LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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SCHOLASTICA GRAECA

Breve introduzione ai Padri greci dei secoli IX-XII

La Scolastica greca si sviluppa negli stessi secoli in cui si sviluppa quella latina, ossia dal IX al XV sec., e nei secoli IX e XII può a buon titolo essere considerata ancora Patristica per le tematiche trattate e per l’influsso esercitato sulla Chiesa Universale, sebbene proprio in questo periodo si sviluppi la mala pianta che portò lo Scisma d’Oriente.

In effetti in questi quattro secoli la Chiesa Latina e quella Greca si separarono innumerevoli volte: per la creazione del Sacro Romano Impero (802-813), per la Seconda Iconoclastia (813-842), per la lotta autocefalica del patriarca Fozio (858-867; 878-886), per la Disputa sulla Tetragamia (912-923), per la Restaurazione dell’Impero Romano Germanico (962-972), per la Doppia Processione dello Spirito Santo (1009-1024), per la lotta autocefalica di Michele Cerulario (1043-1058), per la rottura tra Gregorio VII e i Comneni (1078-1085), per il tentativo di Crociata contro Bisanzio (1105-1112), e ogni volta ci fu una riconciliazione. Ma la lacerazione del 1054 tra Leone IX e Michele Cerulario fu considerata definitiva non tanto perché non ci fu una conciliazione – nel Concilio di Bari del 1099- ma perché da quel momento non sono gli Scismi ad essere precari, ma proprio l’Unione, percepita sempre di più come un fatto estrinseco e non necessario, specie da parte greca, per la Fede. Non è questa la sede per fare una storia di questi numerosi scismi e di quello definitivo, il cui punto di non ritorno sarebbe stato raggiunto, oltre i confini di quest’epoca, con il Sacco di Costantinopoli del 1204. Basti dire che, se da un lato la Chiesa Romana, per l’affermazione del primato universale del Papa, non smise mai di propugnare il ritorno della Chiesa Bizantina alla comunione cattolica, quest’ultima avvertì sempre meno il bisogno di tale unione perché giunta ad una sorta di autosufficienza spirituale, consolidata dalla sua diffusione tra i popoli slavi. Va poi detto che a questi scismi interecclesiali vanno sommati quelli intraecclesiali, sia in Grecia tra seguaci di Patriarchi differenti in turbinosa successione, sia a Roma tra fautori di diversi Papi spesso in opposizione; va da sé che in queste lacerazioni spesso l’una e l’altra Chiesa mettevano il naso sostenendo i candidati più vicini alle loro posizioni. Roma poi per la sua funzione primaziale veniva interrogata anche quando avrebbe fatto a meno di ingerirsi in tali faccende.

Finchè l’Occidente si dibatté nel secolo oscuro, la teologia bizantina fu senz’altro superiore a quella latina, ossia fino al X sec., ma quando in Europa avvenne la grande rinascita, anche ecclesiastica ad opera della Riforma gregoriana, la Chiesa di Roma prese il sopravvento anche nel campo teologico, surclassando quella orientale e costringendola, per non entrare in decadenza, ad imitarne forme e modi di pensiero. Questo, a dispetto delle tensioni politiche ed ecclesiastiche generate dalle cause più svariate, delle quali le maggiori sono le contese universalistiche tra i due Imperi romani, quello germanico e quello greco, quelle giurisdizionalistiche tra il Papa e il Patriarca Ecumenico e le Crociate, che sebbene fossero nate per aiutare la Chiesa d’Oriente divennero sostanzialmente una minaccia per l’integrità sia dell’Impero che della Chiesa bizantini.

La teologia greca di quest’epoca e i suoi Padri non sorgono in soluzione di continuità rispetto agli autori dell’epoca precedente, in quanto la cultura ecclesiastica greca non si era mai interrotta: già Giovanni Damasceno, che abbiamo citato come primo scolastico bizantino, aveva usato Aristotele per elaborare il suo pensiero, sebbene ben presto, nell’epoca in questione, i Greci cominciarono ad attingere allo Stagirita secondo i modi degli Occidentali. I Padri greci di questi secoli si dividono in due grandi famiglie: quella speculativa, rappresentata soprattutto da Fozio, che conserva l’eredità di Clemente Alessandrino, Origene e Giovanni Damasceno, e quella contemplativa, esemplificata da Simeone il Teologo, che mantiene vivo il retaggio di Dionigi l’Areopagita, Giovanni Climaco, Teodoro Studita. La prima famiglia è strettamente legata agli interessi della Chiesa Imperiale Greca, alle sue pretese primaziali in Oriente e alla teocrazia imperiale; la seconda è congiunta alla spiritualità monastica e cenobitica, mentre tiene vivo l’ideale ascetico.

Nel periodo di riferimento svariati sono i temi dibattuti in Oriente, sia dogmatiche che liturgiche e canoniche. Se la Seconda Iconoclastia, cominciata agli inizi del IX sec. e conclusasi nel Concilio di Costantinopoli dell’843, vide tutti i teologi ortodossi fare causa comune contro l’eresia con l’appoggio, non decisivo per la soluzione della controversia, delle altre Chiese capeggiate da quella Romana, l’altra grande contesa dogmatica del periodo, quella della Doppia Processione dello Spirito Santo, vede su fronti contrapposti greci e latini, in quanto i primi sostengono il primato del Padre quale Principio Fontale eguale sia per il Figlio che per lo Spirito Santo, mentre i secondi attestano la parità del Padre stesso e del Figlio quali scaturigini della Terza Ipostasi trinitaria. In conseguenza di ciò, la medesima formula “Ex Patre Filioque procedit” con cui nel Credo, ampliato in Occidente prima da Carlo Magno e poi da Benedetto VIII (1012-1024), si voleva esprimere appunto la Doppia Processione dello Spirito Santo, poteva e può essere intesa in due maniere: che il Padre faccia procedere lo Spirito Santo da Sé sia direttamente che mediante il Figlio e che il Padre e il Figlio facciano pariteticamente procedere da Sé stessi la Terza Persona Divina. Sebbene le due interpretazioni, delle quali la seconda è senz’altro la più completa, siano entrambe ortodosse e perfettamente compatibili, proprio la loro diversa formulazione fornì al Grande Scisma d’Oriente il suo motivo apparentemente più nobile per avvenire: non a caso il Credo greco non fu mai ampliato con la formula del Filioque. Bisogna però ammettere che, se da un lato la Chiesa romana fu ingiustamente accusata da quella Greca di aver cambiato le parole del Simbolo Niceno-Costantinopolitano mentre l’aveva solamente integrate, fu proprio lo sviluppo giuridico del primato papale, alla cui accettazione i Greci non erano mentalmente preparati, a causare veramente la separazione delle Chiese. Naturalmente questo non significa che lo sviluppo del Primato petrino sia sbagliato, ma solo che attorno a questo tema si giocava e si gioca la comunione tra le Chiese. Ambivalente fu invece la questione dello Scisma imperiale: se gli Imperatori d’Oriente considerarono sempre quelli Romano-Germanici degli usurpatori o dei colleghi di secondo piano rei di aver spezzato l’unità politica del mondo cristiano, non smisero mai di carezzare il sogno di una riunificazione di quest’ultimo sotto il loro primato teocratico, ovviamente riconoscendo quello ecclesiastico del Papa, secondo lo schema costantiniano-giustinianeo.

Fatta questa breve introduzione, andiamo a vedere le figure principali di questa ultima Patristica greca che è normativa per tutte le Chiese: Fozio (in verità personalità assai controversa se vista da parte cattolica) e i suoi contemporanei e Simeone il Teologo e i suoi contemporanei, tra cui spicca Michele Psellos.

