LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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SACRA QUADRIGA

Brevissima introduzione ai Quattro Vangeli
seconda parte

LA DATAZIONE E LA CONTESTUALIZZAZIONE TEOLOGICA E LETTERARIA

La datazione dei Vangeli, come quella di qualsiasi altro testo letterario, può avvenire sulla base degli argomenti trattati al loro interno, che afferiscono ad un’epoca precisa. Molti temi qualificanti del Vangelo e del Nuovo Testamento sono comprensibili appieno solo se calati nel contesto teologico letterario del Giudaismo del I secolo. Essi ci sono diventati più noti grazie a ritrovamenti importanti, dei quali il maggiore è quello della Biblioteca di Qumran. Tali temi furono vivi fino a quando rimase in piedi il Tempio, ossia fino al momento in cui il Giudaismo cessò di essere un variopinto mosaico di almeno ventiquattro scuole teologiche o “sette”, delle quali fino a mezzo secolo fa se ne conoscevano solo tre (Farisei, Sadducei, Erodiani), più il Cristianesimo e la mera esistenza degli Esseni. Questi temi erano oggetto di dibattito, e solo in ragione di ciò si capiscono certe prese di posizione, certe elaborazioni concettuali del Vangelo e del Nuovo Testamento. Erano le idee cristiane a proposito di quelle problematiche.

Se ne deducono due cose: che i Vangeli non tratterebbero certi argomenti, incomprensibili dopo il 70, se non fossero più antichi di quella data e che quelle posizioni così arcaiche e pure fondamentali per la nuova Fede ancora fino ad oggi risalgono all’epoca in cui il Cristianesimo era ancora prevalentemente ebraico, evidentemente imposte dall’unica Personalità che poteva essere normativa non solo per i battezzati dal Giudaismo, ma anche per quelli provenienti dal Paganesimo, alla cui cultura esse erano pressochè estranee, ossia quella di Gesù stesso, il Fondatore eponimo, il cui inconfondibile genio si riconosce nelle sintesi ardite con cui annette al suo pensiero e supera con formulazioni proprie tutte le principali e spesso contraddittorie asserzioni della teologia giudaica dei suoi tempi. A titolo esemplificativo, addurrò alcuni esempi (1).

PURITÀ E PECCATO

Il primo tema è quello del Peccato, a cui è strettamente connesso quello della Purità. La posizione di Gesù e dei Vangeli sul primo si capisce solo nel contesto del dibattito teologico sulla seconda. Le norme in materia, date dal Levitico, venivano infatti interpretate diversamente. Per i Farisei si trattava di una serie di proibizioni solamente formali che però andavano osservate scrupolosamente. Per i qumranici erano proibizioni che, infrante, avrebbero creato uno stato di immondezza reale, ontologica, metafisica. A questo si univa un inquietante interrogativo, ossia se tutte le colpe producessero impurità oppure no. Il Vangelo attesta che Gesù abolì le norme levitiche, mentre insistette sullo stato di peccato in cui permaneva colui che infrangeva le norme divine. Ossia postulò l’impurità reale come conseguenza delle colpe morali e non di quelle legali, che perciò non esistevano. L’insistenza dei Vangeli su questo tema attesta che essi furono scritti quando ancora ferveva il dibattito attorno ad esso (2).

SACRIFICIO ED ESPIAZIONE

Ulteriormente lo si evince dal plesso tematico espiazione e sacrificio, in cui le posizioni dei Vangeli rispecchiano la pluralità di voci sull’argomento che l’insegnamento di Gesù voleva superare. Egli rifiuta sia la pluralità di sacrifici cruenti animali del culto templare, sia quelli simbolici incruenti extratemplari dei qumranici; rigetta sia l’idea di una espiazione formale che quella di una reale tramite i sacrifici; continua a frequentare il Tempio ma ne relativizza il valore cultuale. La sua soluzione al problema dell’espiazione attraverso un sacrificio adatto è l’offerta di Sé sulla Croce, facendo della sua Persona il termine medio tra l’umanità peccatrice e Dio stesso. Il culto che ne deriva è basato su segni cruenti solo in modo mistico, le specie eucaristiche, che superano e danno compimento ai sacrifici antichi. Solo il contesto storico anteriore al 70 permette di individuare la vera sitz im leben di questa concezione. Essa dà ragione della ricerca deliberata e della profezia che Cristo stesso fece della sua Morte (3).

IL MESSIANISMO

Questo ci introduce al tema messianico (4). La complessità della figura di Gesù come Messia si capisce solo nel contesto culturale della prima metà del I secolo. Gesù è un Messia davidico nel senso pieno della parola, perchè discendente di David, dando così voce al legittimismo dinastico delle profezie di Isaia, ma non è un Messia politico, perchè interpreta il suo ruolo in senso spirituale e non nazionalistico; la conseguenza è il mantenimento del piano universalistico della missione di Israele ma il superamento di quello temporalistico, attestato invece dalla corrente degli Zeloti e dalle Odi di Salomone, anche se non necessariamente unito al legittimismo dinastico, per cui lo rintracciamo anche tra gli Erodiani (5). Gesù è un Messia Re e Sacerdote, che riunifica in sé nella duplicità di funzioni le due distinte figure attese dai qumranici, a loro volta discendenti da una tipologia profetica risalente a Ezechiele ed espresso in Zaccaria 4,12.14 (6). Ciò peraltro gli permette di superare il Sacerdozio aronitico senza abolirlo, sulla scia di una interpretazione moderata delle posizioni giudaiche antitemplari (7). Gesù è un Messia divino, che sussume in Sé le caratteristiche delle principali figure mitologiche che animavano altrettanti circoli teologici di Israele. Senza che siano mai nominate nei Vangeli, esse sono spogliate delle loro caratteristiche, che Gesù predica di Sé. Per esempio Egli è Rivelatore di Verità e Mediatore di Salvezza come Enoc e come lui discende agli Inferi; è Sacerdote e Re eterno come Melchisedec; si intitola Figlio dell’Uomo desumendo l’espressione dal Libro di Daniele e assumendo per Sé le funzioni di Giudice escatologico e la preesistenza alla natura creata; si presenta quale Servo sofferente interpretando alla lettera i Canti di Isaia, saldando così il tema messianico a quello dell’espiazione (8).

Queste posizioni teologiche curate e finemente interconnesse potevano essere elaborate solo in un contesto in cui ognuna di quelle Scuole, a cui facevano riferimento, fossero ancora vive ed operanti, per offrire ai suoi seguaci un tipo messianico adatto a tutte le sensibilità. Infine è solo in questo contesto che assume pieno significato, nella sua portata innovativa e nella sua carica provocatoria che portò Gesù volontariamente alla Morte – dando così avvio al Cristianesimo – la posizione più originale che Egli assunse, ossia quella di rivendicare per Sè la Natura divina oltre che quella Umana. Tale salto onto-teologico dell’identità messianica, peraltro non relegato in una mitologia ma rivendicato in una esistenza concreta, era possibile solo nel quadro multiforme della teologia giudaica anteriore al 70, perchè solo in essa il Messia poteva essere concepito come sovrumano- e così diveniva l’Essere più sovrumano di tutti – e solo in essa, in ragione di ciò, poteva essere anche Espiatore, perchè Innocente e Santo (9); infine solo in essa poteva maturare l’idea che il Messia, espiando, poteva cancellare uno stato di impurità reale e protologico – il Peccato originale la cui dottrina è così ampiamente enunciata nella Lettera ai Romani – che così diventava il prerequisito per la funzione universale e necessaria del Messia stesso (10).

Con questi dati arriviamo praticamente al Gesù storico e non desta meraviglia che nella Biblioteca di Qumran siano stati ritrovati frammenti della Lettera ai Romani, di quella di Giacomo, della Seconda di Pietro, dei Vangeli di Marco e Luca e altri testi, anzi dovrebbe sorprendere il contrario, visto che in essa abbiamo rintracciati testi enochici, melchisedechici, noachici e di altra natura, fino ad allora più o meno sconosciuti.

LA PARTENOGENESI

Un altro esempio che adduco è il tema della nascita miracolosa del Messia. Il VT ha nascite da sterili, e anche il Vangelo di Luca. I frammenti qumranici su Melchisedec e Noè mostrano concezioni partenogenetiche che si esprimono tramite immagini mitiche (11); i Vangeli di Matteo e Luca per Gesù descrivono una partenogenesi adombrata dietro una maternità ordinaria, in cui però l’atto generativo viene direttamente da Dio e lo stesso Nascituro ne è una Incarnazione, innalzandosi di molto sui suoi concorrenti mitologici e dando precise indicazioni storiche sui luoghi e i tempi dell’evento, oggi più facilmente decodificabili per la probabile ricostruzione dei turni sacerdotali al Tempio descritti da Luca (12). La Nascita è inserita qui in un contesto di midrash isaiano, che recupera una interpretazione letterale della profezia della ‘almah inquadrabile in un messianismo davidico contaminato di sovrumanismo. L’ambiente di formazione di un simile testo è certamente di molto anteriore alla Caduta di Gerusalemme, non avendo senso dopo di essa, in un contesto dominato dal Fariseismo e dalla volontà di rivincita nazionale, descrivere una partenogenesi messianica per nulla funzionale a quanto si attendeva dal Messia prossimo venturo.

IL CALENDARIO

Infine rilevo che le cronologie dei Sinottici e del Vangelo di Giovanni per la Settimana Santa possono trovare una conciliazione solo alla luce delle scoperte calendariali fatte a Qumran (13), dalle quali abbiamo saputo che fino al 70 molti gruppi religiosi usavano un calendario diverso da quello templare, e che tra costoro vi furono anche i Sinottici e lo stesso Gesù, mentre Giovanni adoperò quello ufficiale per mostrare la coincidenza tra la Morte del Maestro e la Pasqua ebraica ufficiale (14).

LA MULTIPERSONALITA’ DI DIO

Sempre dalla contestualizzazione dei Vangeli capiamo come nasce la concezione multipersonale di Dio al loro interno e nel NT. La Sapienza con cui Gesù si identifica è quella reinterpretata come Logos da Filone l’Ebreo, suo contemporaneo, ma non è una creatura come nel VT o nella filosofia dell’Alessandrino, ma una Ipostasi divina, come spiega Giovanni nel suo Prologo evangelico e come fa già balenare Luca nell’episodio del Ritrovamento di Gesù nel Tempio. Lo Spirito Santo non è una modalità operativa divina nè una creatura superiore come spesso nei testi qumranici, ma anch’Egli una Ipostasi reale. In poche parole i termini contemporanei – chè tali sono altrimenti non avrebbe avuto senso assumerli – sono presi e svuotati del loro significato dagli Evangelisti e la teologia ufficiale viene in essi ripensata, con una operazione concepibile solo fino a quando esisteva una così ampia serie di posizioni nel Giudaismo su queste entità, quindi fino alla Distruzione del Tempio, se non addirittura, nel caso di Filone, a poco dopo la sua morte avvenuta nel 50. Non a caso i Padri apostolici calcarono più pedissequamente il pensiero di Filone, accettando la distinzione tra Logos endiàthetos e proforikòs, che Giovanni non ha, non solo per minore spessore di pensiero, ma perchè essi esprimevano una sitz im leben culturale non più giudaica nè articolata. (15).

RESURREZIONE IMMEDIATA E MEDIATA

La contestualizzazione dei Vangeli permette di andare anche oltre la letteratura teologica codificata. Brevemente ricordo la Rivelazione di Gabriele, ritrovata nel 2000 ed editata nel 2007 da A.Yardeni e B.Elitzur, la cui famosa espressione “Dopo tre giorni vivi” attesta a mio avviso non la fede nella Resurrezione immediata dai morti del ribelle Simone, messia fallito e sconfitto in battaglia, ma un’altra cosa. Infatti, se all’Arcangelo si fosse attribuita una profezia della immediata Resurrezione del morto e questa non fosse avvenuta, che senso avrebbe avuto riportarla sulla sua stele funeraria? La Rivelazione allora allude alla Risurrezione dai Morti dopo tantissimo tempo (“tre giorni” inteso come superlativo numerico, secondo l’uso ebraico), alla fine dei tempi. Non dice peraltro “risorgi” ma “vivi”, peraltro al futuro (avendo l’ebraico solo due tempi, questo e l’imperfetto). Quando essa fu scritta, alla fine del I sec. a.C., Gesù aveva pochi anni. Da adulto, sulla scorta di una interpretazione simbolica del Libro di Giona, profetizzò una Resurrezione immediata dai Morti del Messia, dopo tre giorni reali, come dimostrazione della Sua Divinità e dell’accettazione del Suo Sacrificio sulla Croce. Ossia capovolse i termini del Messianismo espresso nella stessa stele (16).

CONTESTUALIZZAZIONE TRA VANGELI

Un ultimo cenno merita la possibilità di armonizzare i Quattro Vangeli in un solo racconto, attraverso una serie di rimandi interni. Questa possibilità, più volte realizzata nei secoli, attesta l’interdipendenza dei testi e la loro antichità, respingendo per forza di cose la narrazione di molto all’indietro, in un’epoca in cui era possibile dare un andamento unitario ad una serie di resoconti nati non isolatamente nè a grande distanza cronologica l’uno dall’altro, in un contesto in cui la loro testimonianza era vagliata con cura dai contemporanei degli eventi descritti, ed è certo storicamente di molto più probante della disarmonia incomprensibilmente esaltata da certi esegeti come attestazione di veridicità storica (17). Vi è dunque una grande testimonianza a favore dell’arcaicità dei Vangeli, raffrontando la letteratura e l’epigrafia ebraiche con i testi neotestamentari, nonostante la loro matrice greca.

