano tra loro e la valutazione di queste differenze ha da sempre suscitato discussioni e ipotesi. Le differenze sembrano un ostacolo per la ricostruzione storica dei fatti. L’antichità aveva cercato soluzioni con le «armonie» evangeliche, come il Diatessaron di Taziano, e con studi come il De consensu evangelistarum di Agostino o con le interpretazioni allegoriche. Si riteneva anche che ogni evangelista avesse conosciuto e utilizzato il precedente. La critica moderna, a partire dal XVIII sec., ha impostato invece una netta distinzione tra il Vangelo di Giovanni e gli altri tre Vangeli, definiti «sinottici» (da Johann Jakob Griesbach nel 1774), in quanto è possibile, ponendoli su tre colonne in parallelo, avere una synópsis o «visione di insieme». Mt, Mc e Lc presentano infatti forti somiglianze. Seguono essenzialmente una struttura comune, che prevede la preparazione del ministero di Gesù culminante col Battesimo, il ministero in Galilea, il viaggio a Gerusalemme, la Passione, la Morte e la Risurrezione. All’interno di tale struttura concordano inoltre in molti racconti di episodi, miracoli e discorsi di Gesù. Invece il Vangelo di Giovanni, che pure ha elementi in comune con gli altri, soprattutto nel racconto della settimana della Passione, segue un piano diverso; riduce lo spazio del ministero in Galilea; fa recare Gesù almeno tre volte a Gerusalemme, dove l’ultima volta resta circa sei mesi. Perciò il ministero di Gesù risulta più lungo, ossia tre anni invece che un anno. Inoltre in Giovanni i racconti legano grandi discorsi che trattano più temi in forma dialogica. Mancano le parabole, l’invio dei Dodici in missione, la Trasfigurazione, il Discorso escatologico, le guarigioni di lebbrosi e indemoniati, l’istituzione dell’Eucarestia, ecc. Alcuni episodi hanno una collocazione diversa: ad esempio, la purificazione del Tempio avviene all’inizio invece della fine dell’attività di Gesù. Molti racconti sono soltanto suoi: le Nozze di Cana, l’Incontro con la Samaritana, la Risurrezione di Lazzaro, ecc.

Ma anche tra i sinottici, accanto alle somiglianze, ci sono numerose differenze, che generano la Questione sinottica. Mc, il più breve, ha 661 versetti (a parte 16,9-20, che rappresentano la «finale canonica», aggiunta poi al testo originario), di cui solo una trentina risultano senza paralleli negli altri due. Sia in Mt sia in Lc una buona parte del testo trova riscontro in Mc - 600 versetti circa su 1068 in Matteo, 314 su 1149 in Luca- però Lc omette tutta la sezione di Mc 6,45-8,26, che comprende la seconda parte dell’attività di Gesù in Galilea. Mt e Lc hanno poi 240 versetti di materiale comune a entrambi, tra cui sette parabole e il Discorso della montagna. Solo Mt e Lc presentano il racconto dell’infanzia di Gesù, che però ha pochi elementi comuni. Infine ciascuno, e più ampiamente Lc, presenta materiale proprio, senza paralleli negli altri Vangeli (315 versetti circa Mt, 548 versetti Lc). Mt ha otto parabole sue e varie parti peculiari (ad es., la descrizione del Giudizio finale nel Discorso escatologico, la morte di Giuda, ecc.). Lc ha cinque miracoli, sedici parabole e vari episodi (Marta e Maria, Zaccheo, i discepoli di Emmaus, ecc.). Mt tende a concentrare le parole di Gesù in grandi discorsi; invece Lc concentra il materiale non marciano in alcune sezioni, che interrompono la struttura di Mc e perciò sono definite la piccola interpolazione (6,20-8,3) e la grande interpolazione (9,51-18,14). Anche nelle parti comuni (comuni a tre o a due), i sinottici presentano, accanto a somiglianze, anche differenze. Le spiegazioni che sono state tentate sono molto complicate. La difficoltà deriva dal fatto che si deve presupporre un processo graduale di formazione dei Vangeli a partire da tradizioni precedenti, orali e scritte, ma non abbiamo una documentazione su questo processo: lo si può ricostruire, e in forma soltanto ipotetica, attraverso il confronto e l’analisi dei testi evangelici stessi. Si è pensato a un vangelo primitivo, scritto in aramaico e più volte rielaborato; a varie raccolte di miracoli, di discorsi, di fatti; alla tradizione orale; alla dipendenza reciproca in varie combinazioni: di Mc da un proto-Mt aramaico; di Mt greco da Mc e di Lc da entrambi; di Mc da Mt e Lc o di Mc da Mt e di Lc da Mc; di Mt e Lc da Mc. Delle diverse tesi si tende ad accoglierne più di una. Il dibattito tra il 1830 ed il 1860 ha fatto prevalere l’ipotesi della priorità marciana tra gli studiosi. Karl Lachmann, Christian H. Weisse e Christian G. Wilke nel 1838 giunsero contemporaneamente e indipendentemente alle stesse conclusioni, formulando la teoria per cui Mt e Lc avrebbero, senza interagire, tratto entrambi ispirazione da Mc e da una seconda fonte, la cosiddetta Q - dall’iniziale di Quelle, «fonte» in tedesco - consistente in una raccolta di detti del Signore, presumibilmente scritta in greco; questa fonte non sarebbe stata usata da Mc. È possibile ipotizzare anche altre fonti, scritte o orali, ed è stato supposto che Mt e Lc usino non il Mc attuale, ma un proto-Mc o, in tedesco, un Ur-Markus. La cosiddetta teoria delle due fonti ottenne presto l’adesione dei più grandi biblisti del tempo, sia protestanti (H. J. Holtzmann, C. von Weizsäcker e B. Weiss) sia cattolici (J. M. Lagrange, J. Sickenberger, H. Coppieters). Oggi la teoria delle due fonti non soddisfa più completamente, perché non spiega certi fenomeni, come le concordanze tra Mt e Lc quando, pur dipendendo da Mc, se ne distaccano e come i passi in cui Mc sembra fondere Mt e Lc, e quindi dipenderne. Si è ipotizzato un Proto-Marco (per cui Mt e Lc avrebbero usato una recensione precedente di Mc, più breve di quella attuale e diversa nel linguaggio) e un Deutero-Marco (per cui Mt e Lc avrebbero usato una recensione di Mc deteriorata, rivista o contaminata con altre fonti). Altri, soprattutto cattolici della metà del XX secolo, rigettarono la priorità di Mc in favore di Mt. Primo Vannutelli ipotizzò una derivazione dei tre sinottici da un Matteo aramaico tradotto in greco. Léon Vaganay sviluppò la teoria delle tre fonti: il Mt aramaico tradotto in greco (MG) e una fonte supplementare (S dal francese source, «fonte») sarebbero all’origine di Mt e Lc, assieme a Mc, la terza fonte, che avrebbe anche raccolto la predicazione di Pietro (P). Questa teoria ebbe molta fortuna negli anni ’50. Anche B. Christopher Butler e William R. Farmer propendevano per la precedenza matteana. L’ipotesi del Farmer (seguita poi da Bernard Orchard, è detta neo-griesbachiana, perché Johann Jakob Griesbach nel 1789 descrisse Mc come un testo conflato e dipendente alternativamente da Mt e Lc. Marie Émile Boismard concepì invece la teoria delle quattro fonti principali presinottiche (A, B, C, Q) e si occupò anche dei rapporti con il vangelo di Giovanni. Philippe Rolland suppose l’esistenza di tre fonti principali per i tre Vangeli, che avrebbero operato tutti indipendentemente l’uno dall’altro: un Vangelo originario («Vangelo dei dodici»), che avrebbe portato a un Vangelo ellenistico e a un Vangelo paolino; in più ci sarebbe la Fonte Q. Si può dire che non si sia ancora arrivati a una spiegazione davvero soddisfacente. Tuttavia si è arrivati almeno ad appurare che i vangeli sinottici rappresentano lo stadio finale di un precedente sviluppo a più fasi: una fase di trasmissione orale; una fase di messa per iscritto di racconti o insegnamenti singoli, poi di raccolte di racconti e detti, forse originariamente in aramaico, poi tradotti in greco; una fase di redazione dei Vangeli. Lo studio della datazione dei testi può tuttavia dare contributi inaspettati alla Questione sinottica e alla sua soluzione.

UNA MESSA A PUNTO DELLA SITUAZIONE SULLA DATAZIONE DEI VANGELI

Quanto segue è già edito e viene qui riutilizzato per la questione della datazione dei Vangeli (1).

La datazione dei Vangeli è una materia complessa, nella quale convergono dati provenienti da varie discipline storiche, filologiche e loro ausiliarie. Acquisizioni recenti se non addirittura in fieri hanno ormai mostrato come essa sia da alzare notevolmente. Eppure molte resistenze si ergono alla recezione di questi dati, provenienti soprattutto da chi fa studi segnati da una ideologia, teologica o a-teologica che sia. Forse, nel contesto post-moderno e post-cristiano che viviamo, vi sono le premesse per un’analisi spassionata dell’argomento e per una più semplice impostazione della ricerca. Ciò che segue vuole contribuire a tre scopi: fornire una panoramica dei dati messi a disposizione sull’argomento dalle scienze, mostrarne l’armonica convergenza verso i medesimi risultati, spronare il mondo accademico alla costruzione di nuove ermeneutiche teologico-letterarie dei Vangeli stessi, che superino i retaggi della Old Quest of Historical Jesus.

LA DATAZIONE TESTUALE DEI VANGELI

Se la ricerca sul Gesù storico è oggi giunta ad essere la ricerca su di un personaggio la cui fisionomia non è più circondata dalle nebbie della leggenda e del mito, lo si deve anche ai progressi della filologia biblica ed evangelica. Oggi le datazioni papiracee e filologiche in genere dei testi più antichi dei Vangeli canonici mostrano che non ci fu praticamente soluzione di continuità tra la Vita di Cristo e la sua narrazione scritta. Ciò non lascia margini di tempo per la nascita di leggende o miti, come invece, con altri dati meno ricchi di quelli di oggi, si sosteneva da parte dei critici atei o agnostici della First Quest, e come pensavano, rassegnati, quelli credenti come Bultmann. Cristo è morto e risuscitato nel 30 e noi abbiamo codici - ossia copie - dei Vangeli vicinissimi cronologicamente agli originali, rendendo impossibile qualsiasi amplificazione mitica o leggendaria dei contenuti ivi confluiti, anzi ascrivendo la loro redazione per forza di cose a dei testimoni oculari. Le datazioni tradizionali erano le seguenti: san Marco (20-68), considerato il primo Evangelista in ordine di tempo (almeno in lingua greca), avrebbe scritto il suo Vangelo tra il 64 e il 70; san Matteo (†70) e san Luca (10-93), successivi, avrebbero redatto le loro opere, compresi gli Atti degli Apostoli, prima del 70 – o addirittura verso l’80 per i critici più estremisti, ma anche meno credibili – mentre san Giovanni (14-104 ca.) lo avrebbe fatto intorno al 100. La primitiva versione aramaica del Vangelo di Matteo sarebbe stata del 50 circa. A margine, perchè serviranno, annotiamo le date della composizione degli altri testi cristiani in cui ci imbatteremo: San Paolo (5/10-64/67) avrebbe scritto le due Lettere ai Tessalonicesi nel 51, quella ai Filippesi forse nel 56, la Prima ai Corinzi e forse quella ai Galati verso la Pasqua del 57, alla fine di quell’anno la Seconda ai Corinzi, tra il 57 e il 58 forse la Lettera ai Galati e poi la Lettera ai Romani, tra il 61 e il 63 le Lettere ai Colossesi, agli Efesini e a Filemone, nel 65 forse la Prima a Timoteo e quella a Tito, nel 67 la Seconda a Timoteo; san Giacomo (†62) avrebbe scritto la sua Lettera nel 58 o nel 62; san Pietro (2/4-67) nel 64 avrebbe scritto la Prima Lettera e la Seconda potrebbe essere stata scritta anche da un anonimo dopo la sua morte, sebbene non si possa escludere la sua paternità petrina. Queste datazioni, peraltro compatibili con una fondazione storica del mistero cristiano, sono tuttavia praticamente oggi insostenibili. Perchè i più antichi testimoni dei testi sacri cristiani sono più vecchi delle date della loro presunta composizione. E lo stesso ordine tradizionale della stesura dei libri neotestamentari ne è sconvolto. Esaminiamo allora i testimoni in questione.

I PIU’ ANTICHI PAPIRI CRISTIANI: QUELLI DI QUMRAN

Cito innanzitutto il frammento 7Q5 del Vangelo di San Marco, contenente 6,52-53, identificato e datato da J.O’Callaghan (1922-2001) al 50-55, e ritrovato a Qumran, nella biblioteca degli Esseni, distrutta negli anni 70 da Tito (esso dunque risale a 20 anni circa dopo la vita di Gesù) (2).

La prima argomentazione favorevole alla datazione del 7Q5 è il fatto che il sito qumranico fu abbandonato nel 68 d.C. in seguito all’arrivo della legione romana Fretensis nel corso della Guerra Giudaica. In conseguenza di ciò, qualunque testo custodito nelle grotte del sito non può, per ovvie ragioni, essere stato portato in loco dopo quella data. Si obietta che i siti nei dintorni di Qumran sono stati riabitati nel 132-135 ai tempi della Rivolta di Bar Kokheba, ma nulla prova che in questo periodo la biblioteca sia stata utilizzata o addirittura arricchita. Lo stanziamento, se ci fu, fu solo militare, con scopi ben diversi di quelli della Comunità essena, monastica e interessata ad avere una solida documentazione su tutti gli indirizzi religiosi dell’Ebraismo coevo. In effetti vi sono resti di ogni tipo di scritto teologico e sarebbe stato piuttosto strano che fosse mancata una sezione cristiana della biblioteca, molto più di quanto non risulti stupefacente di averla ritrovata. Peraltro, se per assurdo nel corso della Rivolta di Bar Kokheba fossero giunti a Qumran, e vi fossero stati conservati, testi cristiani, il loro formato avrebbe dovuto essere codicologico e non papiraceo, visto che a quell’epoca la Chiesa non usava più papiri ma appunto codici. Inoltre, i frammenti oggetto di polemica erano presumibilmente contenuti in un’anfora, tra i cui cocci sono stati trovati. Essa è del periodo ellenistico I d, che va dal 134 a. C. al 31 d. C., per cui apparirebbe stranissimo la deposizione di testi di cento anni posteriori in un simile recipiente, peraltro in uso dopo ancora un secolo. Tale recipiente appare peraltro molto probabilmente provenire da Roma, cosa di cui avremo modo di sottolineare l’importanza (3).