SAN FOZIO

Nacque nell’810 circa a Costantinopoli da nobile famiglia imparentata con la Casa imperiale degli Amoriani. Acquistò conoscenze approfondite in retorica, filosofia, teologia, matematica, astronomia, diritto e medicina; essendo laico, fu avviato ad una brillante carriera che, dopo averlo innalzato alla cattedra di filosofia e teologia, lo portò a diventare segretario della cancelleria imperiale, capo delle guardie e senatore. Deposto il patriarca Sant’Ignazio (847-858) dal governo imperiale, la reggente Teodora (843-858) scelse come suo successore proprio Fozio, che resse la sede dall’858 all’867. Tuttavia Sant’Ignazio si appellò al papa San Niccolò I il Grande (858-867), il quale nell’863 in un suo Sinodo dichiarò invalida la deposizione dell’appellante e la conseguente intronizzazione di Fozio, che veniva invitato a scendere dal soglio patriarcale pena la scomunica. Spalleggiato dall’imperatore Michele III (842-867), Fozio rifiutò di obbedire e spostò la disputa su questioni di principio, rinfacciando alla Chiesa Latina la Doppia Processione dello Spirito Santo, il celibato del clero, il digiuno del sabato, l’inizio della Quaresima al Mercoledì delle Ceneri e la riserva ai vescovi della celebrazione della Cresima; in ragione di ciò inflisse lui la scomunica a Papa Niccolò e lo depose, comunicando la sua decisione a tutti i vescovi della sua giurisdizione con una lettera. Con questo gesto, Fozio rompeva con la tradizione cattolica ergendosi a giudice della Santa Sede peraltro per motivi pretestuosi. Tuttavia il suo comportamento non rimase a lungo impunito. Basilio I il Grande (867-886) uccise Michele III e ne prese il posto. Di lì a poco volle sostituire il Patriarca, legato al suo predecessore, guadagnando così sia l’appoggio di Roma che dei seguaci di Ignazio. Reintegrò così costui, che resse il Patriarcato dall’867 fino all’877, fino alla sua morte, mentre Fozio, scomunicato e ridotto allo stato laicale, andò in esilio. Questo avvicendamento fu ratificato nel IV Concilio di Costantinopoli dell’869, approvato da papa Adriano II (867-872), e considerato in Occidente l’VIII Concilio Ecumenico. Ma l’odissea di Fozio non finì qui. Morto Ignazio, Basilio, che aveva richiamato Fozio nella capitale perché facesse da precettore ai suoi figli, gli restituì il Patriarcato per sanare la frattura esistente nella Chiesa Imperiale. Iniziò il secondo patriarcato di Fozio, dall’878 all’886. Questa reintegrazione aveva bisogno di un suggello altrettanto autorevole come quello che aveva avuto la destituzione, per cui Basilio I convocò un nuovo Concilio a Costantinopoli, riconosciuto in Oriente come l’VIII Ecumenico. L’Imperatore chiese anche al papa Giovanni VIII (872-882) un riconoscimento che il Papa diede, inviando una lettera in cui presentava la reintegrazione del Patriarca come un gesto dovuto all’autorità di Roma. Promise in cambio un aiuto militare di cui Roma aveva estremo bisogno contro i Saraceni. Giovanni accondiscese e Fozio, pur mutilando la lettera papale dei suoi passi in cui la restaurazione patriarcale sembrava dipendere solo da Roma, la fece leggere nel Concilio senza omettere quei brani che esaltavano il Primato di Pietro. Nel Concilio fu trovato un compromesso anche sulla questione della Bulgaria, nella quale dapprima Fozio e poi Niccolò I avevano mandato i loro missionari, per cui non si sapeva a quale giurisdizione dovesse appartenere la Chiesa di quel paese. Tuttavia ancora un ultimo colpo di scena doveva segnare la vita movimentata di Fozio: Leone VI (886-912), successore di Basilio, decise di sostituire il Patriarca con suo fratello Stefano (887-893), inviandolo un’ultima volta in esilio, dove morì nell’891. La questione della legittimità delle successioni patriarcali in questo turbinoso periodo rimase a lungo aperta, e sia Roma sia gli ignaziani contestarono a lungo la validità della prima intronizzazione di Fozio.

Questo Patriarca è venerato come Santo dalla Chiesa Ortodossa. In queste pagine io ho sempre rispettato con scrupolo il culto tributato ai Padri dalle rispettive Chiese, anche quando essi non sono inseriti nel Calendario cattolico; ma, senza nulla togliere alla vita privata del Patriarca, il suo comportamento verso il Papa difficilmente può essere considerato virtuoso e di certo, se si vuol considerare Fozio santo, bisogna fortemente contestualizzare la sua teologia ai limiti dell’eresia, che di fatto ha dubitato del Primato di Pietro. Ammettendo che negli ultimi vent’anni di vita egli abbia cambiato atteggiamento, si può anche accettare il suo culto, ma, nonostante il suo ruolo indubbio nella Patristica greca, egli senz’altro fu il primo a negare la verità unanimemente condivisa del Primato universale di Roma.

Fozio fu un grandissimo dotto, che attese alla stesura delle sue opere specie nel suo ultimo esilio. L’opera principale è la Bibliotheca o Myriobiblion, una sorta di enciclopedia che tratta di argomenti di ogni genere, scientifici, umanistici e teologici. Essi erano stati l’oggetto delle ricerche dell’insegnamento universitario foziano. L’ordine di esposizione è puramente casuale e avviene mediante la recensione di duecentosettantanove scritti. Gli autori sacri passati in rassegna sono tantissimi e tra essi vanno menzionati Origene, Clemente di Alessandria, Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nissa. Fozio scrisse anche il De Spiritu Sancto Mystagogia, che tratta della Processione della Terza Persona della Santissima Trinità in un modo, come vedremo, inedito e senz’altro discutibile. Dalla sua penna uscirono anche trattati contro il Primato di Pietro (Collectanea sul ministero episcopale, contenente le contraddizioni presunte del magistero papale, e forse il Contro coloro che affermano che Roma è la sede primaziale).

Paragonato ad Aristotele per la vastità dei suoi interessi, devoto allo Stagirita per la sua precisione logica e il suo realismo, Fozio fu senz’altro privo di originalità e soprattutto uomo pratico e preciso. Capace di giudizi approfonditi su ogni tema ed autore, Fozio coltiva la filosofia per se stessa, contrastando lo scetticismo e prendendo posizione sulla questione degli universali a favore di Aristotele, anticipando la soluzione di Abelardo e Tommaso. Nella pneumatologia Fozio non solo rigettò il Filioque considerandolo un’aggiunta arbitraria al Credo, ma sostenne che lo Spirito Santo non derivava se non dal Padre, escludendo sia una Processione diretta che indiretta dal Figlio, in un modo radicalmente differente dalla Tradizione e rimasto senza epigoni.

SAN SIMEONE IL NUOVO TEOLOGO

Nacque nel 949 in Paflagonia a Galatai da nobile famiglia e dopo aver completato gli studi a Bisanzio entrò al servizio dell’Imperatore. Ma presto si mise alla ricerca di una guida spirituale, che trovò in Simeone il Pio, monaco studita, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco. “In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: “Se cerchi la guarigione spirituale – vi lesse - sii attento alla tua coscienza. Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile”. Da quel momento – riferisce egli stesso - mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli” (Benedetto XVI). Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove la sua santità fu osteggiata. Si trasferì allora nel piccolo convento di San Mama, del quale, dopo tre anni, divenne l’igumeno. Lì condusse una vita di intensa unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità. Fu chiamato il “Nuovo Teologo”, dopo l’evangelista Giovanni e Gregorio di Nazianzo. Per la sua opera di moralizzazione dell’alto clero il Santo fu combattuto e mandato in esilio dallo stesso Sinodo patriarcale permanente, l’Endemousa, che nel 1009 lo costrinse a trasferirsi a Crisopoli nel monastero da lui restaurato di Santa Martina. Qui Simeone il Nuovo Teologo passò l’ultima fase della sua esistenza, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli. Riabilitato dal patriarca Sergio II (1001-1019), morì il 12 marzo 1022.

Egli scrisse tre tipi di opere: le Catechesi, i Trattati teologici e pratici e gli Inni. E’ oggi considerato il più grande esponente della teologia bizantina e senz’altro fu il maggiore della sua epoca. Fu pensatore profondo, non sistematico, enigmatico, che si esprimeva in poesia più che in prosa. Non volle essere inventore di un nuovo sistema né di una nuova spiritualità; fu invece originalissimo ed innovativo nel rendere conto in modo splendido e profondo delle sue esperienze interiori e delle sue visioni. In ciò fu aiutato dal suo talento poetico, che gli permise di penetrare i misteri che trattava con una luce sua personale. Proprio della Luce divina da contemplare il Santo fece la pienezza della vita dell’anima e di essa affermò che conferiva un senso nuovo all’esistenza umana. L’illuminazione è la grazia che permette il rinnovamento interiore. Esso culmina nella perfezione che però è possibile solo nella pratica della vita contemplativa. Siccome però la Luce divina si è resa visibile in Cristo, chi vuole contemplare la prima deve fissare lo sguardo sul Secondo. Se non si crede in questa verità, non solo si contraddice la Scrittura ma si rende il Cristianesimo inutile e peggiore di tutte le eresie. Simeone infatti sentenzia che chi nega la possibilità di essere perfetto o di osservare i Comandamenti, chi nega di poter essere illuminato dallo Spirito Santo ricevendolo e chi nega di poter, tramite Lui, percepire il Figlio e il Padre insieme, vanifica l’opera del Redentore e anzi la considera inesistente.

La visione invece deifica e lo stesso fa la contemplazione. Tale deificazione avviene non solo per l’anima ma anche per il corpo, mediante l’azione dell’Eucarestia, che il Santo contempla sfolgorante del fuoco divino. La deificazione non è né uno stato soggettivo né un’esperienza intellettuale ma il contenuto stesso del Cristianesimo. Con questo asserto Simeone, che a sua volta si riallacciava a certo insegnamento di Diadoco di Foticea, lasciava alle generazioni successive il lascito più importante, del quale la Chiesa Ortodossa visse, anche nel suo magistero, sino al XIV secolo.

