LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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IN EPISTULAM AD GALATAS

Breve introduzione alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Galati

La Lettera ai Galati è una missiva paolina di grande importanza, sia per i dati autobiografici che per la soteriologia espostavi. La sua comprensione sembra richiedere quella della Lettera ai Romani e di sicuro serve molto a capire l’itinerario umano e spirituale di Paolo.

DESTINATARI

Questa Lettera è indirizzata ad un gruppo di Chiese sparse nella Galazia, che alcuni intendono in senso stretto come regione nei dintorni di Ancira, e altri in senso lato quale provincia romana che, nel centro dell’Asia Minore, ai tempi dell’Apostolo comprendeva, oltre alla Galazia propriamente detta, anche la Licaonia, la Pisidia, l’Isauria, la Panfilia e parte della Frigia e della Cilicia. Qui Paolo portò il Vangelo sia nel Primo che nel Secondo suo Viaggio missionario (At 13-16).

OGGETTO

I Galati erano stati felici di accogliere il Vangelo, ma dopo la predicazione di Paolo erano giunti i giudaizzanti, che avevano insegnato loro ad unire alla pratica cristiana quella mosaica. All’inizio i neofiti si erano tenuti fedeli all’insegnamento dell’Apostolo, ma poi, fraintendendo quanto era accaduto nel Concilio di Gerusalemme, avevano deciso di aderire al Giudeo-cristianesimo. Proprio per ristabilire la corretta dottrina Paolo scrive a queste Chiese, rivendicando la sua autorità.

DATAZIONE

Nella cronologia che ho fatto mia ed esposto in precedenza la Lettera ai Galati si colloca tra il 52 e il 57. Tradizionalmente la si poneva in modo più preciso o nel 52 o nel 53-54, facendola redigere a Corinto. Altri, anche per la sua parentela con quella ai Romani, ma con meno certezza, la datavano al 57-58, sempre da Corinto. Se manteniamo l’assunto che l’una e l’altra Lettera siano state scritte in un periodo comune, la retrodatazione della Lettera ai Romani sulla base del frammento 7Q9, per cui essa risale al 50, fa si che anche la Lettera ai Galati venga datata a quell’anno, subito dopo il Concilio di Gerusalemme.

CONTENUTO E STRUTTURA

La Lettera è essenzialmente dogmatica e incentrata sulla tesi per la quale la salvezza dipende solo dalla Fede in Cristo e non dall’osservanza della Legge mosaica, la cui applicazione in campi non morali è anzi dannosa. Essa si divide in un Prologo, tre Parti e un Epilogo.

Il Prologo (1,1-10) comprende l’indirizzo, i saluti e un rimprovero iniziale.

La Prima Parte (1,11-2,21) è apologetica e in essa Paolo difende il suo apostolato mostrando che la sua dottrina è uguale a quella degli altri Apostoli. Paolo dichiara l’origine divina del suo apostolato; narra le vicende della sua conversione e formazione fornendo dati di grande valore per la ricostruzione della sua vita; si dilunga sull’incontro con gli altri Apostoli e sulla approvazione da parte loro della sua dottrina nel Concilio di Gerusalemme; narra come egli riprese Pietro in Antiochia perché non voleva mangiare coi convertiti dal paganesimo davanti ai fedeli di origine ebraica. In questa parte l’ossequio tributato a Cefa, nonché agli altri Apostoli, mostra chiaramente la fondazione gerarchica della Chiesa sul primato petrino da solo e su quello episcopale assieme e al di sotto di quello.

