LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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NOVA ALEXANDRINA SCHOLA

Breve introduzione al pensiero teologico dei Padri Neoalessandrini

La fase nuova o più recente della Scuola di Alessandria coincide con la nascita della Chiesa imperiale, mediante la cristianizzazione dell’Impero ad opera di Costantino il Grande (308-337), e quindi con la parte iniziale dell’età aurea della Patristica, quella in cui, esaurita la ragione dell’apologetica antipagana per la fine delle persecuzioni, essa si soffermò essenzialmente sulla tessitura, complessa e drammatica, della dottrina dogmatica ortodossa, lungo un lasso di tempo che si dispiega per un periodo ben più lungo di quello che noi prenderemo in considerazione. Infatti la Nuova Scuola di Alessandria va dal I Concilio Niceno del 325 al Concilio Efesino del 431, mentre la patristica classica imperiale, quella dell’età dei dogmi, inizia nella stessa data e termina però col II Concilio di Nicea (787).

Le caratteristiche principali di questa età aurea sono differenti. La prima è senz’altro quella di essere l’età della teologia imperiale, coonestata, motivata, spronata, stimolata e protetta, e a volte intralciata, dalla presenza di un sovrano che si considera il protettore e il promotore della fede ortodossa, oltre che il garante della disciplina, il custode del puro culto, il suggello dell’unità canonica. Per cui Chiesa e Stato, teologia e politica, padri e funzionari, Papi e Imperatori procedono appaiati nel cammino storico, anche se spesso i primi membri di queste coppie recalcitrano ai secondi.

La seconda caratteristica sta nel fatto che, essendo oramai segno di unità, la fede cattolica esigeva una dogmatizzazione sistematica che non desse adito a divergenze e crisi, e che tale dogmatizzazione si inserisse nel quadro di una visione globale del mondo compatta e coerente, sia nell’ordine cosmologico – come si sforzò di fare San Basilio- sia in quello storico – come fece Sant’Agostino.

La terza caratteristica è che questa teologia è funzionale ad una poderosa espansione missionaria, che investe tutte le regioni e tutte le classi sociali dell’Impero e anche quelle degli Stati vicini, e che anche per questo dev’essere compatta e unitaria, onde garantire omogeneità di confessione di fede.

La quarta caratteristica sta nel nuovo rapporto che regola le relazioni tra fede e cultura. Lo steccato, eretto per proteggere la prima da un mondo concettuale ostile, sebbene non privo di aperture, ora cade perché lo Stato è cristiano e il suo patrimonio intellettuale è al servizio della nuova fede, la quale s’ingegna di cristianizzare ogni forma di vita pubblica e quindi anche culturale. La sinergia tra teologia e filosofia si rafforza e la prima si serve massicciamente di elementi della seconda, pur senza perdere di vista i fini e le peculiarità che le appartengono, creando una filosofia cristiana e molte volte stravolgendo quella pagana.

La quinta caratteristica sta nell’insorgenza virulenta di eresie interne, pericolose per tre ragioni: perché concernenti i gangli vitali del dogma (teologia trinitaria e cristologia), perché fortemente dibattute a livello di popolo e perché con gravi implicazioni politiche. Proprio per controbattere l’arianesimo, l’apollinarismo, il nestorianesimo e il monofisismo, che peraltro spesso sono in competizione tra loro, i Padri scaltriscono la dogmatica e la approfondiscono in modo polemico e dialettico. Nasce una vera e propria branca della teologia che è l’eresiologia, attestata anche in precedenza ma ora usata massicciamente, mediante cui i pensatori ortodossi descrivono e contestano gli insegnamenti degli eresiarchi, altrimenti ignoti.

La sesta caratteristica sta nel fatto che, accanto all’uso della Scrittura e della Tradizione, si collocano altre fonti. La prima è quella del Magistero, che trova per la prima volta forme assai solenni di definizione della verità rivelata con l’insegnamento dei Quattro Concili Ecumenici del 325, 381, 431 e 451 di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia. Ognuno di essi è accompagnato da una fioritura di Padri. La seconda è proprio l’azione dei Padri considerata una sorta di concilio scritto. Il tempo passa, la dottrina si fissa e chi scrive per la fede cerca nei predecessori il consenso o almeno la forte convergenza su di un tema dottrinale che quindi appare sicuro proprio per questa “prova patristica”. Perciò non solo si compilano testi che sanciscono l’ortodossia degli autori – come il Decreto di Papa Gelasio I- ma anche altri che antologizzano i loro passi su varie questioni per mostrarne l’armonia. In poche parole, i Padri diventano un luogo privilegiato della Tradizione che conservano e il Magistero fissa il senso indiscutibile della Parola rivelata.

La settima caratteristica sta nel più massiccio uso dei mezzi intellettuali messi a disposizione dai centri culturali oramai completamente aperti ai cristiani. Non sono più mezzi di quelli precedenti, ma sono più usati. L’unione tra scuola e Chiesa, promossa dallo Stato, non solo esenta la seconda dal cristianizzare la prima, in quanto è essa che aderisce alla fede, ma le permette di occuparne i posti chiave e poi di saturarne i quadri. Non vi è poi nessun grande Padre che non sia consapevole e orgoglioso della sua cultura profana, mentre molti di essi occupano un ruolo di rilievo nella storia della poesia, della retorica, della filosofia, della letteratura. La conseguenza principale sta nel fatto che la filosofia è usata senza riserve mentali, anzi nella consapevolezza che l’uomo ha un senso del vero corrispondente alla sua natura razionale. Agostino tracciò la road map della collaborazione tra filosofia e teologia, mediante la successione della fede, della scienza (o conoscenza) di quanto credere e di perché farlo, e della sapienza come cognizione delle cose eterne.

L’ottava è un nuovo rivestimento letterario. La dissertazione teologica è il nuovo e più gettonato genere in cui si esprimono gli autori. Di solito si divide in una parte che contesta con argomenti di ragione gli errori degli eretici e dei pagani e in una parte che invece afferma la verità in questione con argomentazioni di autorità. Accanto alla dissertazione, invale l’uso del commento, sia come trattato che come omelia o sermone, su un passo biblico se non addirittura su un intero libro. Nel commento si riporta il lemma da esplicitare, poi la sua parafrasi, indi la spiegazione sia delle parole che dei fatti storici. Questa avviene con l’ausilio di tutte le discipline ma è finalizzata all’esplicazione del senso spirituale, inteso come insieme delle res gestae da professare nella Regula Fidei, delle res liturgicae, delle res agendae et sperandae. Ovviamente si usano allegoria e tipologia, alla ricerca rispettivamente di insegnamenti di vario genere e figure di Cristo e della Chiesa nell’AT. In quest’epoca tutti i Libri sacri sono commentati, alcuni Padri li commentano tutti e i Salmi sono oggetto della attenzione esegetica di ogni autore.

