LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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IN EVANGELIUM SANCTI IOANNIS

Breve introduzione al Vangelo secondo Giovanni

Se i primi tre Vangeli sono detti Sinottici perché presentano una struttura affine e contenuti similari tanto da permettere una lettura per ampi tratti simultanea, il Quarto Vangelo, uscito dalla penna dell’Apostolo Giovanni, è l’outsider del gruppo, che accresce e puntualizza le conoscenze su Gesù lasciate dai suoi predecessori, attingendo ad un arsenale tematico e contenutistico al quale nessuno aveva fino ad allora posto mano. Questo non vuol dire che esso non fosse conosciuto, ma che non era stato utilizzato per la stesura di opere di consultazione. Sulla genesi letteraria, la datazione e le fonti del Quarto Vangelo, sulla identificazione del suo autore mi sono già dilungato in precedenza. Qui vale la pena di evidenziare che il simbolo del Quarto Evangelista è meritatamente l’Aquila, il cui volo è altissimo e il cui sguardo può inabissarsi, nella credenza degli antichi, persino nel Sole. Ciò in effetti è coerente con l’eccezionale profondità mistica e spirituale di tutto il Vangelo, sicuramente il testo più eccelso, da questo punto di vista, di tutto il NT e forse di tutta la Bibbia. Lo scopo del Vangelo giovanneo è dimostrare che Gesù è il Figlio di Dio, il Verbo del Padre, incarnato e fatto Uomo.

L’AUTORE

Giovanni era figlio di Zebedeo e di Salome; suo fratello era Giacomo il Maggiore; nacque a Bethsaida e fu pescatore sul Lago di Galilea, dove divenne discepolo di Giovanni il Battista. Era col padre e col fratello quando Gesù lo chiamò alla Sua sequela (Mt 4,21-22; Mc 1,19-20; Lc 8,3; Gv 1,39-40). Egli fu il Discepolo prediletto (Mt 17,1; 26,37; Mc 5,37; Lc 22,8), per la sua giovane età che si infiammò tutta dell’amore per il Maestro Divino. Potè reclinare il capo sul Petto di Gesù la sera dell’Ultima Cena ed ascoltare i palpiti del Cuore del Redentore ormai prossimo al Sacrificio (13,23-25): a lui il Signore, propiziato da tanta filiale tenerezza, confidò il doloroso segreto del tradimento dell’Iscariota. Accompagnò coraggiosamente il Signore nelle varie tappe della Sua Passione, unico tra gli Apostoli che non temette di fare la fine del Maestro. Sul Calvario raccolse il testamento del Redentore moribondo facendosi custode di Maria SS., a Cui fu dato come nuovo figlio (19,26-27). Dopo l’Ascensione condivise con Pietro il comando della Chiesa di Gerusalemme (At 4) e con lui si recò ad evangelizzare la Samaria (At 8,14); indi rientrò nella capitale dove soggiornò con regolarità per assistere la Vergine Maria. Forse Giovanni abbandonò Gerusalemme provvisoriamente già nel 42, per sfuggire alla persecuzione di Erode I Agrippa (10 a.C.-44 d.C.), assassino del fratello e incarceratore di Pietro, e già da allora potrebbe essersi recato in Asia Minore, con la stessa Madre di Dio, per poi tornare in patria dopo il 44. Nella città vi sono memorie monumentali legate sia all’Apostolo che alla Vergine, per cui l’ipotesi non è peregrina. Di certo lasciò Gerusalemme dopo la Dormitio della Vergine Maria, avvenuta secodo Eusebio nel 48, non senza aver partecipato al Concilio di Gerusalemme. Nel 53 potrebbe essere ancora a Gerusalemme. Nel 57 in ogni caso non era più in città. Se datiamo il soggiorno più lungo di Paolo ad Efeso tra il 54 e il 57, non ci sarebbe da meravigliarsi che, essendo Giovanni giunto dopo, questi non sia mai menzionato negli Atti o nella corrispondenza dell’Apostolo delle Genti con gli Efesini. Le tre Lettere di Giovanni, nell’ordine di Seconda, Terza e Prima, sono legate all’ambiente giudaico-cristiano ma diffuse in Asia Minore; stigmatizzano gli gnostici e i docetisti, sono ascrivibili al periodo tra il 60 e il 65, con richiami alle Lettere di Giuda e Seconda di Pietro.

Quando Giovanni iniziò per certo il suo soggiorno stabile ad Efeso, nel 66, gli altri Vangeli erano già stati scritti: in quella data, come dicevo in precedenza, si colloca la stesura del suo Vangelo. Questo soggiorno stabile non impedì all’Apostolo altri spostamenti, ma la sua Chiesa era ormai quella di Efeso.

Tutti gli autori antichi attestano che egli non fu martirizzato, ma che ampiamente soffrì per il Vangelo. Nel corso della persecuzione domizianea Giovanni subì un tentativo di martirio, essendo immerso vivo in una caldaia di olio bollente, da cui però uscì illeso. Girolamo in particolare scrive: "Giovanni, Apostolo prediletto di Gesù, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo decollato da Erode, [..] avendo Domiziano decretato la seconda persecuzione nel quattordicesimo anno dopo Nerone [ossia nell’81 n.d.r.], egli fu relegato nell’isola di Patmos; sotto Nerva tornò ad Efeso, ove morì di vecchiaia, sessantotto anni dopo la Passione di Cristo [ossia nel 98-99 n.d.r.] (1)." La persecuzione domizianea combacia con la notizia che noi abbiamo di un apostolato romano di Giovanni, dataci dagli Atti che portano il suo nome. Essi, attribuiti a Lucio Carino e datati tra il 140 e il 150, non debbono essere destituiti di ogni fondamento storico, nonostante le infiltrazioni gnostiche e l’uso disinibito di elementi fantastici e meravigliosi (come la distruzione del Tempio di Artemide ad Efeso). Il nucleo storico è ancora visibile, sotto gli elementi docetistici che avvalorano una interpretazione allegorica della Passione di Gesù e una polimorfia del Suo Corpo, nonché sotto il monarchianesimo e l’encratismo che percorrono il testo. Tali degenerazioni dottrinali sono in effetti degradazioni di alcuni luoghi teologici propri del Vangelo giovanneo, alla cui tradizione quindi l’autore voleva riallacciarsi a suo modo, per cui anche le notizie storiche che fornisce appaiono sotto una luce più favorevole.

Non mancano ipotesi che retrodatano il suo esilio. Morto Nerone nel 68 e impostisi i Flavi, Domiziano, reggente a Roma dal gennaio al giugno del 70 mentre il padre Vespasiano (69-79) e il fratello Tito (79-81) assediavano Gerusalemme, avrebbe già da questa data esiliato Giovanni Apostolo a Patmos, dove questi scrisse l’Apocalisse prima ancora che il Tempio fosse distrutto e con una nitida memoria della persecuzione di Nerone (14, 8; 18, 2; 11, 1 ss.; 13; da cfr. con Tacito, Hist. 3, 72.83; 4, 1). Avvenuto il rientro di Vespasiano, Giovanni potè lasciare Patmos per dedicarsi alla stesura del Quarto Vangelo. Su questo torneremo a proposito dell’Apocalisse, quando ne parleremo.

STRUTTURA

Essa è incentrata su uno schema settenario simbolo della pienezza di Cristo, e sul cui significato diremo dopo. Distinguiamo un Prologo, Quattro parti ed un Epilogo.

Il Prologo (1,1-18) verte su Cristo, che è Vita nella Settimana della Creazione e poi Luce nella Settimana della Nuova Creazione. Esso è di altissima ed impareggiabile densità teologica e tratta mirabilmente i temi della Unità e Multipersonalità di Dio, delle Relazioni tra le stesse Persone del Padre e del Figlio, della modalità della Generazione del Figlio in quanto Verbo, della Sua Sussistenza diofisita in seguito all’Incarnazione e alla Nascita di Spirito Santo, della Sua funzione soteriologica per l’uomo.

La Prima Parte consta di Sette giorni. Vi distinguiamo la Testimonianza di Giovanni il Battista davanti ai Giudei (1,19-28), la presentazione di Cristo, da parte dello stesso Giovanni, quale Agnello di Dio (1,29-34), la vocazione di Andrea e dei figli di Zebedeo (1,35-39), la chiamata di Cefa ribattezzato Pietro (1,40-42), quella di Filippo (1,43-46) e quella di Natanaele (1,47-51). Le Nozze di Cana chiudono come circostanza di tempo il ciclo, in cui tutto è concorso a mostrare Cristo come Luce e Vita.

La Seconda Parte comprende sette miracoli: il cambiamento dell’acqua in vino a Cana (2,1-11), segno di una nuova vita; il discernimento spirituale e la conseguente conversione della Samaritana (4,1-42), a cui Gesù annunzia l’acqua zampillante per la Vita eterna dai Suoi discepoli e per mezzo della quale si fa conoscere ai Samaritani che però ad un certo punto non credono più per la testimonianza della donna ma per quello che essi stessi vedono ed odono; la guarigione del figlio di un dignitario della corte erodiana (4,46-54), avvenuto a distanza; la guarigione del Paralitico alla Piscina di Bethesda (5,1-9); la moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,1-13); la guarigione del Cieco Nato (9,1-41); la resurrezione di Lazzaro (11,1-46). Essa è inframmezzata da importanti Discorsi ed altri eventi topici della Vita di Gesù; la Cacciata dei mercanti dal Tempio (2,13-22), il Discorso con Nicodemo (3,12-21), il Discorso sul Pane della Vita (6), le dispute a Gerusalemme sulla messianicità di Cristo (7-10) e la Sua autopresentazione come Fonte delle Acque della Vita (7,37), Luce del Mondo (8,12) e Buon Pastore (10); la definizione di Gesù di Se stesso come Resurrezione e Vita (11,25); l’avanzamento del complotto del Sinedrio contro di Lui (12,37-50).

La Terza Parte è la Grande Settimana di Pasqua (12-19), comprensiva della Cena di Bethania, dell’Unzione, dell’Ingresso in Gerusalemme, della Lavanda dei piedi degli Apostoli, dei Discorsi dell’Ultima Cena, del Gethsemani, del Processo religioso e di quello politico, dell’Ecce Homo, della Crocifissione, della Morte, della Trafittura del Costato e della Sepoltura.

La Quarta Parte verte sulla Resurrezione. Vi distinguiamo il viaggio di Maria di Magdala al Sepolcro (20,1-18); l’Apparizione ai XII la sera di Pasqua da parte del Risorto (20,19-25); l’Apparizione di Gesù a Tommaso (20,26-29) otto giorni dopo; la Prima conclusione (20,30).

L’Epilogo (21,1-25) comprende l’Apparizione di Gesù sul Lago di Tiberiade; la conferma del Primato di Pietro; la predizione sull’avvenire di quest’ultimo e di Giovanni; la Seconda conclusione.

DISAMINA CONTENUTISTICA

Il Quarto Vangelo ha una sua propria unità armonica, che suppone e completa molte cose dei Sinottici. E’ un’opera molto complessa il cui punto di vista essenziale è che Gesù è il Verbo fatto Carne. Il mistero dell’Incarnazione guida tutto il pensiero giovanneo, che si esprime attraverso i concetti e i linguaggi della missione e della testimonianza. Gesù è il Verbo mandato dal Padre sulla terra Che, compiuta la sua missione, deve tornare in Cielo (1,1). Egli deve annunziare agli uomini i misteri del Padre, ossia ciò che ha visto e udito presso di Lui. Egli è accreditato dal Padre per mezzo dei segni che gli ha concesso di compiere (2,11) e che sono una manifestazione discreta della Sua Gloria nell’attesa della Resurrezione (1,14). Come profetizzato da Isaia (52,13), il Figlio dell’Uomo dev’essere elevato da terra e attirare tutti a Sé, per poi tornare al Padre e ritrovare quella Gloria che aveva presso di Lui prima che il mondo fosse (17,5.24). Il Cristo è la manifestazione di Dio, più grande di quelle della Creazione, di quelle destinate ad Abramo, a Giacobbe, a Mosè, ai Profeti. La Gloria del Giorno del Signore profetizzata da Amos (5,18) si compie in quello di Gesù e nella Sua ora (2,4), quella della Sua elevazione appunto, che è anche la Sua glorificazione. In tale contesto si rivela la grandezza trascendentale dell’Inviato (8,24; 10,30) entrato nel mondo per dare la Vita a coloro che ricevono nella Fede il Suo messaggio di salvezza (3,11). Questa missione di salvezza del Figlio manifesta quindi appieno la bontà del Padre per il mondo (17,6).