Simeone non fu un teorico ed avversò il metodo scolastico, per cui nella sua mistica non trattò molto né i temi delle ragioni divine nella Creazione e nella storia, né si allontanò molto, come dicevamo e conseguenzialmente a questo, dalla descrizione delle sue esperienze; fu l’ultimo genuino esponente di quella tradizione che glorificava il monachesimo facendo dei suoi adepti quasi i depositari della spiritualità e i mediatori tra Dio e il mondo. Gli epigoni di Simeone a volte commisero l’errore di trasformare in teoria le immagini letterarie del gran Padre, al quale si deve il merito di aver aperto la strada all’Esicasmo, inteso sia come ripetizione della preghiera di quiete sia come sforzo di raggiungimento dell’unione della mente col cuore sia come teorizzazione di questa unione in chiave mistica.

ALTRI AUTORI FINO ALLO SCISMA

Areta di Cesarea (860-935) in Cappadocia, metropolita della città e discepolo di Fozio, fu erudito glossatore dei classici, della Bibbia e dei Padri apologeti e dell’antica Scuola di Alessandria.

Niceta di Bisanzio, vissuto nel IX sec., argomentò nelle sue opere contro i monofisiti armeni (Confutazione della Lettera del Re d’Armenia), i musulmani (Esposizione sistematica del Dogma cristiano, Risposta alla Lettera inviata dagli Agareni e che mette in dubbio la fede cristiana all’imperatore Michele figlio di Teofilo, Risposta e confutazione alla Seconda lettera inviata dagli Agareni e mettente in dubbio la fede cristiana all’imperatore Michele figlio di Teofilo, Confutazione della falsa Bibbia scritta da Maometto l’Arabo) e i latini in modo originale col razionalismo e il metodo scolastico, ma con argomenti tradizionali.

Stefano di Nicomedia, metropolita della città attestato nel 997, fu autore di brevi studi di introduzione alla filosofia e su particolari questioni teologiche, peraltro con lo stesso stile di Niceta e duramente avversati dagli pneumatici e dagli entusiasti, capeggiati proprio da Simeone il Nuovo Teologo.

Leone Choirosphaktes (†920 ca.) fu autore della Khiliostikhos Theologhia in versi, esposizione teologica che attinge alla tradizione ellenica dei misteri e alla terminologia neoplatonica.

Teodoro Daphnopates (900- dopo il 960) scrisse le Egloghe di Giovanni Crisostomo, ossia degli estratti delle omelie del gran Padre, a guisa esse stesse di omelie su vizi e virtù e sul modello delle opere erudite dell’imperatore Costantino VII (945-959).

San Simeone Metafraste († 950/987 ca.) fu autore anch’egli di Egloghe, tratte da Basilio Magno e dalle omelie dello Pseudo-Macario il Grande, ma soprattutto del Menologio contenente le vite di centoquarantotto Santi, sia composte da lui che tradotte in lingua corrente secondo le leggi del classicismo retorico dell’epoca, ossia metafrasizzate, da cui il soprannome dell’autore. Gli Opuscula Ascetica di San Macario il Grande in realtà sono opera sua.

Se Simeone fu il massimo agiografo bizantino, meritano una menzione gli autori dei secoli VIII-IX, ossia Stefano il Diacono, autore della Vita di Santo Stefano il Giovane (715-764), martire durante l’iconoclastia; Naucrazio, agiografo di San Teodoro Studita; Ignazio di Nicea, che scrisse la Vita dei patriarchi San Tarasio (di cui abbiamo parlato) e San Niceforo (806-814; †828); Gregorio Asbesta, forse autore della Vita del patriarca San Metodio (843-847); Niceta David, agiografo del patriarca Sant’Ignazio. Ricordiamo anche la Vita romanzata di Santa Teoctisti di Lesbo (IX sec.) scritta da un non ben identificato Maestro Niceta, la rielaborazione anonima dei racconti di Gregorio Magno su San Benedetto e la biografia, in chiave agiografico-nazionalista, di Sant’Ilarione, ricca di encomi schematici, ingenui racconti e immaginazioni fantastiche, del resto tipiche dello stile agiografico.

MICHELE PSELLOS

Nacque a Nicomedia o Costantinopoli nel 1018. Fu retore e filosofo successivamente, per qualche tempo monaco, poi dignitario imperiale e docente all’Accademia di Costantinopoli, i cui programmi riorganizzò completamente. Cortigiano dottissimo, intelligente ma anche arrivista e servile, Psello raggiunse l’alta dignità di ipato e fu un filosofo importante perché collegò il neoplatonismo classico e cristiano a quello rinascimentale, che da lui attinse. Morì nel 1096.

Anche in teologia svolse un certo ruolo, per cui merita di essere citato in questa sede. In materia scrisse il De Operatione Daemonum, un trattato di demonologia, tre Epitaffi su Costantino III Licude (1059-1063), Giovanni VIII Xifilinos (1064-1075) e Michele I Cerulario, le Orationes Hagiographicae e le Panegyricae, opere persuasive contro i Bogomili e i Monofisiti, nonché diversi saggi teologici e commenti ai Padri come Gregorio di Nazianzo. Fu poi autore di una Cronografia di grande importanza documentaria, di un Commento al De Interpretatione di Aristotele, di un trattato sul Fedro di Platone, di uno studio allegorico su Omero, di una parafrasi dell'Iliade, del De quinque vocibus (compendio dell'opera di Porfirio), dell'opera miscellanea Omnifaria doctrina, dell’Historia syntomos (un breve testo didattico storico in forma di cronaca mondiale), trattati di medicina astronomia musica diritto fisica matematica alchimia etica topografia, poesie didattiche, l’Orazione funebre per la madre, vari panegirici di argomento non religioso, versi satirici ed epigrammatici, esercizi retorici e cinquecento lettere.

ALTRI AUTORI TRA XI E XII SECOLO

Vediamo quali altri autori importanti espresse la Chiesa Greca in questo periodo in cui la divisione con l’Occidente non era ancora definitiva. Sebbene il terminus ad quem della Patristica sia, nella nostra trattazione, la morte di San Bernardo, dato che le condizioni generali della Chiesa Greca non cambiano sino alla fine del XII sec., citeremo anche alcuni autori vissuti fino a quell’epoca.

Vissero in questo periodo tre grandi canonisti: Giovanni Zonara (1074-1130), Alessio Aristeno (XII sec.), Teodoro Balsamone († dopo il 1195), illustri eruditi e letterati, chierici di Santa Sofia; Balsamone fu chartophylax prima di diventare patriarca di Antiochia.

In generale la nuova canonistica introdusse la casistica e il metodo scolastico nella trattazione delle fonti, ma non separò nettamente i due diritti né propugnò la superiorità di quello canonico; mise tuttavia in evidenza che le prerogative imperiali nei confronti della Chiesa erano più una concessione consuetudinaria che un diritto divino. Era questa una forma di adattamento dei progressi della canonistica latina alla situazione greca, dove il diritto aveva una tradizione profana più autorevole, dove la teologia politica era ferma all’età costantiniano-giustinianea e dove la scolastica non era pienamente penetrata, poiché ancora sopravvivevano forme proprie di cultura. In genere questa canonistica fu dunque inferiore alla latina (ma la riflessione sullo status dell’imperatore è assai significativa da un punto di vista dogmatico), mentre le istituzioni giuridiche ricalcarono spesso quelle profane.

Gli imperatori assecondarono e seguirono in vario modo il rinnovato fervore culturale della propria Chiesa, scaturita dalla riforma scolastica costantiniana, le cui più illustri figure furono, anche in campo profano, dei chierici sin dall’ultima età della dinastia macedone (si pensi al summenzionato Giovanni Xifilinos, primo direttore della facoltà di giurisprudenza di Balde e poi patriarca dal 1064 al 1075: a lui si dovette la formazione della prima generazione di funzionari imperiali eruditi nella nuova scuola; ma anche al vescovo di Tessalonica Sant’Eustazio (1110-1194), già diacono costantinopolitano e fine chiosatore dei versi di Omero e Pindaro: anche in Oriente vi fu un umanesimo ecclesiastico coevo a quello latino).