Al netto di tutto ciò, segnalo la divisione classica della Patristica dell’età imperiale, ossia quella in autori greci e latini, sebbene i massimi di essi conoscessero ovviamente entrambe le lingue.

Per quanto concerne nel particolare la Nuova Scuola Alessandrina che è oggetto specifico di questa trattazione, dobbiamo dire che essa fu il fulcro della rinascita teologica in età imperiale perché colà si conservava la memoria del Didaskaleion, sebbene non esistesse più così com’era ai tempi di Clemente ed Origene. Inoltre fu lì che sorse l’arianesimo. Il pensiero neoalessandrino si basò ancora sull’allegoria biblica e sulla speculazione. Ma per contrastare il razionalismo ariano i Padri niceni – ossia quelli che formarono e difesero la dottrina del Concilio di Nicea del 325 nella sua versione originaria- preferirono appoggiarsi all’autorità biblica e sviluppare il senso mistico. La consapevolezza della Redenzione come fonte della divinizzazione dell’uomo, grazie al fatto che è stata compiuta da un Uomo che è anche Dio, è uno dei pilastri della teologia di Alessandria. I grandi autori niceni alessandrini sono tre: Atanasio, Didimo e Cirillo. Il primo è il campione della lotta all’arianesimo e il Padre del pensiero di Nicea, da lui indefessamente difeso. Il secondo è il maggior genio speculativo dell’epoca. Il terzo è il Padre del Concilio di Efeso. Consideriamo nel novero anche Eusebio, sebbene di Cesarea, non solo perché debitore al pensiero di Origene, ma per il suo ruolo nel dibattito teologico e per la sua ortodossia che però spesso fu soltanto formale.

SANT’ATANASIO DI ALESSANDRIA

Fu senz’altro uno dei Padri più grandi della storia e una figura chiave nella lotta contro Ario (256-336)(1). Non a caso è detto il Grande. Nacque ad Alessandria da famiglia cristiana nel 295 e fu educato nelle scienze umane e divine. Le sue lingue erano il copto e il greco. Nel 318 fu ordinato diacono e divenne segretario del patriarca sant’Alessandro (250-326), che accompagnò al I Concilio di Nicea nel 325 e dove entrambi sostennero energicamente l’ortodossia. Nel 328 Atanasio subentrò ad Alessandro sul soglio patriarcale. Strenuo campione dell’ortodossia nicena, nel 335 fu accusato di vari delitti da ariani e meleziani (2) nel Conciliabolo di Tiro e condannato e deposto. Era una manovra funzionale alla riabilitazione di Ario e alla subornazione teologica di Costantino il Grande ormai vecchio. Questi cadde nella trappola e lo esiliò a Treviri, dove fu accolto dal vescovo Massimino (†349). Morto Costantino, Atanasio potè rientrare nella sua sede ma nel 339 fu ancora espulso dall’imperatore Costanzo II (337-361), ariano convinto, che lo soppiantò con l’antipatriarca Gregorio. Atanasio allora scrisse una enciclica che denunziava la violenza subita e si rifugiò a Roma presso papa san Giulio I (337-352) e l’imperatore Costante I (337-350). Costui in un concilio del 340 lo riconobbe quale unico vescovo di Alessandria. A Roma, Atanasio diffonde la storia e i valori del monachesimo egiziano, compresa la figura di sant’Antonio Abate (251-357). Nel Concilio di Sardica del 343 Giulio I fece assolvere Atanasio dalle accuse mossegli a Tiro, ma solo nel 346 egli potè ritornare ad Alessandria, essendo morto Gregorio. Riorganizzata la sua Chiesa, Atanasio inviò san Frumenzio (†383) ad evangelizzare l’Etiopia e riprese a combattere l’arianesimo, i cui fautori nei Conciliaboli di Arles del 354 e di Milano nel 355 nuovamente anatematizzarono e deposero il campione di Nicea, con l’avallo di Costanzo, ora padrone di tutto l’Impero. Questi disperse gli altri fautori del Credo niceno, che si erano infatti opposti alla condanna di Atanasio: i santi Eusebio di Vercelli (283-371), Dionigi di Milano (†360), Lucifero di Cagliari (†370) e papa Liberio (352-366). Nel 356 Atanasio lasciò Alessandria e per sei anni vagò in Egitto, ospite di fedeli laici e di monasteri fedeli. Nel 362 Giuliano l’Apostata (360-363) gli permise di ritornare in cattedra, ma è lui stesso a rimandarlo in esilio poco dopo: all’arianesimo, oramai caduto, è subentrato il neopaganesimo imperiale come antagonista del grande Patriarca. Questi solo nel 354 ritornò definitivamente nella capitale egiziana, accolto trionfalmente dal popolo. Morì nel 373.