Alcune voci di violazioni posteriori delle Grotte appaiono essere poi senza fondamento. Per esempio Eusebio di Cesarea tramandò che Origene possedeva un testo dei Salmi in greco, trovato in una giara d’argilla presso Gerico. Epifanio di Salamina, nel 397, confermò la notizia datandola al 217, aggiungendo che in situ c’erano manoscritti della LXX e altri scritti ebraici e greci. La collocazione geografica del ritrovamento, l’argomento dei codici e la lingua usata impediscono però di identificare il sito con la Grotta 7Q; al massimo possono ricondurre alle Grotte 4, 8, 9, 10, dove sono stati trovati testi sia ebraici che greci dell’AT. In seguito, il patriarca Timoteo I di Seleucia diede la notizia, intorno all’800, che gli Ebrei di Gerusalemme avevano ritrovato in grotte nei pressi di Gerico alcuni libri in ebraico dell’AT e se li erano portati via. Sia la collocazione geografica dell’evento che l’argomento dei testi e la loro lingua, oltre che la loro sparizione, rendono impossibile l’identificazione del materiale in questione con quello papiraceo della Grotta 7Q, che non contiene testi ebraici ma solo greci, peraltro più neotestamentari che veterotestamentari, e che non risulta completamente saccheggiata, come attestano i frammenti in nostro possesso. Peraltro, Timoteo parlò di libri, ossia di testi piegati, e non di rotoli, dei quali sono parte i frammenti di cui andiamo parlando. Infine, sebbene Qumran sia vicina a Gerico, non mancano presso la città grotte ancor più vicine che avrebbero potuto essere utilizzate per conservare dei libri. Ed appare più logico identificare i siti di Qumran, sia in Eusebio che in Epifanio e Timoteo, a partire dal Mar Morto che da Gerico stessa(4).

Peraltro, alla spettrografia di massa e alla datazione al radiocarbonio, effettuata a campione, i testi della Grotta 7 sono tutti databili al I sec. Diversamente, l’affermazione che i cristiani della prima generazione non potessero usare papiri, come si credeva un tempo, si basava solo sul fatto che fino ad oggi mai nessun papiro di argomento cristiano era stato ritrovato (5).

La seconda argomentazione, più tecnica, sulla datazione del 7Q5 è lo stile scrittorio adoperato, lo Zierstil o Stile uncinato, tipico della metà del I sec. e non posteriore, perchè già tardivo a quella data e in un’area periferica come la Palestina, dove si conservavano usanze scrittorie ancora più remote senza che esse implichino una retrodatazione dei testi in cui erano adoperate (6). Un riconoscimento forte per questa scoperta è venuto dal Simposio internazionale di Papirologia del 1991 dell’Università di Eichstatt, dove insigni studiosi della materia hanno convenuto sulla pluralità di indizi per l’identificazione marciana del testo e sul fatto che nessun elemento papirologico le smentiva (7). Ulteriori argomentazioni si deducono dall’uso di sofisticate tecnologie. Il 12 aprile 1992 per esempio una perizia legale del Dipartimento di Scienze Investigative della Polizia d’Israele ha permesso di identificare con certezza una lettera controversa, una nu (8). L’identificazione di 7Q5 con Mc 6, 52-53 è stata controllata dal software Ibykus, che conteneva tutta la letteratura greca conosciuta, ed è stata confermata: la sequenza di lettere del frammento si incastra solo in quella parte di quel libro tra tutti quelli scritti in greco (9).

L’obiezione fatta di solito, ossia che tale identificazione è possibile solo se ammettiamo che le lettere controverse siano riconosciute in modo certo, non ha valore: è ovvio che se ipotizziamo diverse letture le identificazioni cambiano, ma a noi interessa verificare se la sequenza di lettere restaurata corrisponde ad un solo testo, in questo caso del Vangelo di Marco. Peraltro Alberto Dou, insigne matematico, collaborando con O’Callaghan, ha utilizzato il calcolo delle probabilità per l’identificazione del 7Q5 con cinque differenti soluzioni ed è addivenuto al risultato che è praticamente impossibile che appartenga ad altri testi diversi dal Vangelo di Marco, in quanto è in proporzione di uno a novecento miliardi, e sempre implicherebbe una dipendenza del frammento dal Vangelo stesso o viceversa (10).

In quanto all’identificazione con la nu della lettera quattro del rigo due di 7Q5, essa è ancora messa in discussione da molti, i quali preferiscono leggere una alpha, sebbene il resto superiore di un trattino diagonale legato all’unico segno visibile immediatamente precedente – apparentemente una iota - sia stato evidenziato dalla rilevazione col microscopio stereoscopico. E senza dare ragione di un visibile ulteriore punto di inchiostro che invece è identificato come parte di una eta nella lezione di O’Callaghan e che, pur trovandosi nello spazio occupato da codesta ipotetica alpha, non può verosimilmente farvi parte. Tale alpha sarebbe poi legata alla iota precedente da un tratto basso di scriptio continua inverosimilmente lungo (11).

Nel 2009 il Dipartimento di Fisica del Politecnico di Torino, attraverso la tecnica del restauro digitale, avrebbe mostrato, basandosi peraltro su fotografie di non buona qualità, che la superficie del papiro, laddove sarebbe stata vergata la già controversa nu, è sottilmente rigata. Tale irregolarità del tessuto, se in conseguenza di ciò non potrebbe più essere identificata con una traccia di inchiostro, è tuttavia la condizione previa per credere che la summenzionata lettera sia stata scritta in modo irregolare e quindi che sia essa e non un’altra, sebbene non più visibile (12).

Sulla base invece di fotografie digitali ad altissima risoluzione, fatte dalla Israel Antiquities Authority di Gerusalemme, e su richiesta di Simone Venturini, Thierry Castex, autore di un sistema di ottimizzazione delle immagini usata con successo per la Sacra Sindone, nel 2010, ha elaborato dei dati che hanno confermato le analisi papirologiche di O’Callaghan e Thiede; nel 2011 lo stesso Castex, sempre per Venturini, ha elaborato una tridimensionalizzazione del 7Q5 che conferma l’identificazione ottenuta con l’esame microscopico di Gerusalemme e che rafforza anche il quadro probatorio a sostegno dell’equazione tra il frammento e il Vangelo marciano (13).

Alcune altre molto dotte puntualizzazioni filologiche permettono di superare altre obiezioni all’identificazione del brano del frammento. Per esempio il passaggio dalla delta alla tau nel verbo tiaperasantes, giustificato dalle mutazioni di suoni dentali greci in area siro-palestinese, attestata persino nelle iscrizioni del Tempio di Gerusalemme. O la mancanza della locuzione epi tēn gēn, riscontrata dalla sticometria del frammento, per ragioni storiche e grammaticali. Altre analisi accurate mostrano come gli intervalli tra le lettere, a modo di interpunzione, corrispondono alla scansione logica del brano marciano riprodotto (14).

Peraltro, anche altri frammenti della Grotta 7 di Qumran, anche se con margine di minor sicurezza per le loro dimensioni, possono ascriversi al Vangelo di Marco, ossia 7Q61 (Mc 4, 28 o 12,7 o 15,47-16,1) (15), 7Q7 (12, 17) e 7Q15 (6, 48). Per cui appare ancor più certa l’identificazione, essendo presenti almeno quattro frammenti di uno o più papiri del Secondo Vangelo.

Si aggiungano altre identificazioni possibili di frammenti della stessa Grotta, tutte neotestamentarie, che andrebbero a definire ulteriormente la fisionomia di una sezione cristiana della Biblioteca qumranica: 7Q62, che sarebbe un brano del Vangelo di Luca (Lc 22,11 o 3,1 o 3,4 o 3,33 o 3, 35 o 7,36 o 7,37 o 8,17 o 11,34 o 12, 19 o 16,8 o 22, 34 o 22, 47) (16); 7Q8, che corrisponderebbe a Gc 1, 23-24 (17); 7Q9, identificato con Rm 5, 11-12 (18); 7Q10, uguale a 2 Pt 1, 15; più 7Q4 che con certezza si identifica con 1 Tim 3, 16-4, 3 e a cui sarebbero avvicinabili 7Q11, 7Q12, 7Q13, 7Q14, come 1 Tim 2,15-3,1; 3,1-2; 3,15; 3,7 (19). A questi vanno ulteriormente aggiunti due passi veterotestamentari assai significativi per i primi Cristiani, ossia Es 28, 4-7 e Bar 6, 43-44, contenuti in 7Q1 e 7Q2 (20). Infine citiamo 7Q19 1, 2 e 3, contenenti un testo sconosciuto che sembra presentare uno stilema tipico di San Paolo. Il triplice 7Q19 è l’impressione di un frammento perduto, diviso in tre parti, di un testo sconosciuto sull’argilla (21).

Questo fenomeno di impressione naturale è importantissimo per la soluzione della controversia dell’apertura della Grotta 7Q. Tra il 68, data della devastazione di Qumran da parte della Fretensis, e ogni altra possibile profanazione della Grotta 7, sia nel 130 che nel 217, passa troppo poco tempo perchè i frammenti imprimano la loro immagine sull’argilla e vengano distrutti. Per cui è impossibile che la Grotta 7 sia stata aperta in quelle date, altrimenti non avremmo trovato l’orma del 7Q19. Anche supponendo che il 7Q19 sia stato strappato molto prima del 68, anche nel lontano 200 a. C., quando la Grotta fu adibita a biblioteca (ma la paleografia data la scrittura dal 50 a.C. al 50 d.C.), la frequentazione della Grotta stessa avrebbe impedito che il frammento stesse nelle condizioni chimiche necessarie per l’impressione sull’argilla. Perciò il fenomeno potè accadere solo dopo il 68 e senza che mai la Grotta potesse essere visitata per lunghi secoli (22).

Mettendo insieme tutti questi dati, è evidente che non solo la datazione e l’identificazione di 7Q5 si contestualizza, ma che ne trae ulteriore vigore. D’altro canto, le identificazioni alternative di 7Q5 non sono sostenute da argomentazioni valide. Non quella, ad esempio, di Vittoria Spottorno, che propose Zc 7, 3b-5, che è smentita dalla identificazione delle lettere fatta, tra l’altro, nella perizia legale già citata mediante microscopio stereoscopico; nè quella di Garnet con Es 36,10-11, sticometricamente insostenibile; nè quella di Wallace, con il De Plantatione 135 di Filone di Alessandria, per una palese confusione di lettere e per ragioni sticometriche, che inficiano anche l’identificazione di riserva con Ez 23, 37; nè quelle di Colin Roberts, con 2 Sam 5, 13-14 o 4, 12, sempre per analoghi motivi (23).

ALTRI ANTICHI TESTIMONI PAPIRACEI

È dunque evidente che il primo codice papiraceo in assoluto di un Vangelo è il 7Q5. Se l’identificazione di un qualunque codice papiraceo di argomento profano di quelle dimensioni fosse stata sottoposta ad un simile accanimento indagatore, di sicuro avrebbe opposto una minore resistenza e sarebbe crollata sotto tanti dubbi. Invece il minuscolo frammento del Deserto della Giudea, dopo aver custodito in una solitudine secolare la sua testimonianza scrittoria, ora la mostra inoppugnabilmente. Ad esso vanno ragionevolmente accostati i frammenti 7Q61, 7Q7 e 7Q15.

A mio avviso, con un buon margine di probabilità, il secondo codice papiraceo di un Vangelo è il 7Q62. Esso è identificabile con un brano del Vangelo di Luca, come dicevamo prima, anche se non si riesce a determinarlo con certezza. Sappiamo però che quella sequenza di lettere è compatibile soprattutto con passi di quel Vangelo. Alla luce di altre considerazioni sull’origine del Terzo Vangelo, relative alle testimonianze patristiche, al contenuto e al sostrato linguistico, l’ipotesi di collocarla nella quinta decade del I sec. si sostanzia di riscontri, e il ritrovamento di un suo frammento a Qumran con uno stile scrittorio di quell’epoca non è più una semplice possibilità, ma un dato che riceve da e dà energia ad una precisa datazione dell’opera lucana (24).

Il terzo codice papiraceo dei Vangeli è il frammento del Papiro 64 (P64) del Magdalen College di Oxford, datato da C.P.Thiede (1952-2004) al 60, e rinvenuto in Egitto. Esso comprende Mt 26, 7-8.10.14-15.22-23.31.32-33. Ad esso va abbinato il suo gemello, il P67 della Fundación San Luca Evangelista di Barcellona (oggi all’Abbazia di Montserrat), appartenente allo stesso rotolo e comprendente Mt 3, 9.15; 5, 20-22.25-28. Il Vangelo matteano era in circolazione dunque da meno di 30 anni dopo della morte di Gesù.

Il grande papirologo Colin H. Roberts aveva datato il testo al II sec. Thiede potè fare una datazione più alta perchè ai suoi tempi era già un dato noto che i codici erano adoperati dai cristiani sin dal 70.

Egli comparò il P64 con 4QLXXLev, pap4QLXXLeviticus b, i frammenti 7Q, l’ostrakon 78 di Masada, il P.Oxy. II 246. Essi hanno tutti caratteristiche comuni, che anticipano l’onciale biblico, e siccome sono tutti anteriori al 70 – l’ultimo testimone è del 65-66 ed è addirittura datato con gli anni dell’impero di Nerone – hanno permesso di retrodatare anche il P64. A dispetto delle perduranti resistenze, dovute, come del resto per 7Q5, alle difficoltà di inserire reperti così antichi nelle comuni teorie sull’origine del Nuovo Testamento ma che, papirologicamente, non hanno alcuna ragion d’essere (25).

Il quarto testimone è il P52 Rylands della Biblioteca Universitaria John Rylands di Manchester, trovato in Egitto, del Vangelo di Giovanni 18, 31- 33, 37-38, del 125 (da tenersi presente che il Vangelo di Giovanni è comunemente datato all’80-90). Il P52 in effetti fu comparato da Colin Roberts, tra le altre cose, con il P. Lond. 2078 – contenente una lettera privata dell’epoca di Domiziano (81-96)- e con un papiro del Fayyum datato al 94, oltre che col P. Berol 6845 (inizio II sec.), il P. Egerton 2 (al massimo della metà del II sec.), il P. Oslo 2.22 (del 127), il B.G.U. 1.22 (del 114) e il P. Flor. 1.1 (del 153), ottenendo risultati assai significativi. Solo per la sua naturale prudenza il grande papirologo volle datare il testo da editare al punto più basso possibile della storia, ma oggi, considerando la più ampia conoscenza dei reperti scrittori e delle dinamiche di conservazione e sostituzione delle tecniche scrittorie, possiamo ricollocare all’indietro il papiro in questione, sino all’ultima decade del I sec.