Eustrazio di Nicea (1050-1120), grande teologo, fu tuttavia condannato nel 1117 per il nominalismo ripreso dal vecchio maestro Giovanni Italo († dopo il 1082), a sua volta condannato per tesi analoghe e singolarmente simile, nel modo di argomentare, al Sic et Non abelardiano. Giovanni, italiano, si era formato appunto nella penisola alla nuova filosofia logica e al metodo scolastico prima di passare il mare ed approdare sul Bosforo, dove succedette a Michele Psello come scolarca della facoltà di filosofia. Eustrazio invece rappresentava quella corrente cristologica che tentava di confutare alcune asserzioni estreme del Neocalcedonismo. Il dibattito si arroventò per la presenza di teologi latini a Costantinopoli: Pietro Grossolano di Milano (†1117), Anselmo di Havelberg (1099-1158), Mosè di Bergamo († dopo il 1157), Giacomo di Venezia († dopo il 1147), Burgundio di Pisa (1110-1193), i fratelli Ugo (1115-1182) e Leo Eteriano (XII sec.), che discettarono di questi argomenti e di quelli classici della disputa greco-latina, come la Doppia Processione dello Spirito Santo, il primato ecc.

Una prima fase della disputa riguardò la distinzione tra il Cristo che offre e riceve il sacrificio salvifico. Soterico Panteugenes scivolò, a questo proposito, sulla buccia di banana dello pseudo-monofisismo e perse ogni possibilità di progredire nella carriera ecclesiastica (1157). Un rigurgito di spirito giustinianeo si ebbe sulla questione della frase di Gesù in Gv: «Il Padre è più grande di me». Demetrio di Lampe, tornato da missioni diplomatiche in Occidente, importò a Bisanzio la disputa sull’argomento tra Gerloch di Reichersberg (1092/1093-1169) e i seguaci di Gilberto de la Porrée (1070-1154). Dopo molti sinodi l’imperatore Manuele I (1143-1180) impose una decisione arbitraria e imprecisa, che apparve vanitosa pure a Ugo Eteriano, mentre l’imperatore si appellava a Gerloch e ai suoi scritti, interpretati a sproposito. Infine si ebbe uno strascico eucaristico quando Michele Sicidita sostenne che il Corpo e il Sangue di Cristo nell’Eucarestia erano corruttibili. La controversia fu sanata da un sinodo nel 1199-1200.

Con questa data, ormai a ridosso del sacco di Costantinopoli e della prima caduta dell’impero d’Oriente, finiva l’ingarbugliata età delle déviations des didascales, come le definì Gouillard, riecheggiato da Hans Georg Beck. Evidentemente il contatto con la filosofia aristotelica e la questione logico-linguistica degli universali doveva dare sempre e ovunque anche esiti ereticali e la reazione della Chiesa bizantina a queste cristologie inquinate non furono diverse da quelle di Bernardo di Chiaravalle in Occidente alla teologia di Abelardo o di Roscellino di Compiègne, di cui diremo. Queste dispute usavano in modo intimorito e non sistematico il metodo scolastico, mentre solo la lotta all’eresia adoperava la sistematica vera e propria, che perciò era assai inferiore in Oriente a quella occidentale. In tal senso operò Niceta Coniata (1155-1216), continuando l’opera di Eutimio Zigabeno (XII sec.)

Se poi ancora si cercarono formule per superare il contrasto col monofisismo a causa del riavvicinamento con gli Armeni, fu però contro i Bogomili che ci si battè senza tregua, come del resto in Occidente si fece coi loro cugini catari.

C’era, tuttavia, anche una cultura religiosa meno controversa. Ci fu per esempio uno sforzo di riproporre un platonismo cristiano in polemica con Proclo nell’opera di Nicola di Metone (†1165).

Fu inoltre questa l’età della codificazione dell’omiletica, avviata da Giovanni Xiphilinos, nipote dell’omonimo Patriarca e vissuto nel XII sec., sulla scia di Giovanni Crisostomo e proseguita dal patriarca Giovanni IX Agapeto (1111-1134), dall’italo-greco Filagato di Cerami (XI-XII sec.) e da Neofito Enclisto (XIII sec.).

Fu questa anche l’epoca di maggior sviluppo scolastico dell’esegesi biblica: San Teofilatto di Bulgaria (1050-1109) epitomò in forma catenica Giovanni Crisostomo, mentre Niceta di Eraclea (XI sec.) compose opere a catena che influenzarono persino Tommaso d’Aquino.

OLTRE LA GRANDE CHIESA: SAN GREGORIO DI NAREK E I PADRI ARMENI ORTODOSSI

Sebbene la Chiesa Armena si fosse separata dalla Grande Chiesa dal II Concilio di Costantinopoli, i contatti, specie con quella Greca, non cessarono mai del tutto. Giovanni Otznetzi, soprannominato il Filosofo, visse nell’VIII secolo e compose un Discorso contro i Pauliciani (eretici pauperisti invisi anche e soprattutto a Bisanzio), un Discorso sinodale e una raccolta dei canoni dei Concili e dei Padri. All'incirca nello stesso periodo arrivarono in Armenia le traduzioni delle opere di parecchi Padri, come Gregorio di Nissa e Cirillo Alessandrino, fatte da Stefano di Syunik, a dimostrazione di come lo spirito ortodosso neocalcedonese fosse, accanto a quello della Scuola altrettanto ortodossa di Alessandria, oggetto di attenzione nella Chiesa Armena. Due importanti poetesse, nonché musiciste, dell'epoca furono le innografe Sahakduxt e Xosroviduxt. Anche nel IX sec. l'innografia armena raggiunse alti livelli grazie all'opera di Esayi Abu-Muse.

Nel X sec. Annine di Mok, abate e grande teologo, compose un trattato contro i Tondrachiani, professanti il Manicheismo, contribuendo così alla grande battaglia che sia i Greci che i Latini avrebbero a breve ingaggiato contro i dualisti, nelle loro forme di Bogomili e Catari. Sempre nel X sec., Chosrov, vescovo di Andzevatsentz, scrisse diversi commentari sul Breviario e le Preghiere della Messa. Egli fu padre di San Gregorio di Narek, che a sua volta fu teologo, poeta e scrittore. Gregorio nacque molto probabilmente nel 950 nel piccolo villaggio di Narek in Armenia, da una famiglia di scrittori. Morta la madre mentre Gregorio era ancora in tenera età, suo padre Chosrov lo affidò insieme al fratello Giovanni alla cugina Anania di Narek, fondatrice della scuola e del villaggio. Ben presto fu ordinato sacerdote e divenne abate del monastero, dove condusse una vita piena di umiltà e carità, impregnata di lavoro e di preghiera, animato da un ardente amore per Cristo e la sua Madre Santissima. Morì verso l’anno 1003 e venne sepolto nello stesso monastero. La sua tomba fu meta di pellegrinaggi sino ai tempi dei massacri perpetrati dai Turchi nel XX sec.

Gregorio fu un insigne teologo e uno dei più importanti poeti della letteratura armena. Tra le sue opere si annoverano un Commentario al Cantico dei Cantici, numerosi panegerici e il Libro delle Lamentazioni, una raccolta di novantacinque preghiere in forma poetica dette “Narek”, dal nome del monastero in cui visse.

Gregorio fu un grande devoto della Vergine, che contemplò in visione. Egli la cantò con accenti ispirati. Tra le sue composizioni sono degne di nota il Discorso panegirico alla Beata Vergine Maria e la Preghiera LXXX intitolata Dal fondo del cuore, colloquio con la Madre di Dio. Nel discorso, ispirato all’Acatisto, Gregorio approfondì la dottrina dell’Incarnazione, traendone lo spunto per cantare, con tenera pietà dallo stile sublime, l’eccezionale dignità di magnifica bellezza della Vergine Madre. La Preghiera LXXX è più matura. In essa il Santo, sommerso da molti motivi di disperazione, espresse con amore ardente, la certezza di essere aiutato dalla Madre di Dio, della Quale professa l’Immacolata Concezione.

Dopo di Gregorio di Narek, si segnala nell’XI sec. Gregorio Magistros, autore di un lungo poema sull'Antico e sul Nuovo Testamento.

Nel XII sec. il katholikos Nerses il Benigno (1102-1173), fu l'autore più brillante. Oltre alle sue opere poetiche, come la Elegia sulla presa di Edessa, abbiamo opere in prosa tra cui una Lettera pastorale, un Discorso sinodale, e delle Lettere.

Nerses di Lambron (1153-1198), arcivescovo di Tarso, pronunziò invece il Discorso sinodale al Concilio di Hromcla, con cui superava il monofisismo e forniva grandi speranze alla causa dell’unione delle Chiese.

Tutti questi autori sono ancora oggi parte integrante della Patrologia della Chiesa Armena unita a Roma oltre che di quella autocefala.

AETAS MELLIFLUA

Breve introduzione a San Bernardo di Chiaravalle e agli autori del XII sec.

CARATTERI GENERALI

Il XII secolo è quello in cui fiorisce per la prima volta completamente la splendida civiltà medievale: è l’età dei Comuni, della teocrazia romano-germanica degli Svevi, delle grandi Crociate, del Gotico, delle Università, dell’ascesa del Papato ierocratico e della Riforma della Chiesa, dell’espansione missionaria, della crescita economica, della diversificazione sociale, della fioritura intellettuale nelle lettere, nelle arti, nella filosofia e ovviamente nella teologia.