La Seconda Parte (3-4) è dogmatica; Paolo vi espone la dottrina per cui la salvezza si ottiene per la Fede in Cristo e non per le opere della Legge mosaica, le quali sono dunque superflue se non nocive. Distinguendo tra il piano esteriore e quello interiore, Paolo mostra come le opere della Legge esigono di essere osservate ma non necessitano di essere credute, mentre la Fede si concretizza in un atto interno, che esige di essere fatto proprio perché creduto. Peraltro proprio essa vivifica e rende possibile la pratica della Legge. Il Cristo prese su di Sé la maledizione degli inadempienti della Legge, dalla quale nessuno può scampare non potendo mai osservarla nessuno senza difetti, e la trasmutò in benedizione, secondo la promessa fatta ad Abramo da Dio, al quale Egli aveva preannunziato che avrebbe in lui benedetto tutte le nazioni della terra. Il Cristo assunse in Sé la maledizione perché fu appeso al legno compensando con la Sua morte l’anatema di Dt 21,23 a vantaggio di tutti i colpevoli; i giusti sono tali e vivono per la Fede, divenendo in questo simili ad Abramo, il quale credette e ciò gli fu accreditato come giustizia. Paolo mostra come la promulgazione della Legge non abrogò queste promesse di salvezza universale basate sulla Fede e che le erano anteriori; la Legge promulgata in seguito preparò gli Ebrei alla venuta di Cristo e la Fede in Lui libera dalla Legge perché nel Corpo di Cristo non vi sono né Giudei né Greci e tutti diventano, in Lui, discendenza di Abramo, a cui sono rivolte le promesse. La Legge è stata un pedagogo per i fedeli, che diventati maggiorenni sono usciti dalla tutela e non devono tornarvi. Paolo esorta dunque i Galati ad imitarlo. La storia figurativa dei due figli di Abramo prova l’inutilità della Legge, in quanto la generazione carnale della Legge si esemplifica in Ismaele progenie di Agar mentre quella spirituale si mostra in Isacco figlio di Sara. Come Ismaele visse in Arabia dov’è il Sinai da cui venne la Legge, come quegli perseguitò Isacco, come quegli è simbolo della Gerusalemme terrestre schiava del peccato, così Isacco rappresenta i figli della promessa, nati per opera dello Spirito da ciò che di per sé era sterile e prefigura la Gerusalemme celeste.

La Terza Parte (5-6,10) è morale, contenendo avvisi pratici onde correggere qualche abuso e confermare nella Fede. Si dimostra in essa che, se il cristiano inizia a seguire la norma abramitica della Circoncisione, dovrà poi seguire tutta la Legge; facendo ciò attesterebbe di non ritenere bastevole per la sua salvezza la mera Fede in Cristo e quindi non meriterebbe più di conseguirla. La Fede è definita operante nella Carità e unica condizione valida per chi è incorporato in Cristo e ne vuole trarre beneficio. Preannunzia il castigo sui giudaizzanti, nega di aver mai predicato la Circoncisione altrove, afferma che la libertà cristiana ha come limite la carità. Insegna a comportarsi secondo lo spirito e non secondo la carne, elencando le cattive azioni di questa (fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizia, contesa, gelosia, rissa, ira, discordia, setta, invidia, ubriachezza, gozzoviglia, che escludono dal Regno di Dio) e le buone di quella (carità, gioia, pace, pazienza, benignità, bontà, fedeltà, dolcezza, temperanza che chiama frutti dello Spirito). Esorta alla carità vicendevole e all’umiltà, esaminando innanzitutto i propri difetti e correggendosi, senza vantarsi o giudicare; esorta alla correzione fraterna; statuisce il dovere di sostenere il clero e chi ammaestra nella Fede. Ricorda che chi ben semina ben raccoglie e che Dio non può essere ingannato.

L’Epilogo (6,11-18) chiude in modo polemico e dogmatico; formula auguri e saluti.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Partendo dalla parentela concettuale tra la Lettera ai Galati e quella ai Romani, molte cose possono essere dette dell’una come dell’altra. La Lettera ai Galati sarebbe una reazione più viva ed immediata, mentre la Lettera ai Romani sarebbe l’espressione ponderata e sistematica della tesi paolina sulla giustificazione, nel quadro della teologia cristiana primitiva e sull’autorità delle decisioni del Concilio gerosolimitano, sebbene mai citato. I critici, ritenendo che una simile maturità di pensiero sia possibile solo nel paolinismo maturo, hanno preteso di abbassare la data di composizione della Lettera ai Galati per la sua connessione appunto con quella ai Romani, ma non è necessario. Senza cadere nell’eccesso di chi pensa che la Lettera ai Galati sia addirittura anteriore al Concilio di Gerusalemme perché non cita espressamente il decreto di At 15,20.29, e identificando la Seconda visita nella capitale ebraica descritta nella Lettera (2,1-10) con la Seconda narrata negli Atti (11,30; 12, 25) e non con la Terza (15,2-30) – a causa dei particolari differenti- si può benissimo immaginare che subito dopo l’assise apostolica gerosolimitana Paolo scrivesse questa Lettera. La Seconda visita della Lettera può assimilarsi alla Terza degli Atti per le affinità che esse hanno obiettivamente, tralasciando la Seconda degli Atti perché di scarsa importanza. Non vi è motivo invece di dubitare né della storicità delle due Visite a Gerusalemme descritte negli Atti considerandole un doppione letterario di Luca, né di supporre che il decreto del Concilio fosse in realtà tardivo e che perciò non fu citato nella Lettera ai Galati. Analogamente, sebbene nell’uso comune del linguaggio dell’epoca sembra che la Galazia a cui Paolo indirizza la Lettera fosse la mera regione geografica, non vi è ragione di escludere a priori che egli volesse rivolgersi a tutti i fedeli della provincia romana, fondata sin dal 36-25 a.C.