Sono ovviamente anche presenti i motivi escatologici nel Vangelo giovanneo: l’attesa dell’Ultimo Giorno, della Venuta di Gesù, della Resurrezione della Carne e del Giudizio Finale; essi sono tendenzialmente attualizzati ed interiorizzati, per cui la Venuta di Cristo è innanzitutto quella nella Carne, indi quella in ognuno di noi tramite lo Spirito e poi quella per il Giudizio. Questo è già compiuto nell’intimo dei cuori da subito in attesa di quello dopo la morte e alla Fine del Mondo. La Vita eterna è il Regno dei Cieli dei Sinottici ed è già nell’anima dei credenti. Tuttavia la grande battaglia tra bene e male che contraddistingue l’escatologia è tratteggiata con precisione come già presente, per cui i nostri sono già gli ultimi giorni: in essi i Giudei sono solo l’avamposto, nella loro incredulità, dell’azione anticristica delle tenebre (8,12), la potenza oscura che è identificata anche con il mondo (1,9-10) e che è retta dal satana, che di tale mondo è il principe. Ogni uomo deve prendere posizione davanti al Cristo, il Quale compie il giudizio del mondo (12, 31-32), sconfiggendolo e condannandolo (16,7-11,33) attraverso la Resurrezione, che confonde gli increduli. E’ proprio per la Resurrezione infatti che Cristo è nato ed è salito sulla Croce, ed è per completare questa missione che Egli tornerà alla Fine dei tempi.

Ci si è interrogati sulla precisa sequenza che Giovanni volle dare ai fatti che narrò, a causa di alcune apparenti difficoltà: la difficile sequenza tra i cc. 4-7,24; l’anomalia dei cc.13-17 dopo l’addio di 14,31; la collocazione di 3,31-36 e 12,44-50. Potè dipendere dalle molteplici fasi redazionali a cui il Vangelo fu sottoposto da Giovanni stesso e di cui abbiamo parlato in precedenza? E’ possibile. Ma non tutte le difficoltà testuali sono inspiegabili, anzi molte sono solo apparenti.

L’Evangelista dispone la sua materia attorno ai nuclei fondanti dell’anno liturgico ebraico e alla loro ripetizione nella Vita di Gesù: tre Pasque (2,13; 6,4; 11,55), una festa non precisata (5,1), quella delle Capanne (7,2), quella della Dedicazione (10,22). Il ciclo settenario di cui parlavamo a proposito della struttura del Vangelo e del cui significato avremo modo di tornare a parlare, ha anche un valore storico e ricorre anche oltre i luoghi fino ad ora citati, come ad esempio nella Settimana della Festa delle Capanne (7,2.14.37). In tal modo si può schematizzare il racconto giovanneo in questo modo: dopo il Prologo, il Ministero di Gesù è scandito dalla Settimana inaugurale di cui ho detto e dagli avvenimenti che gravitano attorno alla Prima Pasqua, trapassa nella Seconda Festa che cade di sabato a Gerusalemme e in cui Gesù trova la prima opposizione alla Rivelazione (5,1-47), prosegue in Galilea con la Seconda Pasqua e la nuova opposizione al messaggio divino (6,1-71), tocca un apice nella grande rivelazione messianica della Festa delle Capanne rigettata in modo altrettanto netto (7,1-10,21), prosegue nella Festa della Dedicazione quando viene decisa la Morte di Gesù (10,22-11,54) e termina con la fine del ministero pubblico di Gesù e coi preliminari della Terza Pasqua (11,55-12,50). Questi contenuti sono chiamati di solito in modo onnicomprensivo “Libro dei Segni”. Vi è poi il Libro dell’Ora di Gesù, ossia il racconto della Sua Pasqua (13,1-20,31), che inizia dall’Ultima Cena (13,1-17,26), prosegue nella Passione (18-19), termina nei racconti della Resurrezione (20,1-9), marchiati a fuoco dalla Prima conclusione. Nell’Epilogo di fatto leggiamo l’annunzio della vita della Chiesa e l’attesa del Ritorno di Gesù.

Storicamente, il Quarto Vangelo è fonte fededegna, sia per il modo sempre originale e specifico di trattare i fatti, compresi quelli presenti nei Sinottici, sia per le relazioni di mutua influenza tra esso e quello di Luca, sia per la precisione con cui puntualizza cose importanti come la durata del ministero di Gesù, la cronologia della Passione, nonché nella scelta di resoconti più puntuali – come la data della Purificazione del Tempio, che è la stessa in Luca - e nella correttezza della topografia di Gerusalemme. Il Vangelo in genere è pieno di particolari concreti, di elementi che suppongono e provano nell’autore la conoscenza dei costumi giudaici e della mentalità e della casistica rabbinica, di ricordi afferenti all’Umanità genuina e toccante del Cristo persino dopo la Sua Resurrezione.

DISAMINA LETTERARIA

L’autore è senz’altro un ebreo che a lungo ha vissuto in Palestina, ha fatto parte del Collegio Apostolico, che scrive per i Gentili e abita presumibilmente tra essi, almeno nella fase di stesura definitiva del Vangelo; egli è un testimone oculare, ma non è esatto, come spesso si è detto, che scriva in modo tale da lasciar supporre che Israele non esista più come popolo.

Questi è appunto Giovanni, la cui paternità del Vangelo oggi nessuno più seriamente può mettere in discussione. Il dubbio sulla incapacità di un pescatore di elevarsi a simili altezze è superato dalla conoscenza del clima culturale della Galilea e dei fermenti religiosi del I sec. nel mondo giudaico, oltre che dalla consapevolezza dell’azione dello Spirito Santo. Il suo Vangelo, che trascende le regioni degli Angeli e va dritto a Dio, come sentenziò Agostino, è senz’altro il frutto maturo di un animo che si raffinò nella dimestichezza e nell’intimità col Cristo, con la Vergine e nella lunga contemplazione. Un frutto maturo che si identifica con l’unica vera opera storica su Gesù, essendo gli altri Evangeli sostanzialmente delle cronache. La cernita del materiale e il suo uso attestano questa valutazione. Il Vangelo ha un forte simbolismo che porta al significato metastorico e metaletterario dei fatti narrati e realmente accaduti e delle forme retoriche adoperate per esprimerli. Il suo intento è esplicitamente quello di suscitare la Fede in chi legge i segni compiuti da Gesù, che però l’autore non pretende in alcun modo di esaurire.

Giovanni ha grande maestria e tocca corde molto diverse: ingenua semplicità e sublime profondità, vivacità drammatica, colore e vita prestate alle idee più astratte e sublimi. Tale capacità è stata molto ammirata dai Padri e considerata anch’essa miracolosa, quanto le cose che serve a raccontare e quanto la capacità di suscitare persone che si innamorino dei suoi voli più che celesti (Giovanni Crisostomo).

Il genere letterario di riferimento è oramai quello specifico del Vangelo in quanto tale, (20,31), ossia una predicazione che, sebbene più tardiva, si lega all’annuncio di sempre, che possiamo definire kerygmatico pur con tutti i limiti di questa espressione oggi, in quanto incentrato sui punti essenziali di esso: la designazione di Gesù come Messia mediante la discesa dello Spirito Santo secondo la testimonianza di Giovanni Battista (1,31.34), la manifestazione della Gloria di Cristo in opere e parole (1,35-12,50); il racconto della Passione, della Morte e della Resurrezione attestata da alcune apparizioni del Risorto (13,1-20,20); la missione apostolica di remissione dei peccati e col dono dello Spirito (20,21-29).

Giovanni si presenta come autore e come testimone apostolico oculare, anche se anonimo: egli è il discepolo amato da Gesù, che lo seguì dall’inizio (1,35s.), che visse la Passione col Maestro (13,23; 19,26.35; 18,15 ss.), che vide la Tomba vuota (20,2s.) e il Risorto (21,7-20-24).

Il Quarto Vangelo si situa bene nel contesto letterario anteriore alla Distruzione del Tempio: echeggia lessico e concetti attestati a Qumran, ma usati in modo libero, originale ed innovativo. In quei documenti la conoscenza è centrale e vi è descritta con un vocabolario che a sua volta fu strumentalizzato dalla gnosi; vi si scorge un certo dualismo tendenziale mediante antinomie concettuali e simboliche come luce-tenebra, verità-menzogna, angelo di Dio e angelo di tenebre; si esorta alla mistica dell’unità e all’amore fraterno in chiave escatologica. In Giovanni tali argomenti tornano in una forma specifica che è appunto quella cristiana, atta a parlare a quei pii ebrei che li adoperavano per indurli ad aderire a Cristo che dava significato ad essi.

Il simbolismo a cui facevamo riferimento serve a mettere in luce, nel Quarto Vangelo, il senso della Vita, delle opere e delle parole di Gesù, veri segni divenuti pienamente intellegibili solo dopo la Sua Resurrezione (2,22; 12,16; 13,7; 2,19 ss.), grazie all’azione dello Spirito (14,26ss.), quasi che il Vangelo in questione esprima una fase più matura dell’unica Rivelazione in Cristo e in quella apostolica. La stessa Vita di Cristo è inquadrata nella liturgia giudaica, sebbene Egli ponga Se stesso al centro di una religiosità nuova ed autentica in spirito e verità (4,24) che si attua nei Sacramenti. In questo senso, il grande Discorso con Nicodemo è già una catechesi battesimale (3,1-21), mentre nei Racconti del Cieco Nato e del Paralitico si scorge sullo sfondo l’idea del Battesimo come illuminazione (9,1-39) e resurrezione (5,1-14; 7,21-24). Il c. 6 raccoglie un grande Discorso di Gesù sull’Eucarestia. La Nuova Pasqua cristiana che deve subentrare alla mosaica è un concetto disseminato in tutto il Vangelo nelle forme di una compiuta catechesi (1,29.36; 2,13; 6,4; 19,36). I riti giudaici di purificazione (2,6 e 3,25) cedono il passo alla purificazione delle anime mediante la Parola e lo Spirito (15,3 e 20,22ss.). Il fatto che questi Discorsi siano usciti in tal modo dalla bocca di Gesù non inficia la valenza letteraria del Vangelo e la possibilità di metterla in capo a Giovanni.

La concezione storica del Vangelo di Giovanni, che è parte integrante della sua letterarietà, è assai diversa da quella odierna: è divina e umana, è teologica, è destinata a sfociare nell’eternità. E’ il racconto della Salvezza dell’uomo operata dal Messia Figlio di Dio. I fatti storici sono visti nella loro luce spirituale: oltre a quanto abbiamo avuto modo di dire, sottolineiamo che Gesù compie in Giovanni tutte le grandi figure messianiche dell’AT, che è l’Agnello di Dio, il Nuovo Tempio, il Serpente innalzato nel Deserto, il Pane di Vita che sostituisce la manna, il Buon Pastore, la Vera Vite e molte altre cose. Il Cristo storico è dunque profondamente umano e sacerdotale insieme.

DISAMINA STILISTICA

Anche la lingua e lo stile denotano l’origine semitica del Vangelo di Giovanni. Essi sono stati di riferimento per pensatori e mistici, e hanno una somiglianza in alcuni passi con le dottrine platoniche, come rilevò già Agostino. Piacquero agli gnostici, che più o meno consapevolmente li imitarono e che con Eracleone commentarono per primi il Vangelo in uno scritto che Ireneo confutò parola per parola. Lo stile giovanneo come del resto lo stesso Vangelo in genere sono stati oggetto di diverse analisi della Scuola della Storia delle Religioni e delle varie forme di critica letteraria.

Lo stile giovanneo risente di eterocliti influssi: l’ampia penetrazione dell’ellenismo nella Palestina e nella Galilea; la conoscenza della dottrina sapienziale veterotestamentaria e della sua implementazione filosofica e teologica per mano di Filone; la gnosi ermetica e l’allegorismo alessandrino; forse il confronto con le formule teologico-letterarie dei Mandei per i Discorsi di Rivelazione; la letteratura qumranica ed essenica in genere, con la loro terminologia basata sulle opposizioni e i dualismi – ai quali Giovanni aggiunge quello suo peculiare di alto-basso – il Targum palestinese ma anche il giudeo-ellenismo e persino il mondo samaritano nella loro ostilità verso il culto templare. Si tratta ovviamente di influssi che si riflettono anche nel contenuto. Una puntualizzazione meritano i Discorsi di Gesù: non sono, come si crede, una rielaborazione dell’Evangelista secondo uno stile proprio – questi non avrebbe avuto l’autorevolezza per imporlo – ma la conservazione delle ipsissima verba del Cristo mediante la memorizzazione e la stenografia. Essi sono contraddistinti da enfasi e ripetizione, da un movimento dialettico aggirante e dal refrain “amen amen lego hymin, in verità in verità vi dico”. Un attento confronto tra essi e i Discorsi sinottici mostrano alcune significative somiglianze, anche se i Discorsi giovannei sono ovviamente più profondi perché per la cerchia degli intimi e per il confronto coi dotti.

DISAMINA TEOLOGICA

I Padri affermano che Giovanni prese la penna per scrivere un Vangelo attestante la Divinità di Cristo e la Sua preesistenza all’Incarnazione, per controbattere le incipienti eresie e su esplicita richiesta dei Vescovi dell’Asia (Girolamo). Il Vangelo è, come abbiamo detto, essenzialmente spirituale e in questo completa i Sinottici, secondo una linea di azione che fu esplicitamente richiesta a Giovanni dai discepoli (Clemente di Alessandria).