Questa teologia e il codazzo di scienze che le fanno corona diventano in quest’epoca artefici di un mondo nuovo, strumenti nelle mani dell’uomo concepito, sulla scorta di un autentico Umanesimo cristiano, quale costruttore di un cosmo armonico sulla base di un preciso mandato divino. Le conoscenze, veicolate anche dai contatti con l’Oriente cristiano e musulmano in seguito alle Crociate, si accrescono talmente di numero che il sistema delle sette arti liberali si rivela oramai insufficiente a contenerle, per cui si accresce di nuove discipline. Anche il numero di coloro che ne fruiscono aumentano a dismisura: se questo Umanesimo è chiamato monastico perché ha ancora nei monasteri la sua principale fucina, esso è anche aperto ai chierici e ai laici, i quali spesso rimproverano ai monaci la tendenza inerziale alla conservazione del sapere, al massimo temperata dall’accrescimento delle conoscenze. In conseguenza di ciò si profilano due modi nuovi di fare teologia: l’uno legato alla tradizione patristica, per cui giustamente i suoi esponenti sono considerabili essi stessi ancora a pieno titolo dei Padri, e tra loro spicca San Bernardo; l’altro legato alle innovazioni della Scolastica, che ai Padri sostituisce i Maestri e che avrà il dominio del futuro. Per un po’ di tempo i due indirizzi coesisteranno, fino a quando, esauritasi la lezione bernardiana, prevarrà senza alcuno ostacolo la teologia magistrale. Questo accadrà nel corso della seconda metà del secolo.

Questi due indirizzi riprendono lo scontro che c’era stato nel secolo precedente tra dialettici ed antidialettici, anche se in esso i primi si erano fatti portatori solo di vacue istanze di verbosità e di pericolose capziosità che potevano sovvertire il dogma. Con il nuovo materiale culturale a disposizione di cui diremo gli eredi dei dialettici possono muovere guerra a quelli degli antidialettici non per sovvertire il dogma ma per arricchirlo con mezzi rinnovati e in prospettive differenti.

Il fronte tradizionale è quello della teologia monastica, libera letterariamente, contemplativa e mistica, ed è esso stesso fervido di un grande rinnovamento, ma sempre in questa cornice che è quella dei Padri, pur in un sano pluralismo di scuole e centri di studi. Lo scopo di questa teologia è l’unione personale del monaco con Dio. Il suo mezzo la perfezione letteraria. Il fronte innovatore invece tende ad interrogarsi sulla funzione, sulla natura e sui mezzi della teologia. E’ una teologia dei chierici, quella appunto dei maestri. Ancora una volta, come tra Tertulliano e Taziano da una parte e Agostino Origene e Clemente dall’altra in un tempo lontano, la questione era se la fede fosse credibile perché assurda o perché ragionevole. Paradossalmente proprio i monaci ripresero la concezione agostiniana della fede come dono gratuito e naturalmente quella dell’uomo come mero contemplatore. Ma i maestri tennero viva l’istanza dell’Ipponense relativa alla conciliabilità tra fede e ragione.

Furono poi proprio i maestri a promuovere una vita cristiana che non si limitasse solo a disprezzare il mondo ma anche ad usare di esso in vista della propria santificazione.

Entrambi gli indirizzi hanno tuttavia la capacità di promuovere un umanesimo integrale, in cui nulla dell’attività umana è sacrificato, nulla della natura umana represso, perché, nell’ambito della armoniosa unità della cultura cristiana che domina incontrastata, ogni attività umana, ogni facoltà dell’uomo concorre all’edificazione della Città di Dio. La rigorosa unità del sapere è data dal primato della teologia su tutte le scienze, così come quella della società è data dal primato papale sui sovrani; entrambe sono specchio del primato di Cristo su tutte le cose, a Lui unite nel Suo Corpo Mistico.

Questo primato teologico non produce nessun fondamentalismo, nessun letteralismo: il sapere è coltivato nelle sue forme secondo le loro specifiche metodologie e finalità, le conoscenze contribuiscono ad una comprensione più esauriente del testo sacro.

Singolarmente, il XII secolo, che non ha figure grandi come quelle del XIII, ne ha tuttavia di più numerose. I centri di irradiazione del sapere teologico sono le scuole abbaziali di Cluny, Citeaux, Chartres e San Vittore, quelle cattedrali di Notre Dame di Parigi, di Reims e di York. Ovviamente, i nomi illustri dei sapienti sono quasi tutti francesi.

Come abbiamo detto, l’anima monastica della cultura del XII sec. origina una delle due tendenze basilari di essa. Questo rinnovato ruolo del monachesimo, che per buona parte del secolo sarà detentore del primato letterario oltre che di quello teologico, dipese dal fatto che il monachesimo stesso si era rinnovato, sia in alcune forme già da noi esposte, come quella dei Cistercensi, dalle cui fila uscì lo stesso Bernardo, sia in altre forme, non specificamente monastiche ma ad esse legate, di cui diremo in questa sede e che altro non sono che i Canonici Regolari, tra cui spiccano i Premostratensi. Questi Canonici impressero un nuovo tipo di impulso alla cultura teologica, avendo come loro scopo non solo la santificazione personale come i monaci, ma anche la predicazione, per la quale ovviamente si richiedevano altri mezzi. In ragione di ciò, come da una costola, dalla tradizione monastica, per mezzo dei Canonici, sorge l’indirizzo precisamente scolastico della cultura del XII secolo, specialmente tramite la Scuola di San Vittore, anche se nelle sue forme specifiche, esso è ancora legato al metodo patristico. Saranno soprattutto i chierici secolari, infatti, ad esprimere le forme razionalistiche della cultura del secolo, forme che come dicevo sarebbero prevalse in quello successivo, non senza una dura lotta fatta anche a colpi di censure e scomuniche delle quali i tradizionalisti si servirono contro i loro avversari.

La trasformazione avvenne soprattutto grazie all’allargamento delle fonti e all’aumento dei mezzi della teologia: accanto ovviamente alla Bibbia e ai Padri Latini, crebbero a dismisura i Padri Greci di cui i teologi occidentali potevano disporre nuovamente dopo secoli di silenzio: Origene, Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo, Massimo il Confessore, Giovanni di Damasco vengono tradotti e affiancati al già noto Dionigi l’Areopagita; codici greci affluiscono a sciami dall’Oriente e vanno ad annidarsi nelle biblioteche dei monasteri, dove chi conosce quella lingua può non solo attingere direttamente a ben più vasti contenuti, ma anche e soprattutto trarre ispirazione per una sorta di grecizzazione della cultura, espressa dalla tendenza di dare titoli ellenizzanti alle opere latine: didascalicon, eptateucon, policraticus, entheticus, metalogicon e dragmaticon, mentre alcuni autori, come Gilberto Porretano, mostreranno una attenzione ossessiva per gli autori di lingua greca.

Avviene così che la grecità torna in Occidente: la filosofia di Aristotele rappresenta il ritorno profano con il suo risorgere, la teologia dei Padri quello sacro con la sua riscoperta: è una riscoperta che permette ai teologi occidentali di vedere la Rivelazione nel quadro di una cosmovisione, di una sorta di epifania di Dio, di un processo di divinizzazione dell’uomo, che va oltre i limiti della visione soteriologica e staurologica che invece ne aveva dato la tradizione latina e in particolare Sant’Agostino.

Dalla filosofia dello Stagirita i teologi occidentali trassero l’uso, potenziato dalla riscoperta integrale di molte sue opere, della dialettica e della logica, così come è insegnato dall’Organon. Il metodo logico si sostanzia di sillogismi, di dimostrazioni, di analisi ben più sode di quelle desumibili dalla tradizione platonica e ben più serie di quelle che si potevano fare nel secolo precedente anche da parte di un genio come Anselmo. La mediazione intellettuale per questo connubio tra grecità classica e latinità medievale cristiana è svolta da Boezio, il cui linguaggio e la cui forma sono sempre più utilizzate, pur rimanendo ad Agostino il primato dell’utilizzazione in merito ai contenuti. Grazie sia a Boezio che ad Aristotele prende piede l’uso di esporre in modo sistematico, articolato, logico il patrimonio dottrinale, lasciando sullo sfondo l’economia salvifica e il suo sviluppo storico. La teologia diventa simile ad una metafisica classica greca.