La Lettera è come un grido di dolore sgorgato dall’intimo, in cui apologia personale ed elaborazione dottrinale si sovrappongono. Essa mette in evidenza come le opere della Fede scaturiscono dallo Spirito dato a chi ha la fede, anche se non è ebreo (3,6-9.14). La Legge è servita a far sì che l’uomo prendesse coscienza del peccato ma non a levarlo, cosa che necessita dell’aiuto di Dio (3,19-22). Nel cristiano infatti vive e opera Cristo stesso (2,20).

IN EPISTULAM AD EPHESINOS

Breve introduzione alla Lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini

Prima delle cosiddette Lettere della Prigionia, la Lettera agli Efesini è un capolavoro paolino per l’ampiezza della sintesi dottrinale che esprime e per le caratteristiche di stile.

DESTINATARI

Paolo capitò in Efeso, capitale dell’Asia Proconsolare e fiorente per commerci e ricchezze, alla fine del suo Secondo Viaggio Missionario, tra il 49 e il 51 (At 18-19). In questa città, che forse era stata visitata già dopo il 42 da Giovanni Apostolo accompagnato dalla Vergine Maria e dove pure prosperava il paganesimo all’ombra del Tempio di Artemide- tra le Sette Meraviglie del Mondo antico- Paolo si trattenne poco (1); vi ritornò nel suo Terzo Viaggio (52-58) e vi si trattenne tre anni (54-57) evangelizzando fruttuosamente (At 19). Vi fondò o almeno vi rafforzò dunque una Chiesa, che poi sarebbe stata governata da San Giovanni, che vi giunse definitivamente nel 66, se non anche dal 57 quando abbandonò Gerusalemme (2). Costretto Paolo a lasciare Efeso per il Tumulto degli Orefici, si spostò in Macedonia, per passare poi in Grecia. Quando, rientrando da lì a Gerusalemme, ripassò per Mileto, diede qui il suo addio ai presbiteri efesini come da At 20,17-38. In realtà vi sarebbe tornato nel suo Sesto Viaggio extrabiblico, prima della persecuzione neroniana.

OGGETTO

Nella Lettera si descrive il meraviglioso piano della Redenzione preparato da Dio e realizzato in Cristo. La ragione dell’intervento epistolare sta nell’arrivo dello gnosticismo in città. Esso era la filiazione di quell’eresia giudaizzante che, arginata dal Concilio di Gerusalemme, ora si ripresentava sotto le forme di conoscenze e pratiche esoteriche. Informato da Epafra, vescovo di Colossi, l’Apostolo prese la penna per difendere il suo gregge dall’eresia.

DATAZIONE

Due cronologie sono possibili: una che pone la Lettera al 58 da Cesarea (3), dov’era detenuto per volontà di Felice, procuratore della Giudea, e poi di Festo; un’altra che la colloca tra il 61 e il 63 da Roma durante la Prima Prigionia. Di certo la Lettera allude a delle catene che tengono l’Apostolo prigioniero. La datazione romana è quella oggi quasi universalmente accettata, sebbene io propenda per quella cesariense. Latore della Lettera fu il diacono Tichico.

CONTENUTO E STRUTTURA

La Lettera comprende un Prologo, due Parti e un Epilogo. Il Prologo (1,1-2) è composto dal saluto e dall’indirizzo.

La Prima Parte (1,3-3,21) è dogmatica e fa risaltare la grandezza dell’opera compiuta da Gesù (1,3-2,10), affermando che tutti, Giudei e Pagani, sono chiamati a diventare Figli di Dio nella Chiesa che è destinata a riunire tutti nel suo seno (2,11-3,21). L’Apostolo, dopo aver ringraziato Dio per i benefici concessi a noi in Cristo, in forma innica (1,3-14; 1,20-23; 2,14-18) e prosastica elenca le benedizioni divine: elezione e predestinazione; redenzione; vocazione alla Fede e doni dello Spirito Santo, pegno della vita futura. San Paolo afferma esplicitamente che il mistero della vocazione dei Pagani può essere inteso dalla spiegazione che lui stesso ne dà nella Lettera, avendolo ricevuto a sua volta.