Giovanni vuole che chi legge creda in Cristo Figlio di Dio e abbia la Vita. Questo è il primo grande tema del suo Vangelo: essa si identifica con il Verbo stesso, il Quale si fa Uomo in Gesù Che dunque, anche come tale, è la Vita stessa. Il Prologo del Vangelo fa da spiegazione, da interpretazione e da sintesi della Settimana della Creazione descritta nella Genesi mediante l’uso di concetti ad essa intimamente connessi. In questo fitto rimando di significati il Verbo di Dio, Suo Figlio, la Seconda Persona della Trinità, è la Parola Creatrice mediante cui ogni cosa è stata fatta e sussiste. Come tale è sorgente della Vita, e tale Vita, che Gli appartiene sostanzialmente tanto quanto la Divinità – essendo la medesima cosa – è la Luce degli uomini, che è il secondo grande tema del Quarto Vangelo.

Questa Luce, anch’essa sostanziale e anch’essa termine che indica la Natura e la Persona del Verbo, nonché la Sua missione, è increata, è primordiale, è incorporea, è creatrice ed è venuta nel mondo dapprima come Parola pronunziata per conto di Dio da Mosè a Giovanni il Battista, e poi, dopo questi, come Carne, come Nuovo Adamo. La Luce divide gli uomini: coloro che la odiano per le loro opere cattive (3,20) o la evitano per timore delle autorità (12,42) e quelli che mediante essa accedono alla Vita mediante una nuova nascita (3,3.5) appunto nel Nuovo Adamo.

L’avvento di Questi introduce un terzo capitale tema, quello della Nuova Creazione. L’opera di Cristo fu una Nuova Creazione a tutti gli effetti e solo in tempi recenti gli esegeti hanno evidenziato che la narrazione iniziale del Vangelo, dalla Confessione ufficiale del Battista su Gesù alle Nozze di Cana, copre un ciclo di Sette giorni. Proprio transustanziando l’acqua in vino Gesù si mostra come Nuovo Creatore. Questo simbolismo del numero Sette continua ad essere presente nel Vangelo: Giovanni narra Sette miracoli, per mostrare che il Cristo è Luce e Vita.

Entrambe guidano lo sviluppo ulteriore della narrazione evangelica e sono ordinariamente raffigurate attraverso due simboli che sono anch’essi temi chiave del Vangelo per la loro polisemia: l’Acqua, in cui si radunano i significati della Fede, del Battesimo, della Purificazione, e il Sangue, che rimandano al Vino e al Pane; entrambe introducono eloquentemente al senso profondo del Sacrificio, dell’Amore, della Carità e dell’Eucarestia. Acqua e Sangue sgorgano dal Costato squarciato di Cristo trafitto dalla Lancia dopo la Morte e sono i segni efficaci dei due Sacramenti che danno e mantengono la vita nella Chiesa: il Battesimo e l’Eucarestia.

Il tema della Fede è anch’esso predominante: per rafforzarla è scritto il Vangelo (20,30 ss.); essa implica un impegno di tutta la persona.

Sottolineiamo anche il tema della Regalità di Cristo: attribuitoGli fin dall’inizio, il titolo di Re (1,49) torna con insistenza nella Passione e nei brani che l’annunziano (3,14; 8,28; 12,32.34; 19,19). In genere, i temi cristologici sono fitti e profondi: Cristo è il Profeta annunziato da Mosè ma ha di Dio una conoscenza intima che quegli non aveva (6,46); Egli è il Pane del Cielo che nutre i fedeli (6,15-18); è il Pastore messianico che deve riunire Ebrei e Pagani (10,16); è la Mistica Vite che opera tutto in tutti; ma soprattutto è Dio, tanto da potersi chiamare “IO SONO” (8,24.28.56; 13,19), essendo consostanziale al Padre (10,30). Da questa identità sostanziale Giovanni trae il modello di una carità universale che deve regnare tra i fedeli, il vero comandamento da cui scaturiscono tutti i restanti (13,34ss.).

Il Settimo Miracolo narrato è la Resurrezione di Lazzaro nel Capitolo XI. Esso introduce a quella Grande Settimana di Pasqua, che Gesù anteprepara con una Cena a Bethania, dove appunto c’era quel Lazzaro che Egli aveva ridestato dal sonno della morte. Inizia così il Racconto nevralgico dell’Unzione a Bethania, della Cena, della Passione, della Morte e della Sepoltura (cc.12-19). Tale narrazione è, ad un tempo, fatto e tema centrale e portante del Vangelo.

Analogamente e ancor di più si può dire della Resurrezione (cc. 20-21). E’ ancora all’inizio di una Settimana che la Maddalena va al Sepolcro; è in condizioni di buio che lo va a visitare; qui ha la prima Cristofania. E’ la sera di quel giorno, il Primo, che Gesù appare ai Suoi Apostoli. Ed è otto giorni dopo che Lui si manifesta a Tommaso, il Quale crede perché ha visto. E’ evidente il significato dello schema settenario di cui dicevamo parlando della struttura del Vangelo.

Un ultimo tema da indicare è quello dello Spirito Santo: le promesse su di Lui sono dettagliate, Egli è fonte di vita interiorizzando la Parola di Gesù e rendendola attiva nel cuore dei credenti (3,5; 4,13 s.; 6,63; Egli solo potrà consolare i fedeli quando Gesù non ci sarà e li guiderà alla verità tutta, ricordando tutto quello che il Signore ha detto.

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Breve introduzione ai Libri Storici del NT

I MODI DELLA STORIOGRAFIA NEOTESTAMENTARIA

I Libri Storici del NT sono particolari e rifuggono da una definizione unitaria. Dobbiamo distinguere i Vangeli dagli Atti, sebbene questi ultimi siano il secondo libro di un’unica opera storica comprendente anche il Vangelo di Luca. La classificazione degli Atti è più semplice, afferendo al genere dei Commentari, sulla falsariga, per fare un esempio, del De Bello Gallico o Civile di Cesare. I Vangeli invece sono di più difficile decifrazione. Sono senz’altro libri storici che si possono avvicinare al genere della biografia classica, e risentono dell’influenza della storiografia greco-latina, ma sono ovviamente anche legati alla tradizione storica biblica, all’interno della quale hanno modelli anche arcaici: i racconti evangelici sono a volte più simili, a mio avviso, ai cicli di Elia o di Eliseo, e persino ai cicli dei Patriarchi o di Mosè – peraltro con una pluralità di versioni, che quindi suppone un processo inverso a quello che portò alla formazione di quei modelli, andando quello verso l’armonizzazione, i Vangeli verso la multiformità- che ai più recenti libri dei Re o delle Cronache o dei Maccabei. Inoltre, solo Matteo e Luca sono biografie di Gesù in senso completo, mentre Giovanni è l’unico a sviluppare una interpretazione storica di matrice teologica dei fatti narrati, mentre gli altri sono più cronisti. In realtà il Vangelo, per questa pluralità di motivi, per le relazioni con i generi letterari teologici (come il midrash ebraico o come i racconti legati ai cicli degli eroi sovrumani come Enoc) e storici del mondo antico, è esso stesso un genere letterario che può essere definito come l’annunzio narrativo della missione e dell’opera di Gesù, Figlio di Dio. La storicità sta tutta nell’inserzione del Divino nella storia, con una radicalità, quella dell’Incarnazione, che non c’era mai stata prima né si sarebbe ripetuta. Il Vangelo è la trasposizione verbale dell’Incarnazione del Verbo, ed è parola storica pronunziata dalla Parola, la Quale è comunicazione anche con la semplice azione. In questo senso storico si avvicina ai testi più remoti dell’AT e alla letteratura apocrifa mitologica giudaica del I sec. ma non è un libro di miti; analogamente si sostanzia di fatti storici ma non è una cronaca né tantomeno un saggio interpretativo. Spesso è composto secondo le regole dell’arcaica storiografia ebraica, altre volte le contamina con quelle dell’ellenismo. E’ appunto Vangelo, secondo uno schema che nel I sec. ha dato quattro opere, ma che a partire dal II ha generato una pletora infinita di altri esemplari che oggi noi cataloghiamo complessivamente come apocrifi ma che in realtà sono forme teologicamente molto diverse di un unico genere che, attraverso di esse, si è articolato anche in svariati sottogeneri. A margine annoto che anche gli Atti aprirono una teoria di opere analoghe e più tardive dedicate agli Apostoli e ai discepoli di Gesù.

METODI DI STUDIO DEI LIBRI STORICI DEL NT

Dalle ricerche sulla questione sinottica è derivata la «Critica delle fonti», ritenuta preliminare ad ulteriori analisi. Consiste nel mettere a confronto i testi paralleli dei tre sinottici, rilevandone sia le somiglianze, sia le differenze, per appurare se ci siano dipendenze e chi dipenda da chi. Se è infatti possibile accertare concordanze strette, si può ipotizzare un contatto diretto tra i testi, mentre le differenze servono a individuare quale testo sia stato modello.

La «Storia delle forme», che fa capo agli studi di Karl Ludwig Schmidt (1919), Martin Dibelius (1919) e Rudolf Bultmann (1921), si è interessata della formazione e della trasmissione dei materiali confluiti nei Vangeli a partire dalle singole ed ipotetiche unità primitive. Per essa si possono riconoscere nei Vangeli piccole unità o «pericopi», talora non ben connesse col contesto o sistemate in modi diversi nei diversi Vangeli. Ha quindi studiato ogni brano isolabile dal contesto cercando di classificarlo, con risultati invero non concordi e non sempre chiari, e poi di ricostruirne la forma originaria, eliminando gli elementi che risultino essere delle aggiunte; quindi ha cercato il suo significato e la sua funzione nella situazione in cui fu elaborato (Sitz im Leben, «collocazione nel contesto vitale») e poi anche la sua storia successiva con gli adattamenti e le modificazioni legate a nuove situazioni e nuovi bisogni della comunità cristiana. Tale indirizzo ha avuto ampio successo ma riduce il fatto storico a una sorta di noumeno e il Cristianesimo ad una sorta di docetismo. Non a caso il magistero ha dovuto ricordare più volte che il Cristo della fede e il Gesù storico sono la stessa cosa, fino alla Redemptoris Missio di San Giovanni Paolo II. La «Storia della redazione» (Redaktionsgeschichte) si è sviluppata soprattutto dagli anni ‘50 in poi (uno studio fondamentale è quello di W. Marxsen del 1956); ha integrato la «Storia delle forme», in quanto ha posto l’accento sulle caratteristiche e sugli apporti del redattore finale del Vangelo, che gli studi precedenti tendevano a ignorare o sottovalutare.

IL CONTENUTO DEI LIBRI STORICI: LA VITA DI CRISTO (2)

Il Verbo Incarnato non è un personaggio mitico, ma storico. La Sua vita, avvenuta in un’epoca precisa e in un luogo determinato, terminata con la morte come quella di tutti noi, poi ricominciata anche corporalmente con la Resurrezione, e che ancora oggi prosegue in Cielo, è descritta in fonti storiche – innanzitutto i Vangeli – che possono essere studiati e sottoposti ad analisi con metodi storico-filologici moderni. Il loro esame, lungi dal dover essere scoraggiato, è invece doveroso; i risultati, ormai acclarati e sufficientemente chiari per chi non abbia preconcetti, sono una conferma della fede perché, constatando la storicità della Vita di Gesù, permettono di credere in Lui quale Verbo di Dio in mezzo a noi. Sorta di nuovo tipo dei preambula fidei, la dimostrazione della storicità dei Vangeli è una frontiera importante della nuova apologia della religione, e meriterebbe più attenzione. Non è compito di questo studio fare una critica storica del NT e una metacritica delle sue interpretazioni storiografiche, ma non possiamo esimerci dal ricordare quattro argomenti forti. Anzitutto i Vangeli sono certamente stati scritti in tempi vicinissimi ai fatti narrati, per cui non sono assimilabili alla letteratura mitica e leggendaria che in genere è alla base delle religioni. Poi hanno avuto autori identificati, che hanno redatto da cima a fondo i testi, come ogni buon testo storiografico e biografico antico, e che sono senza ombra di dubbio gli apostoli Matteo e Giovanni, nonché Marco, discepolo di Pietro e Luca discepolo di Paolo.