In ordine ai metodi, la letteratura teologica del XII sec. si arricchisce della quaestio. Essa pone un problema ed implica una risposta tra più soluzioni possibili, ossia una determinatio, che si raggiunge con rigorose dimostrazioni. Le varie determinazioni alle questioni produce le sententiae, che sono antologizzate in modo ordinato in opere apposite così intitolate. La loro raccolta era iniziata sin dai secoli VII e VIII, era proseguita durante i secoli IX e X, ma ora diventa più imponente. Le numerose differenze di pareri tra i Padri o addirittura i mutamenti di opinione su singole questioni da parte dei Padri stessi sono oggetto di un grave problema, ossia dell’armonizzazione, che a volte viene ignorato esponendo con riverenza il pensiero antico senza troppi problemi. Ben presto vennero raccolte anche le sentenze dei maestri contemporanei. Rimane poi sempre in uso la lectio della pagina sacra, secondo la quadruplice esegesi letterale, allegorica, morale ed anagogica, e la collatio, anch’essa sulla Bibbia, ma a modo di conferenza.

Anche il linguaggio teologico si arricchisce e si precisa: proprio ripescando Boezio e conoscendo Aristotele, gli autori cominciano a parlare di sostanza, persona, essere, “ciò che è”, causa materiale, formale, finale ed efficiente, materia, forma, accidente, moto. Per valutarne la portata, si pensi che il termine causa rivoluziona la sacramentaria, andando ad indicare i segni stessi dei Sacramenti.

Ulteriore acquisizione capitale è la conquista di una nuova e definitiva epistemologia teologica. Gnosi e sapienza per i Padri, la teologia era da essi assimilata alla filosofia di cui era espressione in grado eminente, circondata dalla corte delle altre scienze; assimilata la filosofia in quest’epoca alla dialettica ed essendo questa irriducibile alla teologia, quest’ultima diviene un’arte, anzi l’arte delle arti, l’arte della fede. Così viene chiamata da Nicola di Amiens in un suo scritto per papa Clemente III (1188-1191). Essa riceve così le sue regole come ogni arte e, svolta importante, non è più mero strumento al servizio della Scrittura ma essa stessa mezzo per elaborare i contenuti della fede. Questa elaborazione può essere apologetica e polemica contro eretici, scismatici ed infedeli, ma anche costitutiva di nuove e feconde verità. Ciò che mancava ad Anselmo – e che ancora Abelardo non riuscì a raggiungere – alla fine del secolo era a portata di mano: le ragioni necessarie dell’intelletto della fede si costituivano in enunciazioni, definizioni, calcoli della probabilità e dimostrazioni di argomenti, secondo tecniche proprie.

Questi nuovi strumenti e questi nuovi temi, accanto a queste nuove fonti, producono ovviamente o utilizzano necessariamente nuovi generi letterari. Rimane ancora in uso il commento biblico: si realizza mediante la Glossa ordinaria a lato del testo o la Glossa interlinearis, ma ben presto anche attraverso le questioni, che dal XIII sec. diventano la parte più importante del commento stesso. L’oggetto di maggior commento è San Paolo, mentre marginale è l’AT, con l’eccezione dei Salmi.

La quaestio tuttavia ben presto comincia a vivere di vita propria, coerentemente col fatto che è un mezzo autonomo di indagine scientifica. Il lettore pone ai suoi studenti questioni specifiche per ogni punto importante del testo e fornisce le possibili risposte, attraverso vie deduttive ed induttive, spesso antitetiche tra loro. Questo metodo è quindi aperto e flessibile, sebbene rigoroso: non ha una sola risposta come l’interrogazione socratica, né un percorso necessitante ed inclusivo come la dialettica hegeliana, ma nemmeno onnicomprensivo come quella platonica, né si nutre di un dubbio metodico come quello cartesiano; è un metodo che in modo preponderante si costituisce come atto maggiore dell’intelletto della fede. Ogni questione è lo schema di un possibile articolo, mentre più articoli producono una Summa, una sorta di enciclopedia del sapere. Così alla metà del secolo nascono le Quaestiones come genere letterario indipendente dalla lettura e dal commento biblico, anche se ovviamente possono trattare sistematicamente di esegesi scritturistica.

Da esse germoglia la summenzionata Summa, che come genere è quello più propriamente sistematico della teologia, quello destinato a maggior fortuna. Esso nasce paradossalmente ancor prima di quello delle Quaestiones.

Vi è ovviamente ancora il genere omiletico, che si esprime sia con meravigliose antologie di sermoni patristici sia con forme nuove ed originali tra cui spiccano le creazioni di San Bernardo. Ancora qualche autore importante come Abelardo o Ugo di San Vittore adopereranno il dialogo, sulla scorta di Agostino. Infine il genere epistolare venne adoperato soprattutto dai Vittorini.

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE

Il maggior esponente della teologia del XII sec. e ultimo Padre della Chiesa nacque a Fontaines-lez-Dijon nel 1090 da nobile famiglia, che l’educò egregiamente nelle lettere e nella religione. Si fece monaco giovanissimo, nel 1112, a Cîteaux e persuase ben trenta suoi parenti, tra cui il padre e i fratelli, a seguirlo in quella forma di vita, mentre convinse la sorella Ombelina a monacarsi in July.. Contemplativo di attitudine, ornato di mirabili virtù, capace di rendere più aspra la già rigida regola cistercense sia per sé che per altri soggiogati dal suo carisma di precoce santità, seppe distinguersi anche nella vita attiva. In predicato di essere eletto arcivescovo di Genova o di Milano, fu invece scelto come Abate di Clairvaux, Chiaravalle, nel 1115, monastero da lui stesso fondato con dodici correligiosi. Nello stesso anno fu ordinato prete da Guglielmo di Champeaux (†1121), a cui rimase sempre legato. Si legò a Guglielmo di San Teodorico con vincoli di fraterna amicizia, discettando con lui sull’esegesi del Cantico dei Cantici. Si impegnò come nessun altro per diffondere e perfezionare la vita religiosa, sempre praticando eccelse virtù e convincendo moltissimi ad abbracciare la perfezione evangelica. Fondò sessantotto nuovi monasteri e nella sua abbazia, alla sua morte, aveva settecento monaci. Fondò a Roma il monastero dei SS. Vincenzo e Anastasio alle Tre Fontane, del quale nominò abate Bernardo Paganelli di Pisa, poi papa Eugenio III (1145-1153), a cui avrebbe dedicato il De Consideratione.

Fu incaricato di svariate missioni diplomatiche, politiche ed ecclesiastiche da Papi, Re, prelati, tra le quali spiccano in particolare quelle per la composizione dello Scisma del 1130 tra Innocenzo II (1130-1139) e Anacleto II (1130-1138) - nel corso del quale il suo apporto alla causa del primo fu fondamentale per l’affermazione di quel Papa, al cui II Concilio Lateranense del 1139 partecipò personalmente dopo aver percorso Francia, Germania, Italia e Inghilterra per persuadere il Corpo Mistico di Cristo a scegliere Innocenzo quale Pontefice legittimo -, per la condanna di Abelardo nel Concilio di Sens del 1145 dopo un diretto confronto con lui, per la predicazione della II Crociata (1145-1147) – per la quale ripercorre, andando ben oltre il mandato ricevuto da papa Eugenio, la Francia e la Germania- e di quella contro i Vendi (1147) – percorrendo ancora la Germania- per la predicazione contro gli eretici manichei e pauperisti diffusi in tutto l’Occidente, per la condanna delle eresie trinitarie di Gilberto Porretano nel 1148 nel Concilio di Reims sempre davanti a papa Eugenio. La sua eloquenza era infuocata e accompagnata da strepitosi miracoli. Egli fu sempre un infaticabile promotore della riforma dei costumi del clero, dei religiosi e del popolo, un evangelizzatore instancabile, un nemico implacabile degli eretici, insomma l’ultimo e più grande esponente del movimento riformatore iniziato da Gregorio VII.

Morì nel 1153 a sessantatré anni, dopo aver composto un dissidio tra l’Arcivescovo di Metz e il Duca di Lorena nella sua Abbazia, che spesso aveva dovuto lasciare nonostante l’amasse tanto, consunto dalle penitenze e dalla malattia. Era il 20 agosto.

Bernardo scrisse moltissimo e bene. Le sue opere sono raggruppate in tre classi: scritti oratori, trattati e lettere. I primi sono trecentotrenta Sermones, a loro volta suddivisi in quattro gruppi: ottantasei de Tempore, quarantatré de Sanctis, centodiciassette de diversis, ottantaquattro sul Cantico dei Cantici. Tutti o quasi erano rivolti ai monaci, per cui hanno una forma priva di euritmia e delle classiche divisioni, in quanto improvvisati, e perciò ricchi di lunghe digressioni; da essi emerge un pensiero profondamente meditativo, di idee elevate, con concetti chiari, caldamente apostolico e di fervore mistico ed ascetico, capace di fascinazione e costituente il vero accento dell’oratoria soda ed ardente di Bernardo.