La Seconda Parte (4-6,9) è invece morale, perché traccia regole per la vita cristiana e parla dei doveri generali (4-5,21) e particolari (5,22-6,10) dei battezzati. Il cristiano deve vivere in modo degno della sua vocazione. Insegnando esplicitamente che Cristo è disceso agli inferi per liberare i Padri, Paolo sviluppa un ragionamento per cui ognuno ha dei doni che devono servire a conservare l’unità nella loro diversità. Contrappone la santità cristiana al malcostume pagano, dovendo il battezzato imitare Dio e Cristo, evitando fornicazione, impurità, avarizia, parole disoneste, buffonerie, discorsi licenziosi. Esortando alle virtù cristiane, egli prescrive di non ubriacarsi ma di riempirsi di Spirito; invita a ringraziare Dio in tutto e a stare soggetti gli uni agli altri. Esemplifica il mistero del Sacramento del Matrimonio sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, insegnandone l’unità e inculcando nei coniugi gli atteggiamenti morali necessari: obbedienza e rispetto nella donna, dedizione e amore nel marito. Inculca nei figli l’obbedienza e nei padri la misura; ordina lo stesso ai servi e ai padroni.

L’Epilogo (6,10-24) contiene la descrizione delle armi del cristiano nella lotta spirituale, esemplificate sull’armatura del soldato: verità, giustizia, pace, fede, salvezza, Parola di Dio, preghiera. Annunzia la missione di Tichico e chiude coi saluti.

DISAMINA FILOLOGICA E LETTERARIA

Definire la Lettera agli Efesini come parte del gruppo delle Lettere della Prigionia non è una semplice operazione di raggruppamento letterario di scritti occasionali, ma è una cifra interpretativa nel senso più ampio del genere. Se, come abbiamo visto, il luogo di questa prigionia non è comunemente accettato, la condizione di prigionia di per sé aiuta a capire molte cose che la Lettera agli Efesini ha in comune con quelle ai Colossesi e con quella a Filemone, anche se di esse parleremo diffusamente seguendo l’ordine del canone e quindi non in questa sede. Vi è per esempio una medesima missione del diacono Tichico (Col 4,7 e Ef 6,21 s.); vi sono affinità stilistiche tra le due missive; vi è una convergenza contenutistica tra di esse. La condizione di prigionia è attestata in tutte e tre le Lettere. Questo però non è un motivo sufficiente per immaginare che il Prigioniero fosse sempre nello stesso posto quando scriveva queste Lettere. E’ tuttavia evidente che la prigionia fu il contesto in cui Paolo, (forse dapprima) in modo immediato e irruente nella Lettera ai Colossesi e (forse poi) in modo più meditato proprio nella Lettera agli Efesini, fa il punto su una questione dottrinale di grande rilevanza com’è quella soteriologica, battuta in breccia dall’incipiente gnosticismo. La missiva è indirizzata agli Efesini, ma circolò, per volontà di Paolo, tra tutte le comunità della Valle del Lico: è proprio infatti la Lettera di cui parliamo che in quella ai Colossesi è detta indirizzata ai Laodicesi (Col 4,16). Nonostante i sospetti dei razionalisti sull’autenticità della Lettera agli Efesini, essa ha le idee peculiari di Paolo e le sue formulazioni originali risentono della situazione particolare in cui fu scritta. La Lettera, definita di una sublimità geniale, non può essere opera pseudoepigrafica. Lo stile è sublime e i sentimenti profondi: non mancano perciò diverse oscurità; è ampio e abbondante, se non sovraccarico, e quindi diverso da quello nervoso delle lettere precedenti; tutto questo però ha senso nell’ampiezza di orizzonti che l’Apostolo vuole abbracciare. Egli è un autore con una varietà di stili documentati anche nelle Lettere ai Romani e ai Corinzi, per cui alcuni passi contemplativi e liturgici della Lettera agli Efesini possono avere dei paralleli anche in quelle altre epistole. Qualcuno considera pedestre e maldestro il modo in cui la Lettera agli Efesini avrebbe ripreso espressioni di quella ai Colossesi, ma ciò – ammesso che non sia vero il contrario per cui da questo punto di vista la Lettera ai Colossesi sarebbe più rifinita di quella agli Efesini- potrebbe essere imputato ad un lavoro di mera scrittura fatto più da un discepolo che dall’autore e non inficia l’autenticità della Lettera stessa. In essa, accanto ai motivi descritti a proposito dei contenuti, e alla presenza forse per ripresa di quelli che caratterizzano la Lettera ai Colossesi, troviamo una particolare insistenza nella disamina ecclesiologica, per la quale la Chiesa è il Corpo del Cristo Totale, estesa all’universo intero rinnovato, quale pienezza di Colui Che si realizza in tutte le cose (1,23). Da questo punto di vista la Lettera è considerata la vetta della contemplazione paolina e quindi il vertice della sua opera, in cui riprende molti temi antichi riordinandoli. La speculazione è favorita dal fatto che una parte delle polemiche è già rientrata per il suo intervento a Colossi (Ef 1,20-22). Paolo ripensa quindi con una certa tranquillità alcuni problemi della Lettera ai Romani, rievocandone le prospettive sul passato peccaminoso dell’umanità in modo sintetico e quelle sulla gratuita salvezza ottenuta in Cristo (2,1-10), mentre ancora riconsidera la questione del destino dei Giudei e dei Pagani, riuniti nel solo Pleroma del Cristo medesimo, riconciliati e in cammino verso il Padre (Ef 2,11-22). L’occhio più acuto dell’Apostolo è però quello che scruta il mistero della salvezza dei Pagani, nel quale egli vede e descrive in modo ineguagliato la Sapienza di Dio che si dispiega, la carità di Cristo che si mostra e l’assoluta gratuità della chiamata ricevuta da lui stesso per esserne ministro (1,9; 3,2-6,9; 6,19). Del piano salvifico Paolo descrive la struttura a tappe (1,3-14) e il termine, che è il matrimonio mistico tra il Cristo e l’umanità redenta che è la Chiesa (5,22-32).

