LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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NICAENI PATRES

Breve introduzione ai Grandi di Cappadocia

Possiamo chiamare Padri Niceni quegli scrittori ecclesiastici che hanno alimentato la loro dottrina dei deliberati del I Concilio di Nicea del 325, e in senso lato appartengono a questa schiera tutti coloro che si sono attenuti alle formulazioni di Atanasio fino al Concilio di Efeso, dominato dalla figura di Cirillo di Alessandria. Tuttavia, per Padri niceni – o meglio ancora neoniceni – intendiamo quegli autori che, partendo dal magistero conciliare, hanno fissato una terminologia tecnica inequivoca, che ha garantito il trionfo definitivo dell’ortodossia sui possibili travisamenti del dogma stabilito a Nicea. Si tratta essenzialmente di quelli che sono noti quali Luminari di Cappadocia o Grandi di Cappadocia, ossia Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, tutti e tre nativi di quella regione, che hanno contribuito alla determinazione del Simbolo niceno-costantinopolitano, in quanto proprio nel I Concilio di Costantinopoli il loro insegnamento fu consacrato mediante una recezione definitiva.

I Cappadoci usarono il termine ousia solo per designare la sostanza o natura divina, identica e medesima nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo, mentre hypostasis, che ancora Atanasio usava sinonimicamente ad ousia, indicò nei Grandi Luminari solo ed esclusivamente le Tre Sussistenze o Persone divine. Da qui la formula dogmatica da essi coniata: mia ousia treis hypostaseis: una sostanza tre sussistenze o, in senso più lato e con una traduzione più libera, una natura e tre persone. Essa è la formula classica della teologia trinitaria, né ve n’è una più efficace. Sempre i Luminari distinsero le tre Ipostasi in base alle caratteristiche esclusive: della Prima è la patròtes o Paternità, della Seconda la uiòtes o Filialità, della Terza la aghiasmòs o Santificazione. Furono infine i Grandi di Cappadocia a fugare ogni ulteriore eresia sullo Spirito Santo, insegnando risolutamente la Sua consostanzialità col Padre e col Figlio e la Sua Processione dal Padre, con la Sua conseguente netta distinzione ipostatica dalle altre Due Persone Divine.

I Cappadoci furono anche filosofi. Il linguaggio della filosofia è da loro ripreso in tutte le sue valenze. Essi rendono il Cristianesimo stesso una filosofia, una visione del mondo. Seguono ora Clemente di Alessandria, ora Origene, contrapponendosi agli antifilosofi come Taziano e Tertulliano. Essi prendono tutto ciò che è utile in filosofia e fuggono con attenzione quanto non lo è. Hanno considerazione della natura umana considerandola icona di Dio e valorizzandone ragione e libertà. Sottolineano che tutti gli uomini sono orientati a Dio per la ragione e quindi hanno una sapienza comune. Per i Cappadoci anche l’etica cristiana è filosofia, anche se pratica, come lo era quella aristotelica o la stoica. Il processo sotteso a tale atteggiamento è una cristianizzazione della filosofia e della cultura ellenica, proprio per servirsene per sottolineare la superiorità e l’assolutezza del Cristianesimo stesso.

SAN BASILIO MAGNO

Egli nacque a Cesarea di Cappadocia intorno al 330. I suoi familiari sono tutti santi: sia il nonno materno – di cui non sappiamo il nome - sia la nonna materna Macrina l’Anziana (270-340), sia i genitori di lui (Basilio il Vecchio ed Emmelia [†370]), i quali tutti furono martirizzati, sia i fratelli Gregorio di Nissa (335-394) e Pietro di Sebaste (340-391), sia la sorella Macrina la Giovane (324-380). Frequentò le prime scuole a Cesarea sotto la direzione del padre, poi proseguì gli studi a Costantinopoli e ad Atene, dove divenne amico di Gregorio di Nazianzo. Fu discepolo di Libanio e di Imerio. Rientrato a Cesarea, si diede all’eremitaggio una volta ricevuto il Battesimo, per mettere in pratica i precetti monastici di Eustazio di Sebaste († dopo il 377). Innamorato del monachesimo, percorse la Siria, la Palestina, l’Egitto e la Mesopotamia per conoscere da vicino tutte le sue forme. Si ritirò poi sulle sponde del fiume Iris in Cappadocia, di fronte ad Annesi, presso Neocesarea. Qui lo raggiunse Gregorio che voleva condividere con lui il suo ideale di vita. Ma Eusebio di Cesarea chiamò nella sua Curia Basilio, ordinandolo sacerdote e facendolo suo collaboratore e consigliere. In seguito a diversi malintesi, Basilio abbandonò nuovamente la vita secolare e tornò al monachesimo, nel Ponto, con alcuni discepoli, che seguivano la sua nuova Regola. Ancora Eusebio lo richiamò a Cesarea nel 356, chiarì i malintesi e lasciò a Basilio una libertà d’azione proporzionata al suo genio, alla sua cultura e alla sua santità. Nel 370, morto Eusebio, Basilio salì sulla cattedra episcopale. In qualità di pastore, egli si dedicò indefessamente alla lotta contro i resti dell’arianesimo. Le sue celebri Omelie furono pronunziate soprattutto per questo scopo. Mantenne uno stretto contatto coi suoi monaci. Morì nel 379, prima che il I Concilio di Costantinopoli recepisse il suo magistero trinitario, segnando il suo trionfo. I posteri lo definirono il Grande o Magno, per l’immenso prestigio e il ruolo eccezionale avuto in vita.