In ogni caso, alla datazione di Roberts giunsero, per vie proprie, anche altri papirologi suoi contemporanei (Deissmann, Wilcken). Di recente, B. Nongbri ha sostenuto che su tale papiro non potremo mai avere una opinione certa, per cui la datazione oscillerebbe sino al III sec. Tale opinione appare infondata perchè infondati sono i presupposti, ossia che la papirologia non sia una scienza esatta – in quanto nessuna scienza lo è – che i frammenti così piccoli non sono databili con certezza – cosa smentita dalla prassi papirologica comune – che lo stile scrittorio del papiro in questione sarebbe simile a quello di altri più recenti – comparazione che a rigore di logica la piccolezza del frammento dovrebbe rendere impossibile – e che esso in ogni caso non risolve il problema dell’origine del Vangelo di Giovanni, che per il nostro critico potrebbe essere della metà del II sec. Questa affermazione è degna di nota perchè tradisce l’intento dello Nongbri: impostare una questione di critica testuale, questa si non suffragabile con testi di tale dimensioni. Nessun reperto papiraceo può risolvere una questione compositiva, ma la sua datazione può porre dei paletti cronologici al dibattito sulla questione stessa. Ed è quello che fa il P 52. Non a caso, la maggioranza dei papirologi condivide la datazione tradizionale di Colin Roberts (26).

Un quinto testimone è il P4 della Biblioteca Nazionale di Parigi, il Supplementum Graecum 1120=Gregory-Aland, contenente Lc 1, 58-59; 1, 62-2, 1.6-7; 3, 8-4. 29-32. 34-35; 5, 3-8; 5, 30-6, 16. Esso ha una scrittura simile al P64/67, per cui può essere di poco posteriore ad esso o al massimo del II sec (27).

Il sesto reperto è il P1 dell’Università della Pennsylvania di Philadelphia, contenente Mt 1, 1-9.12. 14-20, che per la sua somiglianza col Papiro Magdalen e col P4, può agevolmente esservi considerato di poco posteriore e quindi essere retrodatato dal III-IV sec. alla fine del I o al massimo all’inizio del II (28).

Il settimo è il P69 o P. Oxy. 2383, dell’Ashmolean Museum di Oxford, che contiene Lc 22, 41.45-48 e 58-61, anch’esso simile al P4, per cui può essere datato allo stesso periodo (29).

L’ottavo è il P90 o P.Oxy. 3523, sempre dell’Ashmolean Museum, contenente Gv 18, 36- 19, 7, datato in origine da T.C. Skeat alla fine del II sec. e oggi all’inizio o alla metà dello stesso secolo da C.P. Thiede (30).

Il nono testimone è il P66 o Bodmer II, della Bibliotheca Bodmeriana di Cologny, che contiene quasi tutto il Vangelo di Giovanni (capp.1-21), datato al 125 da H. Hunger, mentre in passato era considerato del 200 ca (31).

Il decimo è il P77 o P. Oxy. 2683 della Sackler Library di Oxford, contenente Mt 23, 30-39, databile al 150 (32).

L’undicesimo è il P70 o P. Oxy. 2384, diviso tra l’Ashmolean Museum e l’Istituto Papirologico G.Vitelli di Firenze, contenente Mt 2; 3; 11; 12; 24 e databile al II sec. anche se in genere lo si considera ancora del III (33).

L’ultimo testimone, il dodicesimo, è il P75 o Bodmer XIV-XV, anch’esso alla Bodmeriana di Cologny, contenente Lc 3-24 e Gv 1-15, databile tra il II e il III sec. per tutti gli studiosi.

Questi ultimi otto antichi testimoni, spesso retrodatati in mezzo a controversie non ancora sopite, sono ricollocabili cronologicamente grazie alla riconsiderazione globale della datazione dell’onciale biblica, ormai chiaramente di molto più antica di quanto si credesse, anche se tale dato suscita diverse resistenze, perchè implicherebbe un ripensamento globale di tutta la critica testuale neotestamentaria.

Vale la pena di segnalare che anche gli altri testi del NT, utilissimi per il dibattito sul Gesù storico, sono ampiamente attestati in codici del I sec. A parte i frammenti qumranici a cui ho fatto riferimento, che danno le Lettere di San Paolo ai Romani e Prima a Timoteo già in circolazione nel 50 (con un effetto dirompente per gli studi sull’Apostolo delle Genti, che infatti non è stato ancora metabolizzato), e che pure comprendono la Lettera di Giacomo e addirittura la Seconda di Pietro (che quindi sarebbe la più antica), non possiamo non ricordare il P46 o Chester Beatty II diviso tra l’Università del Michigan e quella di Dublino, un Codice Paolino tradizionalmente considerato del III sec. e retrodatato all’85 da Y.K.Kim (34).

Sulla base di queste evidenze, solo per ragioni paleografiche ed archeologiche, la datazione dei testi del Nuovo Testamento cambia. Il Vangelo di Marco e probabilmente anche quello di Luca sono anteriori al 50; di certo, il Vangelo di Luca – e con esso gli Atti degli Apostoli -circolava già nell’80; il Vangelo di Matteo è anteriore al 60; il Vangelo di Giovanni esisteva già nel 90. La Lettera di Giacomo, quella di Paolo ai Romani, la sua Prima a Timoteo, la Seconda di Pietro esistevano già nel 50. E ovviamente quest’ultima ebbe Pietro per autore.

LA DATAZIONE DEI VANGELI NELLA TRADIZIONE PATRISTICA

Le datazioni papiracee, che danno Marco al 50, Matteo greco al 60, Luca di sicuro alla stessa data se non al 50 e Giovanni al 90 già circolanti in copie, confermano l’antica tradizione storico-patristica sull’origine dei Vangeli, che ci informa che Matteo scrisse in aramaico il suo Vangelo entro il 42 ca., e lo tradusse o fece tradurre in greco entro il 60 ca., mentre Marco scrisse in greco tra il 42 ca. e il 50 ca. e il Vangelo lucano fu redatto entro il 60 ca. Il Vangelo di Giovanni poi è datato da sempre come l’ultimo, esso che i critici moderni datano al 100 circa, ma che sicuramente è più antico, non oltre il 90 ca. Vediamo nei dettagli quest’altro anello dell’evoluzione del nostro discorso, esaminando le testimonianze dei Padri della Chiesa sui Vangeli degli scrittori della Sacra Quadriga, l’Uomo Alato, il Leone Alato, il Bove, l’Aquila, simboli apocalittici di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Sapendo che i Quattro libri che noi leggiamo erano identici a quelli che erano letti dai Padri stessi e a quelli usciti dalla penna degli Evangelisti.

LE TESTIMONIANZE DEI PADRI SUL VANGELO DI MATTEO

La voce più antica che ci informa sulla stesura del Vangelo di Matteo è quella di Papia di Gerapoli (ca.70-dopo il 130), dei primi del II sec., citato da Eusebio di Cesarea (265-340), il cosiddetto Frammento V dell’antico presule, tratto da una sua importante opera, purtroppo perduta, la Spiegazione degli Oracoli del Signore. Papia scrive: "Matteo espose ordinatamente (synetàxato) i loghia [scil. di Gesù] in lingua ebraica (ebraidì) e ciascuno (ekastos) li tradusse (ermênêusen) come potè "(35). Questi loghia non sono detti, frasi o sentenze di Gesù, nel senso sapienziale del termine o sul modello dei Padri della Mishna, di cui Matteo sarebbe solo stato una sorta di curatore, ma sono le memorie, i fatti e i discorsi di Gesù, nel senso quindi più completo del termine greco, che l’Evangelista quindi potè assemblare in un autentico racconto. Da qui la traduzione di syntasso come "esporre in modo ordinato", più che "raccogliere", come a volte si intende, anche perchè confacente alla etimologia del verbo greco, in cui fondamentale è il prefisso syn. Abbiamo quindi tre dati importanti: un Vangelo di un testimone oculare e una stesura in lingua aramaica o ebraica (entrambi potrebbero essere il senso di ebraidì, come in At 21,40), a cui segue una traduzione greca. Il verbo ermêneuô significa sia interpretare che tradurre, ma l’uso all’aoristo indica chiaramente il secondo significato. Papia, di cui ci sono giunti solo frammenti, è un testimone molto importante: egli attinse le sue notizie dalle persone che avevano familiarità con gli Apostoli e non dai libri. Un punto ambiguo è la notizia sulla traduzione. Sembrerebbe che ci siano state più versioni dal greco, peraltro scadenti, cosa non suffragata dalla tradizione testuale. Si potrebbe immaginare che in tempi rapidissimi la traduzione migliore avesse soppiantato le altre, ma non si capirebbe come mai tanti si sentissero in diritto di tradurre – e male – il primo Vangelo e chi avrebbe poi garantito l’uniformità di uso di una sola traduzione. Non si capirebbe poi perchè Matteo, che di sicuro conosceva il greco per il suo mestiere di esattore, non avrebbe fatto lui stesso la traduzione. Da qui l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, di intendere ekastos come ekateros, ossia l’uno e l’altro, riferito a Matteo e a Marco, menzionato subito prima. In tal caso il verbo ermênêusen indicherebbe l’atto della composizione complessiva del testo e sottintenderebbe una comparazione di valore tra i due Vangeli. In effetti, trattandosi di citazione di seconda mano – Papia in Eusebio – ed essendo ekateros poco diffuso all’epoca, la correzione di senso ci starebbe tutta. Una ulteriore soluzione starebbe nella correzione di ekastos in ekaston. Ciò permetterebbe di tradurre: "poi [Matteo] li tradusse ciascuno in greco come meglio potè", alludendo al sostrato semitico del testo, ancora evidente. Io non ho trovato varianti testuali di tal genere nei mss. di Eusebio, ma è evidente che basterebbe una svista nella tradizione anteriore di Papia, completamente persa, perchè lo stesso Eusebio cadesse in errore e copiasse male. Di certo, non ci furono molte traduzioni di Matteo in greco, ma una sola.

Dopo Papia, sant’Ireneo di Lione scrisse: "Matteo pubblicò presso gli Ebrei, nella loro lingua, un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e fondavano la Chiesa (36)". Questa informazione è fondamentale per la datazione del Vangelo matteano. Pietro giunse a Roma per la prima volta nel 42 (37); Paolo, dal canto suo, nel 60. Stando a ciò, il Vangelo di Matteo sarebbe stato scritto intorno al 60, ma in aramaico o ebraico. I frammenti papiracei in nostro possesso sono invece tutti in greco. Bisogna dedurre che la traduzione fu immediata? Possibile, anzi ovvio, essendo il greco la lingua franca dell’epoca, anche in seno al mondo ebraico della Diaspora e della madrepatria. Ma c’è di più. Origene scrive nel Commento a Matteo: "Come ho appreso dalla Tradizione riguardo ai Quattro Vangeli, che sono anche i soli accettati dalla Chiesa di Dio che è sotto il cielo, per primo è stato scritto quello secondo Matteo, che prima era un pubblicano, poi Apostolo di Gesù Cristo; egli l’ha redatto per i credenti provenienti dal Giudaismo e composto in lingua ebraica. Il secondo è quello di Marco, che lo ha fatto come Pietro gli ha indicato e che lo riconobbe come figlio nelle sua lettera: vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio (1 Pt 5, 13). Il terzo fu Luca che scrisse il Vangelo predicato da Paolo per i gentili. Dopo tutti venne Giovanni" (38).

In ragione di ciò, a dispetto dell’opinione dominante degli esegeti e dei biblisti, il Vangelo di Matteo non solo è il primo, ma anche anteriore al 50, a cui risalgono i primi codici del Vangelo di Marco. Su questa priorità, sia della versione aramaica su quella greca, che di Matteo su Marco, a mio parere incontestabile, sono convergenti molti studiosi – anche se ovviamente altri sono in disaccordo sull’una e sull’altra - ed essi, sia pure non dominanti specie nell’opinione sulla priorità matteana, possono addure diverse ragioni, specie testuali e narrative, che qui tuttavia non ci interessano. Esse datano inconfutabilmente il Vangelo di Matteo entro i primi dieci anni dopo la Morte e la Resurrezione di Gesù, ossia non oltre il 42. Indipendentemente dalle testimonianze patristiche e dalle datazioni papiracee.

Eusebio di Cesarea dà ragione della stesura del Vangelo stesso di Matteo: "Matteo predicò in un primo tempo agli Ebrei. Poichè doveva rivolgersi anche ad altri, mise per iscritto nella lingua dei suoi antenati il suo Vangelo, supplendo così con lo scritto alla sua presenza diretta, nei confronti di coloro dai quali si allontanava (39)." Anche questa testimonianza spinge ad intendere che il Vangelo di Matteo sia databile intorno al 42, anno in cui sicuramente tutti gli Apostoli avevano intrapreso la missio ad gentes. Sempre Eusebio attesta che Panteno, scolarca di Alessandria, durante un viaggio in India– termine geografico che in tal contesto indica l’Arabia meridionale- trovò una copia ivi conservata del Vangelo aramaico di Matteo, portata colà dall’Apostolo Bartolomeo. Dunque il Matteo aramaico, redatto in Palestina, è anteriore al 50 e databile al 42, anno in cui Pietro giunse a Roma. Il fatto poi che Ireneo, nella citazione che ne abbiamo fatto, dati il Vangelo matteano all’epoca della compresenza di Pietro e Paolo a Roma non va preso alla lettera: egli considera i due Apostoli come una sola identità pastorale e adopera la figura retorica dello zeugma (40); peraltro Ireneo parla della composizione del testo, considerando evidentemente la sua traduzione in greco come un suo complemento implicito (lui stesso conosceva solo questa versione), che avvenne proprio intorno al 60, come provano i ritrovamenti papiracei citati, ossia in un momento in cui entrambi gli Apostoli erano nella capitale.

LE TESTIMONIANZE DEI PADRI SUL VANGELO DI MARCO

Per quanto riguarda il Vangelo di Marco, la prima testimonianza importante è ancora quella di Papia, contenuta nella prima parte di quel Frammento V che abbiamo già citato, tramandatoci da Eusebio. Da essa dipende la tradizione successiva patristica sull’argomento, arricchita di altre notizie, postulate o ottenute da altre fonti. Così recita dunque Eusebio: "Trasmette [Papia] nella propria opera anche altre spiegazioni delle parole del Signore, appartenenti al già citato Aristione e tradizioni del presbitero Giovanni: ad esse rinviamo coloro che desiderano conoscerle. Dobbiamo però ora aggiungere alle parole di lui prima citate una testimonianza che riporta a proposito di Marco, autore del Vangelo, e che suona così: «Anche questo diceva il Presbitero: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente ma non certo in ordine quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto.” Infatti non aveva ascoltato direttamente il Signore nè era stato suo discepolo, ma in seguito, come ho detto, era stato discepolo di Pietro. Questi impartiva i suoi insegnamenti in rapporto con le esigenze del momento, senza dare una sistemazione ordinata alle memorie del Signore. Sicchè Marco non sbagliò affatto trascrivendone alcuni così come ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava: di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire nulla di falso in questo.» Questo è quanto viene esposto da Papia a proposito di Marco (41)." Si ricava da questo frammento una duplice notizia: la matrice apostolica della narrazione, risalente allo stesso Principe degli Apostoli, e un impianto semitizzante di fondo, essendo Marco fedele alla catechesi petrina di cui era appunto interprete, e che forse era stato scritto dapprima proprio in ebraico.