DATAZIONE E SOSTRATO LINGUISTICO

E tuttavia questa matrice greca non deve necessariamente essere la sola. Perchè proprio dal sostrato linguistico ebraico, che già gli studi citati individuano, vengono nuove conferme dell’arcaicità dei Vangeli, anche se attraverso strade completamente differenti da quelle percorse fino ad ora.

Abbiamo detto che Papia parla del Vangelo di Matteo scritto, letteralmente, nella lingua ebraica, che quindi non necessariamente dev’essere l’aramaico. Questa supposizione si rafforza se pensiamo che quel Vangelo cita i versetti biblici e mira ad essere esso stesso un testo di argomento sacro, peraltro con forme letterarie tratte dalla teologia ebraica, come il Midrash. Abbiamo anche menzionato la funzione degli interpreti, come Marco, i quali per forza di cose dovevano conoscere ed adoperare anche le lingue semitiche. Ancora nel II sec, gli Acta Petri 20, 1 menzionano scritture cristiane sotto la forma di rotoli papiracei, esattamente come a Qumran, che presumibilmente potevano essere stati scritti in ebraico oltre che in greco. I maggiori studiosi che, sezionando i testi evangelici, hanno fatto riaffiorare il loro sostrato semitico, contribuendo a datarli ad un’epoca in cui fosse logico adoperare queste lingue, sono Jean Carmignac (1914-1986), Claude Tresmontant (1925-1997), Robert Lindsay (1917-1995) con la sua Jerusalem School of Synoptic Research, assertori di una stesura ebraica originale dei Vangeli; Raphael Christopher Lataster, Mariano Herranz Marco e gli altri maestri della Escuela Exegetica de Madrid che invece ritengono di risalire ad una versione aramaica primordiale usando i testi della Peshitta, che sarebbero dunque testimoni di una tradizione testuale anteriore alla greca. Non mancano coloro che ravvisano nella Vetus Syra le tracce della tradizione linguistica più arcaica, basandosi sul fatto che la recensione testuale è quella Occidentale, che per secoli è stata considerata la più antica, come ho detto, e che quindi alla luce di ciò tornerebbe ad esserlo (18).

CARMIGNAC E LE BASI DELLA QUESTIONE LINGUISTICA

Carmignac è stato duramente contestato in vita; a tutt’oggi, con un comportamento assai discutibile, le sue carte e le sue retroversioni dei Vangeli dal greco all’ebraico, sono inaccessibili al pubblico per volontà dell’Institute Catholique de Paris, al quale lo studioso le ha lasciate non certo per tenerle sotto chiave. Le tesi di Carmignac non sono certamente tutte esatte e la segretezza della sua documentazione non aiuta la discussione su di esse, ma alcuni punti fermi della sua analisi possono essere messi e acquisiti (19).

Anzitutto va rilevato che i Vangeli sono scritti in un greco non classico, corrispondente alla lingua parlata, ovviamente trasposta in forme letterarie, la koinè dialektos. È pure vero però che il linguaggio evangelico è spesso uno slang curioso tra greco ed ebraico. Carmignac, retrovertendo il Vangelo di Marco dal greco all’ebraico, ha dedotto che esso fosse stato scritto originariamente in questa lingua, perchè nella versione che conosciamo mantiene costrutti ebraici e di fatto traduce verbum de verbo. Ci sarebbero altre spiegazioni, ma non sono convincenti. Per esempio si tratterebbe di una cosciente imitazione della LXX, ma essa non è possibile in tutti i passi in questione, perchè in greco – e quindi già nella LXX - si perdono molti semitismi, giochi di parole, allitterazioni che invece riaffiorano retrovertendo il testo in ebraico: segno che essi scomparvero per l’impossibilità di essere resi in greco, ma che in origine esistevano in un testo organico. Allora si potrebbe ipotizzare che lo scrittore conoscesse poco e male il greco, ma come abbiamo visto Marco è almeno trilingue, ed in effetti in alcuni punti del suo Vangelo esso è molto corretto. Rimane dunque l’ipotesi che il testo greco sia una traduzione letterale dell’ebraico, con una versione ibrida nata dalla mescolanza della koinè con un ebraico appunto grecizzato; ciò suppone che Marco sapesse il greco, com’è ovvio, ma lo volesse usare così. Evidentemente per fedeltà alla versione originaria. Analoghe conclusioni sono tratte dall’analisi dei Vangeli di Matteo e di Luca, che almeno in molti passi sono stati tradotti o dipendevano da fonti scritte in ebraico. Ovviamente questo non vale per tutti e quattro i Vangeli interi nè per tutto il Nuovo Testamento. Però va registrato che altri studiosi, esaminando il Vangelo di Giovanni, hanno rintracciato elementi e situazioni similari, mentre gli altri libri del Nuovo Testamento non sono stati studiati in tal senso.

Carmignac ha individuato nove tipi di semitismi presenti nei Vangeli. Anzitutto parole ebraiche traslitterate in greco dall’ebraico o dall’aramaico. Di esse spesso si dà la traduzione, specie nel Vangelo di Marco. Sono spesso parole di Gesù – segno, a mio avviso, di una loro diligente conservazione – ma si trovano anche in scritti paolini e nell’Apocalisse. Possono essere frasi intere, che evidentemente Gesù pronunziò così in un contesto dove fino a quel momento aveva parlato in altra lingua o dove era necessario mantenere la versione originale. Sono presenti chiari reperti di discorsi aramaici di Gesù o parole sue tipiche in aramaico o ebraico, mai tradotte, a dimostrazione che Egli le usava sempre così, come amen o abbà. Alcune parole ebraiche poi, come Sinedrio o Messia, sono tecnicismi, adoperati anche in contesti aramaici e greci, sebbene di alcune ci fosse l’equivalente in quelle lingue (come Cristo in greco) (20).

Un secondo gruppo di semitismi sono quelli di imitazione stilistica. Dipendono dall’imitazione della LXX.

Un terzo gruppo è dato dai semitismi nella costruzione delle frasi. Anzitutto per paratassi, perchè il kaì greco rende, pallidamente e inelegantemente, il waw ebraico, atto invece alla letterarietà di una lingua che usa quasi sempre quel costrutto (21). Indi abbiamo la ridondanza dei pronomi, l’uso di perifrasi per i pronomi riflessivi, che infatti in ebraico non esistono sebbene ci siano in greco, la mancanza di distributivi, anch’essi assenti in ebraico ma non nella lingua greca. I casi citati sono spesso relativi a parole pronunciate da Gesù, delle quali evidentemente si era conservata la autentica forma (22). Colpisce anche la trasposizione greca di modi di dire ebraici, sebbene ve ne fossero di equivalenti, evidentemente per non perdere uno stile a cui si era inevitabilmente legati. Da segnalare l’onnipresenza di idou, “ecco”o “subito”, che traduce hinneh, parola ebraica che vuol dire letteralmente “immediatamente”, tipica dell’ebraico biblico, nel quale si erano composti i testi originali la cui patina si voleva conservare (23). Ricordiamo anche la costruzione ridondante che si adopera coi verba dicendi, anch’essa spia di una composizione originaria in ebraico (24).

Un quarto gruppo di semitismi è dato da parole greche usate in senso ebraico. Tipico l’uso della parola uiòs, figlio, molto arcaico e quasi sempre adoperato da Gesù, o ofhtalmòs, occhio, per indicare la generosità o l’invidia, che in greco perde ogni comprensibilità ma inesplicabilmente rimane tale e quale, pronunziata anch’essa da Gesù (25).

Abbiamo poi un quinto gruppo di semitismi sintattici e grammaticali, come l’omissione degli articoli (per esempio nel Vangelo di Giovanni la stessa espressione, Gesù Nazareno Re dei Giudei, ha l’articolo sul Titulum Crucis, scritto dai Romani, ma viene ripetuto dai sacerdoti a Pilato senza l’articolo, ossia in un costrutto che ricalca l’ebraico, anche se tradotto in greco), sia in discorsi o parabole di Gesù, sia nel Padre Nostro, sia nel Magnificat (26). Mancano spesso le corrette forme greche dei comparativi e dei superlativi, che infatti non esistono in ebraico e sono sostituiti da aggettivi positivi il cui grado è dato dal contesto; questo avviene di solito nelle parole dette da Gesù, ancora una volta conservati nella forma originale, mentre altrove gli Evangelisti usano comparativi e superlativi greci (27). Si trovano il casus pendens, sempre nei detti di Gesù (28); l’asyndeton specie nel Vangelo di Giovanni (29); la ridondanza delle preposizioni, tipicamente ebraica (30); l’uso improprio dei verbi, che da un versetto all’altro sono usati poi correttamente, cessando la necessità di essere fedeli alle fonti (31).

Un sesto gruppo è quello dei semitismi stilistici. Si rintracciano allitterazioni per memorizzare, specie nelle parabole e nei discorsi di Gesù – segno di come le Sue parole andassero a memoria – ma anche in sequenze narrative di fatti dell’Infanzia del Redentore (32).

Un settimo gruppo è costituito dai semitismi che alterano il significato delle frasi. Sono giochi di parole incomprensibili in greco, ma non in ebraico. È l’uso di kratos senza articolo nel Magnificat conformemente alla tradizione poetica ebraica trasposta in greco. Sono espressioni idiomatiche ebraiche come “fissare la faccia” per “agire con fermezza” o “non tirare su la faccia” per “non avere riguardo per nessuno”. Abbiamo di questi semitismi che cambiano il senso complessivo delle frasi nel Benedictus, nel racconto della scelta degli Apostoli, in svariati detti di Gesù, nei racconti della Sua Infanzia, nella missione del Battista. Spesso sono legati ad effetti musicali atti a facilitare la memorizzazione, come ha evidenziato la Scuola Svedese (33).

Un ottavo gruppo è dato dai semitismi connessi alla trasmissione testuale, come parole greche diverse da altre ebraiche pur ad esse simili, la cui conservazione non si può imputare ad errori di copiatura o comprensione (34).

Infine abbiamo il nono gruppo, dei semitismi di traduzione. È innanzitutto costituito dall’uso del vocabolario della LXX. In essi abbiamo sempre errori di comprensione in greco che in ebraico spariscono (35).

Il quadro cronologico dei Vangeli che Carmignac propone è il seguente: anzitutto, che intorno al 40 esistesse un Vangelo primitivo, usato per la catechesi da Pietro e quindi composto secondo i canoni retorici della predicazione e letterario a tutti gli effetti, probabilmente scritto dallo stesso Principe degli Apostoli, in ebraico; indi, che Matteo abbia scritto il suo Vangelo in ebraico prima del 45, usando una seconda fonte primordiale, scritta tra il 42 e il 45, detta Q (Quellen in tedesco vuol dire fonte), di cui probabilmente è stato l’autore e che serviva per la catechesi palestinese, integrata con altre fonti minori; poi, che Marco abbia scritto il suo Vangelo in ebraico, con qualche aggiunta al Vangelo primitivo, a Roma, sempre tra il 42 e il 45, e di certo non dopo il 50, per poi tradurlo in greco, ancora in quella città, tra il 45 e il 50, e certo non oltre il 63; indi, che Luca abbia scritto il suo Vangelo direttamente in greco sulla scorta del Vangelo primitivo, di quello di Matteo e di qualche fonte minore, anch’esse originalmente ebraiche, tra il 50 e il 53, di certo non oltre il biennio 58-60; infine, che il Vangelo di Matteo sia stato tradotto in greco, anche sulla scorta del Vangelo di Luca, evidentemente dopo la stesura di quest’ultimo. Questa ricostruzione fa il paio con il modello sinottico oggi in voga, che fa di Marco l’autore del Primo Vangelo, ovviamente in greco, e di questo la fonte, assieme alla Q, degli altri tre.

Il quadro cronologico corrisponde anche alla datazione papirologica. Per cui Carmignac fornisce un ulteriore riscontro alla retrodatazione dei Vangeli.