I secondi sono, tra i maggiori, di argomento spirituale e i critici li considerano come diverse parti di una sola summa ascetica, sebbene si sappia che sono stati scritti in diverse circostanze. Il primo è il De Gradibus Humilitatis et Superbiae, composto tra il 1121 e il 1125; il secondo è il De Diligendo Deo, scritto nel 1126; il terzo è il De Gratia et Libero Arbitrio, redatto nel 1127; il quarto è il De Praecepto et Dispensatione, vergato intorno al 1140; il quinto è il summenzionato De Consideratione, messo su carta tra il 1149 e il 1153. Accanto a questi celeberrimi, si pongono altri trattati destinati a combattere gli abusi delle varie classi sociali del popolo cristiano o a promuoverne la santificazione: Apologia ad Guillelmum (1127 ca.), De moribus et officio episcoporum (1127 ca.), De Conversione ad clericos, De Laude Novae Militiae ad Milites Templi (1132-1136), particolarmente importante quest’ultimo quale miglior frutto della spiritualità delle Crociate e magna charta dell’Ordine templare. Vi sono poi trattati agiografici, teologici e liturgici, come il De Baptismo aliisque quaestionibus (1136-1140), il Contra Capitula Errorum Petri Abaelardi (1140), il Tractatus de Cantu, l’Officium Sancti Victoris, il De Vita Malachiae.

Le terze, ossia le Lettere, di vario contenuto (morale ascetico pratico), sono cinquecentotrentaquattro, tutte utili per la conoscenza del secolo di Bernardo e della sua personalità.

Vanno attribuiti a Bernardo anche diversi inni che, se forse non uscirono dalla sua penna, di certo si rifecero al suo pensiero, come il Jesu Dulcis Memoria.

Bernardo nelle sue opere coltiva amorosamente il culto dell’antichità cristiana prendendo a modelli Agostino, Gregorio ed Ambrogio. Teologo profondo, fu mistico capace di esporre dottrinalmente con una particolare spiritualità, adorna di tenerezza attraente, di forza insinuante e di soavità di carattere. Attinse la sua dottrina da uno studio costante e devoto della Bibbia, su cui costruiva la sua contemplazione, pur senza trascurare la filosofia. Perciò Bernardo insegnò che per giungere a Dio l’umiltà serve molto più della scienza intesa come speculazione razionale, della quale denunciò i falsi usi e i pericoli. Questa sua dottrina eminentemente spirituale fu potente e suggestiva, ed è in essa che va sintetizzata ed intesa il suo pensiero. Per tutte queste ragioni fu detto Doctor Mellifluus ed esercitò un’influenza sulla pietà della Chiesa d’Occidente pari a quella di Agostino, tanto che tutta l’ascetica successiva ha risentito del suo genio ed è stata animata dal suo pensiero. Lo stile di Bernardo è caratterizzato da elevati pensieri, sentimenti delicati e dall’esasperazione della battaglia spirituale, che piegano la parola ad adattarsi ai fini perseguiti.

Bernardo fu un difensore ed esaltatore dei valori tradizionali, avverso alla dialettica, all’indirizzo speculativo, pugnace contrastatore delle tendenze razionalistiche abelardiane e porretane, indefesso assertore dell’elemento mistico nella relazione con Dio e nella Sua conoscenza; la sua teologia non fu tecnica o sistematica, ma arricchita dalla sua forza oratoria e dalla sua personale ed ascetica vocazione mistica. Bernardo predilesse la consuetudine teologica perché la equiparò alla dottrina certa, faticosamente raggiunta in secoli di lotte e travagli, mentre avversò la novità proprio perché priva di questi crismi e possibile foriera di confusione. Al servizio della consuetudine pose la sua eccezionale personalità e le sue doti superbe, consapevole di essere strumento di Dio per una singolare battaglia e col solo limite di non saper apprezzare quanto fioriva al di fuori del mero campo della tradizione patristica. Fedele al magistero del suo amato Agostino, Bernardo mette al centro del suo pensiero due elementi: l’anima e Dio, declinandoli quale uomo e Cristo, il primo redento e chiamato alla felicità, il secondo Redentore e datore di quella stessa felicità. In subordine ad essi, Bernardo contempla la Chiesa, della cui Comunione dei Santi il singolo cristiano fa parte, e la Vergine Maria, perché solo tramite Lei si giunge a Gesù, come suggerisce lo scultoreo motto del Padre: Ad Jesum per Mariam.

In antropologia teologica Bernardo ha svolto una completa trattazione, soprattutto nel De Gratia et Libero Arbitrio, dove sviluppa anche temi psicologici oltre che antropologici propriamente detti, ma anche nel De Consideratione e in vari sermoni. In quanto creato da Dio per puro amore, dell’uomo in quanto tale Bernardo ha una considerazione altissima, in virtù dei doni naturali ricevuti dal Creatore, non ultima la ragione, e lo pone al di sopra di ogni creatura, invitando i cristiani ad essere consapevoli della grandezza del valore e della dignità della quale essi sono partecipi, per le quali sono immagine e somiglianza di Dio. Bernardo considera anima e corpo come due sostanze differenti, sebbene unite. Dell’anima, proprio la libertà è l’immagine di Dio, come avevano insegnato Agostino e Gregorio di Nissa, per cui senza di essa l’uomo non solo non sarebbe nobile, ma nemmeno uomo. Passando a trattare specificamente il libero arbitrio, ossia quella che lui chiama la libertà dalla necessità, Bernardo asserisce che esso non è mai stato perso dall’uomo, nemmeno dopo il Peccato di Adamo, né mai viene perso e che fa sì che egli sia superiore ad ogni animale. Tuttavia il Santo sa bene che dopo il Peccato la libertà è perduta e il libero arbitrio monco, tanto che senza la Grazia non può essere esercitata la prima e portato a compimento il secondo. L’uomo dopo il Peccato originale non è più simile a Dio ed è in tale decadenza che non può che dolersi della sua stessa umanità, non in quanto alla natura, ma alla condizione, povera, nuda e misera. L’uomo piange di esser nato, si lamenta di com’è, della brevità della vita e di come essa sia piena di miserie, timori e pianti, e soprattutto si sgomenta di come sia solo dinanzi alla morte, alla Salvezza e allo stesso Dio. Il pianto è la prima voce che l’uomo emette e le sue gioie sono sempre fugaci e seguite da dolori, tanto che, se non avesse la speranza di salvarsi con Cristo, per lui la vita sarebbe come l’inferno stesso. Colpisce l’accento esistenzialista di questo pensiero di Bernardo, Sartre ante litteram e con la grazia della Fede.

Grazie alla Salvezza operata da Cristo, però, l’uomo può liberarsi da questa caterva di mali e acquistare una triplice libertà: dal peccato, dalla miseria e dalla morte, entrando nella vita e nella gloria. Il lavoro ascetico consta proprio della liberazione dal peccato col sostegno preveniente e concomitante della Grazia; in coloro che più duramente compiono questo alto ufficio Dio può degnarsi di operare già da quaggiù la liberazione dalla miseria, mediante la contemplazione. L’ascetica e la mistica restaurano non solo l’immagine di Dio nell’uomo, che in realtà non è andata mai persa, ma la somiglianza con Lui, intesa come contemplazione e unione. La collaborazione della Grazia con la natura fa sì che ogni atto buono, simultaneamente e indivisibilmente, è tutto opera della prima nella seconda.

Sebbene la cristologia di Bernardo non sia sistematica, essa è il punto di arrivo della sua antropologia, anzi di tutta la sua vita intellettuale e spirituale: egli afferma che tutta la sua filosofia consiste nel conoscere che Cristo è ed è stato Crocifisso. L’obiettivo è conoscere Cristo per imitarlo, per cui ancora una volta la sua è una dottrina mistica e non dogmatica, che vuole nutrire l’anima con i misteri del Salvatore e non approfondirli. A Bernardo interessa la dolce memoria di Cristo per crescere nell’amore e nell’unione con Lui. Cristo è il modello perfetto per il cristiano e per il monaco in particolare: solo chi guarda a Lui ha una via sicura da seguire nelle tempeste della vita interiore. L’umiltà dell’Incarnazione, l’obbedienza della Passione, la carità verso Dio Padre nell’Ascensione sono i modelli che Gesù ci dà delle virtù monastiche per eccellenza.

Nel De Diligendo Deo il Padre propone i misteri di Cristo nella Passione, nella Resurrezione e nell’Ascensione come oggetto della meditazione umana, così che sia possibile la loro imitazione che permette di ascendere al Cielo con sicurezza. Proprio perché è al Cielo che l’uomo deve ascendere e proprio perché Gesù è già là, Bernardo medita con particolare fervore e frequenza su questo mistero, considerandolo come capace di invogliare a raggiungere il Signore e di far capire che le realtà di questo mondo sono solo preparatorie alla dimensione finale dell’esistenza, quella eterna e celeste. Tuttavia nessuno può pensare di giungere alla Gloria di Cristo senza aver percorso la Sua Passione, sopportando i dolori della vita ma soprattutto meditando frequentemente su quelli di Cristo. Chi li contempla non può non essere ferito d’amore per Gesù. La memoria di Cristo è la condizione per avere un giorno la Sua presenza.