IN EPISTULAM AD PHILIPPENSES

Breve introduzione alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Filippesi

La Lettera ai Filippesi è un’altra delle Lettere della Prigionia, ma ha una armonia e una serenità diversa, per la profonda sintonia che lega Paolo ai destinatari.

DESTINATARI

Filippi fu la prima città d’Europa evangelizzata da Paolo. Era stata fondata da Filippo di Macedonia, il padre di Alessandro, elevata al rango di colonia romana da Augusto che aveva così celebrato i fasti della vittoria colà riportata sui cesaricidi e aveva a quei tempi grande importanza e lo ius italicum. L’Apostolo vi giunse da Troade nel suo Secondo Viaggio Missionario e vi si rifermò probabilmente durante (autunno 57) e alla fine (Pasqua 58) del suo Terzo Viaggio (At 16,9-40). I cristiani di Filippi restarono sempre devoti a Paolo, al quale inviarono sempre soccorsi in denaro a Tessalonica, a Corinto e nella prigionia dalla quale scrisse questa Lettera (4,10-18).

OGGETTO

La Lettera è essenzialmente un ringraziamento di Paolo a tanta dedizione e dà notizie della prigionia di Paolo, ma anche su Timoteo e su Epafrodito, il latore della missiva. I cenni ai giudaizzanti sono occasionali.

DATAZIONE

La Lettera è datata in due modi diversi: nel 58 da Cesarea e nel 61-63 da Roma. In ognuna delle due ipotesi si può dare una interpretazione diversa dell’espressione “Casa di Cesare” in 4,21-22: per la prima essa indica il Pretorio cesariense, per la seconda la Corte neroniana; ovviamente nell’una e nell’altra dovettero esserci dei cristiani a nome dei quali Paolo mandò saluti ai Filippesi. A tale proposito va però evidenziato che nella Lettera è citato esplicitamente Clemente, presbitero di Roma e poi Papa, cosa che costituisce un argomento valido per la datazione topica della missiva nella capitale e per quella cronologica ai tempi della Prigionia romana vera e propria, anche se non è un argomento insormontabile, potendo la citazione essere spiegata come semplice cenno ad un membro di quel circuito ristretto e assai mobile di missionari che caratterizzò il primo Cristianesimo. Una terza ipotesi è stata avanzata di recente quando si è detto che la Lettera potè essere scritta da Efeso nel 56-57, durante una prigionia sconosciuta. Anche in questo caso la “Casa di Cesare” sarebbe il Pretorio locale. Personalmente credo che la scrittura da Cesarea sia la più probabile. L’occasione della scrittura si ebbe quando Epafrodito, vescovo della comunità, portò a Paolo un aiuto in denaro dei Filippesi. L’Apostolo scrisse allora questa Lettera che Epafrodito stesso, ripresosi da una grave malattia che l’aveva colpito, portò ai suoi concittadini.