LA JERUSALEM SCHOOL OF SYNOPTIC RESEARCH E LA STABILIZZAZIONE DEL PARADIGMA DI RICERCA LINGUISTICA

Sulla medesima lunghezza d’onda di Carmignac si è trovato Claude Tresmontant (36). Ma la ripresa più significativa delle posizioni dello studioso francese è stata fatta da Lindsay, che nel 1970 ha retroverso il Vangelo di Marco in ebraico, ha rintracciato semitismi in tutti i Vangeli e ha indicato in quello di Luca il più semitizzante di tutti, concludendo anche lui che i Vangeli sono stati scritti originariamente in ebraico, e non in aramaico, per poi essere tradotti fedelmente come la LXX (37). Sono di pareri analoghi gli altri maestri della Jerusalem School of Synoptic Research: David Flusser (1917-2000) (38), Shamuel Safrai (1919-1983) (39), Chana Safrai (1946-2008), Dwight Pryor (1945-2011) (40), molti dei quali sono ebrei e quindi completamente estranei a suggestioni teologico-polemiche di qualsiasi matrice (41). La Jerusalem School documenta che Gesù era parte integrante delle componenti socio-culturali del periodo in cui viveva e che usava i metodi specifici d’insegnamento dell’epoca; il Suo magistero fu rivoluzionario in molte cose, specialmente nel Duplice precetto della Carità e nell’impostazione più radicale dell’esigenza etica. In merito alla questione linguistica, la Jerusalem School ha tre assunti: anzitutto che l’ebraico era un linguaggio vivo nel I sec. in Israele e non solamente dotto. Esso infatti era usato di solito nelle opere di contenuto religioso come attestano il Siracide, il Primo Libro dei Maccabei, i Rotoli del Mar Morto e i testi ebraici dei saggi detti Tannaim (10-220); era peraltro comune anche nelle transazioni economiche. Inoltre, tutti i maestri del periodo insegnarono in ebraico. Gesù perciò non solo non fece, ma non poteva fare eccezione.

Il secondo assunto è che i Vangeli sinottici devono essere interpretati nel contesto del Giudaismo del I sec. e che aiutano a comprenderlo. Sebbene siano stati scritti prima delle grandi raccolte della letteratura rabbinica, le fonti di queste ultime aiutano a capirli più profondamente. Similmente, i Vangeli attestano e aiutano a capire numerose pratiche e credenze dell’Antico Giudaismo (42).

Il terzo assunto è che l’analisi dei dati culturali e linguistici all’interno dei Sinottici permette di conoscere le relazioni letterarie che li legano tra loro e con testi extrabiblici. I Vangeli sinottici forniscono indicazioni linguistiche, letterarie, culturali, sociali e persino geografiche sulla loro formazione e sul loro sviluppo strutturato. Gli Evangelisti scrissero senz’altro in greco, ma gli idiomi semitici sono evidentemente rintracciabili in tutti e tre i Sinottici. Perciò il sostrato linguistico greco-semitico e gli elementi culturali giudaici vanno identificati, tracciati attentamente e poi incorporati nella tesi delle relazioni sinottiche. Queste relazioni sono importanti per leggere ciascuno dei Vangeli in questione.

È evidente che gli assunti della Jerusalem School sono utilissimi per riprendere e attualizzare le tesi di Carmignac e di altri che la pensarono come lui. Pryor sostiene esplicitamente che Gesù parlava e insegnava in ebraico, piuttosto che in aramaico – che pur conosceva e usava - perchè all’epoca quella lingua era largamente usata per spirito patriottico, come del resto attestano sia i testi citati in precedenza, sia le epigrafi e le altre opere letterarie dell’epoca, sia vari luoghi evangelici, come ad esempio Lc 4,16, dove Gesù usa la Bibbia ebraica e non quella aramaica. I Vangeli hanno inoltre conservato centinaia di ebraismi, molti in più dei pur presenti aramaismi; spesso i semitismi greci potrebbero essere retroversi sia in ebraico che in aramaico, ma la maggior parte di essi solo in ebraico acquista senso. Sono peraltro possibili retroversioni perfette dei Sinottici dal greco all’ebraico. Ne si evince che Gesù viveva in un contesto almeno trilingue, come pure avevamo detto, e vi si muoveva con scioltezza.

Una vera e propria pietra di scandalo di questo studio linguistico-culturale sui Sinottici è Jesus’ Last Week: Jerusalem Studies in the Synoptic Gospels, con saggi di D.Flusser, S.Safrai, R.Buth, B.Kvasnica, S.Ruzer, B.Young, C.Safrai, D.Bivin e H.Eshel (43). In esso sono enunciati concetti assai significativi e controversi, oltre a quelli degli assunti. Per esempio si mette in evidenza che Gesù partecipo’ attivamente al dibattito culturale dell’ultima fase della periodo del Secondo Tempio; si abbandona l’approccio della critica delle forme per lo studio dei Sinottici e delle fantomatiche comunità che li avrebbero prodotti; si sostiene che i Vangeli documentano sia fasi più antiche delle usanze ebraiche attestate dalla letteratura rabbinica dopo la Distruzione del Tempio sia la polemica che accompagnava la scelta tra coppie dicotomiche di esse (come il sacrificio e l’amore del prossimo). Particolarmente rilevante la tesi della priorità del Vangelo di Luca, fededegno anche quando riporta notizie ignote agli altri e legatissimo a fonti scopertamente semitiche, mentre si nega che il Vangelo di Marco possa essere comprensibile, nella sua struttura, se lo si considera il primo. Naturalmente non tutto di questi studi convince o è saldamente documentato, ma in ogni caso anch’essi, sebbene non diano cronologie della composizione dei Vangeli, la respingono all’indietro della fatidica data del 70, e li legano con maggior forza all’ambiente intellettuale giudaico, dando più consistenza al contesto fino ad ora evanescente in cui si collocavano le loro radici ebraiche (44).

A mio parere, sia la collocazione in tal contesto che la contestazione del primato marciano sono esatte. L’una giustifica la nascita dei Vangeli stessi in tempi rapidi, in quanto essi non devono sviluppare una teologia ex novo, come si sosteneva fino ad oggi in molti ambienti, ma calano le proprie soluzioni in una già esistente, di cui quindi mantengono le problematiche pur mutandone radicalmente l’impostazione e le soluzioni. L’altra mostra come non sia possibile avere, all’inizio della serie dei Sinottici, un Vangelo acefalo e breve come il Secondo, piuttosto che uno completo come quello di Luca o Matteo, sebbene personalmente io creda alla priorità di quest’ultimo. La Jerusalem School è in questo radicale e dà man forte a Carmignac, anche se con esiti diversi. Di grande importanza è la rivalutazione storica delle fonti autonome di Luca, che dà spessore storico a questo Vangelo spesso sotto attacco per le sue narrazioni originali o per i Racconti dell’Infanzia. Incondivisibile invece a mio avviso l’idea che il Terzo Vangelo sia invece il Primo (45).

Questa tesi di Lindsay si basa sul presupposto che Marco abbia attinto da Luca e che Matteo abbia usato Marco, perchè non conosceva Luca. Tesi, questa, insostenibile per l’ampio movimento di persone e documenti nella comunità cristiana primitiva. Lindsay sostiene altresì che sono esistiti due documenti, a cui Luca attinse: una biografia ebraica di Gesù e una sua traduzione greca, ossia un Proto-Vangelo di Marco o Ur-Markus, traduzione altamente fedele della fonte ebraica su Gesù, che egli chiama Proto-Narrativo, ma più ordinata del suo ipotetico originale. A questo Proto-Narrativo il Vangelo di Luca sarebbe appunto più fedele di quello di Marco, che quindi sarebbe ignoto a Luca stesso e quindi posteriore al suo scritto. Marco avrebbe poi attinto dal Proto-Narrativo e da Luca, conservando meno semitismi. Matteo avrebbe infine usato il Proto-Narrativo e Marco, col suo retaggio lucano. Ma dei due testi base di questa teoria non vi è traccia alcuna da nessuna parte – come del resto di tutti gli altri documenti fantasma ipotizzati per risolvere la Questione sinottica e non ammettere il lavoro di prima mano degli Evangelisti. Un altro documento greco derivante dal Vangelo ebraico sarebbe la famosa Fonte Q -anch’essa mai rinvenuta – che pure sarebbe stata usata dal solo Luca. Queste tesi sono condivise anche da David Flusser, ma contraddicono sia le testimonianze patristiche (che conoscono solo un Vangelo ebraico, quello di Matteo, e nessun Vangelo ebraico primordiale del quale non si capirebbe perchè si dovesse perdere memoria) sia i ritrovamenti papiracei (che danno Marco e Luca nel 50 a Qumran, ma con un margine di certezza molto più netto per il primo). Malcom Lowe invece sostiene, a mio avviso con maggior cognizione di causa, il primato di Matteo (46).

In ogni caso, la Jerusalem School ha il grande merito di aver stabilizzato il paradigma scientifico dell’origine semitica dei Vangeli: anche se non è mai esistito un Vangelo ebraico che aveva una diffusione simile e un uso analogo a quelli dei Canonici, di certo la biografia di Gesù, intesa come raccolta di materiale fatta letterariamente, esisteva prima di ogni sinottico (47); essa a mio avviso serviva per la catechesi e la predicazione. Aveva struttura letteraria non tanto per la cura dell’autore, ma perchè raccolta dei Discorsi originali di Gesù stesso, che Lui in persona recitava secondo i canoni della retorica ebraica. Questo materiale, immediatamente raccolto in una cornice letteraria, evidentemente non appena la dilatazione dell’azione missionaria esigette che la Chiesa si servisse di testi consultabili anche in assenza degli Apostoli predicatori, fu usato per scrivere i Vangeli canonici, ovviamente in greco. Una ovvietà ancora più forte se immaginiamo che il Vangelo ebraico primordiale sia lo stesso Vangelo di Matteo.

LA ESCUELA EXEGETICA DE MADRID E IL FONDAMENTO ARAMAICO

La Escuela Exegetica de Madrid è attualmente l’avamposto sul fronte dell’esplorazione del sostrato linguistico dei Vangeli. Essa s’incentra, a differenza della Jerusalem School of Synoptic Research, sulla ricerca delle matrici aramaiche, ma con un modello epistemologico flessibile che tesaurizza le acquisizioni più solide di Carmignac e della stessa Jerusalem School. Fondata da Mariano Herranz Marco (1953-2008), attualmente annovera tra i suoi maestri Josè Miguel Garcia Perez e Juliàn Carròn. I suoi studi, già in tredici volumi ad oggi, sono raccolti negli Studia Semitica Novi Testamenti (48).

Secondo questi studiosi, la lingua originaria dei Vangeli è stata essenzialmente l’aramaico, anche se non la sola. Essi rintracciano questa matrice lavorando soprattutto sulla Peshitta, la cui lezione considerano più vicina a quella originaria. Accettando il presupposto che la recensione lucianea sia la più antica, questi esegeti affermano che l’uso originario dell’aramaico permette di venire a capo della maggior parte delle ambiguità e delle contraddizioni dei testi poi tradotti in greco. Per esempio traduce Lc 2,2: "questo primo censimento fu anteriore a quello fatto quando era governatore della Siria Quirino", piuttosto che "fu fatto quando era governatore della Siria Quirino", pretendendo così di identificare la data di nascita di Gesù tra l’8 e il 6 a.C., in accordo con Matteo che la pone sotto Erode, morto il 4 a.C. Intende la famosa espressione "fratelli e sorelle di Gesù" come un aramaismo che indica i suoi più stretti collaboratori e non dei congiunti carnali. Smentisce l’esistenza del segreto messianico, perchè traduce la formula di Gesù, che di solito segue i miracoli nel Vangelo di Marco e che recita: "ordinò loro di non dirlo a nessuno" (letteralmente: "di non dirlo a nessun figlio d’uomo", se supponiamo l’aramaismo), in questa maniera: "ordinò loro di non ringraziare il Figlio dell’Uomo", sciogliendo l’apparente contraddizione della disubbidienza dei miracolati. Intende le otonìa, o bende, della sepoltura di Gesù nel Vangelo di Giovanni come un maldestro calco della parola aramaica che indica un doppio lenzuolo, che copre la salma avanti e dietro, in sintonia della syndon dei Sinottici. La più significativa delle acquisizioni di questa esegesi è l’armonizzazione dei Racconti della Resurrezione: Maria di Magdala e Maria di Giacomo vanno con Salome al Sepolcro e trovano la pietra rotolata, quando è ancora buio (Mt 28, 1-4; Mc 16, 1-4; Gv 20,1); Maria di Magdala va poi da Pietro e Giovanni (Gv 20, 2-10; Lc 24,12); un secondo gruppo di donne vanno all’alba al Sepolcro e l’Angelo annunzia loro la Resurrezione (Mt 28, 5-7; Mc 16, 5-7; Lc 24, 1-8); queste poi vanno dagli Undici Apostoli a raccontarlo ma non sono credute (Mt 28, 8; Mc 16, 8; Lc 24, 9-11. 21-23); ad esse tuttavia, subito dopo questo colloquio, appare Gesù (Mt 28,9-10), che poi compare anche alla Maddalena ritornata al Sepolcro (Gv 20,11-18); infine il Risorto si mostra ai Due di Emmaus, a Pietro e agli Undici Apostoli la sera di Pasqua (Lc 24,13-42; Gv 20, 19-23). Queste scoperte non sono, ovviamente, prive di problematicità – io stesso propongo un’armonizzazione dei Racconti della Resurrezione abbastanza differente- e alcune sono state già ipotizzate in passato; di esse almeno un paio sembrano improponibili. Tuttavia la Scuola Madrilena ha il merito di affrontare il tema delle discordanze tra i Vangeli, il lato oscuro della Questione Sinottica, e di tentare di risolverlo su base filologico-linguistica. Ovviamente la stesura aramaica dei Vangeli esige che essi siano tutti anteriori al 70, non avendo senso una composizione in quella lingua all’indomani della Caduta di Gerusalemme, quando la Chiesa era ormai separata dal mondo giudaico.