La loro tradizione testuale non ha conosciuto oscillazioni neanche men che significative di sorta, come dimostra una serie ininterrotta di codici dalla prima metà del I secolo sino all’invenzione della stampa, scritti da ogni generazione, in moltissimi luoghi e in tutte le lingue. I fatti narrati hanno riscontri certi extratestuali, in quanto hanno corrispettivi significativi – anche se esigui – nella letteratura extrabiblica greca, latina, ebraica, samaritana, nonché di molte altre lingue antiche, e anche numerosi e certi agganci nell’archeologia. Le discordanze tra i Vangeli, peraltro mai sostanziali, sono appianabili da una attenta lettura comparata, da cui emerge che ogni autore sacro scrisse per completare e integrare i precedenti. Inoltre, va detto che la ricca letteratura apocrifa – espressione ambigua che designa moltissimi testi di eterogenea origine ed eteroclita finalità – non ha nemmeno lontanamente una credibilità paragonabile ai testi canonici, sia in ordine alla datazione, che all’autenticità, alla tradizione testuale e ai riscontri extratestuali. L’eccessiva, morbosa attenzione riservata ai testi apocrifi è un segno della malafede e del pregiudizio anticristiano contemporanei, e della dilagante ignoranza ed eresia. E’ un rigurgito di gnosticismo, l’antica eresia che cercava la salvezza nella conoscenza esoterica, e non nel Sangue di Cristo. Da essa non ci si difenderà mai abbastanza. Il Cristianesimo è una religione storica, perché il Verbo si è fatto Carne, e ha vissuto una Vita che è tutta datrice di salvezza. Questa Vita, proprio per questa potenza salvifica che sprigiona, è dunque mistero, non solo per i suoi aspetti inspiegabili, ma anche perché rimanda sempre alla compresenza, nel soggetto Cristo, della Natura divina con l’umana, e soprattutto perché attraverso di essa continuamente Egli opera la nostra salvezza. In ogni caso, una sommaria esposizione della Vita di Gesù, com’è descritta nei Vangeli, può avvenire nel modo che segue, mediante la focalizzazione di alcuni misteri principali, che manifestano gli aspetti determinanti della Sua missione.

La Vita di Cristo comincia, come quella di ogni altro essere umano, con la sua Concezione. Essa avviene appunto di Spirito Santo nel seno di Maria di Nazareth, in quella località, nella casa di Lei, su cui oggi sorge la Basilica dell’Annunciazione. La Beata Vergine era appartenente ad una famiglia sacerdotale, imparentata con la discendenza di David, nella quale aveva trovato marito nella persona di Giuseppe di Nazareth. Era nata a Gerusalemme, dove aveva conosciuto Giuseppe, che era nato a sua volta nella vicina Betlemme. Per ragioni a noi ignote, in quegli anni Maria e Giuseppe vivevano appunto a Nazareth, ciascuno in una propria casa, entrambe individuate dall’archeologia. Probabilmente questo si deve al fatto che Giuseppe era carpentiere, e i grandiosi piani edilizi del re Erode (37-4 a.C.) nella Galilea lo avevano spinto a trasferirvisi per lavoro, assieme alla sua futura sposa. Ella ricevette dall’arcangelo san Gabriele l’annuncio di ciò che Dio stava per compiere in Lei; il messo celeste chiese il suo assenso rivelandole, almeno implicitamente, i grandi misteri – passati, presenti e futuri – della Vita sua e del suo preconizzato Figlio. Dinanzi al Fiat di Maria, che compensò la ribellione di Eva, si compì il grande miracolo e il Nuovo Adamo, insensibilmente, fu concepito in Lei. Da subito di Lui si seppe che sarebbe stato Re in eterno, discendente di David, Figlio di Dio; che sarebbe stato concepito di Spirito Santo e che sarebbe vissuto per sempre; che la Sua nascita non avrebbe infranto ma anzi avrebbe consacrato la Verginità materna, e sarebbe accaduto per opera dello Spirito Santo. Il racconto lucano dell’Annunciazione del Signore è dunque un sommario sia mariologico e cristologico di spessore. A questo evento seguì la Visitazione della Beata Vergine Maria a sua cugina Elisabetta, nella sua casa in Ain Karin di Giudea, presso Gerusalemme, luogo ancora oggi consacrato alla memoria di tali eventi. La fonte è ancora il Vangelo di Luca. Elisabetta, incinta anche lei miracolosamente, nonostante l’età avanzata e la sterilità, di Giovanni il Battista – la cui concezione, annunciata dallo stesso arcangelo Gabriele al padre Zaccaria mentre officiava nel Tempio in quanto sacerdote della classe di Abia, fu una preparazione della Nascita di Cristo – ricevette la cugina e, in Lei, il Redentore. Questi, prima ancora di nascere, già operò la salvezza altrui per mezzo della Madre, e non potendo ancora parlare con voce umana, si servì di quella di Maria per comunicare lo Spirito. In ragione di ciò, profeticamente, Elisabetta riconobbe la pienezza di benedizioni presente in Gesù e -conseguenzialmente- in Maria (che subito declamò il Magnificat); professò la Regalità dell’Uno e dell’altra, e ricevette la grazia che santificò suo figlio ancora nel suo grembo. In ragione di ciò, Giovanni sarebbe diventato il Precursore, il preparatore dell’avvento del Messia, annunziato dal padre Zaccaria al momento della sua nascita, tre mesi dopo, nel Benedictus. In questo cantico la funzione redentiva di Cristo è chiaramente delineata e ricondotta alle promesse dell’AT; in esso è delineata anche la missione di Giovanni Battista. La Madre di Gesù fu testimone di questi eventi e dopo circa tre mesi tornò a casa sua. Non mancò di palesare, forse subito dopo l’Annunciazione, il mistero che si era compiuto in Lei al suo sposo Giuseppe. La loro unione non era ancora perfezionata dalla convivenza, ma era già legale. I due avevano deciso di consacrare la loro verginità a Dio, sulla scorta di esempi ascetici allora in uso, come confermato dagli apocrifi e indirettamente riferito da Luca e Matteo. Una volta che Giuseppe, grazie alla visione onirica di un Angelo, ebbe vinto la sua ritrosia ad assumere la paternità di un Figlio concepito dall’alto, potè inserire il Nascituro nella discendenza davidica legale. La fonte di questa importante notizia, che dà compimento alla profezia di Isaia al re Manasse sulla concezione verginale del Messia nella Casa di Davide, è il Vangelo di Matteo.

Secondo Luca, compiuti i tempi della gravidanza, in corrispondenza dell’anno del Censimento di Publio Sulpicio Quirino in Siria Palestina, Maria generò verginalmente il Suo Unigenito in Betlemme, città in cui la coppia aveva il domicilio anagrafico e in cui era risalita per essere appunto censita. Si adempì così la profezia di Michea sul luogo della nascita del Salvatore. Era probabilmente la fine di novembre o di dicembre quando accadde il Natale del Signore. La grotta – ossia l’ambiente per gli ospiti e per gli animali, significativamente messi insieme nelle antiche case palestinesi dei poveri – è ancora oggi, assieme al resto della dimora paterna di Giuseppe, visibile sotto la Basilica della Natività. La Nascita fu umile ma non oscura: dei pastori, in seguito ad una rivelazione angelica, adorarono il neonato Cristo Signore, alla presenza di testimoni. A Lui, dopo otto giorni, nella Circoncisione, fu imposto il Nome di Gesù. Iniziò così la Sua missione redentiva, con il versamento del primo Sangue innocente, dando efficacia al significato del Suo Nome. Nella Presentazione del Signore al Tempio, avvenuta in concomitanza della Purificazione della Madre dall’impurità legale che si credeva avesse contratto in quanto puerpera, i genitori crearono l’occasione perché il Figlio fosse salutato Salvatore di tutto il mondo dal profeta Simeone, che per Lui intonò il Nunc Dimittis, e dalla profetessa Anna. Trattenendosi ancora a Betlemme immediatamente dopo tali avvenimenti, in base al racconto di Matteo la Sacra Famiglia potè ricevere l’ossequio di alcuni dotti Magi dell’Impero Partico, innanzi ai quali, essendo pagani, Gesù compì la sua prima Epifania divina, mostrandosi come Re. Essi erano infatti giunti in Betlemme seguendo un segno celeste preconizzato nell’AT da Isaia e in altri testi non canonici, quale foriero della nascita del Messia: la celebre Cometa, che probabilmente fu una congiunzione planetaria di grande splendore, tra Saturno e Giove, osservata e descritta anche da Keplero. Qui la storia di Gesù si mescola con la grande storia: i Magi, giunti dall’Oriente a Gerusalemme, furono ricevuti dal re Erode il Grande. Questi altro non era che un idumeo usurpatore del trono asmoneo e davidico, che regnava come vassallo di Roma. Al Re i Magi svelarono di essere giunti alla ricerca del Messia. Erode ne fu turbato e chiese agli illustri ospiti di cercarlo – dissimulando le sue reali intenzioni – affinchè potesse anch’egli sottomettersi a Lui. Essi allora partitono per Betlemme, nei luoghi dove appunto i Profeti avevano annunziato l’avvento del Messia. Avvertiti poi in sogno, fecero ritorno al loro paese per un’altra strada. Quando Erode si accorse di essere stato ingannato, decise a scopo prudenziale di uccidere tutti i bambini di Betlemme dai due anni in giù. Fu la Strage degli Innocenti, vaticinata da Geremia. Ma Giuseppe, avvertito in sogno da un Angelo, fece in tempo ad organizzare la Fuga in Egitto, dove esistevano fiorenti comunità ebraiche, e dove ancora oggi molte comunità conservano la memoria del soggiorno della Sacra Famiglia. Dopo tale Esilio, morto Erode e diviso il suo regno tra i quattro figli superstiti, Giuseppe, avvisato ancora in sogno da un Angelo, tornò in Palestina e si stabilì definitivamente in Galilea, a Nazareth, governata da Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.), che riteneva – non a torto – meno pericoloso del fratello Archelao (4 a.C.-6 d.C.). Si adempirono così altre profezie, a cui rimanda genericamente il primo Vangelo. La casa di Giuseppe è ancora oggi visibile grazie alle scoperte archeologiche: lì visse la Sacra Famiglia durante la Vita Nascosta di Gesù. Solo uno squarcio si ha di questa esistenza, al momento del passaggio alla pubertà, con il Ritrovamento di Gesù nel Tempio, dopo una inopinata fuga del Ragazzo durante il pellegrinaggio pasquale annuale a Gerusalemme. In questa circostanza, all’età di dodici anni, Gesù si mostra consapevole di essere Figlio e Logos del Padre. La fonte è ancora Luca. Con questo evento terminano i misteri dell’Infanzia. Negli anni oscuri dell’adolescenza e della gioventù, Gesù visse nel silenzio, nel lavoro, nell’umiltà, crescendo in statura, età e grazia innanzi a Dio e agli uomini. La Sua Vita nascosta dà valore redentivo all’esistenza ordinaria di ognuno di noi. Fece il carpentiere col padre putativo – che morì in una data imprecisata prima che Gesù divenisse noto– fino al momento della Sua missione pubblica, iniziata poco dopo quella del cugino Giovanni, divenuto il Battista, perché annunciatore di un battesimo di penitenza, nell’anno quindicesimo di Tiberio (14-37), ossia nel 27 della nostra era, secondo il computo siriaco.

Proprio dalle mani del cugino Gesù ricevette il Battesimo presso il Giordano. In tale contesto scese su di Lui lo Spirito Santo sotto forma di colomba e una Voce dal Cielo lo proclamò Figlio prediletto, invitando tutti ad ascoltarlo. Il Battesimo del Signore è dunque una seconda Epifania della Sua Divinità, che più perfettamente della prima rimanda anche al mistero trinitario. Tale evento è descritto dai tre Sinottici, mentre Giovanni lo riferisce indirettamente, quando riporta le parole del Battista che presentano Gesù quale Agnello – o Servo – di Dio, adempiendo in Lui le parole di Isaia, nei suoi Canti del Servo. Di lì a poco la missione di Giovanni, redivivo Elia mandato a preparare la strada del Signore, terminerà coll’arresto e il martirio voluto da Erode Antipa. Da questo momento Gesù – che aveva almeno trentacinque anni – iniziò la Sua missione pubblica, palesata a tutto il cosmo. Il primo innanzi al quale deve rendere testimonianza è l’antico avversario. Gesù infatti si recò a fare una penitenza preparatoria di quaranta giorni nel Deserto di Giuda; al termine del lungo digiuno, satana gli si accostò per tentarlo. Gesù, Che in quanto uomo poteva subire tale assalto senza tuttavia avere nulla in Sé che lo rendesse fragile come la progenie di Adamo, respinse per Sua virtù gli assalti diabolici e riaffermò il Suo dominio sulla natura terrestre e angelica, ottenendo l’ossequio delle bestie e degli spiriti celesti. Il progetto satanico, di un finto messianismo basato sul successo, sul potere e sul miracolismo, venne distrutto. Subito dopo, Gesù si manifestò agli uomini. Anzitutto radunò attorno a Sé la comunità dei discepoli, spesso già seguaci del Battista. Tra essi sceglierà poi un gruppo ristretto, gli Apostoli, di dodici membri, da inviare nel mondo alla Sua dipartita. Il loro capo è Simone, figlio di Giona, a cui Gesù impose il nome di Pietro – letteralmente Kephas, ossia roccia. A lui Gesù conferirà in Sua vece il potere d’insegnare e di comandare. Tra i Dodici, oltre che alcuni seguaci di Giovanni, vi sono consanguinei di Gesù; Pietro, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello sono i tre più intimi collaboratori del Maestro, i testimoni dei Suoi momenti più personali, i confidenti privilegiati.