Sant’Ireneo ci indica il momento storico della stesura del Vangelo marciano, perchè afferma che - come dicevamo – Matteo scrisse mentre Pietro predicava a Roma, mentre Marco trasmise la predicazione dello stesso Pietro dopo che questi lasciò Roma (42). Ciò avvenne nel 44, due anni dopo la data indicativa della composizione del Primo Vangelo.

Clemente di Alessandria ci fornisce un’ulteriore notizia: "Quando Pietro ebbe annunziato pubblicamente a Roma la Parola e predicato il Vangelo secondo lo Spirito, i presenti, che erano molti, invitarono Marco, in quanto lo aveva seguito da tempo e ricordava le cose dette, di trascrivere le sue parole. Questi lo fece e consegnò il Vangelo a coloro che glielo chiedevano." Soggiunge poi: "Quando lo venne a sapere, Pietro non usò esortazioni nè per impedirlo nè per approvarlo (43)." Questo avvenne dopo il 44, quando Pietro era lontano da Roma. Il Principe degli Apostoli non dovette dunque approvare questa iniziativa. Lo stesso Clemente ci informa poi che "così grandemente lo splendore della Verità illuminò la mente degli ascoltatori di Pietro che essi non furono paghi di ascoltare soltanto, nè si accontentarono di un insegnamento non scritto del Vangelo di Dio, ma in ogni modo cercarono di persuadere Marco, seguace di Pietro e fine conoscitore della Buona Novella, a lasciar loro un documento scritto della dottrina che aveva predicato loro. E non smisero finchè non lo convinsero. Fu questa l’occasione in cui fu scritto il Vangelo detto di Marco (44)." Aggiunge a margine di ciò: "Dicono che l’Apostolo, quando seppe, attraverso una rivelazione diretta dello Spirito, ciò che era avvenuto, si compiacque dell’ardore di quelle persone e convalidò il testo scritto perchè fosse letto nelle chiese (45)." Evidentemente vi fu dunque una seconda stesura del Vangelo di Marco, che fu oggetto dell’approvazione definitiva di Pietro. Questa stesura cade entro il 45-46. È questa l’ultima data utile per una redazione fatta a Roma da Marco, che vi rimase anche dopo la partenza di Pietro, ma che nel 46-47 era di sicuro in Oriente per intraprendere con Paolo il Primo Viaggio missionario di At 12, 25. L’approvazione di Pietro dev’essere stata concessa non oltre il 48, anno in cui il Principe degli Apostoli è a Gerusalemme per il Concilio di At 15, 2-29, e in cui di certo reincontrò il suo interprete. Ma nulla vieta che l’approvazione fosse data a distanza, mediante la spedizione del testo a Pietro stesso, quindi anche intorno al 46 (46). Perciò il Secondo Vangelo è stato scritto a Roma tra il 44 e il 50, come si desume dai ritrovamenti papiracei, e come si può ulteriormente inferire dall’origine romana della giara in cui i frammenti qumranici erano presumibilmente contenuti. Tale origine, se non è certa, e se non è indispensabile per la congruenza tra la testimonianza patristica e papirologica, è altamente probabile (47). E come suggerisce anche il testo, privo di riferimenti storici precisi alla Distruzione di Gerusalemme.

LE TESTIMONIANZE PATRISTICHE SUL VANGELO DI LUCA

Il Vangelo di Luca, la cui stesura è legata a quella degli Atti degli Apostoli (come due libri di una sola opera sulle origini cristiane), dello stesso autore, ha come terminus ad quem la Prima prigionia di Paolo a Roma, tra il 60 e il 63. Così Eusebio ("È perciò probabile che Luca abbia scritto gli Atti [e quindi il Vangelo n.d.a.] in quel tempo, limitando la sua esposizione al periodo in cui era con Paolo (48)."), come Girolamo (49) e soprattutto Ireneo. Questi scrive: "Matteo pubblicò un Vangelo, scritto presso gli Ebrei nella loro lingua, mentre Pietro e Paolo predicavano il Vangelo a Roma e fondavano la Chiesa. Dopo la loro partenza (toutōn exodos (50)) Marco, il discepolo ed interprete di Pietro, ci tramandò (paradedōken) per iscritto quello che era stato predicato da Pietro, mentre Luca, il compagno di Paolo, scriveva (keryssomenos) in un libro quello che veniva da lui predicato (51)." Praticamente il Santo usa uno zeugma, ma si riferisce alla partenza del solo Pietro (cosa confermata anche dal Prologo Antimarcionita del II sec., in cui è dopo l’excessus di solo questo Apostolo che Marco scrive), così come ha unificato le loro attività pastorali. Non a caso dopo la partenza di Pietro il Vangelo di Marco è detto "tramandato", ossia è già pronto, come suggerisce il tempo greco dell’aoristo; invece Luca sta scrivendo (come suggerisce il participio presente) mentre Paolo predica, in un’azione contemporanea non solo alla predicazione paolina (evidentemente priva di connessione con una qualunque partenza dell’Apostolo delle Genti), ma anche all’atto della pubblicazione del Vangelo di Marco. Ossia la stesura del Vangelo di Luca è un’azione che, al momento della pubblicazione di quello di Marco, non è ancora completata. Il che vuol dire che Luca iniziò a lavorare al suo Vangelo dal 46-47, per arrivare evidentemente a pubblicarlo, o assieme agli Atti, tra il 60 e il 63, o prima, come è più logico immaginarsi.

Del resto, la fine repentina degli Atti, come vedremo, mostra chiaramente che entrambi i libri sono stati scritti mentre Paolo era in prigionia - l’ultimo evento narrato - senza neppure raccontare l’esito del suo processo innanzi a Nerone (54-68). Un periodo in ogni caso di gran lunga anteriore ai primi papiri del Vangelo lucano. E conforme al fatto che nel Vangelo mancano descrizioni precise della Caduta di Gerusalemme. Infatti, contrariamente a quanto affermano molti critici, che datano il Vangelo dopo il 70 perchè vi vedono riferimenti post eventu alla Distruzione di Gerusalemme, in realtà questo avvenimento è descritto da Luca in modo diverso sì da Matteo e Marco, ma sempre convenzionale. Non parla di Abominio della Desolazione, come Mt 24, 15 e Mc 13, 14, che echeggiano Daniele, ma afferma: "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti" (21, 20), cosa scontata nell’immagine di una guerra catastrofica, nonchè legata alla tradizione del profeta Geremia (cfr. p. es. 52, 4-11, ma anche Zc 12, 3 nella LXX). Luca inoltre in 21, 24 spiega la Grande Tribolazione di Matteo e Marco in questi termini: "Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli, e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finchè i tempi dei pagani siano compiuti" (21, 24), che pure echeggia il profetismo esilico. Altri particolari descritti da Luca del Discorso escatologico di Gesù sono stereotipi che non corrispondono alla storia della Caduta di Gerusalemme, come la fuga verso i monti di 21, 21 (in realtà suggerita dal Signore ma non profetizzata). Analogamente, non si può considerare una profezia post eventu il brano di 19, 43-44, dove Gesù piange sulla Città santa, dicendo: "Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti distruggeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra." Infatti anche in questo fletus non vi sono elementi particolarmente precisi; nè peraltro si può negare per principio la capacità profetica del Cristo, anche perchè ancora oggi vi sono profezie.

La datazione anteriore al 70 ha altresì conferma nella struttura arcaica del Vangelo lucano, ricca di semitismi concettuali e letterari, che non avrebbero avuto senso dopo la morte della prima generazione cristiana, ossia quella degli Apostoli stessi, quando si era esaurita la spinta proselitistica verso i circoncisi.

Un altro argomento addotto, senza particolare consistenza, per la datazione bassa del Vangelo di Luca è la sua presunta dipendenza da quello di Marco. Ponendo questo nel 60 si postula che Luca debba essere posteriore al 70. Ma non vi è nessun motivo per creare uno scarto di dieci anni tra i due Vangeli, mentre la datazione papiracea e patristica di Marco è del 44-50.

Altro mito da sfatare è la presunta ignoranza lucana delle Lettere di Paolo, per cui il Vangelo sarebbe anteriore all’edizione della loro raccolta, presupposta dal 90. Il Vangelo lucano è senz’altro anteriore a quella data, ma l’autore conosceva senz’altro le Lettere di Paolo, che circolavano ampiamente e che hanno una teologia affine a quella del Vangelo stesso, che appunto è considerato dipendente dalla predicazione dell’Apostolo delle Genti.

Vale appena la pena di sottolineare che tutti questi elementi concordano con la datazione del possibile frammento papiraceo del Vangelo di Luca, il 7Q6 2. Questo frammento, che potrebbe essere arrivato da Roma a Qumran nel secondo lustro degli Anni sessanta del I sec., attesterebbe che il Vangelo esisteva, stile scrittorio alla mano, dal 50/55.

LE TESTIMONIANZE DEI PADRI SUL VANGELO DI GIOVANNI

Il Vangelo di Giovanni è considerato il più recente dalla Tradizione. Il Papiro Rylands 52, proveniente dall’Egitto, il P90 e il P66, oltre ad aver dimostrato l’inaccettabilità della datazione tardiva proposta per il Vangelo giovanneo ancora nel XIX sec. - ripetuta anche negli Anni venti del ‘900 dal Loisy e alla quale alcuni ancora sembrano immotivatamente affezionati - ci confermano l’ipotesi tradizionale che la redazione sia almeno dell’ultimo decennio del I sec., se non più antica. Anche se l’identità di Giovanni è stata dibattuta da alcuni, Ireneo (che scrive: "Rimase tra loro fino all’epoca di Traiano"; "La Chiesa di Efeso che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase sino all’epoca di Traiano" (52);) e Clemente di Alessandria (che dice: "Dopo la morte del tiranno, Giovanni tornò ad Efeso da Patmos" (53)) ci dicono che l’Apostolo visse ad Efeso senza interruzioni dal 96, graziato da Nerva (96-98) che lo liberò dal confino a Patmos, fino ai primi anni dell’impero di Traiano (98-117). Concorda anche Policrate di Efeso (130 ca.-196), che scrivendo a papa san Vittore I (189-198) ricorda che "è in Asia che riposano i grandi astri: [..] Filippo, uno dei XII Apostoli [..] e ancora Giovanni, che ha riposato sul petto del Signore, che è stato sacerdote [..] Costui riposa ad Efeso". Policrate indica così anche la Tomba dell’Apostolo, oggi inglobata nei resti della Basilica giustinianea del VI sec. (54)

La regione della composizione del Vangelo, strettamente legata alla sua composizione, è dunque l’Asia Minore ed Efeso in particolare; alcuni, con minore forza, hanno sostenuto un’origine siriana del testo. Proprio Ireneo di Lione, sulla scorta della testimonianza di Policarpo di Smirne (†155), a sua volta discepolo di Giovanni, che lo nominò Vescovo della città, ci informa che "Giovanni, il discepolo del Signore, colui che riposò sul suo petto, ha pubblicato anche lui un Vangelo mentre dimorava ad Efeso in Asia (55)."

Anche Eusebio conferma questa notizia, riportando la Lettera a Florino dello stesso Ireneo, in cui questi descrive il suo incontro con Policarpo che "raccontava della sua dimestichezza con Giovanni e con le altre persone che avevano visto il Signore (56)." Sempre Eusebio cita Clemente Alessandrino che scrive: "Quanto a Giovanni, l’ultimo, vedendo che le cose pubbliche [di Gesù n.d.r.] erano state esposte nei Vangeli, spinto dai discepoli e ispirato dallo Spirito, fece un Vangelo spirituale (57)."

Girolamo infine scrive: "Giovanni, Apostolo prediletto di Gesù, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo decollato da Erode, scrisse, ultimo di tutti, il Vangelo, pregatone dai Vescovi d’Asia, contro gli eretici che dicevano Cristo non essere esistito prima di Maria. Ma c’è anche un altro motivo di questo lavoro, ossia il fatto che, quando [Giovanni] lesse Matteo, Marco e Luca, ne approvò senz’altro la sostanza e dichiarò che quanto vi leggeva era tutto vero, ma che tuttavia essi avevano narrato la storia di un solo anno, quello cioè che inizia da quando Giovanni Battista fu gettato in prigione e nel quale fu ucciso. Così, sorvolando sugli eventi di quest’anno che erano stati raccontati da loro, raccontò le vicende del periodo precedente [..] così che potessero essere conosciuti. [..] Avendo Domiziano decretato la seconda persecuzione nel quattordicesimo anno dopo Nerone [ossia nell’81 n.d.r.], egli fu relegato nell’isola di Patmos; sotto Nerva tornò ad Efeso, ove morì di vecchiaia, sessantotto anni dopo la Passione di Cristo [ossia nel 98-99 n.d.r.] (58)."

Quest’ultima testimonianza è importante per la datazione della composizione del Vangelo. Infatti la sua datazione comune, all’ultima decade del I sec., si basa sull’identificazione del soggiorno ultimo dell’Apostolo in Efeso con il solo periodo utile per la composizione del libro. Ma Girolamo pone la composizione prima dell’esilio di Patmos e parla di un ritorno ad Efeso nel 96 ca. In realtà, l’Apostolo si stabilì nella città già quantomeno dal 66 ca., se non prima. Forse Giovanni abbandonò Gerusalemme provvisoriamente già nel 42, per sfuggire alla persecuzione di Erode I Agrippa (10 a.C.-44 d.C.), assassino del fratello e incarceratore di Pietro, e già da allora potrebbe essersi recato in Asia Minore, con la stessa Madre di Dio, per poi tornare in patria dopo il 44. Di certo lasciò Gerusalemme dopo la Dormitio della Vergine Maria, avvenuta secodo Eusebio nel 48, non senza aver partecipato al Concilio di Gerusalemme. Nel 53 potrebbe essere ancora a Gerusalemme. Nel 57 in ogni caso non era più in città. Quando Giovanni iniziò per certo il suo soggiorno stabile ad Efeso, nel 66, gli altri Vangeli erano già stati scritti; perciò egli avrebbe potuto scrivere il suo sempre per ultimo, ma molto prima dell’ultima decade del I sec., anzi addirittura prima della Distruzione di Gerusalemme, almeno nella sua stesura più arcaica.

