LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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LITTERAE CATHOLICAE

Brevissima introduzione alle Lettere Cattoliche

Sono chiamate Lettere Cattoliche quelle epistole situate nel Canone neotestamentario tra il corpo paolino e l’Apocalisse di Giovanni. Esse sono in numero di sette, di cui una è di Giacomo, due di Pietro, tre di Giovanni e una di Giuda. Sono state dette cattoliche, ossia universali, perché considerate in blocco come indirizzate alle Chiese tutte in genere; in realtà però solo la Seconda Lettera di Pietro e la Lettera di Giuda sono indirizzate esplicitamente a tutti i fedeli, in quanto la Lettera di Giacomo è diretta agli Ebrei della Diaspora, la Prima di Giovanni non ha destinatario specifico e la Seconda e la Terza dello stesso Apostolo sono indirizzate alla “Signora Eletta”, e sembrano essere biglietti sostanzialmente privati.

Queste Lettere sono più morali che dogmatiche, pur combattendo gli errori diffusi e insistendo sulla necessità di fuggire il peccato e praticare la virtù.

IN EPISTULAM SANCTI IACOBI

Breve introduzione alla Lettera di San Giacomo Apostolo

Quella che Lutero definì spregiativamente una “Lettera di paglia” perché contraddiceva espressamente la sua eresia soteriologica, è senz’altro invece uno dei documenti più importanti del NT, sia da un punto di vista storico sia per la funzione di integrazione da essa svolta nei confronti delle dottrine esposte nella Lettera ai Romani e in quella ai Galati.

AUTORE

Giacomo il Minore, detto così per distinguerlo dal Maggiore che fu figlio di Zebedeo e Salome nonché fratello di Giovanni Evangelista, fu a sua volta figlio di Alfeo e di Maria, fratello di Giuda Taddeo e di Ioses. Definito con un tecnicismo aramaico quale fratello di Gesù, espressione che va intesa come cugino, Giacomo fu, come del resto suo fratello Giuda, discepolo e apostolo di Gesù. Dopo la Sua Resurrezione il Signore lo degnò di una apparizione individuale e, come attesta San Girolamo, lo costituì capo della Chiesa di Gerusalemme. Egli vi pontificò per circa trent’anni, punto di riferimento di tutti i Giudeo-cristiani, esemplare praticante sia della legge mosaica che di quella cristiana, pieno di prudenza e santità, modello vivente della possibile sintesi tra ebraismo e cristianesimo – cosa oggi molto attuale – e rispettato anche dai Giudei non battezzati se non addirittura ostili al Cristianesimo. Paolo definisce lui, Pietro e Giovanni quali colonne della Chiesa e passa a visitare il nostro Apostolo quando si reca a Gerusalemme. Durante la vacanza del soglio procuratorio in Giudea, Giacomo fu martirizzato a Gerusalemme per ordine del sommo sacerdote Anano (62-63) nel 62, con un gesto che costò al carnefice il suo incarico per intervento di Roma e alla Sinagoga la separazione definitiva con la Chiesa, che pure ne è il compimento messianico. La notizia è data da Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche e confermata da Egesippo. L’Apostolo fu ucciso con altri cristiani, tra cui san Mattia.

La paternità giacomina della Lettera, a volte messa in discussione per sottili dispute sull’identità tra Giacomo fratello del Signore e Giacomo apostolo, non può essere messa in dubbio: come nota Robinson, l’Apostolo si presenta in modo talmente semplice da non lasciare dubbi sulla sua identità e sulla sua conseguente autorità. L’argomentare è simile a At 15, dove appunto parla Giacomo. I dubbi di molti ancor oggi persistenti appaiono dunque immotivati.