In un celebre giudizio, Fozio attribuì a Basilio l’eccellenza in tutti i generi letterari adoperati, l’abilità nell’uso di uno stile puro chiaro ed esatto, la preminenza nell’ordine e nella nitidezza dei pensieri, l’amore del tono persuasivo della dolcezza e del brio, la forza suasoria, arrivando a paragonarlo persino a Platone e Demostene. Certo è uno dei classici della letteratura greca. Egli fu teologo dogmatico morale e spirituale, ma anche letterato e filosofo, nonché uno dei grandi fondatori del monachesimo. Sebbene non sia né il maggior teologo né il maggior filosofo tra i Lumi di Cappadocia, Basilio fu il più energico e rilevante dei tre per efficacia e coerenza inflessibile di azione e pensiero.

I suoi scritti si dividono in cinque gruppi. Quello teologico-polemico comprende la Confutatio Contra Eunomium (᾿ανατρεπτικός) in tre libri, il De Spiritu Sancto e ottantaquattro Omelie. Quello esegetico annovera nove Omelie sull’Esamerone e quindici Omelie sui Salmi. Quello morale consta di ottanta regole sui doveri cristiani sia dei laici che del clero e di due trattatelli: il De Iudicio Dei e il De Fide. L’ascetico è composto dalle cinquantacinque Regulae fusius tractatae (῎Οροι κατὰ πλάτος)e dalle trecentotredici Regulae brevius tractatae (῎Οροι κατ’ ἐπιτομήν), riunite nel Grande Ascetikon, e dai Moralia, risposte a vari quesiti. Infine abbiamo l’epistolario composto da trecentosessantasei lettere, di grande rilevanza per la spiritualità monastica e la storia ecclesiastica. Compose inoltre una Filocalia, ossia un florilegio di scritti di Origene. Degno di menzione è anche il trattatello Ai giovani su come trarre profitto dalle lettere elleniche.

Scrittore ampio e poliedrico, Basilio toccò vari registri stilistici: decorosamente erudito nelle omelie esegetiche e sovranamente eloquente nelle opere ascetiche, variamente espressivo nelle lettere, il Cappadoce fu scrittore vigoroso, armonioso, ricco di immaginazione e preciso, educato sui modelli attici migliori.

Basilio fu soprattutto un grande teologo spirituale e ascetico, ma ha dato un contributo importante anche alla dogmatica trinitaria e pneumatologica. Il Contra Eunomium e il De Spiritu Sancto sono le sue due opere di maggior peso dottrinale.

Nel primo, Basilio confuta l’Apologia di Eunomio (†393), il quale sosteneva che la caratteristica precipua della divinità fosse l’essere ingenerato, per cui solo il Padre è veramente Dio. Il Padre cappadoce mostra che l’essere ingenerato o aghennesia è solo una e nemmeno la principale caratteristica di Dio, per cui, al Suo interno, vi è senz’altro il Padre Che nessuno ha generato, ma anche il Figlio, eterno quanto il Padre, perché generato da sempre e per sempre. Se l’Essere di Dio fosse anteriore alla Sua Paternità, ossia se il Padre fosse diventato tale solo in un secondo momento, nell’eternità vi sarebbe successione e nella perfezione mutamento, il che è assurdo. In ragione della Generazione, Basilio attesta che il Figlio o Verbo è consostanziale al Padre e quindi Dio esattamente come Lui. Genito e Ingenito in Dio sono compresi nella stessa identità sostanziale. Né potrebbe essere diversamente, perché Basilio, battendo in breccia il subordinazionismo di Eunomio, afferma che, se il generato è inferiore al generante, non è per difetto del primo ma del secondo, per cui ciò che è generato da Dio dev’essere Dio esso stesso. La degenerazione causale invocata da Eunomio per salvaguardare la perfezione del primo principio sarebbe invece prova della sua imperfezione, se fosse vera. Analogamente dimostra che lo Spirito Santo è eternamente procedente dal Padre e quindi consostanziale a Lui e al Figlio e pertanto Dio alla medesima maniera di Entrambi. La sostanza divina dunque, nella Sua eternità, implica la dialettica unità al suo interno di generato e ingenerato, di procedente e di non procedente. Ad Eunomio Basilio rinfaccia ironicamente la contraddizione di volersi rifare alla Tradizione e nello stesso tempo di voler dedurre per sillogismi aristotelici o crisippiani che Dio, se è generato, non può esserlo da Sé stesso o da altri. Analogamente, rigetta l’idea eunomiana per cui Dio sia assolutamente ineffabile, e insegna che i Nomi divini, se non ne esprimono l’essenza, certo mostrano ciò che Egli almeno in parte è o ciò che non è affatto. Il Nome più confacente a Dio è Ousia, Essenza (senza alcuna limitazione) e ciò che esso designa è l’Essere stesso di Dio, per cui non potrebbe mai essere annoverato tra le negazioni. Partendo da questo Nome e non da quello di Ingenerato, si può arrivare senza contraddizione logica, anche da un punto di vista filosofico, alla consostanzialità delle Persone Divine, che la Rivelazione attesta.