CONTENUTO E STRUTTURA

La Lettera ha un Prologo, due Parti e un Epilogo. Il Prologo (1,1-11) contiene l’indirizzo, i saluti e il ringraziamento a Dio per i benefici concessi ai Filippesi.

La Prima Parte (1,12-2,18) contiene notizie sulla prigionia dell’Apostolo, che sono di spunto per una esortazione alle virtù cristiane, ossia alla Fede, alla Carità, all’umiltà, all’abnegazione, alla imitazione di Cristo e alla santità.

La Seconda Parte (2,19-4,9) parla di Timoteo e di Epafrodito, per poi dare consigli e avvisi, contro i giudaizzanti e su alcune virtù. Esorta quindi alla gioia, a disprezzare la falsa circoncisione – quella fisica- dei giudaizzanti che cercano in essa la salvezza, a raggiungere la perfezione con ogni sforzo. Mostra come distinguere i buoni dai cattivi cristiani.

L’Epilogo (4,10-23) contiene i ringraziamenti finali ai Filippesi, i saluti e le benedizioni.

DISAMINA CONTENUTISTICA E LETTERARIA

I fautori della datazione topica efesina della Lettera ai Filippesi hanno evidenziato che la grande facilità di contatti tra Paolo e i Filippesi stessi che la missiva suppone non sarebbero stati possibili se l’Apostolo fosse stato prigioniero a Cesarea o a Roma; essi hanno anche evidenziato che l’invio di denaro da parte dei Filippesi tramite Epafrodito non poteva essere la prima occasione utile per aiutare Paolo, dopo i sussidi già concessigli durante il Secondo Viaggio, visto che egli ripassò da loro altre due volte durante il Terzo. Senza entrare in merito alla questione della datazione – per la quale pur seguendo la cronologia del Robinson non pretendo di dispensare sentenze definitive, nonostante la perplessità che suscita in me l’idea che si debba ipotizzare senza prove una prigionia efesina – bisogna però dire che nulla impedisce né i contatti tra i Filippesi e Paolo a Cesarea o a Roma né che l’Apostolo prima della Prima prigionia romana potè non aver bisogno di aiuti di quei fedeli. La collocazione della Lettera ai Filippesi nel blocco delle Lettere della Prigionia diventa perciò più aleatoria, come del resto tutto il concetto di “prigionia”: avremmo la Lettera agli Efesini scritta da Cesarea, quella ai Colossesi anche da quel luogo, quella a Filemone da Roma e quella ai Filippesi, in altra epoca, da Efeso. Il blocco letterario in questione sarebbe più legato ad una condizione psicologica che a una fase della vita di Paolo. In ogni caso, la Lettera ai Filippesi è accostabile, non solo cronologicamente, alle Lettere ai Corinzi e ai Romani, specie alla Prima ai Corinzi. In effetti stile e dottrina favoriscono l’accostamento, ma non postulano la contiguità cronologica. Nella Lettera, vera effusione del cuore, vi è una messa in guardia da chi ancora non riesce a fare danni a Filippi, ossia ai giudaizzanti. Degno di nota è l’inno in 2,6-11, sull’abbassamento di Cristo, di incalcolabile portata storica sulla credenza primordiale nella Divinità e nella preesistenza di Gesù, che forse fu composto da Paolo stesso. Qualcuno ha ipotizzato che la Lettera sia un collage di biglietti sfusi destinati ai Filippesi in vari momenti, ma senza prova alcuna.

IN EPISTULAM AD COLOSSENSES

Breve introduzione alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Colossesi

DESTINATARI

Colossi era ai tempi di Paolo una città di secondo piano, a causa di un gran terremoto che, sotto l’impero di Nerone, l’aveva devastata assieme a Laodicea e a Gerapoli. Due volte Paolo percorse la Frigia (At 16-17), ma in nessuna di esse probabilmente egli si spinse nella Valle del Lico, per cui non raggiunse Colossi, ivi ubicata, la cui Chiesa fu fondata da Epafra (Col 1.3-7; 23; 2,1-5; 4,11-12). Questi, durante la prigionia di Paolo – nelle circostanze che diremo parlando della datazione- lo ragguagliò sull’incipiente gnosticismo, che a Colossi evidentemente in modo particolare calcava la mano sul culto angelico sostituendolo a quello della Divinità di Cristo ed eguagliando questo a quello.