Per la datazione, la Escuela si rifà a quelle critiche al Discorso escatologico formulate anche da Robinson per dimostrare che esso non giustifica nessuna postdatazione di alcun Vangelo; pone l’accento sulla importanza delle indicazioni cronologiche patristiche che anche noi abbiamo citato in precedenza; ma soprattutto usa 2 Cor 3, 6.14 e 8, 18-19 per collocare cronologicamente il Vangelo di Luca. Per il primo passo, gli esegeti madrileni deducono che, specularmente ad un Antico Testamento scritto, i cristiani possedessero di già un Nuovo Testamento redatto, considerato già sacro. Per il secondo, affermano che esisteva un Vangelo – parte evidentemente di quel Nuovo Testamento scritto citato – di cui ogni comunità paolina si serviva per la Celebrazione eucaristica. Di questo Vangelo si dice che è stato scritto da Luca, sempre nel secondo passo citato. Siccome la Seconda Lettera ai Corinzi è datata dai Madrileni tra il 54 e il 57, essi deducono che il Vangelo lucano sia almeno del 50. Ciò, peraltro, coincide coi ritrovamenti papiracei di Qumran. Chiaramente, se Luca, terzo evangelista, scrisse nel 50, Matteo e Marco sono antecedenti. La Escuela evidenzia che il Terzo Vangelo adoperò delle fonti ebraiche per il Vangelo dell’Infanzia e tre fonti aramaiche per il ministero pubblico, la Passione, Morte e Resurrezione di Cristo. Tali fonti per forza di cose si collocano tra il 30 e il 40. Un analogo ragionamento spinge la Escuela, che crede nella priorità aramaica del Vangelo di Matteo, a porne la composizione a prima del 45. Infine, per il Vangelo di Giovanni, gli esegeti madrileni evidenziano l’uso di frasi semitizzanti, la mancanza delle particelle di unione tipiche del costrutto greco pur nella composizione in lingua ellenica, i molti ebraismi e aramaismi, nonchè la conoscenza di dati fondamentali e unici; per cui deducono l’origine palestinese del libro.

La cronologia che ne deriva è dunque la seguente: nel 30, la Morte e la Resurrezione di Cristo; tra il 30 e il 40 il Vangelo aramaico di Marco, la Fonte Q e altri documenti primordiali in lingue semitiche; tra il 40 e il 50 il Vangelo greco di Marco e la traduzione greca di altri documenti semitici; prima del 45 il Vangelo aramaico di Matteo; poco dopo il 50 la sua versione greca e il Vangelo di Luca, scritto direttamente in quella lingua (in conformità al 7Q62 ); dopo di essi il Vangelo aramaico di Giovanni e la sua traduzione in greco che, infine, cade nel 60 (in linea con la testimonianza del Frammento Muratoriano).

RIFLESSIONI PER UNA TEORIA OLISTICA

Sebbene i vari approcci che abbiamo utilizzato per ridatare i Vangeli e il NT in genere siano molto differenti, i loro risultati sono sorprendentemente simili. Edmundson, Robinson e Thiede fanno una sorta di cordata le cui acquisizioni sono ulteriormente corroborate sia dalla ripresa circostanziata delle testimonianze patristiche sia dalle datazioni paleografiche, delle quali le più importanti che abbiamo citato sono state fatte o confermate dallo stesso Thiede. Il panorama teologico-letterario della prima metà del I secolo fornisce il quadro di riferimento della formazione dei Vangeli. Gli studi linguistici sul sostrato semitico di Carmignac, Lindsay, Herranz Marco e i loro discepoli sono anch’essi sostanzialmente convergenti sulle date fissate dalla “cordata”, anche se i loro presupposti sono spesso completamente differenti; singolare appare poi la coincidenza tra costoro e il Robinson per la retrodatazione del Vangelo di Giovanni; importante l’individuazione, da parte degli uni e dell’altro, di diversi stadi redazionali dei Vangeli, susseguitisi rapidamente, le cui tracce sono introvabili nei codici greci perchè la loro lingua fu semitica. Peraltro gli studi sul sostrato semitico implicano una datazione ancora più antica dei Vangeli e permette una ricostruzione più plausibile, di quella in voga, della preistoria dei sacri testi. Rimane tuttavia da fissare qualche paletto per la formazione di questi testi, per cercare di armonizzare le acquisizioni di studiosi così diversi. È quanto farò nelle pagine seguenti.

LA COINCIDENTIA OPPOSITORUM NEGLI STUDI LINGUISTICI SUI VANGELI

A mio avviso, Gesù parlava correntemente aramaico, ebraico e greco – forse anche latino – e discorreva in tali lingue a seconda delle circostanze e dell’uditorio. La retroversione dei suoi loghìa mostra di volta in volta in quale delle lingue in questione sia grammaticalmente più probabile che abbia parlato. È presumibile che rivolgendosi all’aristocrazia templare – quelli che il Vangelo di Giovanni chiama “i Giudei”- o insegnando solennemente alle folle o nel Tempio, Gesù usasse l’ebraico, la lingua dei rabbì, imitandone le tecniche d’insegnamento; trovandosi in contesti ellenizzati - come la Galilea, la Regione di Tiro e Sidone, in certi ambienti della trilingue Gerusalemme, al cospetto di Ponzio Pilato – è legittimo immaginare che si esprimesse in greco (se non in latino con i Romani); rivolgendosi al popolo in occasioni informali, è logico che parlasse aramaico. I suoi discorsi, le sue parabole, i suoi colloqui, le sue dispute furono fissati per iscritto con tecniche tachigrafiche, da Matteo o da Giovanni, per poi essere mandati a memoria. Pronunziate secondo le regole della retorica giudaica, queste parole di Gesù erano letterarie, sia pure senza l’ausilio della scrittura, come dimostrano le figure di parole e di pensiero, nonchè gli artifici fonetici, che emergono più ricche rispetto al greco dalle retroversioni in lingue semitiche. Non è altresì da escludere che le res gestae di Gesù siano state registrate dai suoi Apostoli, magari gli stessi tachigrafi, mentre Egli le compiva. Tale cronaca simultanea agli eventi si dovette a due motivi: la straordinarietà dei segni compiuti dal Maestro – senza i quali la sua popolarità non si capirebbe e legati alla sua taumaturgia, della cui storicità non è il caso di dubitare, dato che i fenomeni parapsicologici e i miracoli avvengono ancora oggi – e l’insegnamento che Gesù stesso diede su di se', affermando di essere la Verità in Persona, per cui qualunque cosa Egli facesse, e non solo dicesse, era fonte di insegnamento e andava perciò tramandata.

Morto e Risorto Gesù, gli insegnamenti e gli eventi della sua vita, così scritti, divennero lo strumento, il sussidio dell’evangelizzazione, sia da parte dei XII, che dei Diaconi, che degli Evangelisti, intesi come proclamatori della Parola. Probabilmente ci furono tre documenti o gruppi di documenti, che furono poi le fonti dei Vangeli canonici: una cronaca del ministero di Gesù – comprendente discorsi, parabole, colloqui e sequenze narrative - originariamente scritta in ebraico come tutti i testi rabbinici e di argomento messianico; un Vangelo dell’Infanzia, anch’esso in ebraico per parallelismo coi testi narranti le origini miracolose di altri personaggi sovrumani della letteratura giudaica del I sec. e basato sulle testimonianze della Madre e dei parenti di Gesù; un Vangelo della Passione, Morte e Resurrezione, che in prima stesura fu scritto in aramaico, forse per una sua più ampia divulgazione, data la centralità degli eventi (il kerýgma). Questi documenti furono forse tradotti anche in altre lingue diverse da quelle in cui erano stati originariamente scritti, ma sempre come sussidio catechistico, mai come opera destinata alla divulgazione indipendente. Essi poi, senza cessare di esistere come entità separate, confluirono in un solo Vangelo primordiale, quello ebraico di Lindsay, destinato sempre allo stesso scopo sussidiario, ma comprendente tutte o quasi le notizie poi confluite nei Vangeli canonici. Era senz’altro un mezzo assai efficace e utile di predicazione, atto a diffondersi in tutte le comunità della Diaspora per mano dei missionari. Forse fu scritto da Matteo, il tachigrafo più anziano (se lo retrodatiamo al 30-35), o forse da Marco, il decano degli hyperetes di Pietro, il capo della Chiesa (se lo posponiamo a tale data). Questo Vangelo fu poi tradotto in greco, per l’evangelizzazione dei popoli che parlavano quella lingua – compresi certi gruppi giudei che non conoscevano più, fuori della Palestina, la lingua madre – e nacque così quello che Lindsay chiama il Proto-Narrativo. Ciò dovette accadere molto presto, perchè gruppi cristiani nel mondo della Diaspora ci sono prima ancora dell’evangelizzazione di Paolo, quindi nella quarta decade del I sec. Questa traduzione greca potè avvenire per mano di Marco, sempre per mandato di Pietro, Principe degli Apostoli. A maggior ragione potè essere tradotto in aramaico, per ragioni simili, in un momento simultaneo alla stessa stesura ebraica. È probabile che le traduzioni aramaica e greca avvenissero pressochè nello stesso tempo.

Poi avvenne la dispersione degli Apostoli, a partire dalla persecuzione del 42 di Erode Agrippa. In ragione di ciò, ognuno dei XII cominciò a sviluppare una predicazione propria, e alcuni sentirono ben presto il bisogno di lasciare, alle comunità che andavano fondando, dei testi atti alla lettura e alla diffusione autonoma dalla predicazione vera e propria. Matteo fu il primo ad avvertire questa esigenza. Mise la sua predicazione per iscritto in ebraico; il suo Vangelo, senza soppiantare quello primordiale e il Proto-Narrativo per gli scopi loro propri, si diffuse tra tutte le comunità della Palestina e della Diaspora, ovunque gli Ebrei sapessero la lingua dei Padri. Conobbe molte traduzioni, dall’aramaico al greco. Era una biografia di Cristo a tema, simile a quelle in voga nella letteratura profana greco-romana ma costruita a modo di midrash.

Simultaneamente iniziò la gestazione del Vangelo di Marco. Egli scrisse in ebraico la predicazione di Pietro come sussidio pastorale, forse prima ancora che il Principe degli Apostoli giungesse a Roma, quando magari era ancora in Palestina. Tale sussidio potè conoscere una versione aramaica, specie in ragione del soggiorno antiochieno di Pietro. A Roma esso fu la base del Vangelo vero e proprio, scritto in greco. La stesura definitiva dovette tener conto del Vangelo di Matteo, nella forma ebraica ed aramaica. Questi infatti aveva ripreso molti argomenti del Vangelo primitivo ed era già letto in tutte le Chiese. Marco, quasi a complemento in una sorta di variatio in imitando, ne sceglie di altri, sulla scorta della predicazione di Pietro, sapendo che anche il suo Vangelo sarebbe stato letto e studiato in tutte le Chiese e che quindi doveva fornire un quadro teologico-narrativo differente. La brevità del Vangelo di Marco si giustifica per l’esistenza precedente di una biografia più completa di Gesù destinata alla lettura autonoma, appunto il Vangelo di Matteo. Tuttavia la traduzione ufficiale del Vangelo di Matteo in greco, opera forse dello stesso Evangelista, avvenne sulla scorta del testo di Marco, per cui contenutisticamente il Secondo Vangelo dipende dal Primo, mentre linguisticamente il Primo dipende dal Secondo. Come dicevamo la stesura definitiva del Vangelo di Marco cade nel 48, e la traduzione di Matteo dev’essere avvenuta o immediatamente prima o subito dopo. Appare più probabile però che sia avvenuta prima, tra la versione greca originale e quella definitiva di Marco, intorno al 45. Perciò la priorita’ aramaica di Matteo – da intendersi come priorità semitica- esiste nell’ambito dei Vangeli canonici in genere, mentre nel quadro delle loro versioni greche la priorità è di Marco.

Il Vangelo di Luca nacque evidentemente come sussidio della predicazione paolina, riprendendo la predicazione dell’Apostolo delle Genti. Luca era siriano, per cui conosceva l’aramaico, lingua in cui compose il testo originario del suo Vangelo, quando ancora serviva solo all’evangelizzazione. Non è da escludere persino una redazione ebraica del suo Vangelo, specie quando fungeva ancora da strumento di predicazione nella composita e dotta attività di Paolo, specie nell’ambito delle alte scuole teologiche ebraiche: Luca, non ebreo, evidentemente imparò l’ebraico – o forse già lo conosceva. Sulla scorta della predicazione paolina, usò le fonti più antiche, quelle confluite nel Vangelo primitivo, con l’acribia tipica dei convertiti. Quando però volle scrivere il Vangelo per la pubblicazione, lo compose in greco, che conosceva benissimo, come probabilmente anche il latino. Perciò, a causa di queste fonti così vetuste e di tale sostrato linguistico, il suo Vangelo può sembrare il più antico, ma non lo è, e la sua priorità riguarda senz’altro e soltanto l’ampiezza di informazioni su aspetti della vita di Gesù – come l’Infanzia o una parte della Passione, Morte e Resurrezione - che altri fino a quel momento non avevano messo in evidenza. Anche lui era consapevole che il suo Vangelo sarebbe stato letto in tutte le Chiese e perciò scelse argomenti che integrassero i due Vangeli precedenti, di cui è ovvio che avesse conoscenza, anche se i loro influssi a volte sono poco visibili. Il Vangelo di Luca è una biografia completa di Gesù, che suppone la conoscenza delle altre due, redatta secondo un duplice criterio: la conservazione della mentalità religiosa giudaica e l’adattamento ad un progetto editoriale ellenistico. Questo progetto implica a sua volta alcuni elementi. Innanzitutto un uso sapiente della lingua greca, piegata ai semitismi per fedeltà alle fonti, usata sulla scorta della LXX per le parti più arcaiche e capace di imitare lo stile tucidideo e in genere della storiografia ellenistica nelle sezioni più recenti, con un occhio alla storiografia biblica greca dei Libri dei Maccabei. Indi la concezione di un piano di più libri, di cui si sono realizzati solo due: il Vangelo stesso e gli Atti degli Apostoli, incompleti. La pubblicazione del Vangelo avvenne intorno al 50.