Nel De Spiritu Sancto Basilio trionfa sulla pneumatomachia di Macedonio e dei suoi seguaci, attestando la piena divinità dello Spirito Santo per il principio della isotimia, in base al quale non si può negare la consostanzialità divina a Colui Che insieme al Padre e al Figlio viene adorato e glorificato nella Scrittura e nella Tradizione della Chiesa. Egli conia la formula della dossologia “Gloria al Padre col Figlio insieme con lo Spirito Santo”, affiancandola a quella tradizionale “Gloria al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo”, perché più consona a mostrare la consostanzialità della Terza Persona Divina con le altre Due. Dello Spirito Santo Basilio attesta cose bellissime: Egli procede dal Padre ed è Spirito di verità divina, perfettamente retto, che guida a Dio; in ragione di ciò è Essere intelligente in modo supremo, infinito e onnipotente, onnipresente, eterno, munifico. Perciò a Lui si rivolgono coloro che vogliono santificarsi, che vogliono vivere virtuosamente, in quanto Egli li irrora col Suo effluvio che aiuta a raggiungere il fine naturale dell’uomo. Egli perfeziona gli altri e quindi non ha bisogno di nulla; non vive perché riceve la vita da altri ma è Lui che la conferisce. Non si accresce perché è perfetto dal principio, stabile in Sé stesso e onnipresente. Fornisce ad ogni mente la luce necessaria per trovare Dio. E’ inaccessibile per natura ma per bontà si lascia comprendere. Riempie ogni cosa ma si comunica solo a chi ne è degno.

Come esegeta, il Grande Cappadoce è essenzialmente un seguace di Origene di cui imita il metodo allegorico. Stilisticamente virtuoso e di erudizione enciclopedica anche nelle scienze, Basilio dispiega il suo talento di biblista soprattutto nelle Omelie, tra cui spiccano quelle sull’Esamerone, ossia i Sei Giorni della Creazione. In esse Basilio si mostra ancora erudito filosofo. Afferma infatti che Dio ha creato tutte le cose, compresa la materia, nel tempo, che quindi è la prima creatura. Egli critica il concetto di materia prima, onde evitare di doverne ammettere la coeternità a Dio, affermando che non esiste nulla che sia assolutamente privo di natura propria e di caratteristiche specifiche, mentre ogni cosa, compresa la materia, all’interno di un ente o di una sostanza contribuisce a determinarne l’essenza e a conferirle perfezione. Di converso, eliminando ogni proprietà dalla cosa singola per risalire alla sola materia, implica l’approdo al nulla, in quanto la sottrazione di ogni qualità sensibile implica la fine di ogni substrato connesso. La cosmologia del Grande Cappadoce comporta i quattro elementi originari, aria acqua fuoco terra, che in origine sono mescolati e poi si dividono risiedendo ognuno nel suo luogo naturale, esattamente come aveva insegnato Aristotele, e disponendosi concentricamente: terra, acqua, aria, fuoco. Il fuoco è l’elemento dei corpi celesti e arriva sino all’oceano celeste; sotto il firmamento aria e acqua fanno le nubi; la luce fu fatta prima del sole che serve per trasmetterla; l’aria l’ha ricevuta appena creata per trasmissione immediata. I quattro elementi hanno quattro caratteristiche specifiche: il fuoco è caldo, l’acqua è fredda, l’aria è umida, la terra è secca; essi non sono mai nella loro purezza originale agli occhi degli uomini, ma appaiono sempre mescolati. Basilio parla poi delle piante e degli animali attingendo a Eliano, Oppiano e Aristotele. Egli rifugge dalla tentazione di dare ad ogni bestia una interpretazione simbolica e morale, pur comune all’epoca e in seguito. Il suo Esamerone fu tradotto in latino da Ambrogio e da lui imitato.

Asceta impareggiabile, il Padre di Cappadocia ha lasciato nella teologia spirituale ed ascetica un’orma indelebile: ha esaminato natura mezzi e fini della vita spirituale, argomentando dalla Scrittura e mostrando come il fine ultimo, principale ed unico dell’esistenza umana è Dio, per cui a Lui bisogna tendere con amore e zelo. Basilio ha distinto una ascesi negativa da una positiva. La prima è come il primo passo nella strada verso Dio e implica lo sganciamento dalla colpa, dalle passioni, dall’effimero, dalla carne, dall’attaccamento alle cose terrene. Intrapresa questa strada, l’uomo non deve tornare indietro, ma sradicare le erbacce dal campo dell’anima, spianare la via, portare frutto per l’eternità, salire i gradini della scala della perfezione, distaccarsi dalla terra e realizzare così il “rinnega te stesso” del Vangelo. La seconda implica l’esercizio della virtù e l’imitazione di Cristo. La vita interiore ha tre fasi: purgativa, illuminativa ed unitiva, che rispecchiano gli insegnamenti di tre libri sacri, ossia i Proverbi, il Qoelet e il Cantico dei Cantici. Ognuno di questi stadi ha particolari esercizi di virtù e propri metodi. Due principi regolano il movimento ascetico verso Dio: “non aderire alle cose passeggere come se fossero eterne, né disprezzare le eterne come se fossero transitorie” è il primo; il secondo è operare sempre alla presenza di Dio. Le pratiche che favoriscono il progresso spirituale sono il raccoglimento, la preghiera, il timor di Dio. Nella vita virtuosa Basilio distingue le virtù teoretiche e le pratiche. Le prime vanno conosciute e le seconde praticate, specialmente la carità, in quanto l’ascesi tende alla perfezione della carità stessa, intesa come unione dell’anima con Dio proprio nell’amore per Lui. Tutto l’essere dell’uomo, orientandosi verso Dio, vibra di tensione e si placa solo possedendolo. Il corpo stesso, subendo il divino fascino, partecipa dell’azione della glorificazione di Dio in maniera esaltante, senza essere più carcere dell’anima. La conformazione a Cristo, modello di questa perfetta unione con Dio, avviene nello Spirito Santo. Ecco che dunque l’ascesi basiliana si mostra in intima sintonia con la sua dogmatica.