Infatti il Vangelo giovanneo parla della città sempre come ancora esistente. Non mancano poi fortissime tracce semitizzanti nel testo, che possono attribuirsi o alla conservazione delle fonti originarie – come i Discorsi di Gesù – o alla volontaria composizione in stilemi e forme atte ad essere recepite in un ambiente giudaico-cristiano ancora chiuso in se stesso. Lo stesso linguaggio del Vangelo è legato alla letteratura giudaica apocalittica, che si sarebbe usato difficilmente dopo la fine delle varie scuole giudaiche, avvenuta nel 70, e che di fatto si prestò a varie interpretazioni.

Una ulteriore prova a sostegno della datazione alta di Giovanni sarebbe proprio la sua perspicua dottrina del Logos, un libero adattamento della filosofia di Filone d’Alessandria (20 a.C.-50 d.C.) alla cristologia e alla teologia trinitaria, alla luce della teologia sapienziale del VT, che ha maggior senso nella storia giudaica anteriore alla Distruzione del Tempio, quando il magistero filoniano aveva più prestigio nel mondo ebraico. Diversamente, la polemica con Cerinto sulla preesistenza del Logos stesso al Cristo incarnato non è una prova della datazione bassa. Infatti tale polemica, di cui fu protagonista lo stesso Giovanni, non implica che il Vangelo sia stato scritto dopo di essa, nè si può situare con certezza negli Anni novanta del I sec.

Una ulteriore conferma della datazione del Vangelo a prima della Caduta di Gerusalemme si ha nel Frammento Muratoriano, che a sua volta testimonia: "Dietro richiesta dei suoi condiscepoli e coepiscopi, egli [Giovanni] disse: Digiunate con me tre giorni da oggi, e ciò che sarà rivelato all’uno o all’altro di noi ce lo racconteremo. La stessa notte fu rivelato ad Andrea, uno degli Apostoli, che Giovanni dovesse mettere per iscritto tutte le cose, a patto di mostrarle agli altri (59)." Questo renderebbe il Vangelo di Giovanni anteriore al 60, data della morte di Andrea. Questo sarebbe stato scritto ai tempi della presenza saltuaria dell’Apostolo ad Efeso. A meno che a questa visione non sia seguita una prima stesura non definitiva del Vangelo stesso. In ogni caso, esso è stato visibilmente oggetto di una complessa opera compositiva, perchè l’Autore lo ha modificato progressivamente, anche se insensibilmente; per cui possiamo sempre affermare che il prodotto finito sia uscito dalle mani dell’Apostolo nella sua vecchiaia, con persino qualche aggiustamento autorizzato dei suoi discepoli.

Non vi è peraltro motivo di ritenere che il Quarto Vangelo sia stato, evidentemente in epoca più recente, scritto dal misterioso Giovanni il Presbitero, da molti distinto da Giovanni l’Apostolo e di lui evidentemente più giovane, conosciuto dalla testimonianza di Papia, nel Frammento II: "Io non esito a inserire nelle mie interpretazioni, facendomi garante di verità, quanto un tempo ho appreso dai presbiteri e ho conservato nella memoria. Se accadeva che da qualche parte qualcuno avesse frequentato gli Anziani, mi informavo sulle parole dette dagli Anziani, domandando ciò che avevano detto Andrea, Pietro, Filippo, Tommaso, Giacomo, Giovanni, Matteo e qualche altro discepolo del Signore e ciò che dicono Aristione e il presbitero Giovanni, discepolo del Signore. Ero infatti persuaso che i racconti tratti dai libri non potevano avere per me lo stesso valore di una voce viva e sonora (60)." Già Eusebio, commentando questo passo, spiegava che Papia intendeva parlare di due persone distinte (Giovanni l’Apostolo e Giovanni il Presbitero) e aggiungeva che a Efeso si trovavano due sepolcri che recavano lo stesso nome di Giovanni. Ma la seconda tomba non è stata mai trovata (61).

Occorre peraltro distinguere il problema dell’esistenza a Efeso di due Giovanni dal problema dell’origine del Vangelo giovanneo. Tutti coloro che parlano del presbitero Giovanni (come Eusebio e Girolamo) attribuiscono senz’altro il Vangelo e la Prima Lettera all’Apostolo, mentre mettono l’Apocalisse e le altre due Lettere in capo al Presbitero, perchè erano contrari a certe interpretazioni letterali dell’Apocalisse stessa e quindi ne volevano sminuire l’ispirazione. La paternità giovannea del Vangelo non è dunque in discussione. Peraltro, lo stesso passo di Papia non implica affatto che il Presbitero sia autore del Quarto Vangelo. Infatti Papia si riferisce a due situazioni diverse: quando ascoltava ciò che gli Apostoli, detti Anziani - tra cui Giovanni - avevano detto ad altri, e che erano in gran parte già morti; quando poi sentiva ciò che il presbitero Giovanni, a quei tempi vivente insieme ad Aristione, gli diceva personalmente. Da qui la doppia menzione nel suo Frammento del nome Giovanni e le diversità del tempo verbale: un piucheperfetto ("avevano detto") e un presente ("dicono"). Lo stesso Papia, nel Frammento XV, riportato in forma indiretta nella Catena dei Padri Greci, attribuisce a Giovanni il Figlio del Tuono (appellativo dell’Apostolo), la paternità del Quarto Vangelo, che anzi lui stesso gli avrebbe dettato, escludendo così ogni confusione sull’origine del testo. La stessa notizia è nel Frammento XIV, riportato nel Codice Vaticano Alessandrino. In ragione di ciò, almeno l’ultima stesura del Vangelo di Giovanni, a cui Papia collaborò, deve cadere tra l’85 (quando Papia aveva verosimilmente quindici anni e poteva essere discepolo di Giovanni come questi lo era stato, alla stessa età, di Gesù) e il 98-99, quando l’Apostolo morì ad Efeso. Questa collaborazione potè dunque avvenire o a Patmos, dove evidentemente i fedeli di Efeso mandarono all’Apostolo aiuti morali e materiali – e quelli di un ragazzo dovettero sembrare innocui al governo imperiale – o a Efeso stessa. Ciò rende in parte giustizia dell’antica tradizione che poneva nell’ultima decade del I sec. tutta la stesura del Vangelo.

Inoltre, il titolo "Presbitero", che è quello che si trova all’inizio della Seconda e della Terza Lettera di Giovanni (2Gv 1 e 3Gv 1) ed è la ragione dell’attribuzione delle stesse a Giovanni il Presbitero, non deve per forza riferirsi a quel Presbitero, e anzi può essere tradotto "l’Anziano", come in Papia, riferendosi così all’Apostolo, come da prassi, e con più congruo ed antonomastico riferimento all’età dell’autore. Peraltro siccome la tradizione antica, ad eccezione di Papia e di coloro che su di lui poggiano, ignora completamente l’esistenza di un Giovanni il Presbitero, è impossibile attribuire ad un personaggio tanto evanescente un testo importante come il Quarto Vangelo, che altrimenti, data anche la particolarità del suo contenuto, non avrebbe avuto possibilità di imporsi e di superare le stesse, pur sporadiche, opposizioni che incontrò contro la sua canonicità. La stessa Apocalisse è detta esplicitamente di Giovanni, usando un nome che era di prestigio solo se riferito all’Apostolo, e la Seconda e la Terza Lettera, quelle dell’"Anziano", poterono essere conservate, data anche l’inanità del loro contenuto, solo per l’intestazione in cui tutti riconobbero il Discepolo prediletto. Nemmeno Papia gliele attribuisce nei suoi Frammenti.

A ragion veduta, si può persino supporre che, sia pure in un modo un po’ confusionario, Papia si sarebbe riferito allo stesso Apostolo parlando di Giovanni il Presbitero, il cui epiteto andrebbe quindi tradotto come "l’Anziano". Ciò sarebbe dovuto al fatto che, nel Frammento II, Papia dapprima indicasse le cose che ascoltava da testimoni, comprese quelle che essi avevano udite da Giovanni, e le mettesse in conto degli Apostoli in genere, detti Anziani; poi passasse a segnalare quanto da lui stesso udito da Aristione e da Giovanni, che, proprio perchè detto "Anziano", sarebbe da identificarsi con l’ultimo Apostolo vivente. Di questi, del resto, nei Frammenti XI (contenuto nella Storia Ecclesiastica di Filippo di Side), XIV e XV, si dice che non solo fu contemporaneo di Papia, ma suo mentore spirituale. Perciò è molto più logico immaginare che Eusebio e altri abbiano frainteso Papia immaginando che egli parlasse di due persone distinte, mentre si riferiva al solo Giovanni Apostolo. Opinione sostenuta anche da Ireneo di Lione, di molto più antico di Eusebio e di Girolamo. Mentre questi ultimi, assieme a pochi altri, dedussero l’esistenza di un secondo Giovanni solo dalla lettura di Papia stesso, per cui possono essere incorsi in un fraintendimento e di certo non hanno in materia una cognizione di molto più sicura dei moderni.

Possiamo quindi dedurre che il Vangelo di Giovanni era stato iniziato tra il 57 e il 66, completato tra il 70 e l’81; rivisto tra l’85 e il 98. Nella sua forma attuale, tranne qualche elemento secondario, era di sicuro già in circolazione prima dell’81 stando alla Tradizione patristica e, per il contenuto, anche prima del 70.

LA DATAZIONE CONTENUTISTICA DEI VANGELI

Se la papirologia e la Storia ecclesiastica concordano nel contraddire le datazioni più comunemente accettate nella biblistica, è anche vero che molti studiosi contemporanei, rompendo i paradigmi dominanti, spesso facendo percorsi di ricerca molto diversi, sono arrivati a convergere su dati praticamente identici non solo tra loro, ma anche con quelli della papirologia – che spesso hanno preceduto o di cui non si sono serviti – e della tradizione patristica. Di questo andremo ad occuparci ora brevemente, mostrando come anche la critica, usando mezzi molto diversi, ha praticamente dimostrato che i Vangeli sono testi molto più antichi di quanto non si credesse o non si continui a credere in certi ambienti; e mostrando come ciò avviene essenzialmente per inerzia mentale, più che per dati di fatto.

EDMUNDSON E ROBINSON: AUTORI SEMPRE ATTUALI

Oggi molti rintracciano nei Vangeli elementi storici di eterogenea natura che mostrano chiaramente che essi furono scritti all’epoca dei fatti che narrano, da testimoni oculari o da autori da loro strettamente dipendenti. Ma i più importanti studiosi che li misero in evidenza rompendo l’omertà dello scetticismo imposta dalla critica liberale furono George Edmundson (1848-1930) e John A.T. Robinson (1919-1983) (62).

Edmundson, mettendo insieme una messe di dati letterari, filologici, archeologici, epigrafici e bibliografici, fece uno studio dettagliato sulle origini della Chiesa Romana, giungendo addirittura alla conclusione che Luca, non avendo parlato della nascita di questa comunità negli Atti degli Apostoli, quando Paolo vi giunse, aveva intenzione di farlo in un terzo libro che non potè scrivere; lo fece adducendo anche ragioni linguistiche desunte dagli Atti, dove si parla del Vangelo come primo libro tra molti, e non tra due (prōton e non pròteron). Edmundson inoltre spiega come le persecuzioni ebraiche ai Cristiani in Palestina fino al 42 furono fatte solo contro i cosiddetti Ellenisti capeggiati dal diacono santo Stefano (†33) (che infatti appartenevano ad una corrente ostile al culto templare), ma non contro i XII Apostoli. Una volta che gli Ellenisti furono dispersi (causando, aggiungo io, la crisi di coscienza di San Paolo che da loro persecutore divenne Apostolo e da fariseo templare uno strenuo assertore del superamento della Legge mosaica, sempre nel 33), solo con il ritorno da Roma di Erode Agrippa I (37-44) nel 41 iniziò la persecuzione degli Apostoli stessi, sebbene essi fossero rimasti fedeli alla mentalità e al costume giudaico. Perciò nel 42 Giacomo il Maggiore fu martirizzato, Pietro fu arrestato e gli altri Apostoli partirono ciascuno per una missione in una diversa parte del mondo, ovviamente a cominciare dagli Ebrei che vi vivevano (e qui, sempre a parer mio, si colloca anche la partenza di Matteo descritta da Papia, dopo la stesura del suo Vangelo aramaico; lo stesso Giovanni potrebbe in quella data già essersi recato, come abbiamo detto, in Asia Minore). Una volta liberato dagli Angeli, Pietro andò a Roma (42). Ma, a mio giudizio, le notizie sono date con circospezione da Luca, nel timore di danneggiare l’Apostolo che era ancora vivo quando gli Atti furono pubblicati, raccontando della sua latitanza. A questo si deve anche il riserbo sugli altri Apostoli, anch’essi ancora in vita al momento dell’edizione del testo, perchè non si conoscessero i luoghi dove essi si erano recati in incognito nella loro evangelizzazione. A Roma, tra il 44 e il 45, anche per l’Edmundson, Marco scrisse la prima versione del suo Vangelo, essendo al seguito di Pietro. Questi potè poi lasciare la città con lo stesso Marco, alla morte di Agrippa nel 44, e in effetti fu a Gerusalemme nel 46. Terminato il suo Vangelo nella sua forma definitiva, Marco con Barnaba (†61) e Paolo partirono per Cipro nel 47, mentre dallo stesso anno Pietro fece di Antiochia la sua sede fino al 54. Qui incontrò Paolo nel 49 (Gal 2, 1-10) dopo il suo viaggio missionario, ma gli Atti non ne fanno memoria per le ragioni prudenziali di cui sopra. Secondo Edmundson alla fine del 49 vi fu il Concilio di Gerusalemme, dove Pietro e gli altri Apostoli risolsero la questione dell’osservanza delle leggi giudaiche per i battezzati provenienti dal paganesimo. Questa data è oggi corretta dalla critica al 48. Al Sinodo partecipò anche Giovanni, evidentemente tornato da Efeso. Nel 50 Claudio (41-54), a causa dei contrasti tra Giudei e Cristiani in Roma, pubblicò un editto che espelleva quei Giudei (battezzati e non) che si agitavano a causa di Cristo.