Atanasio ebbe ingegno acuto, forte temperamento e natura combattiva, ma anche prudenza e costanza. Profuse queste sue qualità nei suoi molti scritti, dei quali però molta parte o è completamente perduta o è ridotta a frammenti. I superstiti, che citiamo coi titoli latini sebbene scritti in greco, sono di tre tipi: apologetici e dogmatici, pastorali e ascetici, epistolari. I primi annoverano una dura critica del paganesimo intitolata Oratio contra gentes (335-337); un saggio sulla ragione e gli effetti dell’Incarnazione, denominato De Incarnatione Verbi (335-337); tre discorsi, detti Tres Orationes contra Arianos (340-346), che sono il capolavoro atanasiano e nei quali l’Alessandrino difende l’Eterna Generazione e la consostanzialità del Verbo dal e col Padre (primo discorso), discute e confuta l’interpretazione biblica ariana (secondo e terzo discorso); un voluminoso dossier di atti e canoni conciliari cristologici e trinitari commentato in chiave antiariana detto Apologia contra Arianos o secunda (357); un’autodifesa di Atanasio davanti a Costantino il Grande da diverse accuse politiche chiamata Apologia ad Costantinum Imperatorem (357); una difesa della sua fuga da Alessandria intitolata Apologia de Fuga Sua (357). I secondi comprendono la Vita Antonii (356-362), ossia la biografia del padre del monachesimo egiziano e cristiano, che Atanasio conobbe e del quale più che una narrazione della vita volle raccogliere aneddoti ed episodi edificanti; un trattato sulla verginità in lingua copta. I terzi sono appunto le sue lettere. Di esse molte sono ufficiali, come le Lettere festali o Epistolae Heortasticae per le feste di Pasqua, le tre lettere sinodali giunteci, ossia il Tomus ad Antiochenos, l’Epistula ad Jovinianum imperatorem e quella Ad Afros, le encicliche Ad Episcopos e Ad Episcopos Aegypti et Lybiae. Altre sono dottrinali, come l’Epistula de decretis Nicaenae Synodi, le Epistolae ad Serapionem, l’Epistola de Synodis Arimini in Italia et Seleuciae in Isauria celebratis. In questa letteratura spesso Atanasio, a causa della foga, si esprime in modo negletto, senza perdere la sua qualità scrittoria grazie alla profondità e alla veemenza del pensiero.

Sant’Atanasio si battè sempre e solo per una questione dogmatica trinitario-cristologica, quindi i suoi scritti rivelano il suo pensiero solo su quell’argomento. Esso si inserisce pienamente nella Tradizione, senza una particolare originalità, ma la chiarifica ricorrendo ad un lessico scritturistico più che filosofico. Specie nelle orazioni contro gli ariani, Atanasio non solo dimostra l’infondatezza dell’esegesi biblica di Ario, ma anche che il Verbo è consostanziale al Padre e a Lui coeterno, essendone stato generato dall’eternità. Ad Ario, che ritiene che l’Essenza divina consista nell’Essere Ingenerato, Atanasio ribatte che questa è una definizione pagana, tanto più che essi non conoscevano il Figlio. Atanasio insegna che la Natura di Dio è spirituale, eterna e immutabile, ma tale da comportare in Sé una specificazione tripersonale, che non implica mutamento, temporalità e frazionamento, in quanto essa si articola mediante una Generazione che non è contingente né altera la Sostanza generante, ma la trasferisce integra nel Generato. Ad Ario, che affermava che il Logos fosse stato creato nel tempo, Atanasio insegna che Egli è generato fuori del tempo e quindi in modo coeterno al Padre. Inoltre, ha negato che la Generazione del Figlio sia meramente un atto della volontà del Padre, affermando che invece è una azione spontanea del Padre stesso, per cui Egli fa nascere da Sé un Essere a Lui identico. Il Padre dunque genera il Figlio, ma Entrambi sono Dio. Ossia, Dio è tale da essere Padre e Figlio. E lo stesso si può dire dello Spirito, anche se per Processione e non Generazione. Questa specificazione concettuale della tripersonalità di Dio mediante una causalità a Lui immanente che trasmette nell’effetto tutta la sostanza della causa fa sì non solo che il subordinazionismo ariano sia superato perché non necessario e controproducente, ma anche che il modalismo sabelliano venga destituito di fondamento, in quanto non è più impossibile che in Dio sussistano Persone senza che la Sostanza di Lui subisca alterazione; essa batte in breccia altresì il Neoplatonismo, in quanto in questo le emanazioni diminuiscono in intensità quanto contenuto nella rispettiva causa emanante, mentre nella teologia trinitaria di Atanasio tutta la causa sussiste nell’effetto oltre che in se stessa. Vi è dunque una perfetta omousia tra le Tre Persone Divine. La Sostanza divina dei Tre non è la stessa perché simile, ma perché è la medesima. Questa consostanzialità peraltro impedisce alla Trinità di divenire una forma di triteismo. Con grande consapevolezza, Atanasio rintraccia i germi della sua dottrina nella Patristica dei secoli precedenti.

Atanasio elogia la Vergine, pura e senza macchia. Insegna che la Concezione di Cristo fu verginale e di Spirito Santo, ma che la Sua nascita fu pienamente umana. Sottolinea che la stessa Incarnazione del Verbo fu atto salvifico, in quanto l’unione della Carne alla Divinità nella Persona del Figlio fa sì che la prima diventi strumento di salvezza per noi tutti. Questa Incarnazione fa sì che il Verbo abiti nell’Umanità di Cristo, ma non ne sia limitato come l’anima, né contaminato, anzi lo santifichi e santifichi Colei Che l’ha generato nel Corpo. Come si vede, il magistero atanasiano è già in sé completo. Solo la terminologia cristologica per l’Unione delle Nature è ancora fluida, come del resto quella del Concilio Niceno. Atanasio parla di unione naturale o di unione katà fysin, intendendo per fysis la Sussistenza e non la Sostanza del Verbo. Questo avrebbe aperto la strada al monofisismo, quando però alle parole fysis e hypostasis venne attribuito un significato tecnico inverso, mentre Atanasio ancora riteneva che l’unione katà hypostasin fosse una unione sostanziale, e quindi la rigettava per evitare la mescolanza dell’Umanità e della Divinità nel Verbo personale.

Atanasio sottolinea la sovranità di Cristo sul mondo attestata dai miracoli. Insegna che tutta la Sua Vita fu offerta di Sé per il sacrificio della Redenzione, che sulla Croce diventa culminante. Gesù ha così condonato il nostro debito. Ha sopportato le iniquità, ha accettato la morte ed è sceso agli inferi. La Sua Morte ha distrutto la morte. Risorgendo ci ha aperto il Cielo. La Redenzione è stata possibile solo perché il Verbo è Dio come il Padre, così che il merito della Sua azione è soddisfacente per Quest’ultimo, in quanto infinito esattamente come Colui al Quale era offerto. Se il Figlio non fosse consostanziale al Padre e se anche lo Spirito non lo fosse, noi non avremmo alcun accesso al Padre tramite loro. La conseguenza di questa Redenzione è molteplice: l’uomo viene liberato dal male e dal peccato; viene santificato dallo Spirito Santo che, dopo essere stato effuso sul Cristo, passa sulle Sue membra, ossia su di noi; viene divinizzato, perché i redenti sono adottati nell’unico Figlio secondo natura, per l’amore infinito del Padre; viene esaltato e glorificato, perché gli eletti hanno diritto di stare laddove ora è il loro Capo; viene reso immortale, perché il corpo umano sarà risuscitato alla fine dei tempi. Questi effetti ovviamente devono essere realizzati dall’uomo stesso, che deve convertirsi e seguire la Legge di Dio mediante la Grazia. Studiare le Scritture, conoscerle, vivere in modo integro e mondo, praticare la virtù sono i requisiti necessari per intendere, quanto possibile, il Verbo di Dio. Soprattutto nelle Lettere festali Atanasio enuncia gli aspetti della vita cristiana che vanno praticati con scrupolo: timor di Dio, osservanza dei Comandamenti, pentimento, meditazione, fortezza d’animo e comunione eucaristica.