Nel trattatello Ai Giovani di cui facemmo menzione più sopra e dedicato ai nipoti, Basilio mostra anche il suo talento di pedagogista cristiano. In esso il Santo mostra come istruire i giovani cristiani nelle discipline classiche, sebbene esse siano piene di riferimenti al paganesimo, dando l’esempio di un’opera che, pur essendo piena di citazioni e di esempi antichi, era profondamente cristiana. Basilio afferma che gli esempi antichi sono meritevoli di essere seguiti, purchè essi non ci facciano tralasciare lo sforzo di dominare il nostro corpo coi suoi impulsi. Questo diventerà poi il programma degli umanisti cristiani dei secoli XIV-XVI, con in testa Leonardo Bruni, che proprio traducendo l’operetta di San Basilio, volle giustificare la sua opera di traduttore di Plutarco e Platone. In effetti quest’opera segna una pietra miliare nella storia della cultura greca: con essa i cristiani riconoscono dignità propria alla tradizione letteraria ellenica e stabilirono, per l’uso pratico dello scritto e il prestigio dell’autore, di conservare le vestigia della classicità anche se rivestite di paganesimo.

SAN GREGORIO DI NISSA

E’ il fratello minore di San Basilio, che infatti lo influenzò moltissimo, sebbene il nostro avesse una sua spiccata personalità. Nacque anche lui a Cesarea di Cappadocia, nel 335. Educato anche lui in casa, secondo i principi cristiani enunciati dalla Sacra Scrittura, Gregorio proseguì gli studi regolari nelle scuole pagane, studiando la retorica e la filosofia, a cui si dedicò con particolare passione, approfondendo Platone, Aristotele, gli Stoici e i Neoplatonici. Sarà questa solida base a permettergli di edificare poi un poderoso edificio teologico, dotato di profondità e rigore metodologico. In una prima fase della sua vita, abbandonato l’ufficio di lettore, divenne insegnante di retorica e si sposò. Tuttavia sia l’esempio ascetico della madre Emmelia che della sorella Macrina, unito alla decisione di Basilio di darsi al monachesimo, lo determinarono ad una svolta, insita per così dire nell’ambiente familiare in cui era vissuto e da cui continuava ad essere compenetrato. Si diede così all’ascetismo eremitico, da cui però venne riportato nel secolo per volontà del fratello Basilio, il quale, oramai metropolita di Cesarea, lo volle vescovo della suffraganea sede di Nissa, onde l’epiteto di Nisseno che accompagna il nome di Gregorio. Tuttavia, non essendo incline all’amministrazione, ebbe molti grattacapi da parte degli ariani, i quali si servirono di questi suoi obiettivi limiti per metterlo in cattiva luce col governatore del Ponto, Demostene, a cui fecero credere che Gregorio dilapidasse i beni della sua diocesi. Venne perciò convocato un sinodo nel 376, nel quale il Nisseno venne deposto ed esiliato. Potè rientrare nella sua sede solo dopo la morte dell’imperatore Valente (364-378), il quale era stato ariano e aveva quindi avallato la condanna del Cappadoce. I fedeli di Nissa riaccolsero con entusiasmo il loro antico vescovo, il quale potè, nel 380, confortare gli ultimi istanti di sua sorella Macrina in quel di Annesi, nel suo stesso monastero. Questa toccante esperienza gli diede il destro di comporre il corrispettivo cristiano del Fedone platonico, ossia il dialogo L’anima e la resurrezione. Partecipò poi al Concilio Ecumenico Costantinopolitano I, nel quale diede un apporto di tale importanza da essere soprannominato dai suoi confratelli vescovi “la colonna dell’ortodossia”. Si recò poi in missione per conto di questo Sinodo presso le Chiese di Arabia e Palestina, per comporre i contrasti che le dividevano. Ancora nel 382 partecipò ad un nuovo Concilio a Costantinopoli e incontrò l’imperatore Teodosio I il Grande (379-395). Altre due volte visitò la corte imperiale e nel 385 fu lui a pronunciare l’orazione funebre per l’imperatrice santa Flacilla (†385) e sua figlia la principessa Pulcheria (379-385). In seguito fu ancora attaccato da ariani ed apollinaristi. Compare per l’ultima volta nell’elenco dei sottoscrittori dei sinodi periodici di Costantinopoli nel 394 e si ritiene che egli sia morto dunque nel 395.

Gregorio di Nissa scrisse molto e le sue opere possono essere classificate come teologiche, esegetiche, ascetiche e oratorie. Le prime sono il Contra Eunomium, in due libri comprendenti quattro trattati contro l’ariano già confutato dal fratello Basilio, l’Adversus Apollinarem, contro l’apollinarismo, più molti opuscoli su questioni particolari (ad esempio il De Spiritu Sancto, il De Opificio Hominis, il De Hexameron Creationis). Le seconde sono la Vita di Mosè, quindici omelie sul Cantico dei Cantici, otto omelie sull’Ecclesiaste, il Commento sul Cantico dei Cantici e sulle Otto Beatitudini, l’opera In Psalmorum Inscriptione sui titoli dei Salmi. Le terze sono il De Virginitate e la Vita di Santa Macrina. Le quarte sono diverse omelie sulle feste e i misteri dell’anno liturgico, orazioni funebri, panegirici di Santi e i Discorsi Catechistici o Grande Catechesi, per i catecumeni, una vera e propria enciclopedia in compendio del sapere teologico che è il vero capolavoro del Nisseno. Sono inoltre da menzionare ventisei lettere, storicamente importanti ma meno rilevanti in teologia e filosofia.