Nello stesso anno Paolo partì da Antiochia con Sila per il suo secondo viaggio missionario mentre Marco e Barnaba si recarono a Cipro. Tra il 51 e il 53 Paolo fu a Corinto, sotto il proconsolato di Gallione; nel 53 fu a Gerusalemme, ma subito si rimise in viaggio e nel 55 si trattenne ad Efeso, da cui scrisse la Prima Lettera ai Corinzi. Invece alla fine del 54, morto Claudio, Pietro e Barnaba furono a Corinto e nel 55-56 giunsero in Italia. Paolo invece fu in Grecia tra il 56 e il 57. Nel 57, da Corinto, Paolo scrisse la Lettera ai Romani e poi tornò di nuovo a Gerusalemme. Questa datazione, per inciso, è smentita e arretrata dal papiro 7Q9 al 49-51. Paolo tra il 57 e il 59 fu prigioniero a Cesarea. In questo lasso di tempo (58/59) Luca pubblicò il suo Vangelo. Questa datazione di Edmundson, che implica una interpretazione estensiva del lasso di tempo indicato da Ireneo e dagli altri Padri citati a proposito del Terzo Vangelo, viene anch’essa smentita e arretrata dal frammento 7Q62. Continuando a seguire Edmundson, diciamo che Paolo arrivò a Roma nel 60 e vi fu prigioniero fino al 62, data entro la quale Luca pubblicò prudenzialmente anche gli Atti. Secondo l’Edmundson Pietro sarebbe poi giunto a Roma nel 63 e vi sarebbe rimasto fino al 65, ipotizzando tre diversi soggiorni dell’Apostolo nella Capitale. In ogni caso questi tre soggiorni non hanno conseguenze nella fissazione della cronologia dei Vangeli. Nel luglio del 64 l’incendio della Città Eterna avrebbe fornito il pretesto per la persecuzione neroniana del 65, almeno nella ricostruzione di Tacito, che l’Edmundson considera tendenziosa. In quell’anno Pietro scrisse la sua Prima Lettera e nel 65 avrebbe subito il martirio, che quindi in questa ricostruzione è anticipato di due anni, sebbene la testimonianza di Girolamo, conosciuta da Edmundson e che ascrive a Pietro venticinque anni di pontificato romano, sia per me più cogente e faccia datare la crocifissione del Pescatore nel 67. Nel 66 fu scritta la Lettera agli Ebrei, il cui autore conosceva la Prima Lettera di Pietro, probabilmente da Barnaba in Asia Minore per gli Ebrei della Capitale. Edmundson rigetta dunque la data tradizionale del martirio di Barnaba nel 61. Nel 67 Paolo fu martirizzato. Morto Nerone nel 68 e impostisi i Flavi, Domiziano, reggente a Roma dal gennaio al giugno del 70 mentre il padre Vespasiano (69-79) e il fratello Tito (79-81) assediavano Gerusalemme, avrebbe già da questa data esiliato Giovanni Apostolo a Patmos, dove questi scrisse l’Apocalisse prima ancora che il Tempio fosse distrutto e con una nitida memoria della persecuzione di Nerone (14, 8; 18, 2; 11, 1 ss.; 13; da cfr. per l’Edmundson con Tacito, Hist. 3, 72.83; 4, 1). Avvenuto il rientro di Vespasiano, Giovanni potè lasciare Patmos per dedicarsi alla stesura del Quarto Vangelo. Interessanti anche la retrodatazione della Prima Lettera di Clemente Romano ai Corinzi al 70, perchè il suo autore suppone che il Tempio sia ancora in piedi e la persecuzione di Nerone recente (valutazioni che condivido, come si è letto nelle pagine precedenti), e quella del Pastore di Erma allo stesso anno con un ampliamento nel 90 circa. Il primato romano quindi sarebbe stato esercitato per la prima volta non da Clemente ma da Lino (67-79), sul cui mandato il primo avrebbe scritto la Lettera che porta il suo nome. Questa ricostruzione sostanzialmente corrisponde alla cronologia patristica e soprattutto si addice perfettamente alla datazione dei testi sacri fatta sulla base dei ritrovamenti papiracei. Solo alcuni dati non corrispondono a questa cronologia. Ma la coincidenza globale è impressionante, considerando che Edmundson scrisse prima ancora che Qumran fosse ritrovata e i papiri di cui abbiamo parlato fossero riesaminati. Evidentemente i dati storici e letterari tradizionali, scevri dai pregiudizi delle scuole idealista, marxista e positivista, già dal 1913 potevano confermare e precisare la datazione tradizionale dei Vangeli.

Robinson sviluppo’ le riflessioni di Edmundson. Egli partì dalla constatazione che in nessuno dei testi del NT la Caduta di Gerusalemme del 70 appare come un fatto passato. Secondo il nostro studioso, il Discorso apocalittico di Mc 13 fa riferimento piuttosto alla possibilità di una profanazione del Tempio mediante un idolo (abominatio desolationis), più che alla sua distruzione completa. I modelli veterotestamentari sono 1 Mac 1, 54 e Dn 9, 27; 11, 31; 12, 11, in cui si parla di una profanazione simile ad opera di Antioco IV Epifane nel 168/167 a.C. Ma non vi è Dn 8, 13, che parla della cessazione dell’offerta sacrificale nel Tempio, che è quanto invece avvenne nel 70. Niente nel testo marciano lascia intendere che questo sia avvenuto. Esso invece fa riferimento ai contemporanei di Gesù, che sarebbero stati testimoni dell’evento profetizzato (13, 30), che evidentemente non è quello del 70, perchè in quell’anno quasi tutti gli Apostoli erano morti, ma l’unico altro possibile, quello del 41. La profezia di Gesù si riferirebbe dunque alla pretesa di Caligola (37-41) di porre una sua statua nel Tempio. Marco ammicca al lettore scrivendo “chi legge capisca” (Mc 13,14 ), perchè, a mio avviso, descrive qualcosa che non è prudente nominare (in quanto scrive a Roma) e perchè riecheggia Matteo, anteriore, che scrisse proprio mentre la profanazione era in procinto di essere compiuta. Ovviamente questo implica una stesura del Matteo aramaico già dal 40, cosa che infatti il Robinson teorizza. Lo studioso mette inoltre l’accento sul genere letterario del Discorso, l’apocalittico, in cui parole e temi sono quindi usati in modo stereotipo, senza poter essere applicati pedissequamente alla descrizione della Distruzione di Gerusalemme, che infatti non si rispecchia in esso. Cosa, questa, che ho già registrato parlando delle testimonianze patristiche sui Vangeli. Infine il Discorso parla delle conseguenze dell’incredulità della gente verso il Vangelo, proiettandosi quindi in una dimensione profetica molto lontana, anche qui nello stile apocalittico e veterotestamentario, dove il vaticinio del futuro prossimo è simbolo di quello remoto.

Anche il Discorso in Mt 24 ha profezie assai lontane da come avvenne la Distruzione di Gerusalemme nel 70. Qui c’è chiaramente una descrizione della Battaglia escatologica, perchè implica, subito dopo il suo combattimento in Giudea, la Fine del Mondo stesso (24, 29). Parla inoltre di persecuzioni, apostasie e lotte interne alla Chiesa (24, 9-14), quadro che ben si addice agli anni in cui l’Apostolo scrive, e non a quelli delle datazioni basse del suo Vangelo. Infine ravvisa nel testo elementi adatti ad un pubblico giudaico, legato ancora ai precetti della Legge (24,20). Robinson deduce da ciò l’estrema arcaicità del Vangelo di Matteo, l’esistenza della sua versione aramaica e la sua datazione al 40. Mt 23, 31-24, 46, è conosciuto da 1 Ts, per cui negli anni 50 il Vangelo era già utilizzato da Paolo, anche se non sappiamo in quale lingua.

Sul Discorso in Lc 21, il Robinson nota che esso solo apparentemente dà dettagli sull’assedio di Gerusalemme, mentre in realtà sono un collage di topoi profetici (21, 20-24 che riecheggiano Zc 12, 3; Os 9, 7; Ger 46, 10 ecc.), mentre centrale è il tema della vigilanza e molti versetti di Mc e Mt sono rimaneggiati. Le ribellioni di 24, 9 ricordano le insurrezioni messianiche del 40-50; le guerre quelle contro i Parti del 36 e del 55.

Sulla base di ciò, Robinson deduce che i Sinottici abbiano usato in modi differenti una fonte comune contenente il Discorso escatologico, senza che nessuno dei tre ne abbia conservato da solo le parti più antiche, ma adattando ognuno la cernita degli argomenti al proprio pubblico, senza però aver ancora visto la Distruzione del 70. Questa fonte originaria è una sorta di Proto-Vangelo, forse lo stesso di Matteo, a cui allude 1 Cor 15, 1-4, utile per l’annuncio e la catechesi. Salendo ancora più a ritroso, Robinson teorizza che il Proto-Vangelo fosse la somma della tradizione petrina nota a Marco, detta P, e della tradizione gerosolimitana nota a Matteo e Luca, detta Q, più altro materiale palestinese. Esse sarebbero attestate indirettamente in 1 Cor 1, 15, Gal 2, 9, Rom 1, 2, At 1, 1-3. Luca avrebbe aggiunto al Proto-Vangelo del materiale in suo possesso, una fonte L.

Per ognuno dei Vangeli il Robinson suppone più edizioni, o almeno – penso io - fasi redazionali, non essendocene menzione nella tradizione patristica nè riscontri paleografici. Il Vangelo di Luca ne avrebbe avute meno di tutti perchè scritto per un singolo. Quello di Marco diverse; quello di Giovanni almeno due, delle quali l’ultima avrebbe aggiunto il Prologo e il cap. 21, come diremo; quello di Matteo più di tutti; per ognuna di queste asserzioni, l’autore cita prove testuali, più o meno convincenti. Per Robinson il Vangelo di Matteo sarebbe stato completato entro il 64, poichè rispecchia l’equilibrio interno alla Chiesa di quegli anni. Il Papiro Magdalen lo retrodata di almeno cinque anni. Il Vangelo di Luca sarebbe stato scritto tra il 57 e il 60. Gli Atti sono datati tra il 57 e il 62, perchè non parlano della fine del processo di Paolo, della morte di Giacomo il Minore per volontà del Sinedrio e senza l’autorizzazione di Roma, ignorano la persecuzione di Nerone, la distruzione di Gerusalemme, l’evoluzione delle istituzioni romane del tardo I sec. Hanno inoltre un linguaggio spesso arcaico. Sono altresì molto precisi nei dettagli sulle province romane negli anni 40 e 50.

Per le Lettere di Paolo, delle quali riconosce la piena autenticità, Robinson propone una cronologia completa: La Prima ai Tessalonicesi all’inizio 50, la Seconda ai Tessalonicesi tra il 50 e il 51; tra il 52 e il 57 la Prima ai Corinzi, la Prima a Timoteo, la Seconda ai Corinzi, quella ai Galati, quella ai Romani e quella a Tito. Faccio notare che queste datazioni delle Lettere coincidono grosso modo coi frammenti qumranici del 50 7Q4.11-14 e 7Q9 della Prima Lettera a Timoteo e della Lettera ai Romani. Robinson infatti non scorge nella Prima Lettera a Timoteo e in quella a Tito un ordinamento tardivo della Chiesa, diverso da quello delle altre lettere. Ordinamento, aggiungo io, che in realtà fu quello gerarchico fin dalle origini. Nel 58 Paolo scrisse le Lettere ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini e la Seconda a Timoteo; esse suppongono l’esistenza del Tempio e sono ricche di particolari che solo l’Apostolo poteva conoscere. L’Epistola di Giacomo rispecchia invece una condizione ancestrale della Chiesa, formata solo prevalentemente da Ebrei, senza lotte e contrasti. L’Apostolo si presenta in modo talmente semplice da non lasciare dubbi sulla sua identità e sulla sua conseguente autorità. L’argomentare è simile a At 15, dove appunto parla Giacomo; inoltre Gc 2, 23 ss. ha una risposta in Rm 4, 2-6; per cui il Robinson pone la Lettera in questione al 47/48, in sintonia col frammento qumranico 7Q8. La Prima Lettera di Pietro è datata al 65, perchè il quadro politico non suppone persecuzioni in atto, anche se le avverte come una minaccia; il materiale adoperato è di tipo omiletico e sarebbe di molto più antico. L’autore è senz’altro Pietro. La Lettera di Giuda è per una comunità giudaico-cristiana in ambiente ellenistico, minacciata dal giudaismo gnosticizzante. Sono usati l’Apocalisse di Mosè e il Primo Libro di Enoc, segno di una composizione molto antica, prima che questi testi fossero rigettati dalla Sinagoga e dalla Chiesa, ossia sempre prima del 70. La Seconda Lettera di Pietro ha lo stesso bersaglio polemico; allude a Paolo come ancora vivo; affronta problematiche abbastanza antiche supposte anche nella Fonte Q com’è attestata in Mt 24, 28 e Lc 12, 45. Non vi è in essa, come nella Lettera di Giuda, alcun accenno ai problemi della Chiesa del II sec., come il chiliasmo, la gnosi, la persecuzione di Domiziano, ecc. Le due Lettere sembrano legate e anteriori alla Prima di Pietro. Sono datate quindi al 61-62 e forse hanno lo stesso autore. Le tre Lettere di Giovanni, nell’ordine di Seconda, Terza e Prima, sono legate all’ambiente giudaico-cristiano ma diffuse in Asia Minore; stigmatizzano gli gnostici e i docetisti. Sono ascrivibili all’Apostolo e al periodo tra il 60 e il 65, con richiami alle Lettere di Giuda e Seconda di Pietro. La Lettera agli Ebrei è anch’essa un’omelia poi adattata ad epistola, per i giudeo-cristiani di Roma, che suppone che il Tempio sia ancora in piedi; essa teme una persecuzione neroniana, ma questa ancora non è in atto. È quindi datata al 65.

L’Apocalisse ha riferimenti alla persecuzione neroniana e non a quella domizianea, allude all’incendio di Roma, alla morte di Pietro e Paolo e alla presenza di Galba sul trono, condanna il culto imperiale, è ostile allo Stato, stigmatizza gli errori gnostico-giudaici ma non suppone la rottura tra Chiesa e Sinagoga; è composta da due documenti, uno dell’Asia Minore (capp.1-3) e uno romano (4-22,5); suppone le Lettere di Pietro e Giuda. Perciò Robinson la data al 68 e la fa nascere a Roma, in contrasto con la tradizione e con una posizione obiettivamente insostenibile, anche perchè Giovanni soggiornò in modo coatto a Roma, come abbiamo visto, e raccolse lì le informazioni che diedero al suo Libro profetico una patina romana.