Il Concilio di Nicea fu, come dicevamo, il regolo e il regolato di Atanasio. Il Concilio confessa che il Figlio di Dio è generato e non creato, quale Dio da Dio; che è della stessa – non simile ma medesima – Sostanza del Padre e perciò Gli è consostanziale, e quindi non può derivare da altra sostanza; che è generato, non creato, dal Padre, di cui è l’Unigenito, mentre ogni altra cosa è creata; che la Sua generazione è eterna, nel senso che Padre e Figlio sono coeterni e l’atto generativo, attivo e passivo, è eterno anch’esso e costitutivo di Dio in quanto tale. Il termine homousios è aristotelico, ma in una accezione specifica. L’ousia aristotelica è sia la sostanza individuale che quella seconda, ossia il genere. Per cui essere consostanziale può indicare sia l’appartenenza ad un medesimo genere che essere la medesima cosa, ed è nel secondo senso che il Concilio Niceno usò il termine, fissandone autoritativamente anche il senso, scevro anche da interpretazioni monarchiane, che potessero confondere il Figlio col Padre anche nella Persona e non solo nella Sostanza. A Nicea peraltro comparve il termine hypostasis, come sinonimo di ousia, cosa che poi scomparve definitivamente a Calcedonia. Come dicevo, per superare ogni obiezione ariana e semiariana al dogma niceno, bisognerà attendere il magistero dei Padri Cappadoci, detti neoniceni proprio perché affinano la loro dottrina e conseguentemente la loro terminologia. Di essi parleremo però successivamente.

Fu tutto sommato ancora una vittoria di Atanasio quanto definito dal I Concilio di Costantinopoli nel 381, anche se sulla scorta mediana del magistero dei summenzionati Cappadoci. In effetti il primo a stigmatizzare la pneumatomachia, presente appunto già in Ario, fu Atanasio. Nel Concilio Costantinopolitano si definì che lo Spirito Santo è Signore e dà la vita, procede dal Padre ed è adorato con il Padre e il Figlio. In conseguenza di ciò, i Divini Tre sono assolutamente pari; in Dio vi è quindi una Natura (ousia o substantia/ essentia) in greco e latino) e tre Persone (hypostaseis o personae in greco e latino). Anche per la Processione dello Spirito Santo valeva il principio causale che non si esaurisce ma sussiste tutto sia in sé che nell’effetto. In tale maniera il concetto greco di sostanza e quello di emanazione vennero completamente riplasmati per esprimere un Dio che non è un Unità indifferenziata, ma addirittura necessariamente Trina.

I deliberati di Nicea e di Costantinopoli divennero così un solo Simbolo, un Credo, appunto niceno-costantinopolitano, che insegna l’Unità sostanziale delle Persone divine, la distinzione Personale della Sostanza divina, l’ordine delle precedenze attraverso le Relazioni, definite- queste- senza alcuna imprecisione coi termini Generazione per il Figlio dal Padre e Processione per lo Spirito, sempre dal Padre. Bisognerà attendere qualche secolo perché la Processione sia, anche nel testo del Credo, confessata come anche dal Figlio. Esplicitando ulteriormente l’assoluta consostanzialità del Padre e del Figlio insegnata da Atanasio, per cui da Entrambi spira lo stesso Spirito.

EUSEBIO DI CESAREA

Sebbene egli abbia di fatto sostenuto l’arianesimo, in una maniera diplomatica che non lo mise mai in rottura ufficiale né con la Chiesa né con l’Impero, ma che gli servì per cercare di subornare Costantino il Grande a favore di Ario, Eusebio di Cesarea, anche per non aver mai formalmente abbracciato l’eresia a dispetto dei canoni niceni, ha un suo posto nella galleria patristica, soprattutto per la sua opera erudita. Egli fu il primo storico della Chiesa che trattò la materia con consapevolezza specifica e in una prospettiva teologica. Fu anche teologo, esegeta e valente filologo. Nacque nel 265 ca. a Cesarea di Palestina, dove fu educato nella tradizione origeniana da San Panfilo. Caduto eroicamente questi sotto la persecuzione di Diocleziano (286-305), Eusebio dovette riparare a Tiro e poi nel Deserto della Tebaide. Tuttavia fu rintracciato dalle autorità e incarcerato. Liberato per l’editto di tolleranza di Galerio (305-311), Eusebio rientrò in patria dove fu eletto vescovo di Cesarea. Amico di Costantino, del quale fu consigliere e celebratore e che lo scelse per precettore dei suoi figli, Eusebio accolse nella diocesi Ario, di cui prese le difese, così da incorrere nella scomunica del Concilio alessandrino del 319. Partecipò al Concilio di Nicea e potè ritrattare i suoi errori sottoscrivendo la formula di fede che peraltro contribuì ad elaborare sulla scorta del Credo di Cesarea. Continuò a perorare la causa di Ario con Costantino, ma non riuscì a fare in tempo perché i due, vinti l’uno dopo l’altro dalla morte, potessero riconciliarsi. Eusebio morì nel 340, primo vero grande vescovo di una corte imperiale, con tutti i pregi e i difetti insiti in tale ruolo.