OGGETTO

Paolo scrisse dunque la Lettera per arginare questo errore e ribadire quale fosse il piano della Redenzione di Dio operato in Cristo, puntualizzando diversi aspetti dogmatici.

DATAZIONE

Per i più l’Apostolo scrisse questa Lettera poco prima della Lettera agli Efesini e dallo stesso luogo, nelle medesime circostanze. Siamo dunque o nel 58 a Cesarea o nel 61-63 a Roma. In realtà, se alcune cose della Lettera agli Efesini rendono più facile collocarla a Cesarea, altre invece rendono più plausibile la collocazione romana della Lettera ai Colossesi, come la presenza, con Paolo, di Marco e di Luca. Per cui, o la Lettera ai Colossesi non precedette quella agli Efesini – come sembra evincersi da 4,19- o Marco e Luca poterono raggiungerlo a Cesarea – e la cosa non è impossibile per Luca che fece il Quarto Viaggio con l’Apostolo- o semplicemente entrambe furono scritte da Roma. La mia opinione è che la Lettera sia stata scritta da Roma e che fu successiva a quella agli Efesini, anche se su questo argomento dirò più avanti. Essa ebbe come latori Tichico e Onesimo. Paolo volle che fosse letta in Efeso e in tutta la Valle del Lico esattamente come quella agli Efesini doveva essere letta in Colossi.

CONTENUTO E STRUTTURA

Anche questa Lettera ha un Prologo, due Parti e un Epilogo. Nel Prologo (1,1-8) Paolo porge i saluti assieme a Timoteo, formula l’indirizzo e l’augurio incipitario. Poi rende grazie a Dio per i benefici concessi ai Colossesi.

Nella Prima Parte (1,9-2,23), che è dogmatica, parla dei benefici e della dignità di Cristo nei confronti di Dio, della Creazione, della Chiesa; confuta i falsi dottori opponendo alle loro elucubrazioni la dottrina vera del Cristianesimo. Insiste sulla Divinità di Cristo, sulla universalità della Redenzione, sulla necessità della Fede per la salvezza; bolla come inani le osservanze giudaiche, le pratiche ascetiche dei falsi dottori e il loro culto angelico ereticale. Esprime queste verità in forma prosastica ed innica (1,13-20).

Nella Seconda Parte (3,1-4,9), che è morale, parla dei doveri cristiani, tanto generali che particolari dei vari stati. Ricorda che i cristiani devono vivere per il Cielo e aspirare alle cose celesti, nascondendo la propria esistenza con Cristo in Dio e considerandosi morti al mondo, in attesa di comparire con lo stesso Cristo nella gloria innanzi a tutto il mondo nell’Ultimo Giorno. Insegna a spogliarsi dell’uomo vecchio e a rivestirsi dell’uomo nuovo, biasimando e condannando fornicazione, impudicizia, passione, desideri malvagi, cupidigia, ira, sdegno, malignità, calunnia, turpiloquio, menzogna, mentre raccomanda e loda misericordia, bontà, umiltà, dolcezza, pazienza, sopportazione reciproca, perdono, carità, pace, riconoscenza, saggezza, spirito di lode. Inculca nelle mogli la sottomissione ai mariti e ai mariti l’amore per le mogli; ai figli l’obbedienza e ai genitori la misura; ai servi la fedeltà e ai padroni la giustizia e l’equità. Esorta altresì alla preghiera e alla prudenza.