Gli Atti, che pure completano molte informazioni su Gesù, furono editi entro il 62. Il tenore delle fonti e il linguaggio della prima parte, quella dominata da Pietro, ci fanno intendere, anche se retroversioni su di esso non sono state fatte, che anche questo libro fu composto sulla scorta di fonti antiche semitiche. Sono, a parte quelle ancora su Gesù – che descrivono la sua Ascensione e arrivano fino alla Pentecoste - quelle su Pietro, i cui discorsi e le cui gesta, in quanto capo della Chiesa, vennero anch’essi diligentemente conservati, assieme ad altri documenti relativi alle persecuzioni subite e alla diffusione della Fede, forse in più lingue, di certo in aramaico ed ebraico. Potrebbe essere esistita una fonte autonoma e unitaria che narrava di Pietro e della Chiesa palestinese fino al 42, anno al quale si ferma la cronaca lucana sul Principe degli Apostoli. Di altro tenore la cronaca su Paolo, in gran parte scritta da Luca stesso, contenente discorsi soprattutto in greco, orientata alla descrizione di un mondo essenzialmente pagano; se non mancano importanti semitismi, specie nella descrizione della Conversione dell’Apostolo e nei resoconti dei fatti più antichi della sua carriera apostolica, il quadro narrativo è di molto più ellenizzante.

Il Vangelo di Giovanni è senz’altro quello più misterioso. L’Apostolo prediletto deve aver conservato gli insegnamenti più intimi di Gesù, che forse lui stesso raccolse mentre venivano pronunziati, come anche i dettagli più significativi di fatti di cui fu testimone. Anch’essi confluirono nel Vangelo ebraico, ma non furono utilizzati quasi per niente da Matteo e Marco nei loro documenti scritti, e poco da Luca. Le ragioni, che non escludono un uso orale degli Apostoli di questi testi, ci sfuggono. Forse risiedono nel carattere più profondo dei loro insegnamenti, la cui conoscenza era da rimandare ad una più profonda intellezione del mistero cristiano. I discorsi di Gesù in Giovanni hanno infatti uno stile diverso, come se fossero stati pronunziati per fedeli già iniziati o in circostanze teologiche molto forti (come i colloqui con Nicodemo o la Samaritana o nella Sinagoga di Cafarnao). Lo stile è inconfondibilmente autentico, anche se molto più complesso di quello dei discorsi dei Sinottici; Giovanni stesso tenterà di imitarlo per tutta la vita, ma con minor effetto. In questo senso si può parlare anche di una priorità di Giovanni, perchè il materiale che lo concerne è indispensabile per approfondire e contestualizzare l’immagine e l’insegnamento di Gesù confluito nei Sinottici. È la predicazione dell’Evangelista che lo custodisce e lo codifica in un sussidio autonomo, sin da quando egli ancora è in Palestina, nel Vangelo gerosolimitano supposto dal Robinson. Esso sembra essere stato composto in aramaico, ma la fase redazionale in questa lingua potrebbe essere stata simultanea di una scrittura ebraica, atta all’alta predicazione di quei contenuti così importanti. Essi infatti usano temi e concetti della grande teologia giudaica, compresa quella attestata nella biblioteca qumranica, che era tutta scritta in ebraico. Quando Giovanni lasciò la Palestina, già dal 42 per sfuggire ad Erode, con Maria, la Madre di Gesù, e poi definitivamente dal 50, deve aver iniziato ad usare per la sua attività soprattutto la versione aramaica e a preparare quella greca. Infine, entro il 60-66, scrisse il Vangelo come opera letteraria autonoma, per integrare i Sinottici e approfondire il mistero di Cristo, sapendo che il suo testo si sarebbe universalmente diffuso. Questo Vangelo potè avere diverse redazioni, sino a quella ultima in cui Papia stesso collaborò col suo anziano maestro; a queste redazioni successive si può addebitare l’aggiunta del capitolo 21. Ma a mio avviso sin dall’inizio vi era il Prologo, in quanto il tema sapienziale che lo sottende era desunto dal Vecchio Testamento, era assai in voga per il magistero di Filone di Alessandria e faceva capolino anche nel Vangelo di Luca, per esempio nell’episodio del Ritrovamento nel Tempio di Gesù.

Può lo studio sulla lingua aiutare a risolvere la Questione sinottica? A mio parere si, spostando nella fase ebraico-aramaica dei Vangeli e nella loro preistoria letteraria la complessa serie di redazioni preliminari che sembra necessaria per giustificare tante somiglianze e dissomiglianze tra i Vangeli sinottici. Tale studio, scaltrito da una filologia non più solo greca, ma anche semitica e dalla loro mescolanza, permetterà di precisare il quadro delle relazioni tra i Vangeli qui abbozzato.

PRIMA APPENDICE: ULTERIORE ELABORAZIONE SULLA QUESTIONE SINOTTICA (49)

Una tradizione orale comune, che i tre sinottici hanno messo per iscritto in modo indipendente e quindi vario, in sè è sicura, ma da sola non spiega tante affinità. Certo, essa esistette a lungo, e fu divulgata da apostoli e predicatori professionisti (evangelisti). Presumibilmente, già quando Gesù era vivo si cominciarono a stenografare i suoi discorsi, anche se prove non ce ne sono. Una stesura scritta di queste memorie dev'essere tuttavia iniziata immediatamente: riunite per nuclei tematici e cronologici, erano integrate dalle testimonianze orali. Possiamo dire che queste testimonianze diedero una struttura standard anche alla predicazione dei fatti e dei detti di Gesù, contemporaneamente a quanto accadeva per il kerygma, ossia per la Passione e Morte e Resurrezione, per cui la distinzione classica tra una parte kerygmatica antica dei Vangeli e una moderna di contorno cade, proprio per le modalità della gestazione dei testi canonici. La critica situa a questo punto la composizione di Matteo, che noi diamo al 40. Si ipotizza che Matteo abbia attinto a una fonte F o S (sources), integrando il proprio scritto e spezzettandola per tutto il Vangelo. Nulla lo vieta, ma nemmeno lo conferma. In ogni caso, Matteo avrebbe fatto questa integrazione in un tempo successivo: non sappiamo se nel 40 uscì il Vangelo definitivo o la sua versione primitiva, certo è che poi fu tradotto in greco intorno al 60. Avremmo quindi tre fonti aramaiche, il Matteo 1, la F-S e il Matteo 2. Forse ci fu un Vangelo arcaico che raccontava i fatti della Passione e Resurrezione di Luca e Giovanni (LGa). Avremmo quindi quattro documenti, anteriori alla redazione di un Vangelo scritto direttamente in greco. Questi, di Marco, difficilmente a mio avviso può essere il più antico, come si credeva di solito: la retrodatazione di Matteo e dello stesso Marco scoraggia i filologi dal ritenere che questi fosse la fonte del primo, solo perchè più breve. Piuttosto, Marco potrebbe aver saccheggiato le tre fonti matteane e il loro prodotto finito, direttamente in aramaico, seguendo la falsariga della predicazione petrina. Probabilmente anche Marco ebbe più redazioni, e quelle intermedie e la finale (50 d.C.) possono aver influenzato la redazione finale di Matteo, ma non credo proprio il contrario. A meno che non consideriamo preistoria del vangelo marciano una ipotetica stesura della predicazione petrina in Siria - Palestina, attribuibile forse allo stesso Marco, che cominciò così a fare da segretario del Principe degli Apostoli. Queste stesure assai antiche, anteriori al 50, poterono essere prese in considerazione da Matteo, proprio per l'autorevolezza della predicazione di Pietro. Ma più che una moltiplicazioni di fasi intermedie, supporrei una complessa redazione, avvenuta con rifacimenti, in attesa di pubblicazione definitiva, e un confronto orale tra gli autori stessi, grazie alla mobilità dei primi cristiani, tutti presi dalla predicazione (Pietro stesso, tra il 33 e il 42, è a Gerusalemme, in Samaria, in Siria, in Asia Minore, in Italia). Lo stesso dico per Luca: potrebbe aver utilizzato una stesura primordiale di Marco e il Matteo 2, per un proto-vangelo, e poi potrebbe averlo arricchito con la Fonte F o S, rimaneggiandola di suo. Potrebbe aver conosciuto il Vangelo LGa, e averlo utilizzato per colmare le lacune kerygmatiche di Matteo e Marco. Ma è da escludere che Luca conoscesse Marco tardi, e ne fosse influenzato solo in una seconda fase della redazione del suo vangelo. Aspettare addirittura tre fasi, con tre pubblicazioni, non combacia con le nuove datazioni, nè con la complessa circolazione delle fonti tra i primi cristiani. Le ricostruzioni filologiche che tutti possono conoscere tramite la Bibbia di Gerusalemme sono obiettivamente troppo macchinose. In ogni caso, tutte le fasi redazionali hanno avuto come autori sempre gli stessi evangelisti. La sopravvivenza della tradizione orale - in realtà circolante per iscritto in vangeli anche parziali destinati a non essere ufficiali - giustifica più di qualsiasi altro marchingegno filologico le concordanze dei testi, desiderosi di integrarsi a vicenda, in un piano che dovette essere sviluppato coscientemente negli anni.

SECONDA APPENDICE: BREVE STORIA DELLA QUESTIONE STORICA SU GESU’