Eusebio scrisse moltissimo. Ci sono giunti suoi scritti storici, apologetici e biblici. Nel campo storico, egli scrisse il Chronicon e l’Historia Ecclesiastica. La prima è in due volumi, dei quali il primo parla degli antichi e grandi popoli che hanno dominato la terra fino all’avvento di Gesù, e il secondo contiene una serie di tavole sincroniche di eventi e personaggi. La seconda è una storia della Chiesa dalle origini alla vittoria di Costantino su Licinio (308-324) del 311. L’opera si distingue per la ricchezza di materiale documentario e per la concezione della Chiesa come corpo sociale separato, meritevole di una storia propria. Sono anche opere storiche eusebiane I Martiri della Palestina, oramai perduta, e la Vita Costantini Imperatoris, sviluppata in quattro libri sulla falsariga della figura di Mosè. Nell’apologetica Eusebio scrisse la Praeparatio Evangelica e la Demonstratio Evangelica. L’una combatte Porfirio (233/234-305), neoplatonico accesamente anticristiano, mostrando la soprannaturalità del Cristianesimo mediante la sua diffusione trionfale, la sua resistenza alle persecuzioni, la sua continuità nella propria Tradizione e la sua funzione di unificazione dell’Impero ai tempi dell’autore. La seconda opera completa il piano della precedente, in venti libri di cui ci sono giunti solo dieci e parti del quindicesimi, mediante una spiegazione di tutte le profezie cristologiche dell’AT, che quindi attestano la soprannaturalità del Cristianesimo. In ambito esegetico, Eusebio scrisse un Commento ai Salmi giuntoci nella traduzione di sant’Eusebio di Vercelli, e non completamente; scrisse altresì un Commento a Isaia e l’Onomastikon, ossia la raccolta di tutti i toponimi della Bibbia; infine, redasse i Canoni evangelici – detti anche eusebiani – con cui dispone in parallelo e concorda i brani evangelici.

Eusebio distingue nell’interpretazione della Scrittura un senso storico e letterale da un senso spirituale che ovviamente è più importante. Pur adoperando l’allegoria per leggere l’AT in chiave cristologica, evita gli eccessi. In particolare si concentra sulla lettura allegorica dei Salmi, in chiave anch’essa cristologica. Nonostante egli abbia sottoscritto il Simbolo di Nicea, il suo contegno fu sempre ambiguo in campo trinitario, e per questo motivo non può entrare a pieno diritto nella schiera immacolata dei Padri ortodossi, nonostante le sue opere storiche abbiano custodito intatte le tradizioni della Chiesa antica. La verità è che Eusebio fu mediocrissimo teologo dogmatico. Più consapevole fu il suo talento filosofico: egli sostenne che esiste continuità culturale tra grecità platonica e Cristianesimo, e che il platonismo ha scoperto il Dio di Mosè, ha intuito la Trinità, ha descritto la Creazione, ha dimostrato l’esistenza di un’anima immortale.

Eusebio è senz’altro il maggior letterato cristiano dell’epoca. La sua Historia ha molti modelli illustri, da Diodoro Siculo a Dione Cassio, da Giuseppe Flavio ai Maccabei, dagli Atti degli Apostoli a Filostrato, e potrebbe essere considerata addirittura, secondo lo Schwartz, uno ypomnemata, ossia una raccolta di materiali per un lavoro storiografico ancora più dettagliato, come per esempio le Naturalis Historia di Plinio. L’opera ebbe almeno tre o quattro edizioni ed ebbe continuatori, con Socrate, Sozomeno, Gelasio, Teodoreto. Anche l’erudizione di Eusebio è immensa: in falsariga nelle sue opere si riconoscono – specie nella Praeparatio- Clemente, Euripide, Omero, Esiodo, Platone, Giuseppe, Diodoro, Aristotele, Senofonte, Plutarco, Plotino, Origene, Porfirio e Numenio.

SAN DIDIMO IL CIECO

Egli nacque ad Alessandria nel 313 e morì nel 398. Si ammalò a quattro anni e perse la vista, ma la prodigiosa memoria e la grande forza di volontà fecero sì che egli s’impadronì di una immensa cultura, le cui propaggini teologiche erano intrise di neoalessandrinismo, di cui fu uno dei massimi esponenti, e che fece assurgere a fasti accademici assumendo, per volontà di sant’Atanasio, il magistero del risorto Didaskaleion della capitale copta. Tra i suoi discepoli vi furono i maggiori intelletti dell’epoca, da Rufino a Girolamo, da Gregorio di Nazianzo ad Evagrio Pontico, mentre la sua anima potè ristorarsi dell’amicizia con Sant’Antonio Abate. Del resto lo stesso Didimo il Cieco era un eremita e visse con delicatezza e sobrietà la sua vocazione di teologo, per la quale prese posizioni chiare contro ogni eresia, dal manicheismo allo gnosticismo, dall’arianesimo alla pneumatomachia fino all’apollinarismo(3). Discepolo di Origene, fu coinvolto nella condanna dei suoi scritti fulminata dal II Concilio Costantinopolitano nel 553, tanto che moltissime opere di Didimo non furono più copiate e andarono perdute. Ci sono giunti, in latino la Brevis Enarratio in epistulas canonicas; frammenti dei Commenti alla Genesi, a Giobbe e a Zaccaria; il De Trinitate, in tre libri; il De Spiritu Sancto, anch’esso in traduzione latina.

Quest’ultimo fu uno dei capolavori teologici del IV sec. Partendo dal principio per cui ad una e medesima sostanza corrisponde sempre una stessa operazione, Didimo dimostra come lo Spirito Santo, che opera congiuntamente e medesimamente col Padre e con il Figlio è ad Essi consostanziale. La Terza Persona della Trinità è principio di santificazione, inviato da Cristo e procedente dal Padre. Le argomentazioni di Didimo contro la pneumatomachia, che invece sosteneva le tesi che erano state di Ario sullo Spirito Santo per bocca dell’eresiarca Macedonio (344-360) (4), sono tratte tutte dalla Bibbia e hanno perciò particolare incisività.

Una menzione particolare merita l’antropologia di Didimo, esposta nel Commento alla Genesi, in cui si legge che l’uomo fatto ad immagine di Dio è l’Uomo ideale, ossia il Cristo, mentre quello reale, plasmato dalla terra, deve esemplificarsi sul Primo. L’uomo inoltre ha avuto due corpi: uno spirituale “leggero” anteriore al Peccato originale e uno “pesante” simboleggiato nelle tuniche di pelle che Dio dà ad Adamo ed Eva dopo la Caduta e che è la conseguenza della loro colpa. Fedele ad Origene come esegeta, Didimo insegnò che l’AT può dischiudere i suoi segreti solo mediante l’allegoria.