La dimensione del sentimento mistico è corrispondente, in Gregorio, al pregio letterario. Affidandosi ad esso, egli raggiunge un’alta qualità. Se però pure deve mantenere preciso controllo formale, il suo stile rimane chiaro, ma diventa arido e sbiadito. Un grande risultato poetico è raggiunto nel dialogo Sull’anima: intensamente emotivo, solleva a dignità d’arte i temi dottrinali, dominati dalla divina bontà.

Influenzato nella sua formazione teologica da Origene e da Metodio di Olimpia, Gregorio Nisseno fu la principale mente speculativa del suo tempo e i progressi della dogmatica gli permisero di scappare agli errori del suo primo maestro, che in quest’epoca non potevano più essere tollerati. Egli si servì in modo perfetto della filosofia platonica per la sua speculazione teologica. Come filosofo può considerarsi un continuatore di Filone e di Plotino. Fu un grande pensatore filosofico e unì profondità di dottrina, acutezza di pensiero, capacità di sintesi.

Polemizzando con Eunomio, Gregorio Nisseno sostenne l’assoluta trascendenza di Dio rispetto all’intelligenza umana. L’eretico aveva infatti insegnato che l’uomo può conoscere l’essenza di Dio in modo perfetto tramite l’aghennesia, che la contraddistinguerebbe in modo esclusivo. Aveva perciò postulato, come dicevamo, che il Figlio, essendo generato, non poteva essere veramente Dio, ma solo la Sua prima creatura. Il Cappadoce invece ribattè che Dio è inconoscibile e ineffabile, adducendo le stesse motivazioni di Filone, di Clemente di Alessandria, di Origene e di Plotino, ossia la trascendenza e la semplicità dell’Uno, ed aggiungendone di nuove: Dio è infinito e proprio per questo non può essere compreso nella mente umana che è limitata. Questa è stata creata secondo una essenza limitata da Quegli che invece non ha limite alcuno nel Suo essere. Ragion per cui di Dio nulla può dirsi in modo esauriente, anzi, quando si tratta di Lui, è bene che l’uomo taccia. Con questo principio, Gregorio è stato senz’altro uno dei massimi esponenti della teologia apofatica. Anche quando afferma che Dio è conoscibile mediante le sue azioni, per cui assume molti Nomi, Gregorio sempre mantiene la linea dell’apofaticità, perché tali Nomi aiutano a capire più ciò che Dio non è che quel che è. Con Basilio e Gregorio Nazianzeno, il nostro Nisseno elaborò definitivamente la teologia trinitaria e preparò la definizione dogmatica della consostanzialità dello Spirito Santo col Padre e col Figlio. Tutto l’arianesimo è fallace, perché, supponendo una priorità del Padre sul Figlio, ne postula una superiorità ontologica. Ma se il Padre fosse realmente più antico del Figlio, la distanza temporale tra Lui e la Generazione di Suo Figlio dovrebbe essere reale anch’essa. Ma se fosse infinita, non sarebbe mai avvenuta generazione. Se fosse finita, anche il Padre avrebbe un inizio, sia perché inizierebbe allora ad essere Padre, sia perché nella Sua eternità avrebbe una successione di eventi. Perciò in Dio non vi è scansione di tempo alcuna, e la stessa Generazione avviene nell’eternità. Analogamente, se il Padre vuole generare, ciò vuol dire che questo è insito nella Sua Natura, altrimenti l’atto generativo sarebbe accidentale ed incompatibile con la immutabilità divina. Il Nisseno ancora argomenta, partendo da una serie di analogie tra Dio e l’uomo. Questi ha un pensiero che si esprime con la parola, esattamente come Dio. Questi infatti è il Pensiero supremo, che formula il Verbo supremo, che è stabile e immutabile, in quanto Dio Egli stesso; è sussistente in eterno, dotato di una vita propria, di volontà onnipotente e buona. In ragione di ciò, come il pensiero dell’uomo è consostanziale al suo linguaggio, così il Padre e il Verbo sono consostanziali e il Verbo esce dalla mente di Dio tanto più di quanto la parola umana esce dalla mente dell’uomo. Come poi il fiato procede dal corpo animato e quindi dall’anima e dal corpo, così lo Spirito Santo è emanato dal Padre e dal Figlio. La ragione quindi attesta la superiorità della concezione trinitaria di Dio su tutte le altre, in quanto essa implica la molteplicità delle Persone che gli Ebrei non hanno, e l’unità della Natura che i politeisti negano. Gregorio Nisseno insegna che la funzione santificatrice dello Spirito Santo, che conduce l’uomo a Dio, non potrebbe essere svolta con successo e in modo appropriato se Egli stesso non fosse Dio. Tale azione è peraltro rivelata dalla Scrittura, che quindi smentisce la disomogeneità sostanziale dello Spirito dal Padre e dal Figlio. Le relazioni che legano le Tre Persone sono enunciate da Gregorio in modo da salvaguardare la monarchia del Padre: da Questi è generato il Figlio, così che il Primo sia causa efficiente immediata del Secondo; lo Spirito Santo invece procede dal Padre attraverso il Figlio, perché se emanasse direttamente dal Padre, sarebbe una seconda generazione, e se emanasse direttamente dal Figlio, Questi sarebbe Padre a Sua volta. Dunque lo Spirito Santo ha sempre la medesima causa efficiente, il Padre, che però agisce attraverso una causa mediata, strumentale e secondaria per così dire, che è appunto il Figlio. Questi dunque ha una relazione col Padre che ha un primato ontologico e logico – non cronologico- su quella dello Spirito Santo col Padre stesso, in quanto senza la Generazione non potrebbe avvenire la Processione. Gregorio di Nissa dunque non considera la Doppia Processione, ed essa può essere accettata, nell’ottica del suo pensiero, solo se interpretata in questo modo, ossia col Figlio che media l’unica processione dal Padre dello Spirito. Gregorio può dunque affermare che l’Unità sostanziale di Dio non impedisce di distinguere al Suo interno le situazioni di causa e di causato, nonché di ciò che viene causato immediatamente o mediatamente.