DATA E DESTINATARIO

La Lettera è indirizzata ai Giudeo-cristiani dispersi tra le nazioni pagane. Scritta senz’altro da Gerusalemme, sembra supporre la Lettera ai Romani, perché spiegherebbe le idee mal capite di Paolo, in ordine alla fede che esige le opere buone, e alla giustificazione che non viene dalla Legge ma dalla carità. In ragione di ciò subito dopo la data in cui poniamo la Lettera ai Romani, ossia nel 57-58, possiamo porre quella di Giacomo, anche nello spazio di pochi mesi. In genere, la si colloca tra il 58 e il 62, avendo come termine ultimo la morte dell’Autore. Se accettiamo che essa abbia potuto precedere Paolo nella Lettera ai Romani aprendo un dibattito soteriologico, possiamo porre la Lettera di Giacomo immediatamente prima. Il Robinson afferma che la Lettera rispecchia invece una condizione ancestrale della Chiesa, formata solo prevalentemente da Ebrei, senza lotte e contrasti. Inoltre Gc 2, 23 ss. ha una risposta in Rm 4, 2-6; per cui il Robinson pone la Lettera in questione al 47/48, in un periodo anteriore al Concilio di Gerusalemme. A favore di questa acuta analisi, la paleografia ha esibito un riscontro significativo e non ancora considerato con la dovuta attenzione: il frammento 7Q8, rinvenuto a Qumran, che corrisponde a Gc 1, 23-24. Datato al 50, tale frammento dimostra che a quella data la Lettera esisteva già. In quanto al riscontro nella Lettera ai Romani, come abbiamo visto la datazione di questa anche al 50 circa è possibile per un altro frammento qumranico, il 7Q9. Appare logico concludere che la Lettera fu scritta prima ancora della disputa sulla Legge mosaica, risolta nel Concilio di Gerusalemme, e che Paolo richiamò la dottrina di Giacomo per chiarire il suo pensiero, non per polemizzare con lui.

CONTENUTO E STRUTTURA

Giacomo mira ad incoraggiare nelle contrarietà e persecuzioni i fedeli – nel contesto arcaico di riferimento si allude evidentemente alle dispute tra ebrei convertiti e non convertiti che vessavano i primi – a spronarli alla vita cristiana e forse a metterli in guardia da antichi eretici. Giacomo si batte contro l’idea che alla salvezza non servano opere buone, parla delle virtù insistendo sulla giustizia e la carità, sottolinea che la fede vive delle opere senza le quali non serve a nulla e che non ci si salva ostentando una vana dottrina. Contiene un prologo, due esortazioni, un biasimo, una raccomandazione e una ulteriore serie di insegnamenti morali.

Il Prologo (1,1) contiene il nome dell’Autore e i destinatari. La prima esortazione (1,2-18) è sulla costanza: con essa soffrire con gioia, domandare a Dio la vera sapienza, ricevere dalle Sue mani ogni cosa, sopportando la tentazione che non viene da Lui e riconoscendo che Egli è l’autore di ogni bene. La seconda esortazione è alla fede viva accompagnata dalle opere (1,19-2,26). Bisogna infatti mettere in pratica la Parola di Dio, frenare la lingua, fare opere di misericordia, non fare distinzioni di persone, osservare con scrupolo tutta la Legge e sapere che la Fede senza le opere è morta. Il biasimo (3,1-18) è per chi ambisce a fare da maestro e parla della vera e della falsa sapienza. Descrive i requisiti dei veri maestri ed enumera i mali causati dalla lingua imprudente. La raccomandazione (4,1-17) è per la pace e la concordia, biasimando concupiscenza, orgoglio, maldicenza e presunzione. Gli ulteriori insegnamenti (5,1-20). sono una minaccia per i ricchi senza cuore, precetti sulla pazienza anche nelle ingiustizie in attesa del Giudizio di Dio, sui giuramenti da evitare, sulla preghiera in tutte le circostanze e con fede, sul Sacramento della Confessione e dell’Unzione degli Infermi e si concludono con l’invito a lavorare per la conversione dei peccatori.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Più che alle dispute interne alla Chiesa, la Lettera sembra fare riferimento a quelle tra le sette giudaiche, che già prima di Cristo discettavano sulla predestinazione e su un sapere iniziatico che poteva essere decisivo per la salvezza. Essa sembra più una esortazione che una lettera. Essa fu accolta solo progressivamente nella Chiesa, evidentemente per la sua forte matrice giudaica. In Egitto Origene la cita quale Scrittura ispirata, ma Eusebio ancora nel IV sec. attesta che era messa in discussione da alcuni. Nel IV sec. è nel Canone delle Chiese siriache. Sembra che sia stata ignorata da Tertulliano e Cipriano, mentre è assente dal Catalogo di Mommsen del 360. Non compare nel Canone di Muratori a Roma, ma fu citata da Clemente Romano e da Erma nel Pastore. Questi autori provenivano dall’ambiente giudaico-cristiano, ed Erma in particolare, nelle sue visioni, fa riferimento alla prassi penitenziale che doveva essere innovata e irrigidita rispetto a quanto attestato nella Lettera di Giacomo. Questa infatti descrive la Confessione come pubblica e frequente, mentre il Pastore riduce le circostanze in cui fare penitenza per i peccati gravi, riservandone l’assoluzione a poche volte nella vita. Ciò mise in ombra la prassi dell’Unzione degli Infermi, sostituita progressivamente dalla prassi diffusasi nell’Occidente a praticare la Penitenza sacramentale una volta sola, con suo differimento al punto di morte (V sec.) e la prassi di rimandare lo stesso Battesimo al momento finale (IV sec.). Avendo l’uno e l’altro Sacramento il potere di rimettere le colpe, addirittura in radice il secondo, l’Unzione degli Infermi fu trascurata, ma non dimenticata. Questo attesta la grande antichità della Lettera.