SAN CIRILLO DI GERUSALEMME

Nacque tra il 313 e il 315 a Gerusalemme. Divenne prima monaco e poi fu ordinato diacono dal vescovo San Macario (312-335) e presbitero dal vescovo San Massimo (†350). Divenne il successore di quest’ultimo perché dotato di quella scienza teologica che il defunto invece non aveva, tanto che aveva temporaneamente abbracciato l’arianesimo. Perseguitato dal semiariano Acacio di Cesarea (†366), fu per le sue mene deposto dal soglio e mandato in esilio a Tarso, dove però fu protetto dal popolo e dal vescovo Silvano (351-dopo il 373). Reintegrato dal Concilio di Seleucia (359) che depose anche Acacio, Cirillo tornò nella sua sede. Ancora l’imperatore Costanzo II (337-361) lo scacciò e solo grazie all’editto di remissione di Giuliano l’Apostata (360-363) egli potè rientrare in Gerusalemme; sotto Valente (364-378) ancora fu mandato in esilio e solo alla morte di questi tornò nella Città santa. Partecipò al I Concilio Costantinopolitano e morì nel 386.

Scrisse ventiquattro Catechesi; delle omelie ce n’è giunta una sul Paralitico di Bethesdatain, più altri frammenti; vergò anche una Lettera all’imperatore Costanzo. Le prime diciotto catechesi, precedute da una istruzione, sono state tenute nel 348 e destinate ai catecumeni.

Cirillo, che si muove nel perimetro intellettuale di Alessandria, fu detto “il Catecheta” perché con lui il genere letterario della catechesi raggiunse il culmine.

Le catechesi cirilliane sono di diversa lunghezza; ognuna ha un titolo che enuncia il contenuto, è preceduta da un brano biblico che viene letto nella sinassi e riportato nel suo versetto incipitario e poi sviluppa l’insegnamento. Trattano di verità dogmatiche e di disposizioni morali. Contengono il canone biblico. Commentano il Credo. Trattano in modo ampio alcuni temi, come quello pneumatologico o quello escatologico, e più corto altri, come quello ecclesiologico. Le Cinque Catechesi Mistagogiche parlano dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.

Cirillo è esemplarmente chiaro sobrio ed efficace nell’esposizione dogmatica liturgica e morale. Egli polemizza con gli ariani e afferma risolutamente la consostanzialità e la coeternità del Verbo col Padre. Questo Verbo è proferito quale Parola sussistente e vivente, eternamente ed ipostaticamente. Lo Spirito Santo è egualmente sussistente operante e santificante, consostanziale al Padre e al Figlio e ipostaticamente distinto da Loro, e questo è attestato dalla Bibbia, per cui Cirillo condanna tutte le eresie che negano questa verità.

L’esposizione cirilliana è immaginifica, parabolica, simbolica e allegorica. Il simbolo è necessario per parlare alla parte sensibile e fantastica dell’uomo e ha una accezione verbale, tipologica e rituale, senza esaurire mai il suo mistero. Ciò rende affascinante lo stile di Cirillo.

SAN CIRILLO DI ALESSANDRIA

E’ il grande Padre che sovrintese alla vittoria dell’ortodossia su Nestorio(5)nel Concilio di Efeso (431). Fu lui a perfezionare la terminologia atanasiana in cristologia, per esprimere concetti sublimi. Tuttavia il suo lessico fu funzionale soprattutto ad arginare il nestorianesimo e meno a fissare definitivamente il dogma cristologico, come invece fu fatto nel Concilio di Calcedonia (451).

Cirillo fu nipote e discepolo di Teofilo (385-412), patriarca di Alessandria, al quale successe sul soglio. Partecipò allo sciagurato Sinodo del 403 che depose san Giovanni Crisostomo (344/355-407), ma senza potere decisionale in quanto presbitero. Sullo sfondo già si vedevano i contrasti dogmatici tra la Scuola Alessandrina e quella Antiochiena, di cui il Patriarca costantinopolitano deposto era un campione. Cirillo, sulla stessa scia, intraprese la sua mortale battaglia con Nestorio, combattendola con forza intransigente. Nel 429 e nel 430 prese posizione contro il titolo di Christotokos dato da Nestorio a Maria e a favore di quello di Theotokos. Chiese il pronunciamento di Celestino I contro il Patriarca eretico ed esso arrivò nel 430. Infine, non riuscendo a piegare il reprobo, Cirillo ottenne la convocazione del Concilio di Efeso nel 431 da Teodosio II (408-450). In esso il nestorianesimo viene anatematizzato, mentre si definisce il dogma delle due Nature nella sola Persona di Cristo, senza ancora specificare il modo di tale unione. Si definisce altresì il dogma della Maternità divina della Madonna, essendo Costei Madre della Natura Umana della Persona di Cristo, Che però simultaneamente è anche Dio. Il dogma parte dall’assunto che la Madre è tale nei confronti della Persona e non della mera Natura del Figlio. Deposto ed esiliato Nestorio, anche Cirillo conobbe la prova della scomunica e della prigionia inflittegli da Giovanni di Antiochia (428-441) mediante un Conciliabolo appositamente convocato ed approvato da Teodosio. Questi però fu persuaso dall’abilità apologetica di Cirillo e lo rimise in libertà restituendogli il soglio alessandrino, sul quale morì, dopo aver continuato a battagliare per l’ortodossia, nel 444.

Cirillo fu uno scrittore assai fecondo. I suoi scritti sono di cinque tipi. Il primo tipo è quello esegetico. Esso annovera i Commenti alla Genesi, all’Esodo, a Isaia, ai Dodici Profeti Minori, ai Salmi, ai Vangeli di Matteo Luca e Giovanni, alle Lettere di Paolo. Tali commenti bilanciano l’interpretazione letterale con quella spirituale. Il secondo tipo è quello dogmatico-polemico. Esso comprende alcuni capolavori, di chiaro contenuto: Thesaurus de Sancta et Consubstantiali Trinitate, in trentacinque capitoli, contro ariani ed eunomiani; De Sancta et Consubstantiali Trinitate, in sette dialoghi espositivi; In Sanctum Symbolum, sul Simbolo niceno; Adversus Nestorii blasphemias, contro il nestorianesimo; De Recta Fide ad Imperatorem, saggio sull’ortodossia trinitario-cristologica indirizzata al sovrano; Quod unus sit Christus, sulla cristologia delle Due Nature; Scholia de Incarnatione Unigeniti, raccolta di commenti relativi all’Incarnazione del Verbo. Il terzo tipo è quello apologetico, resosi necessario per la ripresa della persecuzione pagana sotto Giuliano l’Apostata (361-363), al quale Cirillo indirizzò i trenta libri del Contra Iulianum, dei quali ce ne restano solo dieci. Il quarto tipo è quello omiletico, comprendente ventidue omelie di argomento prevalentemente cristologico. Il quinto tipo è il suo epistolario, comprendente ottantotto lettere prevalentemente cristologiche e trinitarie.