Questo Dio tanto trascendente e misterioso si fa conoscere mediante la Creazione e la Redenzione, l’una e l’altra compiute dal Figlio. In particolare l’Incarnazione inaugura un mondo nuovo, in cui la presenza divina acquista nuove forme e nuova chiarezza. La Nascita di Cristo inaugura un nuovo mondo che sarà la Chiesa, da cui è espunta progressivamente ogni traccia di male. Cristo è primogenito non in quanto esemplare eminente, come per gli ariani, ma in quanto principio di nuova Creazione. Egli, liberandoci dal peccato, annienta anche la principale conseguenza del peccato stesso, ossia la divisione. L’umanità è riunita in Cristo Che a Sua volta è unito al Padre. Se la morte ha diviso il Corpo di Cristo dalla Sua Anima, nulla ha potuto separare l’uno e l’altra dalla Sua Divinità, che ha operato la loro riunione causando la Resurrezione. Ecco perché la Croce è simbolo della vittoria di Cristo: mediante essa Egli ha debellato la morte, ossia la maggiore conseguenza del peccato e il primo ed ultimo fattore di divisione.

Il male è essenzialmente il frutto di una deviazione dell’uomo verso i beni imperfetti, per cui sgominarlo implica una perfetta unione col bene supremo, Dio, attraverso l’amore. La prima tappa è senz’altro la fede, ma la fedeltà alla Legge morale e lo sforzo ascetico e contemplativo sono solo frutto d’amore. Il risultato è la purificazione interiore e la restaurazione della somiglianza dell’anima con Dio. Questa dottrina ascetica, esposta soprattutto nelle Omelie sul Cantico e sulle Beatitudini, è stata ripresa poi da San Bernardo di Chiaravalle.

Il punto dolente di Gregorio di Nissa è l’escatologia, in cui riprende il concetto apocatastatico di Origene, perché afferma che il mondo, debitamente purificato, tornerà per intero a Dio, compresi i dannati e i demoni stessi. Ciò influenzerà Giovanni Scoto Eriugena nel IX sec. Degno di nota è tuttavia che Gregorio concepisce il corpo glorioso dei Beati non come una realtà quasi immateriale, ma pienamente materiale, anche se di una materialità completamente purificata.

In campo filosofico, Gregorio di Nissa ha elaborato una interessante cosmologia e una ricca ed armonica antropologia, assai attuale, contenute soprattutto nel De Opificio Hominis, che ebbe un grande successo nel Medioevo. Dio ha creato il mondo con un atto della Sua volontà, direttamente dal nulla, rendendole mutabili. L’universo si divide in un mondo visibile, fatto di spiriti, e uno visibile, fatto di corpi. L’uomo è mediano tra entrambi, avendo anima e corpo. Sotto di lui vi sono gli animali, dotati di sensibilità movimento e vita, ma non di ragione; più giù le piante, la cui anima permette loro solo di crescere e nutrirsi; ancora più in basso i minerali, inanimati ma condizione stessa della vita. L’anima è una sostanza creata vivente e razionale, che vivifica e dà la sensibilità ad un corpo materiale strutturato e capace di sentire. Gregorio di Nissa nega la preesistenza delle anime ai corpi, anche perché implicherebbe la metempsicosi, sconfessando così Origene. La metempsicosi gli sembra assurda perché non può esserci il medesimo animo per forme di vita differenti. Peraltro, precipitando nei corpi per scontare il peccato, le anime sarebbero destinate a peccare ulteriormente e quindi a sprofondare in esistenze sempre peggiori, tanto da arrivare a meritare la distruzione. Inoltre, l’anima, come non è preesistente al corpo, così non gli è successiva, perché altrimenti quel corpo che dovrebbe animare sarebbe già cadavere. Perciò corpo e anima sono creati insieme. Sin dal primo istante del concepimento, l’anima è nel corpo e contiene in sé il germe dello sviluppo del corpo, portandolo al suo pieno sviluppo e dispiegando in esso tutte le sue facoltà. Essa risiede in tutto il corpo perché opera attraverso tutte le sue parti. Anticipando Leibnitz, Gregorio di Nissa sostiene che dopo la morte l’anima non si separa mai dagli elementi che formano il corpo, perché essendo immateriale rimane congiunta a quanto materialmente si è diviso tra sé. Ciò è possibile sia per la Resurrezione dei Corpi, ognuno dei quali risorge in quanto unito alla sua anima, sia perché il composto umano non è mai scindibile, pena la fine della sua stessa umanità. E’ questo un netto superamento del pensiero platonico e del suo dualismo. L’uomo, in quanto mutabile, può usare la sua libertà e il suo libero arbitrio per scegliere il bene, ma ha scelto male, non il male. Il male infatti non esiste sostanzialmente, ma è solo quanto l’uomo non ha scelto, è una negazione di bene, sia ontologicamente che moralmente. E’ l’uomo il demiurgo del male. Proprio in vista del peccato originale, che ha introdotto la morte nel mondo, Dio ha voluto la differenza sessuale tra uomo e donna, per garantire la perpetuazione della specie, che cesserà in Cielo perché elemento che differenzia l’uomo dalle nature spirituali. Senza il peccato, secondo Gregorio gli uomini si sarebbero riprodotti spiritualmente come gli angeli. La vita futura vedrà il ritorno del corpo a Dio, in un modo inimmaginabile. Esso è più comprensibile se pensiamo che la materia è estesa e solida essenzialmente per mescolanza di principi che, considerati da sé, sono immateriali ed intellegibili. Per cui la materia scaturisce dagli intellegibili e questi da Dio Che è immateriale e spirituale in grado supremo. La stessa Creazione biblica descrive essenzialmente la produzione dal nulla degli intellegibili, mentre ogni capacità gnoseologica, per forza di cose, si fonda prioritariamente sull’intelletto e solo dopo sulla sensibilità.