A tale proposito, va chiosato che il problema della storicità di Gesù e dei Vangeli è abbastanza recente, in quanto i Vangeli sono stati considerati a lungo delle fonti storiche come le altre, da leggere senza particolari patemi d'animo. Soltanto dalla fine del XVIII secolo la questione si pose in termini sistematici. Da Samuel Reimarus (1694-1768) in poi, il razionalismo mise piede nella ricerca storica sui Vangeli, con il pregiudizio che ciò che è soprannaturale non può essere vero. Con una posizione divenuta classica, Reimarus affermò che Gesù sarebbe stato un Messia politico che, messo a morte, non avrebbe raggiunto il suo obiettivo. I suoi Apostoli, non volendo tornare alla propria condizione precedente, avrebbero rubato il cadavere di Gesù e inventato l'annuncio della sua risurrezione e del suo ritorno, creando in tal modo una nuova religione. Tale posizione, nonostante tre grandi incongruenze (la mancanza di ogni riscontro sulla politicità del messianismo di Gesù, peraltro ampiamente contestabile dalle attestazioni evangeliche; le gravi conseguenze che gli Apostoli dovettero affrontare per la loro predicazione, sino a morire per essa; l'assoluta impossibilità di sostenere, a mente fredda, e quindi fraudolentemente, da parte di chiunque, che un morto sia risorto e quindi di indurvi gli altri a credervi) circola ancora oggi sotto varie forme. Ma è, come vedremo, documentariamente insostenibile. E oggi nessuno la sostiene più in modo serio. Proprio per i pregiudizi ideologici cui facevo riferimento, le scuole storiche che si sono confrontate sui fatti di Gesù corrisposero a orientamenti che furono pure filosofico-culturali: dalla mitologia di D. F. Strauss (1808-1874), che fece del Vangelo un mito, sulla falsariga della Vita di Gesù di G. W. F. Hegel (1770-1831), consegnando ai materialisti storici l'idea che la religione è un momento transitorio di una dialettica storicista e razionalista, al criticismo positivista, che da E. Renan (1823-1892), consegnando ai materialisti storici l'idea che la religione è un momento transitorio di una dialettica storicista e razionalista, al criticismo positivista, che da E. Renan (1823-1892) a A. Loisy (1857-1940) ha liquefatto la base documentaria della fede nell'Ignoramus et Ignorabimus degli antimetafisici (mostrando quindi paradossalmente la ricchezza documentaria con cui la ricerca su Gesù deve confrontarsi), fino al realismo storico di chi ha cercato nelle fonti la prova della verità della propria religione, come reazione alle unilateralizzazioni dei non credenti. La Leben Jesu Forschung – Indagine sulla Vita di Gesù o Old o First Quest of the Historical Jesus - infatti cambiava molto, nei suoi risultati, non in base ai testi dissezionati sul tavolo della critica, ma secondo i pregiudizi di chi faceva ricerca. I razionalisti descrissero Gesù come un moralista, gli idealisti come quintessenza dell'umanità, gli esteti lo lodarono come l'artista geniale della parola, i socialisti come l'amico dei poveri e riformatore sociale. In realtà Gesù non è stato niente di tutto ciò: se fosse stato un moralista, non avrebbe potuto avere credibilità per la sua pretesa, evidentemente fraudolenta o esaltata, di essere Figlio di Dio; se fosse stato legato ad una prospettiva immanente, la sua predicazione salvifica non avrebbe avuto nessun senso; se fosse stato solo un erista, non sarebbe stato tanto coerente da finire sulla Croce; se avesse avuto degli intenti sociali, non avrebbe lanciato un Discorso come quello della Montagna. In genere, i seguaci di Strauss, convinti della composizione tardiva ed eterogenea dei Vangeli, considerarono Gesù un mito alla stregua di quelli della Teogonia di Esiodo (tesi che piacque molto alla storiografia marxista) mentre quelli di formazione positivista, constatando la moltiplicazione di ritrovamenti papiracei del Vanglo sempre più antichi, si accontentarono di fare di Gesù un personaggio storico aureolato da numerose leggende. Da qui il realismo storico degli studiosi cristiani, desiderosi di riportare nell'alveo delle certezze le vicende del loro Cristo, e che della Leben Jesu Forschung conservarono tuttavia la metodologia storico critica, l’ambientazione giudaica della figura di Gesù e lo sforzo di una sospensione dalla dogmatica nell’approccio ai testi, elementi inoppugnabilmente fondamentali per ogni ricerca in materia. Naturalmente, anche tra questi ultimi vi sono state divisioni: Rudolf Bultmann (1884-1976) ha fatto scuola con una demitologizzazione che tentò di battezzare l'esegesi idealista e positivista, e frange di suoi seguaci moderati si trovano nei cenacoli culturali più accreditati del mondo cristiano, ma non sono mancati i fautori di una storicità piena dei testi sacri. Era stato Martin Kähler (1835-1912) a distinguere per primo, nel 1892, tra Gesù e Cristo. Con Gesù egli intendeva l'Uomo di Nazareth; con Cristo il Figlio di Dio predicato dalla Chiesa. Solo il Cristo biblico era per lui comprensibile per noi, ed egli solo aveva significato durevole per la fede. Agli evangelisti non sarebbe interessato affatto ricostruire la figura storica di Gesù, ma annunciarlo come Cristo Figlio di Dio. Gesù è esistito, ma non sarebbe possibile ricostruire la vita di Gesù a partire dai Vangeli. Bultmann, il cui pensiero esercitò un’influenza fortissima sulla ricerca del XX secolo, riprese queste opinioni a partire dal 1929. Sia il Kähler che Bultmann erano mossi da intenti religiosi, per liberare la Fede dall'erosione delle critiche storico-filologiche, ma essi fornirono di fatto il destro ad una ulteriore riduzione della sicurezza storica sui fondamenti della Fede stessa. In effetti, non solo non appare comprensibile come si possa costruire una Fede in un personaggio storico completamente anonimo, ma non era scientificamente accettabile che si dovesse rinunciare totalmente a qualunque collocazione storica di Gesù. Di queste istanze già nel 1941 si era fatto interprete l’abate Giuseppe Ricciotti (1890-1964), nella sua opera bellissima, ancora oggi letta e meditata. La reazione a Bultmann avvenne tuttavia in una riunione di suoi allievi di Marburgo. Ernst Käsemann (1906-1998) si espresse contro di lui nel 1953 con un noto articolo dal titolo Il problema del Gesù storico, in cui pose tre tesi fondamentali. La prima è che, se cessasse ogni connessione tra il Cristo della fede e il Gesù della storia il Cristianesimo diverrebbe un annuncio docetista da un punto di vista teologico – per cui l'esegesi kahleriano-bultmaniana non raggiungerebbe il suo intento apologetico – e un mito senza tempo nella prospettiva filologica – in ragione della qual cosa quella stessa esegesi perderebbe ogni valenza scientifica in campo storico. La seconda è che la Chiesa antica, se avesse avuto poco interesse per la storia di Gesù, non avrebbe dovuto produrre i Vangeli, che hanno invece un forte richiamo alla storia che li attraversa da un capo all'altro. La terza è la constatazione che proprio perchè i Vangeli sono un prodotto della Fede nata con la Resurrezione, presuppongono l’identità tra Gesù terreno e Signore risorto. Käsemann può essere perciò considerato l'iniziatore della cosiddetta Nuova ricerca sul Gesù storico, la New o Second Quest of the Historical Jesus. La novità di questa «nuova ricerca» stava nell’orizzonte culturale in cui essa si inseriva: la «vecchia» ricerca liberale aveva mirato a raggiungere il sedicente Gesù storico, contrapponendolo alla predicazione dei suoi discepoli; Bultmann aveva capovolto questa impostazione puntando sulla predicazione, resa indipendente dal Gesù storico; la «nuova ricerca» voleva ricomporre la frattura tra i due elementi. Ciò era ovviamente possibile per i progressi delle discipline storico-bibliche, per la crisi delle filosofie laiche del XIX sec. e per l'insorgere di nuove epistemologie, applicabili anche alla ricerca storica. Il maggior teorico del nuovo orientamento fu James Robinson (1919-1983); il primo a pubblicare un completo studio storico su Gesù fu nel 1956 Günther Bornkamm (1905-1990), con il suo Gesù di Nazaret. Poi venne il Il Gesù della storia ed il Cristo del Kerygma, pubblicato nel 1960 e contenente saggi di J. Jeremias, J. L. Hromàdka, N. A. Dahl, B. Reicke, P. Althaus, O. Cullmann, W. Grundmann, O. Michel, W. Michaelis, H. Riesenfeld, L. Goppelt, G. Delling. Due importanti trattati cattolici furono quelli di René Latourelle, edita nel 1978, e quello di Francesco Lambiasi, pubblicata nel 1976. Trent’anni dopo l’opera di Käsemann, Ed Parish Sanders potè così scrivere: L’orientamento prevalente oggi sembra il seguente: noi possiamo conoscere molto bene ciò che Gesù stava per compiere, possiamo conoscere una buona parte di quel che disse e questi due aspetti diventano significativi all'interno del giudaismo del primo secolo. Lo sforzo di rifondare storicamente la ricerca su Gesù era ormai giunto al successo. E tuttavia, mentre questa New Quest stava ancora cautamente discutendo su presupposti e metodi, un movimento totalmente diverso iniziò in luoghi diversi e senza alcun programma unificato. Fortificati dai materiali giudaici, ora più disponibili, molti studiosi lavorarono come storici, convinti che fosse possibile conoscere moltissimo di Gesù di Nazareth. Di essi il capofila è considerato Thomas Wright (1948). A costoro, con molta modestia, io voglio riallacciarmi. La Third o Next Quest of the Historical Jesus ha sfatato alcuni luoghi comuni della ricerca precedente, come la tendenza a negare e demitizzare i racconti miracolosi, dei quali cerca invece spesso il significato che ebbero, una volta accaduti, per l'opinione pubblica, per il sentire comune e profondo della gente. Ha poi piena fiducia nel valore storico delle fonti primarie, i Vangeli canonici; per esempio lo studioso ebreo David Flusser (1917-2000) all’inizio della sua monografia su Gesù ha scritto: "Questo libro è stato anzitutto scritto per dimostrare che è possibile scrivere una vita di Gesù. Certo, possediamo più notizie sugli imperatori a lui contemporanei e su alcuni poeti romani, ma accanto allo storico Giuseppe Flavio e forse Paolo, Gesù è l’ebreo post-testamentario sulla cui vita e dottrina siamo meglio informati. Gli esiti di questa ricerca sono contraddittori, spesso fragili, non differenti dalle opzioni fondamentali della Old Quest, ma sono di capitale importanza perchè trattano i Vangeli come fonti storiche, a differenza dei maestri della critica liberale. Per cui, sia pure in modi differenti, gli autori di questo movimento sottolineano ciascuno aspetti autenticamente storici della vita di Cristo e della ricerca che la concerne, anche mediante la comparazione con le fonti coeve e più tardive, giudaiche ed apocrife: la sua taumaturgia e il suo potere esorcistico (G. Vermes); la sua dottrina sapienziale (F. Gerald Downing ,J. D. Crossan), la sua profezia escatologica (Ben F. Meyer [1927-1995], il summenzionato E. P. Sanders, J. Charlesworth); l'interpretazione politica che si diede della sua Morte (Samuel G. F. Brandon [1907-1971]); la sua collocazione nel panorama rabbinico (il ricordato David Flusser, Bruce D. Chilton) e le sue relazioni conflittuali con il Fariseismo (Harvey Falk), con la cultura giudaica e con la cultura ellenistica (il summenzionato Downing, Burton L. Mack, ancora J. D. Crossan). L’enorme varietà dei risultati non pone in questione il valore storico dei Vangeli, ma piuttosto la varietà dei metodi e delle opzioni degli studiosi. Questo come conseguenza del fatto che, nonostante le dichiarazioni di neutralità storica, dietro agli sforzi di ricostruire il Gesù storico talora affiorino pregiudizi ideologici neo-positivisti (il citato E. P. Sanders), della teologia della liberazione (Marcus J. Borg, Douglas E. Oakman, Richard A. Horsley) e della polemica giudaizzante (sempre E. P. Sanders) o antigiudaica (ancora J. D. Crossan). Senza che manchino autori agganciati all'ortodossia della propria Fede, come, nel caso cattolico, di R. E. Brown (1928-1998). Da questa Third Quest emergono interrogativi intellettualmente onesti e storicamente inquietanti, come quelli dello già menzionato studioso ebreo Geza Vermes, che dimostra la fondatezza storica dei racconti evangelici proiettandoli sullo sfondo del materiale giudaico parallelo. Questi, pur non essendo credente, afferma la «incomparabile superiorità» di Gesù sugli altri venerandi «santi» galilei a cui lo compara per renderlo più comprensibile, lasciando aperto il grande enigma che non trova soluzione se non nella Fede: se Gesù rimane diverso e superiore, qual è la sua identità?

Sono state anche possibili delle devianze metodologiche, come quelle del summenzionato John Dominic Crossan, che ha fondato nel 1985 con, Robert W. Funk (m. 2005), il Jesus Seminar, che ha raccolto un gruppo di studiosi della Bibbia (quasi tutti americani) che si sono riuniti per anni votando con palline colorate il grado di fedeltà al vero insegnamento di Gesù di quanto è riportato nei Vangeli. Ne è risultata la monografia The Five Gospels: What Jesus Really Said. La conclusione è quella di un Gesù predicatore di un Regno che non va compreso in senso apocalittico, bensì etico-sapienziale. Il lavoro del Seminar si è attirato molte severe critiche, oltre che per i metodi seguiti, a causa della negazione dell’escatologia futura, così radicata in testi evangelici e forme letterarie diverse. Ma proprio queste critiche mostrano come ormai la sostanza storica dei Vangeli sia stata ormai liberata dalle astruse dispute degli accademici di un tempo e come essi siano capaci di restituire una fisionomia di Gesù ormai non facilmente ed impunemente contestabile. Una acquisizione fondamentale è poi quella di James D.G. Dunn (1939), ne La memoria di Gesù, che attesta l'importanza della dimensione orale nella tradizione dell'insegnamento di Gesù stesso, prima, dopo e durante la stesura dei Vangeli. Ce n'è abbastanza, per ritenere che i Vangeli siano ormai inoppugnabilmente considerabili storia. Come scrivevo all'inizio, Gesù può – e deve – essere trattato come Giulio Cesare o Alessandro il Grande. E gia' lo è.