Gesù poi iniziò le Sue peregrinazioni apostoliche, nelle quali predicò il Vangelo del Padre. All’inizio della vita pubblica Egli compì una terza Epifania, raccontata da Giovanni, che lo mostrò Messia Signore, permettendo ai suoi discepoli di credere in Lui: alle Nozze di Cana trasformò l’acqua in vino. In questa occasione ordinaria Gesù mostrò la Sua signoria messianica e, tra l’altro, permise alla Madre di palesare la Sua potenza di intercessione. Da qui in poi iniziò l’Annunzio del Regno, ossia la predicazione del Vangelo, ampiamente descritto da tutti e tre gli Evangelisti, i quali però attestano anche che molto è rimasto nella tradizione orale, tanto più che, com’è noto, Gesù non ha scritto nulla.

I contenuti della predicazione non possono essere qui condensati, essendo essi alla base della dogmatica, dell’etica e della liturgia cristiana. Importante è ricordare che Gesù adempie scrupolosamente le profezie antiche, dichiara compiuta l’attesa messianica, presenta Sé stesso come Messia, Re, Redentore e Dio, pone il drammatico problema dell’Espiazione della colpa e si prepara a compierla Lui stesso col Suo Sangue, siglando una Nuova Alleanza Eterna. Annunzia che sarà torturato e ucciso dai Sacerdoti e dai pagani in Gerusalemme, e che risorgerà dopo tre giorni. Chiama inoltre tutti gli uomini nel Regno, specie i peccatori, che invita alla conversione. Proclama la Nuova Legge nel Discorso della Montagna e nelle Beatitudini; fonda la Sua Chiesa, la nuova e definitiva Qal YHWH; trasmette i Suoi poteri a Pietro e ai XII, preparandoli a continuare la missione in Sua vece; istituisce i segni della Grazia che si chiameranno Sacramenti; addita la perfezione nei consigli della povertà, della castità e dell’obbedienza, da Lui praticate come esempio. Fornisce le Sue credenziali operando miracoli, prodigi e segni che mostrano come ogni cosa sia sottomessa al Suo volere: gli oggetti materiali, gli elementi, gli animali, le piante, le leggi dello spazio-tempo, le malattie, le minorazioni, i segreti dell’anima umana, i demoni e persino la morte. Suscita eccezionali conversioni, avvicinando misericordiosamente prostitute, pubblicani e peccatori di ogni tipo. Tiene stupendi discorsi, raggruppabili in due tipologie. La prima è per il grande pubblico, inteso sia come popolo che come discepoli, di cui il Discorso della Montagna è il più famoso. In essi parla in modo lapidario e chiaro; spesso con l’uso di sublimi parabole, racconti mitici di valenza didattica, altre volte con insegnamenti sentenziosi e asciutti, i cosiddetti loghìa. La seconda è costituita dai discorsi con gli avversari e gli interlocutori più accreditati; sono contenuti nel Vangelo di Giovanni, hanno una dialettica aggirante, un discorrere letterario profondo e complesso, un senso polemico e un contenuto teologico di alto spessore, espresso da un lessico specialistico tipico della cultura giudaica del I sec: celebre il Discorso sul Pane di Vita, ma ricordo, a titolo esemplificativo, quello ai Giudei sulla Divinità del Messia, quello a Nicodemo, quello alla Samaritana e naturalmente il corpus dottrinale di eccezionale valore dei Discorsi dell’Ultima Cena. Gli uni e gli altri – con buona pace del Jesus Seminar – sono autentici. Rispecchiano una personalità teologica fortissima e due livelli differenti di comunicazione, per contenuti disposti su due livelli di profondità: catechetica e didascalica. Di essi probabilmente si fece stenografia dal vivo. Una menzione a parte merita il Discorso escatologico del Martedì Santo – riportato in forme simili dai Sinottici- che è una vera e propria Apocalisse di Gesù: sono descritte con precisione le circostanze della fine della Vecchia Alleanza, e da esse si trapassa a vaticinare le circostanze della Fine del Mondo, annunziando i temi tipici sull’argomento propri del Cristianesimo. In esso Gesù si manifesta quale Giudice dei Vivi e dei Morti, preannunziando che terrà il Giudizio Finale. Anche questo discorso fu probabilmente stenografato.

Gesù compì la Sua missione viaggiando continuamente, in tre anni. Percorse tutta la Palestina, si spinse fino in Transgiordania e Libano, salì almeno tre volte a Gerusalemme; ebbe residenza temporanea in quel di Cafarnao durante il Suo ministero galilaico, ma il Suo Cuore fu sempre rivolto alla Città Santa, dove predicò spesso nel Tempio. Si rivolse essenzialmente ai Giudei, pur non mancando pochissimi ma significativi incontri con pagani e samaritani. Fu circondato da un piccolo gruppo strutturato, comprendente anche alcune donne, consanguinei e discepoli di ogni estrazione sociale. Ebbe relazioni intense ma polemiche con i gruppi religiosi ortodossi come i Farisei e con il clero aronitico, legato alla setta dei Sadducei, ma non mancano nei Vangeli prove di riferimenti ad usi e costumi degli altri gruppi religiosi giudaici contemporanei, come per esempio Erodiani, Esseni e altri seguaci di messianismi sovraumani, ma anche Zeloti e Davidici. La routine della predicazione, durata un triennio, fu interrotta da Gesù con la Trasfigurazione, sul Monte Tabor, in cui Egli mostrò quello che avrebbe dovuto essere il Suo aspetto glorioso ai Suoi tre Apostoli più intimi. In tale mistero, Gesù si manifesta come Regno di Dio vivente, come Egli stesso ebbe a dire otto giorni prima: “Alcuni dei presenti non morranno senza aver visto il Regno di Dio venire con potenza”. Il racconto della Trasfigurazione è in tutti e tre i sinottici.

La vita pubblica di Gesù tocca il suo apice con l’Ingresso Trionfale in Gerusalemme, attraverso la Porta Bella o Dorata, nella nostra Domenica delle Palme, nel 30, a pochi giorni dalla morte. Da Betfage presso Betania, dove aveva un congruo numero di seguaci, Gesù percorre la strada che porta al Tempio, vi entra ed è acclamato Figlio di David e Messia. Ma la gloria terrena, pur essendo necessaria per il pubblico riconoscimento della missione di Gesù, non è il suo scopo. Infatti in quei momenti il Sinedrio - all’epoca presieduto da Giuseppe Caifa (18-36), uomo di paglia dei Romani - già ordiva la sinistra trama che doveva causare la morte di Gesù. Il Sinedrio infatti temeva di perdere la sua influenza religiosa sul popolo e adduceva come pretesto per un intervento contro Gesù il timore di un tumulto politico in suo favore con conseguente intervento dei Romani.

La fine di Gesù è il cuore del Suo mistero. Non temuta, anzi cercata, quasi provocata umanamente, essa è lo scopo della Vita di Cristo, venuto a redimere, con infinità di dolore, gli uomini tutti. In tale fine si mostra l’Amore e il Potere di Cristo. L’amore, perché nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici, e gli amici di Cristo siamo noi, divenuti tali proprio per il Sangue versato fino all’ultima goccia dalle Piaghe squarciate orrendamente sul Suo Corpo umano. Il potere, perché nessuno poteva toglierGli la Vita, ma Lui la diede da Sé, dominando il dolore coll’assoggettarvisi, e salvando l’uomo dal male. Nella Passione e Morte infatti il Corpo è offerto in sacrificio, il Sangue è versato in remissione dei peccati per la Nuova Alleanza Eterna. Infine nella Resurrezione Gesù mostra pienamente la Sua Personalità divina, perché da solo riprende l’Umanità, solo temporaneamente imprigionata dalla morte, ma non lambita da corruzione. Il grande mistero della Passione è voluto da Dio Padre, Figlio e Spirito; la malvagità umana ne è lo strumento, ma essa non raggiunge lo scopo di annullare il piano divino, ma anzi lo compie; la causa ne è il peccato di ognuno di noi, in quanto non vi è, non vi fu né vi sarà mai alcun uomo le cui colpe non abbiano causato la Morte di Cristo; l’influenza diabolica la ispira, ma senza poterne cavare ciò che ordinariamente ricava dalla proliferazione di morte e dolore, ossia il peccato, anzi ottenendone un arginamento e una regressione progressiva, destinata ad essere completa alla fine dei tempi. Tornerò prossimamente, a Dio piacendo, sul rapporto tra Passione e Giustificazione. Ora limitiamoci a tratteggiare i contorni storici dei fatti, armonizzando i Quattro Vangeli.

Già dal mercoledì santo Giuda Iscariota si era venduto ai Sinedriti, promettendo di consegnare Gesù per trenta denari – come profetizzato da Geremia. Il giovedì Gesù celebrò la Pasqua seguendo il calendario solare degli Esseni: fu l’Ultima Cena. In essa Gesù si mostrò consapevole di quanto stava per accadere e ne fissò il senso: istituendo l’Eucarestia, Egli presentò pane e vino come trasformati nel Suo Corpo e nel Suo Sangue offerti in sacrificio per l’umanità. Conferì poi ai XII il potere di rifare il miracolo in altre Cene, istituendo il Sacerdozio cristiano su misura del proprio, superiore a quello aronitico. Compiuta la Cena e lavati i piedi ai XII in segno di umiltà, mentre già Giuda Iscariota si recava dai Sinedriti per preparare l’arresto di Gesù, Questi, dati i Suoi ultimi insegnamenti, si avviò a notte inoltrata verso il Giardino del Gethsemani – l’Orto degli Ulivi, sul Monte omonimo – oltre il torrente Cedron. Qui, dove spesso si ritirava a pregare con i discepoli, Egli visse quella che chiamiamo la Sua Agonia o Passione interiore. Avendo lasciato in disparte i XII, portandosi dietro solo Pietro, Giacomo e Giovanni, che però si addormentarono, allontanandosi da loro quanto un tiro di sasso, in ginocchio Gesù chiese per tre volte al Padre di essere liberato dal sacrificio imminente, rimettendosi però sempre al Suo Volere. Dinanzi alla mostruosità delle pene che l’attendevano e alla considerazione dell’orrore delle colpe di tutti gli uomini che Gli si fecero presenti in spirito, perché potesse detestarle Lui in vece dei peccatori, l’Uomo Gesù provò uno sgomentato terrore e un angoscioso disgusto. La paura Lo assalì, nell’abbandono in cui tutti, compresi i fedelissimi, lo avevano lasciato, ignari dell’imminente pericolo e dimentichi del Suo invito a pregare con Lui. Lo stato di sofferenza fu tale da provocare, in proporzioni non naturali, il tremendo fenomeno della Sudorazione di Sangue. Persino un Angelo scese dal Cielo a confortarlo. Vinta la battaglia con Sé stesso e avendo sposato la causa dell’immolazione per i peccatori a dispetto della bruttezza del male, dell’ingratitudine umana e della Sua innocenza immeritevole di pena, Gesù raggiunge i tre dormienti e li desta, preparandoli all’arrivo del traditore. Questi, l’Iscariota, si accostò a Gesù per baciarlo: il segnale convenuto per indicare alle guardie che l’accompagnavano chi arrestare. Queste, seguite dagli altri discepoli di Gesù, attirati dal loro arrivo, Gli si fecero innanzi. Gesù, Signore degli eventi anche in queste drammatiche circostanze, chiese loro chi cercassero, si palesò loro e si offrì all’arresto, chiedendo l’immunità per i discepoli, secondo quanto previsto dai profeti. Scandendo innanzi alle guardie il Nome Biblico- Io Sono – per affermare la Sua identità, Gesù ne provoca il momentaneo arretramento e la caduta. Incattivite dal prodigio, le guardie tornano alla carica e Lo arrestano, di soppiatto, come se fosse un brigante. Gesù proibì tuttavia ai XII di impugnare le armi per salvarlo; costoro allora, pronti a combattere ma non a consegnarsi ai nemici, abbandonatolo, fuggirono. Solo Giovanni e Pietro lo seguono, da lontano.