Nonostante quanto detto sull’identificazione tra Giacomo fratello del Signore e Giacomo Apostolo, con la conseguente sicurezza della intestazione epigrafica della Lettera, alcuni pongono la composizione della missiva in età subapostolica, nel tardo I sec. o addirittura nel II. Ma le motivazioni addotte, oltre ad essere smentite dagli elementi intratestuali evidenziati in precedenza e dal frammento 7Q8, non sono di per sé convincenti: non il fatto che l’autenticità della Lettera non si concilierebbe con la sua tardiva accoglienza nel Canone – perché ciò dipende dalla matrice giudaica che ai fedeli della Chiesa ex gentibus sembrava incomprensibile, mentre le testimonianze senz’altro più autorevoli e antiche sono per la sua ispirazione – non l’elegante greco ricco di vocaboli e intriso di senso della retorica che sembra impossibile in un galileo – perché la Galilea era regione ellenizzata – ne’ il fatto che la Lettera sia stata scritta direttamente in tale lingua – in quanto nessuno può affermarlo con certezza senza la retroversione del testo, né altrimenti poteva essere letta in tutta la Diaspora, se fosse stata scritta in ebraico – non l’ipotesi di fonti comuni alla Lettera stessa con la Lettera di Clemente Romano e il Pastore – perché la dipendenza di questi ultimi dalla nostra Epistola basta alla spiegazione dei loro nessi- né, infine, l’affermazione che la Lettera giacomina sia coeva delle due altre opere citate, le quali sarebbero del tardo I sec. o primo II – in quanto le due opere in questione poterono benissimo essere abbastanza posteriori e peraltro risultano in verità di molto più antiche di quanto si dica di solito, essendo la Lettera di Clemente del 70 e il Pastore del 90. Invece la cristologia arcaica della Lettera non si spiegherebbe in un documento tardivo, quando peraltro i Giudeo-cristiani erano quasi tutti divenuti ebioniti e quindi era difficile che dalle loro fila uscisse uno scrittore autorevole come quello della nostra Lettera, tanto da essere accettato dalle Chiese ortodosse. L’arcaicità della cristologia sarebbe in effetti una ulteriore prova della remota composizione della Lettera, risalente persino al 45-50. E questo trova riscontro nelle analisi contenutistiche e nelle ricerche paleografiche menzionate. I Giudei della Diaspora che Giacomo vuole raggiungere sono sparsi in tutto il mondo romano e non solo in Egitto e Siria come si è preteso. L’autore ha destinatari che conoscono bene la Bibbia e che quindi decodificano le frequenti reminiscenze spontanee e allusioni che egli ha e fa della e alla Scrittura. Giacomo si ispira alla letteratura sapienziale per derivarne lezioni di morale pratica. Dipende moltissimo dal Vangelo e usa spesso il pensiero e le espressioni preferite di Gesù, sempre in modo allusivo e reminiscenziale. Praticamente Giacomo è l’ultimo saggio giudeo che ripensa la tradizione sapienziale alla luce del compimento da essa avuta in Cristo. Dicevamo che è più una omelia, un saggio catechetico giudaico-cristiano che una Lettera. Le esortazioni morali sembrano non essere legate strettamente tra loro, divise come sono tra gruppi di sentenze sul medesimo argomento e tra gruppi legati da assonanze verbali. Ribadisco la centralità teologica del passo sull’Unzione degli Infermi, (5,14 ss.) in cui il Concilio di Trento ha individuato la prova scritturistica dell’istituzione divina del Sacramento. Due temi percorrono la missiva: la prima è l’esaltazione dei poveri e la condanna dei ricchi (1,9-11; 1,27-2.9; 4,13-5,6), che esprime la sollecitudine per gli umili, preferiti di Dio, e che si ricollega alla tradizione biblica e alle Beatitudini; la seconda è la realizzazione delle opere buone e la messa in guardia da una fede sterile (1,22-27; 2,10-26). L’ultima annotazione è sulla presunta polemica tra Giacomo e Paolo: sulla sua difficoltà temporale abbiamo detto; va notato peraltro che i due Apostoli hanno una dottrina sostanzialmente simile (2,14) che dovrebbe aiutare a contestualizzare ancora meglio l’origine della Lettera, del tutto indipendente.