1. Quanto segue riprende in forma sintetica ciò che ho pubblicato in La Passione e la Morte di Gesù nei Racconti dei Quattro Vangeli, in http://www.theorein.it/archivio/storia.htm#. Alcuni temi sono trattati anche in V. SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei Racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII 1 [pp.3-66] e 2 [pp. 267-334] (2006), d’ora innanzi SIBILIO, Resurrezione. Cfr. P. SACCHI, Gesù nel suo tempo: i concetti di peccato, espiazione e sacrificio, in “Archivio Teologico Torinese” V (1999), pp. 20-29 (da ora in poi SACCHI, Gesù nel suo tempo); reperibile anche a questo link: http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=45 Cfr. SACCHI, Gesù nel suo tempo. P. SACCHI, La formazione di Gesù, in «Henoch» XIV (1992), pp. 243-260, link http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=44&page=6 , utile anche per i temi precedenti; ID., Il Messianismo ebraico dalle origini al II sec., in E. NACAMULLI - S. ROSSO - E. TURCO (a cura di), Storia di un rapporto difficile. Ebrei e Cristiani nell’età antica, Torino 2003, pp.59-79, indirizzo http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=50#sdfootnote22sym Molti attendevano un Messia re, ma pochi ancora dalla famiglia dell’antico sovrano: per i più la discendenza era metaforica, e Davide solo un archetipo della regalità messianica. Questo trapasso era già accaduto con Ez 34, 23-24 e con il Trito Isaia (60,17). Ezechiele e i profeti avevano corretto le formule del Secondo Libro di Samuele e del Proto – Isaia perché sconcertati dalla decadenza della Dinastia e dalla distruzione del Regno per mano dei Babilonesi. Da questo re tuttavia i più continuavano ad attendere trionfi politici. 2Sam 7, Is 11 e Ger 23,5 erano, dalla notte dei tempi preesilici o esilici, i testi di riferimento di questo messianismo davidico trionfalista. Gli Zeloti pure – con l’apostolo Simone – si avvicinarono al Cristo, evidentemente perché trovavano nella sua nascita un elemento di contatto con la loro ideologia. Regola della Comunità 9,11; Testamento di Ruben 6,8; quello di Giuda in 21,4. Questa idea messianica, tutt’altro che isolata nel solo ambiente essenico, certamente stimolava l’orgoglio della casta sacerdotale, sebbene nel Testamento di Levi il sacerdozio messianico non apparteneva alla casa di Aronne. Gesù, parente degli aronitici – Zaccaria e Elisabetta erano suoi cugini – dovette, nella stessa maniera del cugino Giovanni il Battista, porsi il problema del rinnovamento del sacerdozio e del messianismo clericale. I passi che Gesù stesso – senza contare i suoi discepoli – utilizza per suffragare l’idea del Messia sofferente sono diversi: Zc 13,17; 11,12-13; 12, 10; Is 53; i Sal 68, 22, 30; Ger 32,9-10; Es 12,46. Ma quelli dominanti sono il Sal 22 e i Canti del Servo del Signore in Isaia (42,1-9; 49, 1-6; 50, 4-11; 52, 13-53, 12). Il Messia, per espiare offrendo se stesso, doveva essere sacerdote, ossia compiere un atto cultuale, e una volta compiutolo, avrebbe acquistato la dignità regia, di dominio su tutte le cose (Is 53, 10.12). Se il Messia doveva salvare l’umanità, placando Dio, doveva essere alla sua altezza. Il Messia doveva dunque essere Dio egli stesso. E siccome Gesù si identificava col Redentore, automaticamente doveva fare di sé Dio stesso, quello che Lui chiama il Figlio. 11QMelch; 1QLamech. Cfr. A. NICOLOTTI, Postilla: Studi e novità recenti, http: //www.christianismus.it/modules.phpname=News&file=article&sid=39&page=3. Cfr. NICOLOTTI, Le istituzioni, le pratiche e le credenze giudaiche, link in http://www.christianismus.it/modules.php?name=News&file=article&sid=15; J. VERNET, Calendario giudaico, e J. CARRERAS, Calendario di Qumràn, in A. ROLLA – F. ARDUSSO – G. MAROCCO – G. GHIBERTI (a cura di), Enciclopedia della Bibbia, Torino 1969, vol. II, coll. 32-38; J. T. MILIK, Le travail d’edition des manuscrits du désert de Juda, in Volume du Congrès de Strasbourg 1956, Leiden 1957, pp. 24-26 ; A. JAUBERT, Le calendrier des Jubilés et de la secte de Qumràn, ses origines bibliques, in «Vetus Testamentum» 3 (1953), pp. 250-264 ; ID., La date de la Cène, Paris 1957; ID., Jésus et le calendrier de Qumran, in “New Testament Studies” 7 (1960-61), pp. 1-30; ID., Le mercredi où Jésus fut livré, in “New Testament Studies” 14 (1968), pp. 145-164; C. MARTONE, Un calendario proveniente da Qumràn recentemente pubblicato, in «Henoch» 16 (1994), pp. 49-76; ID., Calendari e turni sacerdotali a Qumràn, in F. ISRAEL - A. M. RABELLO - A. M. SOMEKH (a cura di), Hebraica. Miscellanea di studi in onore di Sergio J. Sierra per il suo 75° compleanno, Torino 1998, pp. 325-356; ID., 2 Maccabees 6, 7a and Calendrical Change in Jerusalem, in “Journal for the Study of Judaism” 12 (1981), pp. 52-74; ID., The 364-Day Calendar in the Enochic Literature, in Soc. Bibl. Lit. Sem. Papers 22 (1983), pp. 157-165; A. MODA., La date de la cène; sur la thèse de M.lle Annie Jaubert, in “Nicolaus” 3 (1975), pp. 53-116; J.C.VANDERKAM, The Origin, Character and Early History of the 364-Day Calendar: A Reassessment of Jaubert’ Hypothesis, in “Catholical Biblical Quarterly” 41 (1979), pp. 390-411; R.T. BECKWITH, The Earliest Enoch Literature and its Calendar; Marks of their Origin, Date and Motivation, in “Revue de Qumran” 10 (1981), pp. 365-403; F.H. CRYER, The 360-Day Calendar Year and Early Judaic Sectarianism, in “Scandinavian Journal of Old Testament” 1 (1987), pp. 116-122; P. DAVIES, Calendrical Change and Qumran Origins: An Assessment of VanderKam’s Theory, in “Catholical Biblical Quarterly” 45 (1983), pp. 80-89; P. SACCHI, Testi palestinesi anteriori al 200 a.C, in “Rivista Biblica” 34 (1986), pp. 183-204; F. MANNS, Pour lire la Mishna, Jerusalem 1984, pp. 50-51. Già dal III millennio a.C., i popoli mesopotamici cercarono di armonizzare il calendario lunare con quello solare, introducendo insieme agli anni lunari di dodici mesi e 354 giorni (con un ritardo di 11 giorni l’anno), altri anni di tredici mesi, detti embolismali, di 384 giorni, forse inseriti ogni tre anni. I due calendari potevano procedere in modo parallelo, con un allineamento ogni 30 anni. La determinazione calendariale spettava al Sinedrio. La Pasqua cadeva il 15 di Nisan, in cui appariva la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. Questo calendario era il più diffuso tra gli Ebrei della madrepatria e della Diaspora, ma in Palestina si faceva uso anche di un altro calendario liturgico solare di 364 giorni. L’esistenza di questo secondo calendario è nota dal Libro dei Giubilei (ca 125 a.C.) e dall’Enoch etiopico, e la sua diffusione ancora ai tempi di Gesù, è stata confermata dal rinvenimento nella grotta IV di Qumràn di alcune tavole di concordanza tra i due calendari, allo scopo di calcolare i turni di servizio sacerdotale. Il primo giorno di questo calendario era un mercoledì. Esso era costituito da 8 mesi di 30 giorni e da 4 di 31, il che dava un anno di 364 giorni in 52 settimane esatte, facendo così cadere le feste sempre lo stesso giorno della settimana: i Tabernacoli, i primi del mese di Nisan e Tishri nonchè la Pasqua di mercoledì (celebrati dal martedì sera), la Pentecoste di domenica, l’Espiazione il venerdì. Gli studi di padre Milik e della Jaubert hanno mostrato l’identità tra questo calendario esseno e quello già conosciuto dei Giubilei. Anche se gli studi della Jaubert suppongono una dilatazione dei tempi della Passione di Cristo che non convince, non è necessario seguire la sua ricostruzione alla lettera, bastando identificare il Mercoledì Santo col giorno di Pasqua, conservando poi la cronologia dei Sinottici e dello stesso Giovanni. Cfr. J.RATZINGER, Gesù di Nazareth. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla Resurrezione, Città del Vaticano 2011, pp. 122-132, per queste perplessità. Ne La formazione di Gesù, in «Henoch» 14 (1992), pp. 243-260, scrive sagacemente Paolo Sacchi: “Secondo tutti e tre i sinottici Gesù celebrò la Pasqua prima che la si celebrasse in Gerusalemme. Quella festa importante che i tre sinottici fanno cadere nel sabato successivo alla morte di Gesù, Giovanni la chiama esplicitamente Pasqua, cosa che gli permette di sviluppare il teologumeno di Gesù agnello che muore insieme agli agnelli pasquali. Naturalmente Giovanni non dice che Gesù aveva già celebrato la sua Pasqua: Gesù aveva solo fatto «la Cena». Questa contraddizione aveva sempre molestato i critici. Credo che la soluzione prospettata dalla Jaubert e, nonostante le critiche, riconfermata più volte, sia della massima evidenza che Gesù non seguiva il calendario dei Farisei, ma ne seguiva un altro. Ora, questa presenza di due calendari liturgici diversi al tempo di Gesù è certa. Da una parte si seguiva il più antico calendario solare; da un’altra il calendario lunisolare proprio già da tempo dell’amministrazione di Giuda, perché era il calendario di tutti i popoli circonvicini. Il calendario lunisolare, che esisteva in Gerusalemme almeno dal tempo di Menelao, fu introdotto nella liturgia verso la fine del I sec. a.C., secondo un passo più volte riportato nelle scritture rabbiniche e che narra come ci si rivolse a Hillel (il vecchio) per risolvere il problema, se era più forte la legge del sabato o quella della Pasqua, «perché si era dimenticata la norma». Poiché la Pasqua cade di sabato con discreta frequenza, è assolutamente impensabile che nessuno si ricordasse più come ci si comportava in passato. In realtà ci volle una decisione normativa solo in quanto era un caso che prima non era mai capitato nel tempio. Questo fenomeno del doppio calendario lascia intravedere una società che, sul piano religioso, doveva essere in qualche modo spaccata in due: coloro che seguivano l’innovazione liturgica dei farisei e coloro che non la seguivano”. V.SIBILIO, La Resurrezione, II, pp. 326-327, nota 26; R.LAURENTIN, Jésus au Temple. Mystére de Pâques et foi de Marie in Luc 2, 48-50, Parigi 1966, pp. 135-141. VENTURINI, Il libro, pp. 75-78; I. KNHOL, Messiah and Resurrection in Gabriel Revelation, Londra 2009. Questa armonizzazione è stata da me tentata nei contributi citati sulla Resurrezione e sulla Passione. Di altre ne diremo. Panoramica in MAISANO, Datazione, pp. 17-24; G.BASTIA, La lingua. Per l’uso della Peshitta per ricostruire il Vangelo primitivo cfr. C. LATASTER, Was the New Testament Really Written in Greek?, www.aramaicpeshitta.com. J. CARMIGNAC, La naissance des évangiles synoptiques, Paris 1984 (ed. it.: La nascita dei Vangeli sinottici, Milano 1985). In verità alcune acquisizioni erano anche anteriori agli studi del Francese: cfr. R. T. PITTMANN, Words and their ways in the Greek New Testament, Londra 1942. per l’uso della koinè nei Vangeli. Contrario a Carmignac P. GRELOT, L’origine di Vangeli –Controversia con J. Carmignac, Città del Vaticano 1989. “Nel libro di Carmignac il capitolo 2 contiene una breve rassegna delle principali versioni dei Vangeli in lingua ebraica. Tutte queste versioni sono dichiaratamente ricavate dal testo greco (analogamente a quanto fatto da Carmignac per i suoi studi). Per la Peshitta e le vecchie traduzioni siriache è possibile invece che esse derivino da ipotetiche fonti scritte in ebraico od aramaico” (G. Bastia). Alcuni esempi. Sono termini come “Amen”, che compare anche nelle lettere di Paolo e nell’Apocalisse; “Abbà” che in aramaico significa “Padre” e che si trova in Mc 14, 36, Rm 8, 15 e Gal 4, 6; “Alleluia”, che compare nell’Apocalisse; “Messia”, utilizzato nei Vangeli di Matteo, Luca e Giovanni e negli Atti; “Talità Kum” in Mc 5,41 ; “Effatà”, che significa “Apriti”, in Mc 7, 34. In Mc 15, 34 viene riportata la frase aramaica “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?” che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”; compare anche in Mt 27, 46, con “Elì” al posto di “Eloì”. Tutte queste parole sono traslitterazioni in greco di parole ebraiche od aramaiche. In quasi tutti i casi il Vangelo di Marco riporta a fianco la traduzione per spiegare il significato del termine ad un lettore che si ipotizza non perfetto conoscitore della lingua e del mondo giudaico, o perchè solo quella parola era usata in ebraico o aramaico nel contesto originale. Gli altri Vangeli sono meno precisi . Cfr. Gv 9, 6; Mc 1, 6-7; 10, 33-34. Ad es. Mc 7, 25; Matteo 16, 24; Mc 8, 34; Lc 9, 23; 12,19; Mt 16, 27; 20, 9; 20,10; 5, 2. Per esempio nel Vangelo di Marco si conta