Gesù è trascinato nella parte alta di Gerusalemme, nei quartieri buoni. Qui avevano casa i capi della congiura. Gesù fu tradotto innanzi al tribunale personale dell’ex sommo sacerdote Anna (6-15), deposto dal procuratore Valerio Grato (15-26), ma ancora molto influente. Qui subì i primi oltraggi, secondo il Quarto Vangelo. Nel frattempo Giovanni e Pietro lo attendevano nel cortile della casa del sommo sacerdote Caifa, dove erano potuti entrare perché il primo conosceva l’alto prelato. Attendevano l’esito del processo imminente. E’ qui che Pietro, preso dal panico, riconosciuto dai servi di Caifa, dichiara per tre volte di non conoscere Gesù, come registrano tutti i Vangeli. Quest’ultimo, tradotto in vincoli presso il tribunale, fece in tempo a sentire il rinnegamento del suo Apostolo, come nota Luca. E mentre Pietro si allontanava in lacrime , Gesù fu introdotto in casa, dove si era riunito tutto il Sinedrio. La procedura era affrettata, volendo i sacerdoti condannarlo al più presto per un reato capitale. Le accuse furono false e contraddittorie, e l’andamento caotico dell’istruttoria dipese dal fatto che di notte non si poteva processare nessuno. Gesù tacque, fino a quando Caifa, dopo averLo inutilmente invitato a discolparsi, Gli chiese formalmente: “Sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio Benedetto?”. A quel punto, come ho detto, Gesù rompe il segreto messianico e si manifesta al Sommo Sacerdote: “Io lo Sono! E vedrete il Figlio dell’Uomo, seduto alla destra della Potenza, venire con le nubi del Cielo!”. Matteo e Marco tramandano questo essenziale interrogatorio e il suo esito: avendo fatto la domanda per incastrare Gesù – a dimostrazione della sua malafede – Caifa potè accusarLo di bestemmia e il Sinedrio decretò la Sua morte. Subito i giudici cominciarono ad insultare, schernire, percuotere e sputare su Gesù. Questi, in attesa della ripetizione formale della sentenza al mattino, rimase nelle mani dei servi del sommo sacerdote, che continuarono ad infierire su di lui, come c’informa Luca. E’ sempre il Terzo Evangelista a riferirci come all’alba il Sinedrio, in seduta legale, rifece l’interrogatorio – ormai per formalità- ma senza che Gesù si sottraesse ad una nuova ammissione: “Se Tu sei il Cristo diccelo!”- fu la domanda; “Anche se ve lo dico non Mi crederete…ma da questo momento starà il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza di Dio” – fu la risposta; nuovamente Gli chiesero: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”, e Gesù disse loro: “Lo dite voi stessi: Io lo Sono.” Gesù sapeva che la dichiarazione d’identità l’avrebbe ucciso, ma sapeva anche che Egli, in qualità di Messia atteso, doveva svelarsi proprio innanzi a coloro che custodivano la promessa, anche se essi erano ostili. Il momento più solenne della Sua Vita pubblica è anche quello più drammatico.

Allora Gesù, incatenato, fu condotto dalla casa di Caifa al Pretorio, innanzi al procuratore Ponzio Pilato (26-36), uomo noto per le maniere spicce con cui trattava i sediziosi politici. Fu per tale ragione che il Sinedrio presentò il caso di Gesù in chiave politica. Era la vigilia della Pasqua, che al Tempio si calcolava col calendario lunare. Gesù, come nota Giovanni che segue questo calendario, appare proprio come l’Agnello immolato. Secondo il racconto dei Vangeli, Pilato andò incontro ai Sinedriti, udì che accusavano Gesù di sedizione, Lo portò dentro con sé e dall’interrogatorio, a cui Gesù rispose a Suo modo, solenne e libero, capì che nulla vi era di politico in quel caso. Saputo dai Sacerdoti che era galileo, approfittando della presenza in Gerusalemme di Erode Antipa, gli inviò Gesù perché lo processasse lui, come attesta Luca. Anche il tetrarca, che insultò e schernì Gesù, non trovò in Lui nulla di colpevole e lo rimandò a Pilato. Questi riprese l’istruttoria e rimase colpito dalla personalità del Prigioniero. I brevi dialoghi sono registrati dal Vangelo di Giovanni, perché probabilmente il giovane evangelista seguì il Maestro per tutto il processo. Ma l’insistenza del Sinedrio spinse Pilato ad una soluzione di compromesso: egli ordinò la Flagellazione di Gesù, per poi poterLo rilasciare. I soldati romani dell’intera corte, che si accanirono ferocemente sul Prigioniero per la Sua impassibilità, lo sottoposero poi al supplizio della Coronazione di Spine e ad una serie di ulteriori tormenti come scherno della Sua Regalità: Gesù fu schiaffeggiato, sputato, percosso, graffiato, insultato, schernito, deriso; già denudato per la Flagellazione, fu rivestito di un mantello di porpora con una canna come scettro. Di questi supplizi Matteo, Marco e Giovanni ci danno tremende descrizioni.

A quell’ora, in virtù di una vecchia usanza, il popolo di Gerusalemme si accalcava presso il Pretorio per chiedere il rilascio di un prigioniero, come attestano tutti i Vangeli. Pilato mostrò alla folla Gesù, così come i soldati l’avevano ridotto e travestito (il famoso Ecce Homo, narrato in dettagli da Giovanni); sperava infatti che il popolo lo liberasse. Ma esso, sobillato dal clero, chiese il rilascio di un noto sedizioso, Barabba. Tutti i Vangeli lo registrano con muto orrore. Per tre volte Pilato tentò di persuadere la folla, a causa dell’innocenza di Gesù – alla quale lo aveva sensibilizzato anche la moglie, per un sogno che aveva fatto, riportato da Matteo – ma inutilmente. Allora, lavandosi le mani pubblicamente per significare il suo dissenso, il Procuratore decretò la morte dell’Innocente. Inserito frettolosamente nella schiera dei condannati alla crocifissione, rivestito con i Suoi abiti sulle carni rese incandescenti dalle ferite, Gesù fu caricato del Suo patibolo: una Croce completa dei due bracci, in quanto quello verticale non era stato annoverato tra quelli già piantati per i due criminali che dovevano morire. Gesù dovette così portare un peso enorme. Lungo la strada tra il Pretorio e il luogo extraurbano della Crocifissione, il colle Calvario – in ebraico Golgotha- Gesù percorse quella che è appunto chiamata la Via Crucis. Dovette essere aiutato da Simone di Cirene a portare la Croce per arrivare vivo al luogo del martirio, ricevette il breve conforto di una donna che Gli asciugò il volto, ammonì le Donne che piangevano ritualmente su di Lui a pentirsi delle loro colpe, nelle quali Egli ravvisò la causa del Suo soffrire, fedele, sino all’ultimo, alla Sua vocazione di Redentore e citando appositamente le Scritture. Il breve racconto del viaggio del Condannato, fatto da tutti gli Evangelisti, è arricchito di episodi da Luca e dalla tradizione. Esso terminò con l’arrivo al Calvario per il supplizio.

Qui Gesù, dopo aver rifiutato l’anestetico che spettava ai condannati (come previsto dai Profeti), spogliato nuovamente e definitivamente delle Sue vesti, fu disteso sulla Croce e orribilmente inchiodato. I chiodi trapassarono la base delle mani e la sommità dei piedi; il braccio destro fu tirato violentemente per accomodarlo ai punti fissati per l’inchiodamento e ne fu slogato, per cui rimase in quella trazione scomposta fino alla Sua morte. Le braccia furono stirate e fissate in modo tale che il Condannato non potesse restringere e dilatare la cassa toracica in un normale movimento respiratorio; i piedi furono fissati in modo da tenere flesse le ginocchia e appoggiate le piante ad un supporto, così da far leva su entrambe, innalzarsi oltre il punto di stiratura del torace e poter respirare, a prezzo di un indicibile dolore ai piedi stessi. I chiodi delle mani incidevano senza recidere un nervo che percorreva il braccio e il polso, fino alle mani stesse, provocando dolore e la paralisi del polso. Il Corpo, così orrendamente e precisamente infisso alla Croce, fu poi issato in posizione verticale. Durante lo strazio, Gesù non si stancava di ripetere: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Era circa l’ora sesta. Sul capo di Gesù, crocifisso – ennesimo oltraggio – tra due ladroni, Pilato fece apporre la profetica motivazione: “Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei”; ai Suoi piedi i soldati romani Gli facevano la guardia, dividendosi le Sue vesti; attorno a Lui i sacerdoti e il popolo che, assieme alle stesse guardie, si accanivano a deriderLo e ad insultarLo, adempiendo, anche in questo, le Scritture. Anche uno dei ladroni crocifissi Lo insultava, mentre l’altro lo difendeva: a questi Gesù, con sublime bontà disse: “In verità ti dico: oggi tu sarai con Me in paradiso.” Tutti i discepoli Lo avevano abbandonato, e i parenti; le uniche eccezioni erano Giovanni, la zia, Maria di Cleofa, Maria di Magdala e la Madre, in un oceano di dolore. A Lei Gesù riserva un toccante pensiero, affidandola a Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio.”, e affidando questi a Lei: “Ecco la tua madre.” Maria infatti è strettamente unita al dolore espiativo del Suo Unigenito.

Dopo alcune ore in cui il Condannato stette immerso nei dolori, cosparso ovunque di Piaghe, grondante Sangue sino allo sfinimento, sempre in bilico sull’orlo dell’asfissia, ecco che anche il Creato, inorridito dal deicidio, si velò di tenebre. All’ora nona, Gesù, citando le Scritture per esprimere il Suo immenso dolore, ma anche la Sua perseveranza nella missione, gridò con voce forte, in aramaico: “Dio Mio, Dio Mio, perché Mi hai abbandonato?”, che è il versetto incipitario del Salmo 22, in cui sono profetizzate le Sue sofferenze. Fu un momento di acutissimo dolore e profonda angoscia: sebbene non cessasse l’Unione Ipostatica né la visione intuitiva dell’Essenza divina e delle Sussistenze del Padre e dello Spirito, nella Persona di Gesù era pienamente sospesa l’unione di protezione, per cui la Divinità preservava l’Umanità dalle sofferenze, morali e fisiche, non necessarie. In questo estremo frangente, Gesù, in quanto Uomo, le prova tutte, oltre ogni umana comprensione e sopportazione: il Padre stesso perciò Gli appare irrimediabilmente lontano, se non ostile. Alle guardie, che volevano aiutarLo per vedere se giungesse Elia a liberarlo dalla Croce, Gesù disse: “Ho sete.”, ricevendo una spugna imbevuta di aceto sulla sommità di una canna. Era l’adempimento delle ultime Scritture, ma anche la prima richiesta di aiuto di Gesù. L’unica cosa che poteva dissetarLo era però la salvezza delle anime. Dopo ciò, potè dire: “Tutto è compiuto”, perché realmente la Sua missione, così com’era stata profetizzata, era terminata . E così, con un’ultima citazione biblica, compiendo l’estremo atto di misericordia, quel Gesù al quale nessuno poteva togliere la vita, che invece Lui stesso donava, in quanto Persona divina, rese lo Spirito esclamando: “Padre, nelle Tue mani consegno il Mio Spirito”. Ciò detto, morì. Fu presumibilmente un infarto, favorito dall’asfissia, dall’emorragia e dalle sofferenze tremende. Così, con tale atroce dolore, sopportato per immenso amore, il Figlio di Dio ha espiato le colpe, grandi e piccole, passate, presenti e future, di ognuno di noi uomini, di oggi, di ieri e di domani, battezzati o no. E ancora la mia colpa di oggi è la causa, diretta e crudele, di tale orrendo supplizio. In questo momento di atroce sofferenza, la Vita di Cristo, trapassando nella Morte, è unita ad ognuna delle nostre piccole vite. Il dramma del Calvario è dunque sempre attuale, fino alla Fine del Mondo. Il Sacrificio della Croce è apportatore di salvezza per l’eternità. Per questo i cristiani praticano l’Adorazione della Croce, per Colui che vi fu appeso e che, tramite essa, operò la Redenzione.

La Morte di Gesù fu accompagnata da un terremoto. Il velo del Tempio si squarciò, segno che la via del Cielo si era ormai riaperta. Il Corpo di Gesù rimase pendente per un po’: qualora fosse svenuto, sarebbe morto soffocato nell’incoscienza. Per essere sicuro che Gesù fosse realmente morto, mentre agli altri condannati furono spezzate le gambe perché soffocassero, il soldato Longino Gli vibrò un colpo di lancia al Cuore. Dalla ferita uscì Sangue e Acqua, perché il Sangue stesso era finito. Giovanni registra l’accaduto, che dà sicurezza della Morte del Signore, e adempie altre, ultime profezie. Anche da morto, Gesù veniva ancora oltraggiato, e dispensava amore. Due suoi discepoli, i sinedriti Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, che non avevano condiviso l’operato della cricca di Anna e Caifa, chiesero e ottennero il permesso di deporre, imbalsamare e seppellire Gesù. Ma l’approssimarsi del Vespro del Sabato impedì, per il riposo festivo, di completare l’imbalsamazione. Avvolto in bende, con un lenzuolo funerario da capo a piedi, il Corpo di Gesù fu sepolto nel vicino sepolcro di Giuseppe: una tomba sontuosa, con un vano funerario munito di nicchia, una camera mortuaria di ingresso e una pesante pietra circolare come chiusura. Si adempì così ancora una profezia, che seppelliva il Giusto sofferente con l’uomo ricco (90). Queste circostanze sono descritte da tutti gli Evangelisti. Il giorno dopo, il sabato santo, la Pasqua ufficiale, i Sacerdoti chiesero a Pilato di sorvegliare il Sepolcro, per essere sicuri che, passato il riposo, nessuno rubasse il Corpo, almeno entro il terzo giorno, e la profezia di Gesù sulla Sua Resurrezione risultasse incompiuta. Pilato lo concesse.

Dopo la Morte, l’Anima di Gesù continuò la Sua opera salvifica. Se dopo la Sua scomparsa la via del Cielo era riaperta, e i giusti morti da quel momento in poi potevano accedere al Paradiso – come il Buon Ladrone- bisognava liberare le anime di coloro che erano morti prima, i quali avevano bisogno che il Redentore condividesse il loro stato per affrancarli, così come aveva condiviso la morte per salvare i vivi. Gesù scese dunque nello Shèol, il Limbo dei Padri, dove, da Adamo in poi, in una felicità naturale velata di attesa, le anime dei Giusti attendevano la loro liberazione. Li prese e li condusse con Sé in Cielo.