IN EPISTULAS SANCTI PETRI

Brevissima introduzione alle Lettere di San Pietro Apostolo

L’AUTORE

Figlio di Giona, di nome Simone, nativo di Bethsaida in Galilea, di cultura sia greca che ebraica, era pescatore con il fratello Andrea. Era sposato ed aveva almeno una figlia. Quando Gesù lo chiamò alla Sua sequela, viveva a Cafarnao; era già stato discepolo del Battista. Gesù lo scelse tra i Dodici Apostoli, lo costituì loro capo, lo designò quale Suo Vicario dopo la professione di fede perfetta e completa che Pietro fece su di Lui presso Cesarea di Filippo, dandogli il potere di legare e di sciogliere, ossia di insegnare e di governare, e promettendo eterna assistenza alla Chiesa fondata su di lui, nuova roccia. Da qui il cambiamento di nome che Gesù fece su Simone, da quel momento chiamato Pietro. Sempre nella cerchia degli intimi di Gesù, fu testimone di eventi speciali come la risurrezione della Figlia di Giairio, la Trasfigurazione, l’Agonia nel Gethsemani, ma anche a volte incapace di capire il messianismo sofferente di Cristo e poi protagonista del drammatico triplice rinnegamento, conclusosi con uno straziante pentimento. Citato sempre per primo negli elenchi degli Apostoli, fungente sempre da corifeo del gruppo, confermato nel suo primato durante l’Ultima Cena, Pietro fu il primo Apostolo che entrò nel Sepolcro abbandonato dal Risorto, ne ebbe una misteriosa visione esclusiva e fu confermato nel primato ancora una volta da Gesù durante l’apparizione sul Lago di Tiberiade. Dopo l’Ascensione fu il Capo incontestato, energico, coraggioso, dotto e virtuoso della giovane Chiesa, taumaturgo potente, leader carismatico e spirituale. Lui presiedette la riunione che scelse un successore a Giuda, lui predicò a Pentecoste convertendo tremila persone – i primissimi cristiani – lui guarì lo storpio alla Porta Bella, lui fulminò Anania e Saffira, lui scomunicò Simon Mago, lui aprì le porte della Chiesa ai pagani con Cornelio e ai Samaritani. Arrestato più volte con gli Apostoli dal Sinedrio, consultato da Paolo all’inizio del suo ministero e anche in altre circostanze, fu imprigionato singolarmente da Erode Agrippa nel 42, che lo avrebbe ucciso come aveva fatto con Giacomo il Maggiore se un Angelo non lo avesse liberato. Lasciò quindi Gerusalemme e si recò a Roma, dove stette fino alla morte di Erode nel 44. Ritornato in Oriente e poi di nuovo a Roma, presiedette il Concilio di Gerusalemme nel 48 che decise la condotta verso i pagani convertiti. Non potè tornare a Roma per l’Editto di Claudio (41-54) che nel 49 espulse i cristiani, fino a quando l’Imperatore fu vivo. Pietro predicò anch’egli ai pagani, a Corinto come in Asia Minore. Poi si trasferì ad Antiochia di Siria, la cui Chiesa resse per sette anni (49-56). Da lì passò a predicare in Asia Minore e Grecia, per poi tornare in Italia nel 57, dove pure svolse una intensa opera di evangelizzazione avendo Roma come base, che si estese probabilmente anche oltre le Alpi. In Roma il suo interprete e segretario San Marco scrisse il Secondo Vangelo raccogliendone le memorie quando il Principe degli Apostoli era ancora in vita. In suo nome San Marco andò ad evangelizzare l’Egitto e a reggere la Chiesa di Alessandria. Perciò, tutte le Sedi patriarcali dell’Antichità si riconnettono alla predicazione di Pietro. Fu in Roma che Pietro collaborò strettamente anche con Paolo, aggiuntosi a lui nella predicazione in Città e nella guida della sua Chiesa. E fu nell’Urbe che il Principe degli Apostoli e l’Apostolo delle Genti, traditi dai giudaizzanti, furono consegnati a Nerone che scaricò su di loro la colpa dell’incendio della capitale condannandoli a morte