Fu forse discepolo di Gregorio Nemesio di Emesa in Siria, vissuto intorno al 400? Non sappiamo, ma le sue importanti opere filosofiche, forse per mero errore che confuse i nomi Nisseno e Nemesio, furono a lungo attribuite al Cappadoce.

SAN GREGORIO DI NAZIANZO

Egli nacque nel 330 circa nella tenuta di famiglia, presso Arianzo. Suo padre, San Gregorio il Vecchio (†374), era diventato vescovo di Nazianzo nel 325. Sua madre era Santa Nonna (†374). Fu condiscepolo di San Basilio, sia a Cesarea di Palestina che ad Atene, dove studiò con passione sia le lettere che la filosofia. Fu professore di eloquenza nella capitale greca. Nel 355 ricevette il battesimo a Costantinopoli col fratello San Cesario (331-369), per poi rientrare in Cappadocia. A Nazianzo continuò ad insegnare e poi si diede alla vita eremitica con Basilio sull’Iris, presso Neocesarea. Indotto poi da Basilio a diventare vescovo di Sasima, lasciò dopo qualche tempo il pastorale per tornare all’eremitaggio. Da qui venne convinto ad uscire per diventare Patriarca di Costantinopoli, onde risollevare quella Chiesa dall’arianesimo, patrocinato dal defunto imperatore Valente. Fu proprio sul Bosforo che Gregorio fondò quella chiesa di Santa Anastasia, in cui pronunziò per i cattolici i suoi cinque celeberrimi sermoni sulla Trinità che gli valsero un posto nella storia letteraria greca come retore e in quella della teologia, con l’epiteto di “teologo” per antonomasia. Indotto a rinunciare alla sede di Costantinopoli per dissensi interni durante il Concilio Ecumenico del 381 tenutosi nella capitale, assunse l’amministrazione temporanea della diocesi di Nazianzo, fino all’elezione del nuovo presule Eulalio, nel 384. Potè così finalmente tornare ad Arianzo e concludervi la vita dandosi allo studio e alla contemplazione, tra il 389 e il 390.

Gregorio fu teologo, ma non solo in prosa, perché grande poeta. I suoi carmi, che hanno anche un posto nell’Antologia Palatina, l’ultimo grande monumento collettaneo della poesia greca, sono in diciassettemilacinquecento versi, di argomento teologico, dogmatico, morale, storico e autobiografico. Egli impugnò la piuma poetica per mostrare che anche i cristiani, considerati incolti, erano in grado, nonostante la presunta rozzezza della Bibbia, di produrre poesia. Non sempre però gli esiti della poesia del Nazianzeno furono all’altezza del suo proponimento. La sua produzione versificatoria è divisa in due grandi gruppi di poesie: i Carmina dogmatica moralia et historica da una parte e gli Epigrammata dall’altra. I primi hanno una corretta versificazione nelle forme di esametro, distico elegiaco e trimetro giambico, anche se non sempre usati nel contesto adatto tradizionale. I secondi, che come dicevo sono da soli gli elementi costitutivi dell’VIII libro dell’Antologia Palatina, sono abili virtuosismi. Quando però Gregorio parla di sé, come nel carme Sulla sua vita, formato da millenovecentoquarantanove trimetri giambici, giunge ad una risentita autenticità poetica. Il disagio esistenziale che costituì il dramma interiore di Gregorio e il senso di dolore, delusione e frustrazione da cui fu dominata la sua vita intima, trovano nei componimenti autobiografici espressione appassionata e suggestiva, contesa tra i moduli dell’eredità classica e l’emergere della nuova dimensione introspettiva.

Come prosatore, Gregorio scrisse i Discorsi e le Lettere. I primi, chiamati in latino Orationes, sono giunti a noi in quarantacinque ma erano molti di più; sono considerati tra i capolavori della letteratura patristica e considerati dei classici della retorica e dell’oratoria greca, oggetto di studio tra il VI e il X sec. Essi sono di vario tipo e non furono tutti recitati in pubblico. I teologici annoverano tra di essi anche i cinque trinitari a cui ho fatto cenno, scritti tra il 327 e il 332. Le controversie, le apologie, i panegirici, gli encomi di Santi, i sermoni liturgici sono altre categorie dell’oratoria del Nazianzeno. Le orazioni funebri contengono tra l’altro quelle per il fratello Cesario e la sorella Santa Gorgonia (†375), per San Basilio e per i sette Santi fratelli Maccabei. Vi sono poi discorsi di circostanza, come quello Sulla sua fuga o quello per l’intronizzazione come vescovo di Sasina e per l’abdicazione dal soglio di Costantinopoli. Le seconde sono in tutto duecentroquarantanove, di vario contenuto, spesso importanti autobiograficamente e teologicamente, ma con alcune spurie frammiste.