Al momento stabilito, perché il Sacrificio fosse e si dimostrasse gradito, efficace e potente, compiendo il segno di Giona, che stette tre giorni nel ventre del pesce, e volendo manifestare al mondo la Sua inequivocabile divinità, Gesù risorse dalla morte. Il Padre risuscitò il Figlio, mandando lo Spirito che vivificò il Corpo nuovamente, mentre l’Anima rientrava in Esso per volere della Persona del Verbo. La Santissima Trinità operò così la Resurrezione. Ciò avvenne senza testimoni, prima dell’alba, in un terremoto. Un angelo, sceso dal Cielo, rotolò la pietra sepolcrale, vi si sedette sopra e tramortì le guardie spaventandole. Probabilmente era accompagnato da un secondo Angelo. Questo racconta Matteo. Il gruppo delle Donne discepole di Gesù, ignare dell’evento e anche del fatto che il sepolcro fosse sorvegliato, si recarono in quei frangenti alla tomba per completare l’imbalsamazione del Maestro. Quando esse giunsero, all’alba, le guardie erano già rinvenute e si erano recate dai Sacerdoti per informarli dell’accaduto. Le Donne si meravigliarono che il sepolcro fosse aperto. Il grosso di loro entrò in esso, mentre Maria di Magdala si staccò dal gruppo per andare ad avvisare gli Apostoli. Le altre, entrate nella tomba, ebbero la visione di due Angeli, che annunziarono la Resurrezione di Gesù e le incaricarono di avvisare gli XI. Ma esse, spaventate, pur allontanandosi, non si recarono subito dagli Apostoli, temendo di non essere credute. Così raccontano Matteo, Marco e Luca. Nel frattempo Maria di Magdala giunse al sepolcro accompagnata da Pietro e Giovanni, che volevano constatare se realmente il Corpo di Gesù fosse stato sottratto. Presone atto, i due Apostoli se ne andarono. Maria invece rimase nel sepolcro, piangendo. Ebbe anche lei la visione dei due Angeli che cercarono di confortarla e poi di Gesù stesso. Questi, all’inizio con sembianze diverse, si fa riconoscere e la incarica di avvisare gli Apostoli che Egli era risorto. Maria andò, ma gli XI non le credettero. Questo è narrato da Giovanni. E’ la prima apparizione del Risorto, anche se la tradizione attesta una precedente epifania alla Madre stessa di Gesù. Di lì a poco anche le altre Donne ebbero una visione del Risorto, e su Suo mandato tornarono a raccontarlo agli Apostoli, ma neanche a loro vollero credere. Il fatto è narrato da Matteo. In ogni caso, Gesù si manifestò ai Due discepoli di Emmaus. Questi avevano abbandonato il gruppo e si dirigevano verso quel villaggio. Ad essi Gesù spiega il senso delle Scritture su di Lui, per poi manifestarsi allo spezzare del pane e scomparire immediatamente. Anche i Due tornarono a Gerusalemme per informare gli Apostoli, che ancora non vollero credere. Non credevano nemmeno all’apparizione avvenuta a Pietro, della quale sappiamo molto poco, citata da Luca dopo il racconto di Emmaus. Per vincere le ultime ritrosie, la sera della Pasqua Gesù entrò nel Cenacolo, dove i XII risiedevano ancora, mangiò e parlò con loro, come testimoniano Marco, Luca e Giovanni. E finalmente essi si convinsero. Siccome mancava l’apostolo Tommaso, Gesù, per sconfiggere la sua incredulità, tornò sette giorni dopo, perché egli potesse toccare le ferite della Passione, rimaste nel Suo Corpo come trofeo di vittoria. Questo episodio è aggiunto da Giovanni.

Gesù ordinò agli Apostoli di recarsi in Galilea, dove voleva dare le ultime istruzioni sul Regno da predicare, approfittando della maggiore riservatezza dei luoghi. Per quaranta giorni dopo Pasqua durarono questi ultimi colloqui intimi tra il Signore e gli XI. Sappiamo che Gesù apparve agli Apostoli sul Mare di Galilea, confermando il primato a Pietro; che li incontrò sul Monte per conferire loro il mandato missionario, perché evangelizzassero tutti i popoli in Nome della Trinità e battezzassero tutti gli uomini, affinchè essi potessero salvarsi (97); sappiamo infine che tornarono a Gerusalemme dove, dopo un ultimo pasto, Gesù si fece accompagnare fuori città, sul Monte degli Ulivi, dove avvenne la Sua Ascensione. Questo evento, storico e trascendente, avviene perché la Persona del Verbo decise di assumere nella Sua gloria divina l’Umanità che aveva resuscitato. Tale azione, conforme al volere del Padre, implicò che l’Umanità di Cristo fosse costituita dallo Spirito Santo quale strumento consapevole dell’esercizio della sovranità naturale e sovrannaturale del Verbo sul cosmo. Gesù salì al Cielo sotto gli occhi degli Apostoli, scomparendo nel simbolo della Gloria, la Nube. Ma la vicenda storica di Cristo non si conclude qui. Anzitutto Egli effonde, dieci giorni dopo, il Suo Spirito sugli Apostoli a Pentecoste, avviando la Chiesa e costituendola come Suo Corpo Mistico, attraverso il quale attivamente opera. Poi continua ad apparire ai Suoi per confortarli nella fede: a cinquecento fratelli tutti insieme, a Giacomo, agli Apostoli ancora insieme, a Saulo di Tarso, convertendolo e facendo di lui l’apostolo Paolo. Apparve anche a Giovanni, perché descrivesse le sue visioni nell’Apocalisse. Da allora continua ad apparire ad ogni generazione cristiana, mentre è sostanzialmente presente nel sacramento dell’Eucarestia. Noi lo attendiamo per il Suo ultimo ritorno.

Infatti, alla fine dei tempi, Egli verrà nella Gloria per giudicare i vivi e i morti. Questi risorgeranno per Suo volere, e tutti riprenderanno il loro corpo, quanti fecero il bene per una resurrezione di vita, quanti il male per una resurrezione di condanna. Nessuno potrà sottrarsi al Suo volere. Allora la morte, il dolore, gli inferi e satana con i suoi diavoli saranno sigillati nella dannazione eterna. Gesù consegnerà il Regno a Dio Padre, e il Cristo totale, ossia Lui con i Salvati innestati nel Suo Corpo Mistico, trionferà come Pleroma, reggendo l’Universo. Allora Dio sarà tutto in tutti, e la missione di Cristo sarà coronata in perpetuo.

IL CONTENUTO DEI LIBRI STORICI DEL NT: I FATTI DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Gesù non è asceso subito al cielo ma è convissuto con i discepoli per quaranta giorni, ha rettificato le loro credenze circa l'imminenza del regno di Dio, ha preannunciato loro il dono dello Spirito e ha insistito sul fatto che questo dono non coincide con l'avvento del regno; ha vietato loro di partirsi da Gerusalemme. Dopo tutto ciò Gesù ascende al cielo dal monte degli Ulivi. Nei giorni seguenti Pietro con un discorso invita la comunità a reintegrare il numero dei dodici apostoli, sostituendo al traditore un discepolo che abbia seguito Gesù in tutta la sua carriera. Per mezzo delle sorti lo Spirito designa Mattia. Il giorno della Pentecoste discende sulla comunità lo Spirito come vento possente e come fiamma. Il dono dei linguaggi inteso come capacità di servirsi dei varî linguaggi per la propagazione del Vangelo, è infuso negli apostoli. Molti uditori si convertono. La vita della comunità si svolge in fraternità ideale. Gli apostoli continuano la propaganda che viene loro interdetta. Avendo trasgredito al divieto di predicare, tutti gli Apostoli sono arrestati. Sono liberati miracolosamente: compaiono liberi dinnanzi al Sinedrio. Il dottore giudeo Gamaliele, con un discorso al Sinedrio, storna dagli Apostoli le maggiori punizioni. Essi sono flagellati e rimessi in libertà. Non per questo cessano d'annunziare il Vangelo. I dodici invitano la comunità ad eleggere sette diaconi. Un d'essi, Stefano, incorre da parte degli oppositori in un'accusa consimile a quella mossa a suo tempo a Gesù: d'aver bestemmiato contro il Tempio. Il protomartire è lapidato fuori città. La persecuzione s'estende a tutta la Chiesa, che, tranne gli Apostoli, è dispersa. Saulo infierisce. Filippo, compagno di Stefano, ripara in Samaria, vi opera guarigioni e prodigi, e per primo diffonde il Vangelo fra i non giudei. Pietro e Giovanni partono da Gerusalemme per ispezionare l'opera di Filippo, comunicano lo Spirito ai samaritani convertiti e battezzati. Mentre con missione del Sinedrio si reca a Damasco a perseguitarvi i fedeli, Saulo è folgorato, e temporaneamente accecato dall'apparizione del Cristo. Intanto il Signore con altre visioni eccita il fedele Anania a muovere incontro a Saulo e a battezzarlo e a rendergli la vista. Saulo convertito predica in Damasco; è insidiato dai Giudei; fugge facendosi calare in una sporta giù dalle mura: si reca a Gerusalemme dove tutti lo sfuggono; Barnaba però l'introduce presso gli Apostoli. Saulo inizia la propaganda a Gerusalemme; è nuovamente insidiato e ripara a Tarso.

Pietro è condotto dallo Spirito non solo a battezzare il centurione pagano Cornelio e la sua famiglia, ma a prescindere da tutti gli scrupoli di purità levitica che interdicevano il commercio fra giudei e pagani. Per opera d'ignoti fedeli dispersi dalla persecuzione si cominciò per la prima volta a parlare di Cristo ai gentili di Antiochia di Siria e in essa Barnaba chiamò Saulo. Erode Agrippa mise a morte Giacomo di Zebedeo e imprigionò Pietro: ma questi viene liberato miracolosamente, e Agrippa fu punito da Dio con atroce morte nel colmo del suo orgoglio. Intanto Barnaba e Saulo ritornarono in Antiochia insieme con un altro discepolo, Giovanni Marco, cugino di Barnaba, e furono chiamati dallo Spirito ad una grande missione. Essi passarono infatti nell'isola di Cipro, a Salamina e a Pafo, e predicarono il Vangelo. La missione passò a Perge di Panfilia. Qui Giovanni Marco abbandonò i compagni: Paolo e Barnaba continuarono per Antiochia di Pisidia. Fondata la chiesa di Antiochia di Pisidia, i missionarî furono costretti a fuggire ad Iconio per gl'intrighi dei giudei. Ad Iconio le cose andarono come ad Antiochia di Pisidia (XIV, 1-6). Ripararono a Listra, dove gl'intrighi di taluni giudei provenienti da Antiochia di Pisidia provocarono disordini. Paolo con Barnaba fuggì a Derbe, e di qui, ripassando per le stazioni già fatte, calò ad Attalia, e ritornò ad Antiochia di Siria. Al sopraggiungere di alcuni fratelli da Gerusalemme si levò in Antiochia la questione se si dovessero circoncidere i gentili che si convertono a Cristo. Paolo e Barnaba si opposero a questa pretesa e a Gerusalemme esposero tutta l'evangelizzazione delle genti da loro compiuta: Pietro li sostenne e Giacomo fece approvare il cosiddetto decreto apostolico: i gentili convertiti dovevano astenersi dalle carni d'animali sacrificate agl'idoli, dalle carni soffocate, e da tutti gli eccessi sessuali.