Del martirio di Pietro nessuno dubita. Le fonti antiche lo danno unanimemente a Roma sotto Nerone nel 67 , al termine di una vita densa di prove e sofferenze per Cristo che avevano compensato il triplice rinnegamento delle prime ore del Venerdì Santo. Sono il Vangelo di Giovanni (60-98) – che in 21, 18 allude al martirio petrino ma non indica il luogo - Clemente Romano (92-101) nella sua Lettera ai Corinti (70) in 1-2. 5,1-4 (riscontrata per le persecuzioni in Tacito, Annales 15, 38-44), l’Apocalisse di Giovanni (69-81) al cap. 11, Ignazio di Antiochia (35-107) nella sua Lettera ai Romani, l’Ascensione di Isaia in 4, 2ss. (100 ca.), l’Apocalisse di Pietro (100 ca.). Seguono Dionigi di Corinto (†174), Ireneo di Lione, la testimonianza di Gaio sul tropaion di Pietro in Vaticano attestata da Eusebio e risalente al 200, Tertulliano (160-220), che confermarono la notizia dai tre continenti del Cristianesimo e dell’Impero Romano.

Da allora non vi è voce discordante. Il ciclo agiografico su Pietro, riunito negli Atti di Pietro -ma anche Lattanzio, Origene ed Eusebio- narrano il martirio per crocifissione a testa in giù sul colle Vaticano (Atti di Vercelli [190 ca.] , Martirio di Pietro [I-V sec.] , i Frammenti Copti del Museo Borgiano [mss. del IV-V sec.], Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo-Marcello [V sec.]). L’archeologia ha confermato la collocazione tradizionale della tomba petrina laddove oggi sorge la Basilica di San Pietro e ha fornito altri riscontri al ciclo petrino in Roma.

LA PRIMA LETTERA DI SAN PIETRO

DATAZIONE E DESTINATARI

Attribuita unanimemente a Pietro, la Lettera viene datata al periodo tra il 63 e il 65 e fu scritta da Roma, mentre già si presagiva la persecuzione di Nerone. Il Robinson propende per la datazione al 65. Tuttavia il riferimento a Marco come ancora vivo fa si che la Lettera debba essere stata scritta prima del 62-63, quando l’Evangelista fu martirizzato ad Alessandria d’Egitto. La teoria che la Lettera sia stata scritta da Babilonia, località egiziana, non ha un sufficiente fondamento, essendo quel toponimo un crittogramma di Roma. Tuttavia l’allusione che nella Seconda Lettera si fa alla Prima, e di cui diremo, e la datazione paleografica della Seconda Lettera stessa, fa sì che la Prima debba essere retrodatata al primo soggiorno romano di Pietro, ossia tra il 42 e il 44, massimo entro il 49. La persecuzione a cui farebbe riferimento allora sarebbe non quella neroniana ma quella legata all’Editto di espulsione di Claudio. I destinatari sono i cristiani di origine prevalentemente giudaica convertiti da Pietro in Asia Minore.