Da buon alessandrino, Cirillo pratica una esegesi allegorica in chiave cristologica dell’AT, ma padroneggia benissimo anche quella letterale. Essa ad esempio precede quella spirituale nel Commento al Pentateuco, chiamato Glaphyra. In Cirillo, non tutta la Scrittura può essere letta allegoricamente, perché non tutti i tipi di Cristo sono rapportabili pienamente a Lui. Ciò è enunciato chiaramente nell’introduzione al Commento a Giona, le cui caratteristiche cristologiche sono rilevate con la stessa chiarezza con cui si evidenziano quelle che in Cristo non hanno riscontro, in quanto negative. Il principio esegetico origeniano e didimiano è dunque disatteso e corretto. La ragione sta nella necessità di difendere il metodo alessandrino dall’accusa di uso arbitrario della Bibbia mossogli dalla Scuola di Antiochia.

In quanto alla dogmatica, specie trinitaria, Cirillo elabora un metodo che si mostra chiarissimo soprattutto nel De Sancta et Consubstantiali Trinitate e che consta di fedeltà alla Bibbia, uso delle regole di ragione e logica - ritorte contro l’eresia che sempre è irrazionale- e confutazione puntuale delle eresie. Cirillo non vuole spiegare il dogma, che va professato, ma vuole enunciarlo in modo chiaro, anche attraverso immagini, spesso cosmologiche. Cirillo riprende la teologia atanasiana e mostra come la Generazione del Figlio non rompe l’Unità di Dio. Distingue in Essa le Persone proprio per le Relazioni che Le legano e fanno sì che ognuna di Esse non sia l’altra e sia Se stessa. Le unifica per le caratteristiche della Natura che sussiste in ognuna di Esse. Difende il concetto di omousia e la validità dell’uso di parole, come questa, che non sono bibliche ma che esprimono perfettamente il contenuto della Rivelazione. Insiste solo marginalmente sulla consostanzialità dello Spirito Santo col Padre e col Figlio, perché preso dalla disputa cristologica. La sua cristologia è quella alessandrina del Logos/Sarx, ma quest’ultima è da intendersi nel senso biblico di natura umana; essa è unita a quella divina nell’unica Ipostasi del Verbo, Che se ne serve come strumento consapevole. Diversamente, avremmo una scissione delle Persone – non potendo la Natura umana primeggiare sulla Divina o essere autonoma da Essa in una sola Persona- e quindi un’eresia. Cirillo distingue gli idiomi, ossia le proprietà, della Natura Umana da quella Divina, ma le predica indifferentemente del loro unico soggetto personale, parlando di Comunicazione degli Idiomi stessi. Difende la Maternità divina di Maria, in quanto Ella ha generato fisicamente secondo la Natura umana la Persona divina del Verbo.

Cirillo scagliò contro Nestorio XII Anatematismi, che sono stati considerati i progenitori del monofisismo. In realtà, sebbene Cirillo usi la terminologia atanasiana dell’henosis kata fysin, intende per fysis la Persona, l’hypostasis, che infatti a volte è suo sinonimo. Così il concetto di Unione in Cristo è assai impreciso in Cirillo. Solo la riflessione terminologica innescata dalla disputa nestoriana avrebbe reso superata questa terminologia oramai imprecisa, costringendo la generazione successiva a modificarla in un senso paradossalmente più consono a quello per cui Cirillo stesso ancora credeva di poterla usare. Ciò sarebbe avvenuto col propellente proveniente dal magistero antiochieno di Teodoreto di Ciro, di cui diremo, e che tuttavia citiamo qui come critico di Cirillo perché fece acutamente notare, prima ancora del Concilio di Efeso, che ciò che è di pertinenza delle Nature è distinto, ma ciò che riguarda la Persona o Ipostasi non lo è mai. In poche parole, faceva notare che la terminologia cirilliana era insufficiente, quasi quanto lo era la concettualizzazione nestoriana, per cui solo l’uso del lessico tecnico antiochieno, a cui Nestorio era debitore, avrebbe potuto esprimere correttamente quanto il Patriarca alessandrino andava affannosamente cercando di dire. Cirillo tuttavia ottenne che il Concilio di Efeso formulasse la sua dottrina in un modo che non censurasse, ma nemmeno adottasse, il lessico alessandrino. Solo la sua esasperazione monofisita avrebbe, mediante una nuova crisi, chiarito i termini della questione. A migliore conclusione era già tuttavia giunta la teologia latina con Agostino e il suo scritto a Leporio, purtroppo ignorato nella controversia.

In ogni caso, come dicevamo, il Concilio di Efeso segnò il trionfo di Cirillo. Il Sinodo approvò (senza votazione) la Lettera di Cirillo a Nestorio, redatta su mandato dei Padri dal Patriarca, e gli Anatematismi annessi. Si legge nella missiva che il Logos ha unito a Sé secondo l’Ipostasi, in modo indicibile e inconcepibile, una Carne animata da Anima razionale, diventando Uomo, non per mero volere o beneplacito o semplice assunzione di un prosopon (ossia di una unità estrinseca). Essa continua dicendo che le Nature unitesi in vera Unità sono diverse, ma il Cristo e Figlio risultante è Uno, senza che tale Unità distrugga la differenza delle Nature, ma piuttosto perché Esse, così indicibilmente unite, producono il Figlio, il Signore, il Cristo. Dunque il Verbo è diventato Carne perché, senza cessare di essere Dio, ha fatto Suo un Corpo e del Sangue ed è nato come Uomo da Donna. Questa, la Vergine Maria, ha generato secondo l’Umanità la Persona del Verbo di Dio, per cui è Madre di Dio realmente, perché la Persona del Figlio è Divina.