ventisette volte la parola “subito”, mentre in quello di Matteo il termine ricorre diciotto volte, e altrettante in quello di Luca; in quello di Giovanni soltanto cinque. La frequenza in Marco è significativa anche perché il testo è alquanto più corto degli altri tre Vangeli. Es.: Mt 11, 25 ; 12, 38; 17,4; 28, 5; Mc 9, 5; 11, 14; 12, 35; 8, 28. Cfr. Mt 8,12; 9, 15; 23, 15; 6, 22-23; 20, 15; Mc 3, 17; Lc 16, 8; 10, 6; 20, 36; 11, 34. Si vedano Gv 1, 49; 19, 21; Mt 6, 9-13; Lc 1,51-55; Mc 1, 5. Cfr. Mt 22, 36; Mt 22, 37-38; Mc 12, 28; 9, 43; Gv 2, 10; Lc 5,39; 15,22 . Cfr. Mt 6, 4. Vedansi Gv 5,3; 12, 36; Mt 15,19. Es.: Mc 3,7-8; 6, 5-6. Ad es.: Mc 4,41; Mc 16,5. P. es.: Lc 8,5; 22,15; Mc 9, 49-50; Mt 2,10; Mc 4, 41. Ad esempio Lc 1,51; 9, 51; 20, 21; 1, 68-79; Mc 3, 14-15; 2,6; 6, 38; 9, 18; 10, 34; 11,15; Mt 21,12; 1, 18; 1,21; 1, 22; 2, 23; 5, 18. Cfr. Mt 3,11; 18,21; Mc 1,7; 8,31; 2,1-12, Lc 3,16; 5,17-26. Un primo esempio lo troviamo nell’episodio della guarigione dell’emorroissa riferito parallelamente nei Sinottici. Mc 5, 29 utilizza la parola greca pēghē che significa sorgente (di sangue) mentre Lc 8, 44 utilizza il termine ysis che significa “flusso”, un termine che in greco è diverso dal precedente. Ora, nel testo ebraico del Lev 20,18 ricorre due volte la parola maqor, “sorgente”, utilizzata nello stesso contesto di questo episodio del Nuovo Testamento. Nella traduzione dall’ebraico al greco dei LXX questa parola è stata tradotta in questo versetto prima come pēghēn e poi subito dopo con ysin ovvero con le stesse identiche parole utilizzate da Marco e da Luca nei rispettivi passi. Questo è in accordo con la teoria della traduzione del NT dall’ebraico al greco: chi traduceva sapeva che erano utilizzabili tipicamente due termini greci per tradurre in greco la parola “maqor” e li ha utilizzati entrambi. In questo caso due parole greche apparentemente diverse in due passi sinottici in realtà derivano da una stessa parola ebraica e sono gli stessi che utilizzarono gli estensori della LXX. Un secondo esempio è in Mc 4, 19 dove è scritto: “ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo l’inganno della ricchezza e tutte le altre bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto”, mentre in Lc 8, 14 è scritto: “Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione”. Carmignac ha notato che le due parole, she’ar e she’er, se scritte in ebraico hanno le stesse consonanti; quindi in un ipotetico testo ebraico scritto diverse vocalizzazioni potevano portare ad entrambi i termini. In Mc 5, 13 nel riferire l’episodio della guarigione dell’indemoniato precisa che la mandria di maiali era composta da ben duemila elementi, un numero che sembra molto esagerato e quindi inverosimile. Se però il testo fosse stato scritto in ebraico e con le sole consonanti, allora la stessa parola può essere vocalizzata come “a gruppi”. In ebraico k’lpym (che significa “circa duemila”) si può difatti vocalizzare anche come ke’alpayim che significa a frotte, a gruppi. Ovviamente vi sono altri esempi che qui non riporto. C. TRESMONTANT, Le Christ hébreu, Parigi 1983. R. LINDSAY, Jesus, Rabbi and Lord, Gerusalemme 1989. M. LOWE, Bibliography of the Writings of David Flusser, in “Immanuel” 24/25 (1990), pp. 292-305. Una bibliografia di Robert L. Lindsey è in D. BIVIN, The Writings of Robert L. Linsdey on line su www.jerusalemperspective.com. Bibl.:http://cms.education.gov.il/EducationCMS/Units/PrasIsrael/Tashsab/ShmuelHasafri/KorotHaimPropesorShmuelShafrai.htm Bibl. in http://www.sarges.com/NLS/Bios/DwightPryor.html; alcuni suoi articoli in http://jcstudies.com/articlesHome.cfm?viewType=media&val=article; altri autori vicini alla Jerusalem School con importanti pubblicazioni sono: R.BUTH, A Hebraic approach to Luke and the resurrection accounts: still needing to re-do Dalman and Moulton, in R. PIERRI (a cura di), “Grammatica intellectio Scripturae; saggi filologici di Greco biblico in onore di Lino Cignelli OFM”, Gerusalemme 2006, pp. 293-316; W. W. FIELDS, The Dead Sea Scrolls, A Full History, Vol. 1, Leiden and Boston 2009; Y. FURSTENBERG, Defilement penetrating the body: a new understanding of contamination in Mark 7.15, in “New Testament Studies” 54/2 (2008), pp. 176-200; B. KVASNICA, Shifts in Israelite War Ethics and Early Jewish Historiography of Plundering, in B. E. KELLE- F. R. AMES (a cura di), Writing and Reading War Rhetoric, Gender, and Ethics in Biblical and Modern Contexts, Atlanta 2008, pp. 175-196; D. A. MACHIELA, The Dead Sea Genesis Apocryphon: A New Text and Translation with Introduction and Special Treatment of Columns 13-17, [Studies on the Texts of the Desert of Judah, 79], Leiden 2009; R. S. NOTLEY, The Sea of Galilee: Development of an Early Christian Toponym, in “Journal of Biblical Literature” 128/2 (2009), pp. 183-88; ID., Jesus’ Jewish Hermeneutical Method in the Nazareth Synagogue, in C. A. EVANS- H. D. ZACHARIAS (a cura di), Early Christian Literature and Intertextuality; Vol. II- Exegetical Studies, Londra 2009, pp. 46-59; S. RUZER, Son of God as Son of David: Luke’s attempt to biblicize a problematic notion, in K. LEONID (a cura di), Babel und Bibel 3. Annual of ancient Near Eastern, Old Testament, and Semitic studies, Winona Lake 2006, pp. 321-52; ID., Mapping the New Testament: Early Christian Writings as a Witness for Jewish Biblical Exegesis, [Jewish and Christian Perspectives Series, 13]. Leiden 2007; ID., The Historical Jesus in Recent Israeli Research, in C. BOYER - G. ROCHAIS (a cura di), Le Jésus historique à travers le monde, [Héritage et projet; 75], Montréal 2009, pp. 315-41; B. SCHULTZ, Jesus as Archelaus in the Parable of the Pounds (Lk. 19:11-27), in “Novum Testamentum” 49 (2007), pp. 105-27; B. H. YOUNG, Meet the Rabbis: Rabbinic Thought and the Teachings of Jesus, Peabody, MA, 2007. Per le attività svolte da questo ente vedi il sito web http://www.js.org Sull’arg. cfr. il parere di J. P. MEIER, A Marginal Jew: Rethinking the Historical Jesus, Vol. IV - Law and Love, Yale 2009, pp. 648-649. Meier “rejects a major academic failure of Jesus research: mouthing respect for Jesus’ Jewishness while avoiding like the plague the beating heart of that Jewishness: the Torah in all its complexity. However bewildering the positions Jesus sometimes takes, he emerges from this volume as a Palestinian Jew engaged in the legal discussions and debates proper to his time and place. It is Torah and Torah alone that puts flesh and bones on the spectral figure of “Jesus the Jew.” No halakic Jesus, no historical Jesus. This is the reason why many American books on the historical Jesus may be dismissed out of hand: their presentation of Ist-century Judaism and especially of Jewish Law is either missing in action or so hopelessly skewed that it renders any portrait of Jesus the Jew distorted from the start. It is odd that it has taken American scholarship so long to absorb this basic insight: either one takes Jewish Law seriously and “gets it right” or one should abandon the quest for the historical Jesus entirely.....The patient reader of Volume Four of A Marginal Jew may at this juncture be sick unto death of the mantra, ‘the historical Jesus is the halakic Jesus.’ But at least such readers have been inoculated for life against the virus that induces legal amnesia in most Americans writing on Jesus. The halakic dimension of the historical Jesus is never exciting but always essential.” S. NOTLEY- M.TURNAGE-B.BECKER (a cura di), Jesus’ Last Week. Jerusalem Studies in the Synoptic Gospels. Vol. I, [Jewish and Christian Perspectives Series 11], Brill 2006 (d’ora innanzi Jesus’ Last Week). Il contenuto è accessibile da https://www.eisenbrauns.com/ECOM/_32H00EUWH.HTM. Contiene D. FLUSSER, The Synagogue and the Church in the Synoptic Gospels, pp. 17-40; S. SAFRAI, Literary Languages in the Time of Jesus, pp. 41-52; R. BUTH – B. KVASNICA, Temple Authorities and Tithe-Evasion: The Parable of the Vineyard, the Tenants and the Son, pp. 53-80; S. RUZER, The Double Love Precept in the New Testament and the Rule of the Community, pp. 81-106; S. NOTLEY, Learn the Lesson of the Fig Tree, pp. 107-120; ID., Eschatological Thinking of the Dead Sea Sect and the Order of the Christian Eucharist, pp. 121-138; M. TURNAGE, Jesus and Caiaphas: An Intertextual-Literary Evaluation, pp. 139-168; C. SAFRAI, The Kingdom of God and Study of Torah, pp. 169-190; B. YOUNG, The Cross and the Jewish People, pp. 191- 210; D. BIVIN, Evidence of an Editor’s Hand in Two Instances of Mark’s Account of Jesus’ Last Week, pp. 211-224; S. SAFRAI, Early Testimonies in the New Testament Laws and Practices Relating to Pilgrimage and Pesah, pp. 225-244; H. ESHEL, Use of the Hebrew Language in Economic Documents from the Judaean Desert, pp. 245-258; R. BUTH-B. KVASNICA, Appendix: Critical Notes on the VTS” (=Temple Authorities and Tithe-Evasion: The Parable of the Vineyard, the Tenants and the Son), pp. 259-317. Alcune critiche alla JSSR sono interessanti, altre completamente infondate. Cfr. D. BIVIN – R. B. BLIZZARD JR., Understanding the Difficult Words of Jesus, Shippensburg, PA 1994, la cui recensione di M. L. BROWN , The Issue of the Inspired Text: A Rejoinder to David Bivin in “Mishkan” 20, p. 63 , non tiene conto nè che il libro non è ascrivibile alla JSSR nè che essa non si dedica a retroversioni. Una panoramica dell’influenza della JSSR è in G. BALTES, Hebräisches Evangelium und synoptische Überlieferung: Untersuchungen zum hebräischen Hintergrund der Evangelien, Tubinga 2011, pp. 65-67. Valutazioni positive ha ricevuto Jesus Last Week, in N. L.COLLINS, Review: R. Steven Notley, Marc Turnage, and Brian Becker, eds., Jesus’ Last Week: Jerusalem Studies in the Synoptic Gospels - Volume One, in NovT 49/4 (2007), pp. 407-409; R. L. WEBB, in “Journal for the Study of the Historical Jesus”, 5 (2007), http://www.brill.nl/jshj; panoramica dei pareri in D. M. GURTNER, Review: R. Steven Notley, Marc Turnage, and Brian Becker, eds., Jesus’ Last Week: Jerusalem Studies in the Synoptic Gospels - Volume One, in “Review of Biblical Literature feb (2011) Favorevoli, tra gli altri, a tale priorità, sono D. Royce Burkett, B. Ego, A. Lange, P. Pilhofer. Bibl. http://www.gatestoneinstitute.org/author/Malcolm+Lowe; i sostenitori della priorità di Matteo sono rintracciabili in http://www.colby.edu/rel/2gh/; cfr. il classico B. ORCHARD -T. R. W. LONGSTAFF (ed.), J. J. Griesbach: Synoptic and Text-Critical Studies 1776-1976, Volume 34 in SNTS Monograph Series, Cambridge 1978 e 2005 . Cfr. anche J. R. EDWARDS, The Hebrew Gospel and the Development of the Synoptic Tradition. Grand Rapids 2009. Si veda la panoramica in R. BUTH- B. KVASNICA, Temple Authorities and Tithe-Evasion: The Linguistic Background and Impact of the Parable of the Vineyard Tenants and the Son, in Jesus’ Last Week, pp. 53-80. 259-317. In ordine sparso: J.M. GARCIA PEREZ – C. FRANCO, La Iglesia Naciente: libros sagrados y don de lenguas, Madrid 2009; ID.-ID., Pasión de Jesús según San Mateos y descenso a los infiernos, Madrid 2007; ID., Rastreando los origines, Madrid 2011; C.A. FRANCO MARTINEZ, Jesucristo, su persona y su obra, en la Carta la los Ebreos, Madrid 2010; ID., La Pasión de Jesús según San Juan, Madrid 2005; J.M. GARCIA PEREZ-J.CARRON, Los supuestos relatos ficción y leyendas in los Evangelios, Madrid 2004; ID.-M. HERRANZ MARCO, ¿Esperó Jesús un fin del mundo cercano?, Madrid 2003; C.A. FRANCO MARTINEZ, Eucaristía y presencia real: glosas de san Pablo y palabras de Jesús, Anotaciones a 1Corintios 11 y Juan 13, Madrid 2003; J.M.GARCIA PEREZ, La catequesis más consoladora de san Pablo, Las luminosas oscuridades de 1Cor 15, Madrid 2002; M.HERRANZ MARCO, La virginidad perpetua de María, Madrid 2002; J.M.GARCIA PEREZ-ID., Milagros y resurrección de Jesús según san Marcos, Madrid 2001; ID.-J.CARRON, Cuándo fueron escritos los evangelos. El testimonio de San Paolo, Madrid 2001; J.M.GARCIA PEREZ-M.HERRANZ MARCO, La infancia de Jesús según Lucas, Madrid 2000; altri volumi di questi autori: J.M. GARCIA PEREZ – JULIAN CARRON, Los Órigines históricos del Cristianismo, Madrid 2007; J.M. GARCIA PEREZ, La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, Milano 2005. La prima e seconda appendice sono tratte da un mio libro rimasto inedito perc

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Theorèin - Dicembre 2014