Nell’Epilogo (4,10-18) porge saluti e benedizioni.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Per quanto concerne la parentela tra le Lettere ai Colossesi e agli Efesini, i critici evidenziano la medesima missione di Tichico nell’una e nell’altra, sebbene nulla vieterebbe che il Diacono facesse la spola tra Roma e Cesarea da una parte ed Efeso e Colossi dall’altra in due sequenze temporali separate da un biennio, per cui una volta avrebbe portato la Lettera alla prima città e una volta quella alla seconda. In quanto alla relazione tra la Lettera ai Colossesi e quella a Filemone, di cui diremo, la missione di Onesimo e i compagni di Paolo anche qui appaiono simili. Vi sono, come dicemmo parlando degli Efesini, somiglianze stilistiche e dottrinali tra la Lettera a quelli e questa ai Colossesi. Se partiamo dal presupposto che la Lettera ai Colossesi sia di poco precedente quella agli Efesini – che abbiamo accettato, sia pure con formule dubitative a differenza di come si fa di solito, come punto di partenza per parlare della missiva a questi ultimi – dobbiamo considerarla l’espressione più irruente di un pensiero ancora non oggetto di piena riflessione. In realtà vi sono tuttavia validi motivi per invertire l’ordine di composizione, specie il riferimento in 4,16, che sembra presupporre che la Lettera agli Efesini sia stata già spedita quando quella ai Colossesi dovesse ancora esserlo. In tal senso la citazione di Marco potrebbe essere dirimente essendo più facile che questi fosse a Roma e non a Cesarea, ma non è impossibile che l'Evangelista viaggiasse e raggiungesse Paolo. In ogni caso, anche per la Lettera ai Colossesi vanno bene le ragioni addotte per attestare l’autenticità di quella agli Efesini. Lo stile è anche qui ampio abbondante e sovraccarico, contemplativo e quasi liturgico, con un vasto orizzonte concettuale ed emotivo. Il pericolo gnostico a Colossi aveva la forma di una speculazione giudaica intrisa di filosofia ellenistica (2,16), orientata a sostituire al Cristo le Potenze celesti preposte al movimento cosmico. Paolo da un lato accetta la dottrina ortodossa sugli Spiriti celesti, la loro funzione e le loro distinzioni, anzi la promulga, in quanto autore ispirato, per il NT; dall’altro ricorda che gli Spiriti sono sì stati mediatori della Legge mosaica, ma ora sono anch’essi sottomessi al Cristo Signore, esaltato sopra i Cieli e Che ha fatto proprie le loro funzioni. Egli, ancor prima di Incarnarsi, le dominava in quanto Dio e ora, dopo l’Ascensione, le domina anche come Uomo. Capo del Corpo Mistico, ossia del Pleroma, ha assunto in Sé tutta la pienezza dell’essere e quindi anche il dominio delle nature angeliche (1,13-20). I battezzati sono dunque liberi dalla soggezione agli Spiriti perché uniti a Cristo (2,8.20) e non devono sottomettersi ad essi in modo inefficace (2,16-23). Il tema pleromatico è dunque l’ennesimo sviluppo soteriologico che Paolo inserisce nella sua teologia, avendo sempre a cuore la salvezza e non la speculazione fine a se stessa.


1. Negli Atti non vi è riferimento all’ipotetico apostolato giovanneo in Efeso anteriore a quello paolino. L’ipotesi della presenza giovannea ad Efeso nel 42, formulata per spiegare dove l’Apostolo prediletto si sia rifugiato durante la persecuzione di Erode Agrippa, ha come postulato che anche la Vergine seguisse l’Evangelista, così da dare giustificazione della nascita di memorie cultuali mariane nella città. Se realmente Giovanni fu in città prima della Dormitio Virginis che avvenne tra il 49 e il 50, allora il silenzio degli Atti attorno alla comunità primordiale fondata dall’Evangelista si può spiegare o con una tecnica stilistica o con la tipologia delle fonti o anche con una originaria divisione tra la Chiesa meramente giovannea, giudeo-cristiana, e quella peculiarmente paolina, apertasi subito anche ai pagani, se non con una quantità talmente irrisoria di fedeli già esistenti all’arrivo di Paolo ad Efeso da non sembrare degna di particolare menzione.

2. Se Giovanni giunse in Efeso sin dal 57, avremmo la presenza dell’Apostolo prediletto prima ancora della Lettera paolina. Ciò può doversi al fatto che l’Apostolo non ebbe stabile dimora colà da subito, o forse bisognerebbe posporre l’arrivo dell’Apostolo a dopo l’invio della Lettera di Paolo, o ancora immaginare che Giovanni non esercitasse subito la sua autorità sulla Chiesa fondata da Paolo. Appare più convincente la prima ipotesi.

3. N.B.: nell’articolo precedente si legge che la Lettera sia stata scritta nel terzo soggiorno corinzio dell’Apostolo, ma ciò è una svista e non può essere attribuito al Robinson, che propone la datazione al 58.

Theorèin - Giugno 2015