È proprio sulla tradizione giovannea che Robinson elabora le sue tesi più discusse. Per la precisione dei racconti della Passione, per la speranza della restaurazione dell’indipendenza, per la mancanza di apertura ai gentili, per l’atmosfera anteriore alla Distruzione del Tempio e priva di coloriture apocalittiche, per la cristologia arcaica, per l’omissione dei dati relativi all’origine di Gesù, per la conoscenza della topografia di Gerusalemme, per il modo di parlarne come se fosse ancora esistente, per le somiglianze con i temi e il linguaggio della letteratura qumranica e le dissomiglianze con quelli della letteratura gnostica del II sec. attestata nella Bibliotece trovata a Nag Hammadi, per la mancanza di riferimenti a persecuzioni romane, il Robinson data il Vangelo di Giovanni ad un periodo anteriore alla distruzione del Tempio. Sulla possibilità concreta di accordare tale ipotesi alla tradizione patristica, mi sono già espresso. Robinson considera il Vangelo di Giovanni originario dell’ambiente palestinese, legato al discepolato di Bethsaida. Ha rapporti con Samaria e Gerusalemme. Conosce benissimo l’ambiente galilaico. È scritto sapientemente e originariamente in greco. Lo studioso suppone una prima redazione tra il 30 e il 50, che chiama Proto-Vangelo gerosolimitano; immagina una prima edizione in Asia Minore tra il 50 e il 55; postula l’aggiunta del Prologo e del cap. XXI dopo il 65. Conclusioni, queste, a cui giungono anche altri studiosi. A mio modesto avviso, il Proto-Vangelo giovanneo, come del resto quello sinottico, non è altro che la somma dei Discorsi di Gesù, diligentemente stenografati, forse inseriti già in un contesto narrativo essenziale, quasi diaristico. Giovanni, il più giovane degli Apostoli, fu forse l’archivista del loro gruppo? Si può porre già al 50-55 una stesura del Quarto Vangelo e quella definitiva al 65 e non più tardi, a dispetto di Papia? Questo non sta a me dirlo, nè al solo Robinson. Certo, il Quarto Vangelo ha mantenuto informazioni assai antiche, le ha raccolte molto prima della Caduta di Gerusalemme, ha una priorità documentaria indiscutibile, di cui gli altri autori sacri dovettero essere a conoscenza. Per cui, anche da questa analisi minuziosa, ormai ampiamente diffusa, emerge che i Vangeli e il NT in genere sono ascrivibili al periodo delimitato dai ritovamenti papiracei e dalle testimonianze patristiche; anzi, alcune di esse vengono corrette per una datazione ancora più alta. Mentre le tendenze della critica moderna, che moltiplica le copie, gli esemplari, sono praticamente rigettate, come la convinzione che lo sviluppo teologico dei testi neotestamentari esiga molti decenni. Così come si afferma, in modo però più discutibile, il primato della tradizione scritta sull’orale e del greco sull’ebraico nella stesura dei sacri testi.

LE TESI DI CARSTEN PETER THIEDE

Su questo primato si è dilungato molto Carsten Peter Thiede. Per costui, il postulato e il presupposto ad un tempo della ridatazione contenutistica, come anche delle nuove datazioni papiracee dei Vangeli, è che la lingua originaria dei Vangeli, come del resto attestano anche i Padri della Chiesa, sia il greco. Su questo possiamo senz’altro porre punti fermi al seguito del nostro studioso.

Nella Palestina del I sec. l’ebraico, lingua del Tempio, l’aramaico, lingua quotidiana, il greco, la lingua dotta e universale, erano accessibili a tutti. Era presente anche il latino, come attesta l’iscrizione a Cesarea Marittima di Ponzio Pilato (16 a.C.-36 d.C.) per il Tibereium e lo stesso titulum Crucis di Gesù. In ragione di ciò, non meraviglia che il Vangelo di Marco usi termini latini, ebraici ed aramaici fornendone la traduzione greca, pur scrivendo a Roma, col chiaro intento di scrivere per tutto l’Impero. Nè è peregrino supporre che lo stesso Matteo aramaico sia stato scritto realmente in ebraico, come suggerisce il testo greco di Papia che abbiamo citato a suo tempo. La Galilea era una regione poliglotta. Bethsaida, città originaria degli Apostoli più importanti e che è stata sicuramente la città più importante della Cristianità in embrione dopo Gerusalemme, era sottoposta al tetrarca Filippo (4 a.C.-34 d.C.) che la ellenizzò fortemente. Tra quelli degli Apostoli, Andrea – fratello di Simon Pietro- e Filippo sono nomi greci, Simone (nome sia del Cananeo che del Principe degli Apostoli), Matteo e Bartolomeo (chiamati in ebraico Levi e Natanaele) sono onomasticamente a cavallo tra greco ed ebraico, come del resto Marco e Paolo sono i secondi nomi latini di due protagonisti di prim’ordine della Chiesa primordiale, circoncisi coi nomi di Giovanni e Saulo. Nazareth, la città dove vissero Gesù, Giuseppe e Maria, era distante solo sei chilometri da Sefforis, una cittadina ellenistica dotata di un teatro in cui cinquemila galilei potevano sedersi e assistere a rappresentazioni drammatiche ovviamente in lingua greca. Lo stesso Gesù, che probabilmente lavorò, col padre putativo, alla costruzione del teatro di Sefforis, era come minimo trilingue. Egli parlava l’aramaico, ma leggeva e parlava anche l’ebraico dei Sacri Testi (Lc 4, 16-30); spostandosi nella regione di Tiro e Sidone, con la Cananea parla in greco, come si evince dal testo originale di Mc 7, 24-30, come del resto tenne in greco il dialogo con gli Erodiani sul tributo a Cesare di Mc 12, 13-17, sia come dimostrano studi solidi sia come suggerisce indirettamente il fatto che in Palestina tra il 37 a.C. e il 67 d.C. nessuna moneta fu coniata se non con iscrizioni in lingua greca e raramente latina.

Anche il dialogo tra Maria di Magdala e Gesù nel Giardino del Golgotha avvenne in greco, perchè la donna pensava di parlare con un giardiniere, evidentemente greco perchè lavorava il primo giorno degli Azzimi, salvo poi passare subito all’aramaico quando riconosce nell’interlocutore il Maestro che chiama con questo termine ma in quella lingua, rabbunì (Gv 20, 11-18). Gesù usa spesso la parola greca hypokrites, ipocrita, che deriva dal lessico teatrale e che è molto rara, spia della sua origine galilea. A Lui è attribuita, da Paolo, una citazione dell’Agamennone di Eschilo (vv.1623-1624), in At 26, 14, però fatta in aramaico. Il verso tragico, citato anche nelle Baccanti di Euripide (795) e addirittura nel Phormio di Terenzio, ovviamente in latino (77-78), qui è l’unica volta che è pronunziato in aramaico. Paolo ovviamente lo cita in greco innanzi a Porcio Festo (†62) e a Erode Agrippa II (28-100), ma questo presenta ai due potenti il Cristianesimo, e il suo Fondatore, come accettabili a persone colte. Lo stesso Paolo sa il greco (At 21, 37), il latino, l’ebraico (At 22, 2) e l’aramaico. Cita Arato (At 17, 28), Menandro (1 Cor 15,33), Epimenide (Tito 1,12). Questo ovviamente contestualizza la datazione anteriore al 70 dei Vangeli, perchè a quella data questa società ebraica poliglotta ed ellenofila scomparve (63).

Un altro punto fermo che va messo riguarda il modo in cui il materiale scrittorio viene conservato. Lc 1,1-2 parla dei “ministri della parola, che hanno posto mano a stendere il resoconto di ciò che è accaduto tra noi”. Essi sono gli hypēretai, gli aiutanti; per Thiede, non sono tanti evangelisti precanonici, come credeva il Robinson, ma i professionisti della redazione dei testi ecclesiastici. Marco è lo hypēretas di Pietro: è chiamato così in At 13,5, ed è tale per “professione”, è l’esperto al servizio del Principe degli Apostoli, ma potrebbe servire chiunque. Se però lo hypēretas è tale perchè scrive il resoconto dei fatti accaduti, a quella data Marco aveva scritto il suo Vangelo (42). Questi esperti erano poliglotti ed erano tachygraphoi, stenografi. Sono Silvano per la 1 Pt; Terzo per Rm; per 1 Cor Sostene; per 2 Cor, Fil, Col, Filemone, 1 Timoteo e 2 Ts Silvano e Timoteo insieme. Sono fondamentali per la stesura dei testi, le cui differenze stilistiche dipendono anche da questo, pur quando l’autore è concettualmente il medesimo. Del resto, sia la stenografia che la libera redazione sono legati al VT; è attestata la prima per esempio in Sal 44 (45), 2; la seconda la si trova qua e là nella LXX, la traduzione greca della Bibbia, che per forza di cose doveva adeguarsi alla mentalità degli ellenofoni. Abbiamo anche un testo cristiano stenografato, quello su cuoio 164 delle Grotte del Wadi Murabba'at, di difficile decifrazione, ma contenente un inconfondibile monogramma detto di solito costantiniano, ma di molto più antico: una chi e una rho sovrapposte ad indicare Christòs. Ovviamente anche Marco era stenografo, di Pietro, come è logico per chi ne raccolse la predicazione evangelica; era conoscitore del greco, dell’ebraico, dell’aramaico e forse del latino, del quale mantiene i numerosi solecismi che segnano i discorsi di Pilato. Anche Matteo, in quanto esattore delle imposte, era stenografo ed ovviamente quadrilingue, per parlare in aramaico col popolo, in greco con i funzionari, in latino coi politici e in ebraico con il suo Dio. Fu il primo evangelista, verosimilmente, a stenografare i discorsi di Gesù. Questa stenografia, perfettamente logica in qualsiasi contesto di insegnamento, è peraltro fondamentale in una società in cui la memorizzazione è indispensabile. Essa è la tradizione orale, non perchè sia passata solo a voce, ma perchè manda a memoria testi destinati a questo scopo. Ancora oggi ebrei e musulmani possono mandare a memoria la Bibbia o il Corano, in ebraico, aramaico, arabo, persiano e turco. Nella Chiesa Siriaca la geryana, ossia la lettura e la memorizzazione di tutta la Bibbia, sono stati a lungo fondamentali. Nulla di strano che nel I sec. si scrivessero i Discorsi dei rabbì, Gesù compreso, e che li si memorizzasse, come si suggerisce in Mt 13; 1 Cor 11, 2; 2 Ts 2, 15. Tanto più che Gesù non lasciò nulla di scritto, a meno che non si creda all’autenticità della famosa Lettera ad Abgar V Ukama (13-50) di Edessa, di cui abbiamo due recensioni: una popolare e una greca in Eusebio, che pure sostenne di averne visti le copie d’archivio, in siriaco (64).

In ogni caso, proprio alla stenografia si deve la possibilità di conservare e unificare rapidamente i materiali che confluiscono nei Vangeli e che danno alla questione sinottica una impostazione tutta nuova. Ed è inconfutabilmente da essa che scaturisce il sistema dei nomina sacra, ossia di quelle abbreviazioni dei termini greci che si riferiscono a Dio o a qualcosa di partecipe del divino, per suggerirne la sacralità, sulla scia del Sacro Tetragramma, YHWH in ebraico, con cui era scritto, senza vocalizzarlo, il Nome stesso dell’Altissimo nell’AT: אהיה אשר אהיה’ Ehjeh ‘Asher ‘Ehjeh, ̉Εγώ ειμί ̉ο̉ ̃Ων; Ego sum Qui sum; Io Sono Colui Che Sono . Ludwig Traube (1861-1907), che coniò il termine nomina sacra per indicare i termini divini abbreviati nel NT, ne individuò quattro (Dio, Gesù Cristo, Signore e Figlio) da abbreviare con la prima e l’ultima lettera, e dieci (Spirito, Croce, Salvatore, Padre, David e Uomo in dipendenza da “Figlio di”, Madre da cui dipenda “di Gesù” almeno in modo implicito, Cieli in dipendenza da “Regno dei”, Israele e Gerusalemme) da abbreviare con le prime due più l’ultima lettera, o con la prima più le ultime due. I primi quattro, universalmente abbreviati alla stessa maniera, furono dei veri e propri Nomina Divina, come scrisse Schuyler Brown. Tale scrittura fu una sorta di forma grafica del credo embrionale della Chiesa primitiva, come lo definì Colin Roberts. Tale sistema stenografico fu elaborato in un centro autorevole della Chiesa, Gerusalemme – nè poteva essere altrove, sia per l’importanza della città che per la matrice semitica dell’espediente scrittorio – e imposto a tutti, entro il 62. Le sue più antiche attestazioni sono nel Papiro Magdalen, nel P52, nel Papiro Egerton 2. Secondo Thiede l’uso s’impose al momento della divisione tra Sinagoga e Chiesa, entro il 62 con l’assassinio di Giacomo il Minore, capo dei Giudeo-cristiani, per volontà del sommo sacerdote Anano (63) (65).

Un terzo punto da fissare è la natura del testo evangelico: Thiede rileva giustamente che esso non è mai un racconto popolare, come vuole la critica delle forme, ma una biografia stilizzata, sul tipo delle Vite dei Cesari di Svetonio, o delle Vite Parallele di Plutarco, con una composita struttura di genere letterario. Nè potrebbe essere diversamente in testi deliberatamente redatti da un solo autore, che ha indelebilmente e inconfondibilmente lasciato il marchio del suo stile e del suo pensiero. Infine, l’ultimo rilievo è sulla loro diffusione. Ogni data di composizione è malinconicamente seguita da dieci anni di silenzio, nelle tabelle dei critici tradizionali. Ciò si attribuiva sia al presunto ritardo culturale dell’area siro-palestinese, ovviamente infondata come abbiamo visto, sia alle difficoltà della comunicazione. In realtà un testo dall’Italia all’Egitto arrivava in una dozzina di giorni. Molto più velocemente di oggi. Questo pregiudizio, da abbattere anche per l’epica omerica, in cui realmente si poteva andare da Troia a Phtia in tre giorni, ha fatto sì che si credesse che chi leggeva Matteo dovesse aspettare tantissimo per fare lo stesso con Marco e Luca. Ma invece essi circolavano insieme. Come tutti i testi greci e latini ed ebraici, circolanti nel circuito delle comunità sinagogali, in quelle cristiane e grazie al mecenatismo di persone come Teofilo, ricche e potenti, a cui non a caso Luca dedicò Vangelo e Atti. Tutto questo rende ancor più evidente la datazione alta dei Vangeli, necessaria prima ancora di essere dimostrata (66).

(CONTINUA)


1. “La datazione interdisciplinare dei Vangeli. Una messa a punto della situazione”, ed. on line in Christianitas, Rivista di storia cultura e pensiero del Cristianesimo, I /1 (2013), pp. 115-226.