Dopo un soggiorno in Antiochia, Paolo e Barnaba si separarono. Barnaba e Marco a Cipro; Paolo, preso con sé Sila, attraverso la Siria e la Cilicia ritornò a visitare le chiese già fondate sull'altipiano anatolico. Si volse, attraverso l'altipiano galatico, verso la Misia. Giunse a Troade, e in Macedonia fino a Filippi. Una sommossa provoca la flagellazione e l'imprigionamento di Paolo e Sila. Un terremoto miracoloso ruppe nella notte i ceppi dei prigionieri. Fatto giorno, Paolo chiese dai duoviri di Filippi riparazione della flagellazione inflitta a cittadini romani senza processo; ma è invitato a lasciar la città (XVI, 26-40). Passa a Tessalonica e dopo un breve soggiorno s'attirò da parte dei giudei la solita persecuzione che lo costrinse a riparare a Berea (XVII,1-9). Dopo un breve successo, anche a Berea avvengono disordini. L'apostolo fu fatto fuggire ad Atene e si trasferisce a Corinto, e si trattenne a Corinto un anno e mezzo. I giudei lo trascinarono dinnanzi al proconsole Anneo Gallione. Ma il proconsole non volle ricevere l'accusa e Paolo partì con Aquila e Priscilla per Efeso, proseguì per Cesarea e Gerusalemme, per poi ritornare a Efeso, passando per Antiochia e l'altopiano galatico. La plebe efesina, sobillata da un certo Demetrio argentiere, danneggiato per la diminuita vendita delle riproduzioni argentee del tempio dell'Artemide efesia, prorompe in un fiero tumulto anticristiano. Dopo il tumulto, Paolo si recò a visitare le chiese di Macedonia e d'Acaia: impedito d'imbarcarsi a Corinto per la Palestina, risale in Macedonia e passa a Troade e a Mileto. Continua l'itinerario fino a Gerusalemme. A Gerusalemme Paolo e i compagni sono accolti da Giacomo. Paolo è riconosciuto nel Tempio da alcuni giudei d'Asia. La folla aizzata gli si avventa contro, e l'Apostolo è strappato dalle mani dei fanatici solo dal pronto intervento del presidio romano della Torre Antonia. Il giorno seguente il tribuno fece trasferire Paolo dinnanzi al Sinedrio, per una prima inchiesta. Ricondotto in prigione, Paolo è informato da un suo nipote d'una congiura fatta dagli zeloti per toglierlo di mezzo. Ne informò il tribuno, che lo mandò sotto scorta a Cesarea, presso il procuratore Antonio Felice. Paolo acquistò un notevole ascendente sul governatore e su sua moglie Drusilla. Ciò nonostante, Felice, quando due anni dopo è richiamato, lasciò ancora in prigionia Paolo per propiziarsi i giudei. Il successore di Felice, Porcio Festo, sollecitato dal Sinedrio, riaprì il processo, e volle trasferire la causa dinnanzi al Sinedrio stesso in Gerusalemme. Paolo si appellò al tribunale imperiale. Sopraggiunti a Cesarea il tetrarca Agrippa II e sua sorella Berenice, il procuratore romano li invitò ad esaminar la questione, per aver elementi con cui fare il rapporto al tribunale imperiale. Interrogato, Paolo tenne un lungo discorso apologetico, a cui pongono termine osservazioni ironiche e scettiche di Agrippa e di Festo, che tuttavia si mostrarono convinti dell'innocenza dell'apostolo. Paolo fu spedito a Roma. Il viaggio, iniziato in autunno, è tempestosissimo. La nave che trasporta Paolo e i suoi compagni naufragò a Malta, dove i naufraghi svernarono. A primavera l'apostolo fu imbarcato su un'altra nave, trasportato a Pozzuoli e avviato verso Roma. A Roma Paolo potè affittare una casa e, sotto custodia militare, comunicare con l'esterno. Per altri due anni Paolo, in questa forma mitigata di prigionia, svolge la sua attività di propaganda. A questo punto si chiude il libro.

APPENDICE: LA STORIA DI ISRAELE AI TEMPI DEL NT

L’ultimo grande regno in Palestina è di Erode il Grande, re cliente di Roma, dispotico e crudele con i nemici e persino della sua stessa famiglia. Si impegnò nell’ammodernamento di Gerusalemme, costruì palazzi e fortezze per tutta la Giudea, verso il 20 a.C. promosse il restauro e l’ingrandimento del tempio di Gerusalemme, opera che venne completata molti anni dopo la sua morte. La morte di Erode avvenne il 4 a.C. La Palestina viene suddivisa in tre zone governate dai tre figli superstiti di Erode: Archelao, Filippo e Erode detto Antipa. Archelao venne nominato etnarca della regione che comprendeva la Giudea (la regione dove si trova Gerusalemme), la Samaria e l’Idumea. Il suo regno durò dal 4 a.C. al 6. d.C. Dopo la destituzione di Archelao, il suo territorio passò direttamente sotto il controllo di Roma.

Filippo ottenne il titolo di tetrarca della Traconitide, della Gaulanitide, della Batanea, dell’Auranitide e dell’Iturea, abitate in larga parte da popolazioni pagane ellenizzate. Filippo regnò dal 4 a.C. al 34 d.C. e alla sua morte l’amministrazione passò direttamente al legato romano di Siria. Nel 38 d.C. i romani affidarono quelle regioni al re Agrippa I. Jamnia, Azoto e Fasael furono assegnate da Erode a Salome sua sorella, che morì nel 10 d.C.

Erode Antipa ottenne il titolo di tetrarca delle regioni di Galilea e Perea, a est del Giordano. Il suo regno durò dal 4 a.C. al 39 d.C. Alla morte di Erode Antipa le regioni passarono ad Agrippa I, il successore di Filippo. Archelao, dovette fronteggiare quattro grosse rivolte dirette sia contro i Romani, che controllavano di fatto militarmente il paese, sia contro di lui, accusato di collaborazionismo e di non attenersi scrupolosamente ai principi della religione ebraica. Nella società ebraica del tempo andavano infatti sempre più diffondendosi posizioni nazionalistiche estremiste. Erode Antipa dovette fronteggiarne due. Nel 6 d.C. Archelao venne accusato davanti ad Augusto per la sua crudeltà e questi decise di esiliarlo a Vienne. Giudea, Samaria e Idumea vennero quindi amministrate da un governatore inviato direttamente da Roma, il quale doveva essere controllato dal legato di Siria (legatus pro praetore) che in quel periodo era Sulpicio Quirinio. Il governatore assunse in una prima fase storica il titolo di prefetto (lat. praefectus) ma dopo il regno di Agrippa I veniva chiamato procuratore (lat. procurator). Il primo procuratore fu Coponio, sotto cui infuriò una grave rivolta, mentre sotto Erode Antipa se ne scatenò un'altra. A Coponio succedettero Marco Ambivolo, Annio Rufo e Valerio Grato. Nel 26 d.C. fu nominato governatore della Giudea Ponzio Pilato, che rimase in carica fino al 36 d.C. con il titolo di praefectus. Il comportamento di Pilato non favorì certo la distensione fra Giudei e Romani. Per tre volte egli provocò gli Ebrei causando tumulti e una quarta aizzò i Samaritani che protestarono presso Vitellio, all'epoca il legato della provincia romana della Siria, che diede loro ascolto e rimandò a Roma Pilato, sostituendolo con Marcello nel 36/37. Caligola inviò Petronio in Giudea con un esercito a suo sostegno per collocare delle statue dell'imperatore, considerato una divinità dai Romani, addirittura nel Tempio di Gerusalemme. Petronio, vista l'ostinazione dei Giudei e la loro determinazione ad evitare un simile sacrilegio, accolse le loro proteste e tentò di convincere l'imperatore ad ascoltare la popolazione, ma l'imperatore ordinò ugualmente di collocare con la forza le statue nel tempio. L'ordine, alla fine, non venne mai eseguito perchè Caligola nel frattempo, mentre Petronio si trovava ancora in Giudea e prendeva tempo, venne assassinato e al suo posto divenne imperatore Claudio. Nel 41 Agrippa I, nipote di Erode il Grande, riuscì a ottenere il controllo della Giudea, della Samaria e dell’Idumea che aggiunse al resto della Palestina che già governava: grazie alla sua amicizia con l'imperatore Caligola, nel 38 era riuscito a farsi assegnare tutto il territorio su cui aveva regnato il tetrarca Filippo e alla morte di Erode Antipa, avvenuta nel 39, Agrippa aveva ottenuto anche l'assegnazione dei suoi territori. Agrippa I morì nel 44 e dopo la sua morte la Giudea tornò nuovamente sotto l'amministrazione romana perchè il figlio erede legittimo di Agrippa I, Agrippa II, era troppo giovane per assumere il controllo del regno e succedere al padre. Solo qualche anno dopo alcune parti del regno vennero assegnate ad Agrippa II. La Giudea rimaneva comunque sotto il controllo diretto di Roma e dei procuratori romani. La seconda amministrazione romana fu più dura della prima perché i procuratori romani non fecero assolutamente nulla per ingraziarsi la popolazione, così crebbero nel popolo fermenti di rivolta dal giogo straniero. Si succedettero Cuspio Fado (44-46), Tiberio Alessandro (46-48), Ventidio Cumano (48-52), Antonio Felice (52-60), Porcio Festo (60-61/62), Lucceio Albino (62-64), Gessio Floro (64-66). Sotto di lui la tensione raggiunse l’acme, avendo il procuratore il proposito di impadronirsi di tutto il tesoro del Tempio. Così nell’ottobre-novembre del 66 d.C. Gerusalemme e tutta la Palestina si ribellarono. Il legato della Siria Cestio Gallio, su richiesta di Gessio Floro, calò in Palestina segnando così l'inizio della Guerra giudaica (66-74). A causa dei rovesci militari Nerone nel 67 sostituì il legato di Siria Cestio Gallio con Vespasiano e lo incarica, col figlio Tito, di riportare la pace in Palestina e di disperdere i ribelli. Mentre Vespasiano si preparava a marciare per assediare Gerusalemme, giunse la notizia che a Roma Nerone era morto e Galba era succeduto al suo posto. Ma dopo circa sette mesi soltanto, Galba venne ucciso e salì al potere a Roma il suo rivale Ottone. Dopo poco tempo Vitellio, che era stato legato della provincia di Siria, si impadronì del potere a Roma e la situazione divenne caotica. Il 1 luglio del 69 Vespasiano divenne imperatore e le operazioni militari rimasero così sotto il comando del figlio Tito. Dopo mesi di guerra palmo a palmo sul territorio e di assedio strettissimo di Gerusalemme i Romani penetrarono nell'area del Tempio, nella zona della Torre Antonia. Il Tempio venne incendiato dai Romani. Pare che i Giudei per primi abbiano dato alle fiamme alcune zone del Tempio per impedire ai Romani di entrarvi durante l'attacco. Poi, una volta conquistato il Tempio, mentre Tito e i suoi generali lo stavano visitando, alcuni soldati gettarono dei tizzoni accesi e questo fece scoppiare un incendio incontrollabile. Quando le fiamme si placarono quello che era rimasto del Tempio venne completamente raso al suolo. Dopo la distruzione del 586 avanti Cristo per opera dei Babilonesi di Nabucodonosor il Tempio di Gerusalemme veniva abbattuto per la seconda e ultima volta nella storia del popolo ebraico. Assicurato il controllo del Tempio, il resto della conquista della città fu un compito relativamente facile per i Romani. Ciò accadde nel 70 ma la pacificazione generale avvenne solo nel 74.

Una ribellione dei Giudei ancora più grave ebbe luogo nel periodo 132-135 d.C., al tempo dell’imperatore Adriano. In quel tempo l'imperatore aveva deciso di intraprendere una politica di massiccia ellenizzazione e romanizzazione della Palestina che culminò con due provvedimenti gravissimi per i Giudei: la proibizione della circoncisione sia ai pagani che ai Giudei e la decisione di ricostruire la città santa di Gerusalemme come Aelia Capitolina. Scoppiò così una guerra tra Giudei e Romani. Capo della rivolta antiromana questa volta era Simon bar Koseba, un leader che il rabbino Aquiba, un esponente molto importante dell'ebraismo di quel tempo, aveva addirittura riconosciuto come Messia. Simon bar Koseba era chiamato anche Simon bar Kokhba, un nome di battaglia messianico che significa "figlio della stella”. Dopo un anno dall'inizio della rivolta l'esercito giudaico aveva completamente annientato almeno una legione romana, forse due. In Palestina non c'erano più truppe romane, Gerusalemme era stata conquistata ed era stata insediata un'amministrazione ebraica. La rivolta arrivò a un passo dal successo. Intanto in Siria, fuori dei confini della Palestina, i Romani si riorganizzavano sotto la guida dell'imperatore Adriano, che aveva come comandante in seconda Giulio Severo, in precedenza abile governatore della Britannia. L'esercito romano invase di nuovo la Palestina e costrinse bar Kokhba a rifugiarsi a Beitar, il suo quartier generale, a pochi km da Gerusalemme (135) La seconda rivolta giudaica fu così ancora una volta repressa nel sangue, Gerusalemme già abbondantemente distrutta al tempo della prima guerra giudaica venne completamente spianata e divenne colonia romana col nome di Aelia Capitolina. Agli ebrei fu persino proibito di entrare nella nuova città, ricostruita completamente secondo il modello greco, e nel luogo dove sorgeva l’antico Tempio distrutto dalle truppe di Tito fin dal 70 d.C. e mai ricostruito da allora venne eretto un tempio in onore di Giove. La guerra del 132-135 d.C. segnò la fine delle speranze messianiche del giudaismo e la scomparsa di tutta la tradizione apocalittica giudaica. Da quel momento l'ebraismo verrà a coincidere con il rabbinismo di tradizione farisaica che sostanzialmente è rimasto fino ad oggi. E' interessante osservare quale fu l'atteggiamento dei cristiani durante le rivolte giudaiche, secondo la tradizionale storia della Chiesa. Durante la guerra del 66-74, stando alle cronache degli storici della Chiesa, i Cristiani fuggirono a Pella, oltre il Giordano, evitando così di compromettersi con la rivolta.


1. GIROLAMO, De viris illustribus, IX

2. Già pubblicato ne “Il Dogma Cattolico. Appunti per una esposizione sistematica”, 2010 amazon.com,


Theorèin - Aprile 2015