CONTENUTO E STUTTURA

Essa consola e dà consigli per la persecuzione; ha una dottrina semplice e pratica che conferma nella fede, predica contro i simoniaci e i nicolaiti e inculca la necessità delle opere buone per la vita eterna. La Lettera ha un Prologo, un Epilogo e in mezzo un corpo divisibile in tre parti Il Prologo (1,1-12) contiene l’indirizzo e il saluto; enumera le regioni evangelizzate dall’Apostolo (Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia, Bitinia); esalta la speranza cristiana, descrive la grandezza della salute eterna. La Prima Parte (1,13-2,12) esorta a vivere da cristiani nella carità. Essa garantisce l’unione con Gesù. A tutti rammenta il dovere dell’esempio. La Seconda Parte (2,13-4,19) parla dei doveri cristiani verso l’autorità secondo le diverse posizioni sociali e la necessità che i cristiani siano fedeli a Dio anche nelle persecuzioni. Esorta a fuggire le colpe del passato e ad essere santi, avendo pensiero del Giudizio imminente per animarsi alla virtù. Rammenta che le sofferenze rendono simili a Cristo e assicurano la vita eterna. In 4,6 descrive la Discesa agli Inferi di Gesù e il Limbo dei Padri. La Terza Parte (5,1-11) esorta i pastori a vigilare, i fedeli ad obbedire, tutti esorta alle virtù. L’Epilogo (5,12-14) enuncia lo scopo della Lettera e saluta.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Pietro non ha la grande mente di Paolo ma ha una saggezza pratica che si esprime facilmente in poche parole. Il suo carattere appare energico, vivo e sempre buono da questa Lettera. Accolta nel Canone senza discussioni, usata da Clemente, da Policarpo, da Ireneo, la Lettera fa intendere che i suoi destinatari sono convertiti dal paganesimo, pur non mancando dei giudeo-cristiani. E’ scritta in greco, in modo corretto e armonioso, forse con l’aiuto di Silvano (5,12), già collaboratore di Paolo. Alcuni hanno tentano, invano, di vedere nella Lettera allusioni alle persecuzioni di Domiziano e Traiano per non attribuirla a Pietro. Ma le persecuzioni a cui si allude, oltre a quelle neroniane, possono essere anche angherie personali subite dai convertiti dai loro ex correligionari, già complici di una vita dissoluta. La Lettera cita e usa le Lettere di Giacomo, ai Romani, agli Efesini e il Vangelo, anche se forse più discretamente. Ciò depone per l’autenticità della missiva e non per il contrario. Non vi sono peraltro temi specificamente paolini che postulino la subordinazione teologica dell’autore all’Apostolo delle Genti: vi è invece un analogo background religioso e la consapevolezza, da parte di Pietro, della maggior maestria teologica del confratello, a cui fa riferimento per rivolgersi ad un pubblico che conosceva Paolo e anche perché aiutato da Silvano che di Paolo era stato segretario. Si notano altresì legami con il Vangelo di Marco, con i discorsi di Pietro negli Atti e quant’altro rafforza la credibilità della paternità petrina della missiva. Qualcuno ha azzardato l’ipotesi che la Lettera sia stata completata da Silvano dopo la morte di Pietro, partendo dal presupposto che essa abbia combinato frammenti preesistenti come una omelia battesimale (1,13-4,11), ma la cosa, oltre che congetturale, non appare utile a risolvere alcun problema, né si può postulare da alcunchè. Sebbene di portata pratica, lo scritto ha una notevole ricchezza dottrinale. Compendia in modo brillante e commovente la teologia cristiana. Offre ai fedeli le sofferenze di Cristo come modello (2,21-25; 3,18; 4,1) invitandoli al coraggio e alla pazienza, alla felicità se le tribolazioni discendono dalla loro condotta santa (2,19 s; 3,14; 4,12-19; 5,9), ad opporre il bene al male, ad obbedire alle autorità (2,13-17) e ad essere dolci con tutti (3,8-17; 4,7-11.19).