Nel Medioevo bizantino Gregorio fu il Padre per eccellenza, nonostante letterariamente egli fosse un outsider, in quanto meno commentatore e trattatista che poeta e autore di ispirazione autobiografica. Egli fu oratore, come abbiamo visto, e si ispirò ai modelli ateniesi ed atticisti. Queste forme sublimi furono da lui padroneggiati perfettamente nei cinque sermoni trinitari, pronunziati con una straordinaria padronanza e lucidità di pensiero, sviluppando una argomentazione densa di pensiero e smagliante nello stile.

Secondo il Teologo, l’oggetto della teologia è Dio e le realtà divine. Essa è una scienza che non può essere praticata da tutti, ma esige lungo tirocinio e specializzazione. Al teologo è consentita la libera ricerca, ma non la diffusione sconsiderata delle sue idee tra i fedeli, che possono trarne confusione. Egli deve amare la pace e l’unità della Chiesa. In vista di ciò, fatta salva la semplice fede, egli deve essere disposto ad ammettere il pluralismo di opinioni, come del resto lo stesso Gregorio fece nelle sue dispute, anche con gli ariani. Fu in effetti lui il vero rivale di Eunomio, anzi il primo, sebbene lo trattiamo per ultimo seguendo l’ordine agiografico. Agli ariani Gregorio, nel Sermone XXXVI, intitolato Intorno a se stesso, ricorda che bisogna argomentare a partire dalla fede e non dalla filosofia.

Il Cappadoce si dedicò alla chiarificazione del dogma pneumatologico nel quadro di quello trinitario, nonché all’approfondimento di quello cristologico. Egli proclamò risolutamente e per primo la piena divinità e consostanzialità con le altre Persone divine dello Spirito Santo. Fu lui ad introdurre il termine Processione o Ekporeusis, ripreso come un tecnicismo dal Vangelo di Giovanni, per indicare l’atto che fa spirare lo Spirito dal Padre e per distinguerlo dalla Generazione. Il Padre, ingenerato ed eterno, genera il Figlio, generato ed eterno; lo Spirito Santo non è generato ma procede dal Padre ed è eterno, e fa da tramite tra il Padre e il Figlio. Come il Padre non smette di essere Padre generando e il Figlio non smette di essere Dio essendo generato, così lo Spirito non cessa di essere Dio per essere procedente dal Padre. Non è dunque una creatura, ma Dio. Lo Spirito Santo possiede le qualità e compie le azioni di Dio. Tuttavia l’unità della Natura si basa sul Padre, perché è da Lui che è generato il Figlio e procede lo Spirito Santo.

In cristologia il Padre afferma con chiarezza e vigore che Cristo è una Persona sola con due Sostanze o Nature perfette con le rispettive proprietà che si predicano di un solo soggetto sussistente; Egli non ha assunto una persona umana, ma solo una Natura. Insegna che il Cristo in quanto Uomo aveva un’anima vegetativa sensitiva e razionale, per cui rigetta l’apollinarismo, onde salvaguardare la vera Umanità di Gesù. Insegna altresì risolutamente che la Vergine Maria è Madre di Dio in quanto genitrice dell’Umanità della Persona del Verbo, nonché per la realtà verginale del Suo Parto. Il Cristo ha operato in modo teandrico, ma alcune azioni sono della Divinità e altre dell’Umanità. Per questo nitore di pensiero, il Nazianzeno è il pilastro della dogmatica della sua epoca, come si è visto anche in mariologia, anticipando le definizioni dei Concili di Costantinopoli, Efeso e Calcedonia.

Sebbene in teologia Gregorio non si sia mai discostato di un palmo dall’ortodossia, in filosofia ebbe originalità e libertà di pensiero. Si servì del sapere filosofico proprio per argomentare in materia religiosa. Appoggiandosi alla fede e alla ragione, contraddisse Epicuro negando la corporeità di Dio e una Sua eventuale finitezza. Scusandosi di dover partecipare alle dispute dell’epoca, Gregorio afferma che su Dio possiamo parlare partendo solo da ciò che Lui stesso ci dice di Sé. Diversamente, essendo incomprensibile come dicono i filosofi, non potremmo dire nulla. Così dà valore esclusivo alla Rivelazione nel processo conoscitivo di Dio. L’ordine del mondo e la sua stessa esistenza sono prove dell’esistenza di un Creatore ed Ordinatore. Tuttavia, pur sapendo che Dio esiste, non sappiamo Chi è, per cui dobbiamo rimanere nell’umiltà pur procedendo nella ricerca. Egli ha due attributi positivi che ci avvicinano alla sua nozione ontologica sono l’infinità e l’eternità. Come Dio ha detto a Mosè, Egli stesso è l’Essere. Gregorio ha dato a questa nozione tutta la positività che il pensiero medievale le avrebbe riconosciuto. Dio è un oceano di realtà, infinito e senza limiti, affrancato completamente dalla natura e dal tempo. Questa definizione sarebbe stata resa popolare da Giovanni Damasceno.


Theorèin - Giugno 2016