2. O’CALLAGHAN, Papiros neotestamentarios ne la cueva 7 de Qumran? in “Biblica” 53 (1972), pp. 91-104 (da ora in poi Papiros), trad. it. in F. DALLA VECCHIA (a cura di), Ridatare i Vangeli?, Brescia 1997, pp. 71-82 (da ora in poi DALLA VECCHIA, Ridatare); ID., Los papiros griegos de la cueva 7 de Qumràn, Madrid 1974; ID., Los primeros testimonios del Nuevo Testamento, Cordoba-Madrid 1995; l’autore ricorda gli scrupoli che precedettero la pubblicazione in alcuni interventi in S. ALBERTO (a cura di), Vangelo e storicità. Un dibattito, Milano 1995, pp. 17.18 e 81-87. Cfr. anche C.P. THIEDE , Il Papiro Magdalen. La Comunità di Qumràn e le origini del Vangelo, Casale Monferrato 1997, pp. 53.68; 171-207; 216-231 (ed. orig.: Rekindling the World: In search of Gospel Truth, Leominster, Herefordshire 1995; da ora in poi THIEDE, Il Papiro); O. MONTEVECCHI , La papirologia, Torino 1973, p. 322; ampia sintesi in A. STAGNARO, 7Q5, 2010, www.animefiammeggianti.it (d’ora in poi STAGNARO, 7Q5); S. VENTURINI, Il libro segreto di Gesù, Roma 20112, con ampia e recente bibliografia ragionata (d’ora in poi VENTURINI, Il libro); Neutrale C. FOCANT, Un fragment du second Evangile a Qumran: 7Q5=Mc 6, 52-53?, in “Revue théologique de Louvain” 16 (1985), pp. 447-454, tradotto in it. in DALLA VECCHIA, Ridatare, pp. 83-96; E. JUCCI , Qumran. A cinquant'anni dalla ricorrenza della scoperta dei manoscritti; in “Athenaeum” 86 (1998), pp. 272-286; A. NICOLOTTI, La datazione dei reperti di Qumran, 2002,  e ID., Qumran: ritrovamento e studi dei manoscritti, 2002,  http://www.christianismus.it/modules.phpname=News&new_topic=6; ID., Questioni scottanti su Qumran e sul Cristianesimo primitivo, 2002, http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=9; G. BASTIA, Identificazione dei frammenti ritrovati nella Grotta 7 di Qumran, 2006, e ID., Identificazione del frammento 7Q5, 2006, in http://digilander.libero.it/Hard_Rain (d’ora innanzi BASTIA, Identificazione frammenti e L’identificazione). Pareri opposti quelli di M. BAILLET, Les manuscrits de la Grotte 7 de Qumran et le Nouveau Testament, in “Biblica” 53 (1972), pp. 508-516, e 54 (1973), pp. 340-350, il primo tradotto in italiano in DALLA VECCHIA, Ridatare, pp. 71-82; K. ALAND, Supplementa zu den neutestamentlichen und den kirchengeschichtlichen Entwürfen, a cura di B. KOSTER e al., Berlino-New York 1990, pp. 117-141; H.U. VON ROSENBAUM, Cave 7Q5! Gegen die erneute Inanspruchnahnme des Qumran-Fragments 7Q5 als Bruchstrück der ältesten Evangelien-Handschrift, in “Biblische Zeitschrift”, 31 (1987), pp. 187-205, basato però su una cattiva fotografia; S. ENSTE, Kein Markustext in Qumran. Eine Untersuchung der These: Qumran-Fragment 7Q5 = Mk 6,52-53, Freiburg/Göttingen 2000. Nessuno dei detrattori storici dell’identificazione di 7Q5 con il Vangelo di Marco ha tuttavia fornito identificazioni alternative.

3. Sulla questione panoramica in STAGNARO, 7Q5, pp. 2.7. 17-19; cfr. VENTURINI, Il libro, pp. 30-32; BASTIA, Identificazione papiri, p. 38.

4. Cfr. STAGNARO, ibid., p. 18.

5. THIEDE, Il Papiro, pp. 100-108; 142-153.

6. C.H. ROBERTS (ed.), in M. BAILLET-J.T. MILIK- R. DE VAUX (a cura), Les “Petites Grottes” de Qumran (Discoveries in the Judean Desert III), Oxford 1962, p. 144.

7. H. HUNGER, 7Q5: Markus 6,52-53 oder? Die Meinung des Papyrologen, in B. MEYER (a cura di), Christen und Christlichen in Qumran?, Regensburg 1992, pp. 35-56.

8. THIEDE, Il Papiro, pp. 208-210.

9. A.R. MILLARD, Lettera a C. P. Thiede, Liverpool, 12 dicembre 1990; C.P. THIEDE, Qumran e i Vangeli, p. 75, Milano 1996.

10. A. DOU, El càlculo de probabilidades y la posibles identificaciones de 7Q5, accluso a J. O’CALLAGHAN, Los testimonios más antiguos del Nuevo Testamento. Papirología neotestamentaria, [Los origines del cristianismo 7] Cordoba 1995.

11. THIEDE, Testimone, pp. 62-64; contrario R.H. GUNDRY, No Nu in line 2 of 7Q5. A final Disidentification of 7Q5 with Mark 6, 52-53, in “Journal of Biblica Literature” 118 (1999), pp. 698-707.

12. A. SPARAVIGNA, Digital Restoration of Ancient Papyri, in “ArXiv e-prints”, 2009,  http://arxiv.org/abs/0903.5045

13. VENTURINI, Il libro, pp. 27-30.

14. Cfr. p. es. THIEDE, Testimone, pp. 48-68.

15. Disamina in BASTIA , Identificazione papiri, pp. 27-36.

16. Cfr. supra, ibid.

17. Disamina in ID, ibid., pp. 13-18. 19-21;

18. Breve disamina in ID., ibid., pp. 3.15.

19. Disamina in ID., ibid., pp. 4-13.

20. Per le identificazioni cristiane in gen. cfr. O’CALLAGHAN, Papiros; ID., ¿1 Tim 3,16; 4,1.3 en 7Q4?, in “Biblica” 53 (1972), pp. 362-364; ID., Tres probables papiros neotestamentarios en la cueva 7 de Qumran, in “Studia Papyrologica” 11 (1972), pp. 83-89; THIEDE, Testimone, pp. 179-181; contrario K. ALAND, Neue Testamentliche Papyri III, in “New Testament Studies” 20 (1974), pp. 357-381; PUECH E., Osservazioni sui frammenti greci del manoscritto 7Q4=1 Enoch 103-105, in DALLA VECCHIA, Ridatare, pp. 149-161; disamina generale in BASTIA, Identificazione papiri.

21. THIEDE, Il Papiro, pp. 210-215; BASTIA, ibid., pp. 38-42.

22. Cosa spiegata molto bene in STAGNARO, 7Q5, pp. 17 ss.; cfr. BASTIA, ibid., p. 37.

23. V. SPOTTORNO, Una nueva posible identificacion de 7Q5, in “Sefarad” 52 (1992), pp. 541-43; GARNET P., O’Callaghan’s Fragments: Our earliest New Testament Texts?, in “Evangelical Quarterly” 45 (1973), pp. 6-12; C. H. ROBERTS, in “Journal of Theological Studies” 23 (1972). Per le varie identificazioni, comprese altre non citate, cfr. BASTIA, L’identificazione, e STAGNARO, 7Q5, che provvede a dettagliate confutazioni delle soluzioni alternative.

24. O’Callaghan, in Papiros, aveva addirittura proposto di identificare il frammento con Atti 27,38. Ma in effetti considerare gli Atti in circolazione dal 50 è molto difficile; considerando la piccolezza del frammento e la consistenza di altre argomentazioni, si può accettare l’identificazione lucana, ma rintracciando nel Vangelo il brano in questione. Colpisce che il frammento si presta a quattro identificazioni del Vangelo di Marco, proposte da E. Muro (assieme ad altre sempre di matrice biblica ed ipotetica), il quale contempla l’ipotesi che quindi 7Q5 sia associabile ai 7Q6 1 e 2, ma la scarta per ragioni paleografiche. Cfr. BASTIA, Identificazione papiri, pp. 29-35.

25. C. P. THIEDE-M. D’ANCONA, Testimone oculare di Gesù, Milano 1996 (ed. orig.: Eyewitness to Jesus, New York 1996, da ora in poi Testimone), pp. 41-98; 131-164; ID., Il Papiro, pp. 36-48; R. ROCA PUIG, Un papiro griego del Evangelio de San Mateo, Barcellona 19622 , con una Complementary Note di C. H. ROBERTS; datazione tradizionale K. WACHTEL, P64/67: Fragmente des Matthäus Evangeliums aus dem I Jahrhundert?, in “ Zeitschrift für Papirologie und Epigraphik” 107 (1995), pp. 73-80.

26. THIEDE, Il Papiro, pp.29.32; ID.-D’ANCONA, Testimone, p.161; C.H. ROBERTS , An Unpublished Fragment of the Fourth Gospel in the John Rylands Library, Manchester 1935, per il materiale comparativo; B. NONGBRI, The use and abuse of P52: Papyrological Pitfalls in the Dating of the Fourth Gospel, in “Harvard Theological Review” 98 (2005), pp. 23-52; A. DEISSMAN, Ein Evangelienblatt aus den Tagen Hadrians, in “Deutsche Allgemeine Zeitung”, 564 (1935).

27. THIEDE, Il Papiro, pp. 74-77.

28. E.M. SCHOFIELD, The Papyrus Fragments of the Greek New Testament, Lousville 1936, pp. 86-91; THIEDE-D’ANCONA, Testimone, p. 161.

29. THIEDE, Il Papiro, p.162.

30. P. W. CONFORT, The Quest of the Original Text of the New Testament, Grand Rapids 1992, pp. 31-33, 188 (d’ora in poi CONFORT, The Quest); T.C. SKEAT , Oxyrhyncus Papyri L, Londra 1983, pp. 3-8.

31. H. HUNGER, Zur Datierung des Papyrus Bodmer II (P46), in Anzeiger der Österreichischen Akademie des Wissenschaften, in “Phil.-Hist. Klasse” 4 (1960), pp. 12-23.

32. CONFORT, The Quest, pp. 31-33.188.

33. THIEDE – D’ANCONA, Testimone, p.162.

34. YOUNG KYU-KIM, Paleographic Dating of P 46 to the Later First Century, in “Biblica” 69 (1988), pp. 248-257.

35. Citaz. in EUSEBIO DI CESAREA, Historia Ecclesiastica III, 39, 16, ed. G. BARDY, Parigi 1952 (da ora in poi EUSEBIO, Historia). Sui frammenti cfr. PAPIA DI GERAPOLI, Esposizioni degli oracoli del Signore. Frammenti, ed. di E. NORELLI, Alba 2005 (d’ora in poi Esposizioni). Era forse del Matteo Aramaico il frammento ebraico su cuoio della Grotta 7 di Qumran indicato nell’articolo di de Vaux sulla Revue Biblique 63 (1956)? Purtroppo l’articolo di cui sopra è del 1956, in tutte le pubblicazioni successive non c’è alcuna traccia di questo misterioso frammento a partire dalla editio princeps (DJD III) dei frammenti della Grotta 7, uscita nel 1962. La spiegazione ufficiale è quella di una svista iniziale. E non vi è motivo di dubitarne.

36. IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses III, 1, 1, citato in EUSEBIO, Historia, V, 8, 2.

37. K. BUCHHEIM, Der Historische Christus, in Geschichtswissenschaftliche Überlegungen zum Neuen Testament, Monaco 1974, pp. 110-146.

38. In EUSEBIO, Historia, VI, 25.

39. ID., ibid., III, 24, 6.

40. THIEDE, Il Papiro, pp. 83-90.

41. EUSEBIO, Historia, III, 39, 15.

42. ID., ibid., V, 8, 3.

43. CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Ipotiposi, VI, in EUSEBIO, Historia, VI, 14, 6-7

44. CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Adumbrationes ad 1 Pt 5,13 , in EUSEBIO, Historia, VI, 14, 7.

45. EUSEBIO, Historia, II, 15, 2.

46. THIEDE, Il Papiro, pp. 53-68; 83-86.

47. VENTURINI, Il libro, pp. 30-32, con referenze bibliografiche.

48. EUSEBIO, Historia, II, 22.

49. GIROLAMO, De viris illustribus, VII, ed. A. CERESA GASTALDO, Bologna 2008.

50. Exodos significa qui partenza e non morte come si è creduto a lungo, come dimostra E.E. ELLIS, Entstehungszeit und Herkunft des Markus -Evangeliums, in B. MEYER, Christen und Chrisliches in Qumran?, Regensburg 1992, pp. 145-147.

51. IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, III, 1,1, ed. A. ROUSSEAU-L. DOUTRELEAU, Parigi 1974.

52. IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses, II, 25,5; III, 3,4.

53. CLEMENTE DI ALESSANDRIA, Quis dives salvetur XLII, 2, ed. S. CIVES, Alba 2003.

54. Citato in EUSEBIO, Historia Ecclesiastica V, 24, 2-3.

55. IRENEO DI LIONE, Adversus Haereses , III, 1.

56. EUSEBIO, Historia Ecclesiastica, V, 20, 4.

57. ID., ibid., VI, 14, 7.

58. GIROLAMO, De viris illustribus, IX.

59. Testo edito in H. LIETZMANN, Das Muratorischen Fragment, Berlino 1932.

60. In EUSEBIO, Historia Ecclesiastica, III, 39, 3-5.

61. Ibid., 4-6.

62. Un’ampia sintesi delle argomentazioni dei due storici è contenuta R. MAISANO , La datazione degli scritti del Nuovo Testamento. Riflessioni e riconsiderazioni, in “Scritture di Storia” 5 (2008), pp. 65-97 (d’ora in poi MAISANO La datazione). Le opere degli autori prese in considerazione sono: J.A.T. ROBINSON , Honest to God, Londra 1965 (ed. it. Dio non è così, Firenze 1968); ID., But That I Can’t Believe!, Londra 1967 (ed. it.: Questo non posso crederlo, Firenze 1970); ID., Redating the New Testament, Londra 1976; ID., The Priority of John, Londra 1985; G. EDMUNDSON , The Church in Rome in the First Century, Londra 1913.

63. THIEDE, Il Papiro, pp. 171-182.

64. ID., ibid., pp. 97-100.

65. ID., ibid., pp. 100-108; ID., Testimone, pp. 165-192; L. TRAUBE, Nomina Sacra. Versuch einer Geschichte der christlichen Kürzung,Monaco 1907; S. BROWN, Concerning the Origin of the Nomina Sacra, in “Studia Papyrologica”, 9 (1970), pp. 7-19, in part. p. 19; C.H. ROBERTS, Manuscript, Society and Belief in Early Christian Egypt, Londra 1979, p. 46.

66. ID., ibid., pp. 23-41.


Theorèin - Novembre 2014