LA SECONDA LETTERA DI SAN PIETRO

DATAZIONE E DESTINATARI

Tralasciando l’ipotesi pseudoepigrafica che la pone al II sec., e di cui diremo dopo, la Seconda Lettera sembra ad alcuni scritta agli stessi destinatari della Prima nel 67, ossia alla fine della vita di Pietro. Cosa in verità poco plausibile. Altri la retrodatano al 64, più credibile. Il Robinson scorge affinità tra la Lettera di Giuda e la Seconda Lettera di Pietro; questa per lui è destinata ad una comunità giudaico-cristiana in ambiente ellenistico, minacciata dal giudaismo gnosticizzante; allude a Paolo come ancora vivo; affronta problematiche abbastanza antiche supposte anche nella Fonte Q com’è attestata in Mt 24, 28 e Lc 12, 45. Non vi è in essa, come nella Lettera di Giuda, alcun accenno ai problemi della Chiesa del II sec., come il chiliasmo, la gnosi, la persecuzione di Domiziano, ecc. Le due Lettere sembrano legate e sono datate quindi al 61-62 e forse hanno lo stesso autore. Il frammento 7Q10, uguale a 2 Pt 1, 15, e datato al 50, ha tuttavia sparigliato le carte, dimostrando che la Seconda Lettera di Pietro esisteva già alla fine della quarta decade del I sec. Siccome poi sembra che Pietro sia rientrato a Roma solo nel 55, ponendo in questa città la data topica della Lettera, dobbiamo postulare che, per una fisiologica banda di oscillazione della datazione paleografica, essa sia stata scritta non immediatamente prima del 50, ma qualche anno dopo.

CONTENUTO E STRUTTURA

La Lettera vuole inculcare la necessità delle buone opere e combattere gli eretici che negavano il Ritorno di Gesù e predicavano la licenziosità. Essa ha il Prologo, l’Epilogo e Tre Parti. Il Prologo (1,1-2) contiene l’indirizzo. La Prima Parte (1,3-21) spiega che la certezza della Fede esige le virtù cristiane. I benefici datici da Cristo spronano alle virtù, e non bisogna dubitare del ritorno di Gesù come Giudice; l’Apostolo scrive perché i fedeli conoscano il suo insegnamento e lo conservino anche dopo la sua morte. La Seconda Parte (2,1-22) si dilunga contro le massime degli eresiarchi e i loro costumi, preannunziando che ve ne saranno sempre ma che sempre pure saranno puniti. La Terza Parte (3,1-16) parla della Seconda Venuta di Cristo e della opportunità di vivere distaccati dal mondo e di essere santi. L’Epilogo (3,17-18) contiene alcune ultime raccomandazioni.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

La Lettera contiene tanti particolari che solo Pietro poteva conoscere e porta inequivocabilmente il suo nome. Le differenze di stile con la precedente possono imputarsi ad una diversa impostazione letteraria – questa è una autentica missiva l’altra è una esortazione – e all’ausilio di un segretario diverso da Silvano. E’ senz’altro piena di ardore. Pietro allude in essa alla profezia che Gesù fece della sua morte (1,14) credendola imminente ma sbagliandosi e ricorda la Trasfigurazione. Fa una allusione alla Prima Lettera (3,1). Come abbiamo detto mette in guardia dai falsi dottori e risponde all’inquietudine causata dal ritardo della Parusia. La presenza di questi dottori fa credere che la Lettera sia successiva alla morte di Pietro, ma in realtà Paolo ebbe problemi simili coi Tessalonicesi negli anni Cinquanta del I sec. Né la differenza di lingua né la somiglianza con la Lettera di Giuda né tantomeno l’allusione a un corpo paolino già formato e considerato autorevole (3,15 ss) sono motivi per credere in una composizione tardiva e in una pseudoepigrafia. Del resto la Lettera echeggia la Prima a Timoteo di Paolo e all’epoca in cui fu scritta, stando al riscontro paleografico, esistevano già la Lettera ai Romani e quella ai Galati. L’allusione al corpo paolino e alle sue difficoltà non impedisce quindi la datazione alta della Seconda di Pietro. Non è vero che questi parla come se non fosse parte del gruppo apostolico, limitandosi a non usare la prima persona plurale per umiltà (3,2). Del resto un falsario non disseminerebbe la Lettera di rimandi alla prima missiva petrina per poi dare segno di non essere Pietro. L’uso della Lettera nel Canone è tuttavia attestato solo dal III sec. in modo unanime, mentre le perplessità su di essa sono raccontate da Origene, Eusebio e Girolamo. Esse si dovettero all’impianto giudaico assai forte presente nella missiva e poco comprensibile dopo la separazione di Chiesa e Sinagoga. Altre tesi, come il completamento della Lettera dopo la morte di Pietro, magari per mano di Giuda Taddeo, o la scrittura della stessa per mano di uun discepolo, sono senz’altro fantasiose e non necessarie.


Theorèin - Ottobre 2015