Le idee basilari di questa Lettera e degli Anatematismi furono fatte proprie dalla Formula di Unione tra la cristologia di Antiochia e di Alessandria del 433, e che a sua volta prepara il Concilio di Calcedonia. Qui, più precisamente, si legge che il Signore Gesù è Dio perfetto e Uomo perfetto, generato dal Padre prima di tutti i secoli e consostanziale a Lui secondo la Divinità, generato da Maria Vergine di Spirito Santo nel tempo e consostanziale a noi secondo l’Umanità, composta a sua volta di un Corpo e di un’Anima razionale. Le due Nature sono in una Unione o hènosis, per cui il Cristo è unico.


1. Ario è senz’altro il maggior eresiarca dell’antichità. Estremizzando il subordinazionismo, egli insegnò che il Figlio non è Dio come il Padre ma la più eccellente delle sue creature. Creato dal nulla all’inizio del tempo, dotato di libero arbitrio, il Figlio o Logos è un Dio minore, prodotto per fare il mondo. Lo Spirito Santo era poi una creatura di questo Dio minore e quindi un Dio di serie ancora più bassa. Ario fu condannato da Alessandro di Alessandria in un sinodo del 318-319. Rivoltosi Ario a Eusebio di Nicomedia, che ne prese le difese, Alessandro reiterò l’anatema in un sinodo ancora più ampio nel 319. La condanna fu notificata a tutta la Chiesa. Nel I Concilio di Nicea nel 325 l’arianesimo fu anatematizzato e Ario scomunicato e deposto dal presbiterato. Il Concilio niceno sancì che il “Figlio di Dio [è] nato dal Padre prima di tutti i secoli…generato non creato, della stessa sostanza del Padre (homousios)”. Questo non placò la contesa. Ario stava per essere riabilitato da Costantino mediante una reinterpretazione del Credo niceno quando entrambi morirono. L’arianesimo si divise in più tronconi, tra gli anomei, che negavano solo parzialmente la somiglianza tra Padre e Figlio (per cui il Primo avrebbe creato il Secondo da una materia divina, ma non l’avrebbe generato), gli omoiousiani, che invece asserivano almeno la somiglianza tra le sostanze dell’Uno e dell’Altro (Essi sono simili in tutto ma non hanno la medesima sostanza, distinguendosi quindi sia per questa che per la Sussistenza), e i seguaci radicali del primo Ario che insistevano sulla creaturalità del Verbo. Una interpretazione ariana del credo niceno si insinuò fino a sostituirne le formule ortodosse con altre eterodosse almeno potenzialmente nei Conciliabolo di Seleucia-Rimini del 359, sottoscritte, sia pure sotto una pressione indebita, anche da papa Liberio (352-366), che però poi ritrattò la firma (Formula di Sirmio). Fu la morte dell’imperatore Costanzo a salvare la Chiesa dal flagello dell’eresia, ma una terminologia veramente atta ad arginare l’arianesimo e il semiarianesimo fu trovata solo dai Padri Cappadoci.

2. I seguaci di Melezio di Antiochia, ossia del vescovo ariano di Antiochia che però era disponibile a sottoscrivere i decreti di Nicea, ma la cui legittimità era contestata dai niceni.

3. Apollinare di Laodicea nacque nel 315 e fu un fautore di Atanasio, tanto che il vescovo ariano Giorgio di Laodicea lo scomunicò. Riaffermatasi l’ortodossia nicena, Apollinare divenne vescovo della sua città. Egli sostenne una dottrina eretica, attraverso la formula mia fysis tou Logou sesarkomenē. Per essa il Verbo fatto Carne non aveva tanto una sola sussistenza, quanto una sola sostanza o natura, per cui la Divinità svolgeva nell’Umanità di Cristo la funzione di anima. E’ evidente lo slittamento semantico della terminologia imprecisa di Atanasio in materia e il postulato di una incompleta Umanità del Verbo. Dopo che la sua teologia fu censurata nel 377 da papa san Damaso I (366-384) e dal I Concilio di Costantinopoli (381), Apollinare morì nel 392.

4. Era appunto la vecchia idea ariana, che Macedonio patriarca di Costantinopoli aveva rispolverato, per cui lo Spirito Santo era una creatura. Nell’arianesimo puro lo era del Figlio. Nel magistero dell’eresiarca lo era del Padre e del Figlio, ma pur sempre Dio non per sostanza ma per creazione.

5. Nato nel 381, Nestorio fu allievo di Teodoro di Mopsuestia (350-428), il cui pensiero trasfuse maldestramente nel suo. Patriarca di Costantinopoli, Nestorio insegnò che il Verbo constava della Congiunzione (e non dell’Unione) di due Persone, una Divina e una Umana, per cui la seconda era praticamente assunta dalla prima in una prospettiva adozionistica. Condannato da papa san Celestino I (422-432) nel 430 e dal Concilio di Efeso (431), in un modo a dir poco tumultuoso, Nestorio, noto soprattutto – e per questo impopolare – per aver affermato che la Vergine Maria era Madre di Cristo e non di Dio (e per questo convinto di eresia, in quanto la maternità è sempre personale e non sostanziale), fu esiliato nel Deserto libico. Qui probabilmente ebbe una evoluzione del suo pensiero, in quanto si dichiarò consonante con il Tomo a Flaviano di papa san Leone I Magno (440-461), così come poi accettò la Comunicazione degli Idiomi in Cristo – ossia la predicabilità degli attributi di entrambe le Nature indistintamente alla Sua unica Persona- che pure aveva rigettato quando Cirillo gliel’aveva indicata. In ogni caso egli sempre rigettò le accuse dei suoi avversari, e dichiarò di voler salvaguardare la piena integrità dell’Umanità di Cristo, messa in forse dall’apollinarismo. Nestorio morì nel 451. Oggi si tende a reinterpretare in senso ortodosso il suo pensiero leggendone la terminologia in senso calcedonese, ossia considerando i termini greci hypostasis e fysis come sinonimi, e il prosopon come hypostasis. Ma non si può negare che egli sia stato eretico nella fase matura del suo pensiero, come attesta la negazione della Maternità divina di Maria, che non avrebbe avuto ragion d’essere se Nestorio non avesse considerato le hypostaseis di Cristo distinte non solo in quanto nature, ma anche in


Theorèin - Maggio 2016