Da questa cristologia discende una ecclesiologia coerente: il Dottore considera la Chiesa sia in modo somatico, quale Corpo di Cristo, sia in modo politico, quale Gerusalemme celeste e Città di Dio, sia in modo sponsale, come Sposa di Cristo, ma quest’ultimo modello è quello più confacente alla sua sensibilità. Infatti se la Chiesa è nel suo insieme la Sposa di Cristo, essa non lo è come mera somma di anime singole, ma come organismo mistico unito al suo Sposo come il Corpo è unito al Capo; ogni anima è di per sé sposa di Cristo in quanto in ciascuna vive tutta quanta la Chiesa se essa rimane nella Chiesa stessa, con la Grazia. Ossia ogni anima è sposa di Cristo perché membro della Chiesa sposa. Questa Chiesa è sposata a Cristo nella carità, ma solo in Cielo sarà solamente degli eletti: qui comprende anche coloro che non persevereranno e vi sono tra i suoi membri anche alcuni che ne fanno parte solo col corpo. A tutti i membri della Chiesa Bernardo addita un ideale di perfezione che comporta un severo sforzo ascetico, compreso al Papa. La Chiesa infatti è quaggiù essenzialmente militante, sia contro i nemici esterni sia soprattutto contro quelli interni, intesi primariamente come le forze del male che si agitano in ogni anima che quindi deve combattere la buona battaglia.

Sul Papa nel De Consideratione Bernardo scrive parole stupende, paragonandolo ad Abele, a Noè, ad Abramo, a Melchisedec, ad Aronne, a Mosè, a Samuele, a Pietro e a Cristo stesso. Ne esalta la missione legislatrice e pastorale universale, la guida dei fedeli e dei pastori medesimi. Ma proprio per questo l’Abate insiste sulla natura di servizio di questo ministero altissimo, che nulla ha da spartire con il dominio. Al Papa spetta di provvedere in ogni modo perché la Chiesa sia una Sposa sempre più adorna per il suo Sposo, ma soprattutto mediante il servizio alla verità, alla gerarchia e alla disciplina. Annunciare la verità a tutti i popoli, specie ai pagani, cosa dimenticata quasi completamente a quei tempi, ma anche difenderla dall’eresia; rispettare le competenze dei vescovi, senza sopraffarli e rispettando il loro ruolo nel Corpo di Cristo; far rispettare la disciplina della Chiesa, anche se questo è compito ingrato: queste tre sono le funzioni primarie del Papa. Per questo egli deve adornarsi delle virtù tanto quanto del piviale e della mitria: giustizia, santità, pietà, verità, fede, sapienza, capacità di guida, intimità con Cristo, casta custodia della Chiesa, capacità di ordinare il clero e di pascere i popoli, di insegnare agli ignoranti e di dare rifugio agli oppressi. Queste virtù sono descritte con immagini vivissime e di grande calore.

La mariologia bernardiana è conseguente anch’essa dalla sua ecclesiologia tanto quanto questa lo è dalla cristologia, ma è legata pure a quest’ultima. Bernardo vede nella Vergine Maria il prototipo della Chiesa e quindi il modello per ogni anima. Il Santo merita l’appellativo di Dottore mariano che gli è stato attribuito. Tuttavia, conformemente alla opinione comune dell’epoca, egli credette che la Vergine fosse stata santificata prima della Nascita ma dopo la Concezione, per cui non insegnò che quest’ultima fosse Immacolata; fu invece probabilmente assertore della verità dogmatica dell’Assunzione, mentre asserì senza mezzi termini la Mediazione Universale di Maria. Ella è la Madre di tutti e ciascuno dei cristiani, personifica la Chiesa nella sua funzione di generatrice delle anime, ma è anche la Corredentrice, perché ai piedi di quella Croce sulla quale bastava senz’altro il Figlio, fu chiamata perché il Nuovo Adamo non fosse solo come non lo era stato il Primo, fu chiamata per essere Mediatrice presso il Mediatore.

Nella ascetica e nella mistica Bernardo raggiunge le vette della sua teologia ed anzi è uno dei principali esponenti dell’una e dell’altra in tutta la storia del Cristianesimo. Nel De Gradibus come nel De Diligendo tratta di ascetica, nei Sermones sul Cantico della mistica.

Nel momento ascetico Bernardo raccomanda di separarsi da tutto quanto è mondano: averi, affari, occupazioni, che altro non fanno che affliggere lo spirito, straziare l’anima e perdere la Grazia. Raccomanda silenzio, raccoglimento, preghiera e studio, meditazione e riflessione. Questa è l’unica filosofia che va coltivata e che fa percorrere lestamente la scala dell’umiltà che porta a Dio. Perciò il monaco deve diffidare di scienza e filosofia. Spesso infatti il sapere è figlio di mera curiosità e la scienza diventa come la volontà di dominio, per cui bisogna allontanarsi da esse, scendere dai loro falsi monti, per ascendere su quello di Cristo. Diversamente, molti dotti, pur vincendo la sensualità, sono diventati servi della curiosità, e invece di capire per cosa sono fatti, si dedicano a studiare come sono fatte le cose. La considerazione deve avere come primo oggetto le virtù cardinali, unite tra esse dalla misura. Essa poi culminerà nella contemplazione di Dio.

Il momento mistico è fatto soprattutto di amore, perché la carità dà l’esperienza di Dio e lo stesso gusto di Lui, così da diventare fonte di conoscenza. Anima e Dio si amano e giungono alle nozze mistiche, il grado dell’unione mistica meglio descritto da Bernardo. In esso il Verbo è lo Sposo dell’anima, la visita, agisce in essa distruggendo ogni resistenza all’azione divina, la illumina, la infiamma, la trasforma, la unisce a Sé. Tuttavia solo in Cielo l’anima vedrà Dio come Egli pienamente è, per cui ancora essa ha bisogno della fede, sebbene molto le venga mostrato. L’anima in questa unione gode di grande pace e serenità, per cui canta a Dio un canto d’amore, senza parole, senza suono, fatto di cuore, di gioia, di armonia di sentimenti con Lui, di espressione dei loro ineffabili amplessi spirituali e della mutua e amorevole corrispondenza dei loro desideri. In altre parole, la vita cristiana è tutt’uno con la mistica e questa è una rieducazione all’amore, un amore verso Dio per Se stesso e non per una ricompensa, sebbene questa arriverà per la liberalità divina. L’amore mistico porta l’anima ad amare se stessa per amore di Dio, per cui Egli può, come dicevamo, unirsi perfettamente ad essa nelle mistiche nozze.

In questo percorso vale la pena di evidenziare alcuni temi. Il primo che ci suggestiona è l’elogio dell’umiltà: ad essa Bernardo eleva un monumento alto come le guglie delle cattedrali gotiche di cui propugnava l’elevazione in tutta Europa. Era infatti l’unica ragione per cui il cistercense credeva che valesse la pena innalzarsi. Infatti solo nell’abbassamento dell’humilitas si diviene uguali a Cristo. Un metodo democratico, alla portata di tutti, che però seleziona una nuova aristocrazia dello spirito, nata dalla dura ascesa dei gradini di questa virtù, che sono ben dodici, come già insegnava Benedetto da Norcia. Solo l’uomo veramente umile scopre la verità, che è riconoscere la propria miseria, e solo essa ci fa compatire il prossimo nelle sue mancanze e genera la carità per esso. E la carità apre l’anima al pentimento e alla purificazione. Così, libera dalle cose del mondo – ma senza disprezzarlo in sé stesso, come invece facevano i manichei – l’anima cristiana, ovunque si trovi, può elevarsi alla contemplazione, fino all’estasi, che la fa perdere in Dio, quasi deificandola. In questa ineffabile dottrina Bernardo sublima la sensualità propria di tutti i mistici, accendendo una fiamma viva d’amore che arderà in letteratura fino all’opera omonima di Giovanni della Croce. Infatti, la fenomenologia psichica di tale ascesi è identica a quella di una passione amorosa, e il Dottore ne è perfettamente consapevole, specie quando attribuisce la felix unio all’amore, inteso come impetuosa, virile ed irresistibile volizione. E come tutti i grandi amori esso è un tormento, destinato a placarsi solo nell’eternità, e non può essere comunicato, in quanto la piena del cuore forza, fino a divellerla, la porta del linguaggio.

Al servizio di questa elaboratissima mistica Bernardo, che era antidialettico ma non antiretorico, mise il suo stile elegantissimo, degno del rinnovato fervore umanistico della sua epoca, e l’arsenale inesauribile delle sue esperienze parapsicologiche. Lungi tuttavia dal credersi degno delle sue estasi, Bernardo giustifica teologicamente questo fenomeno, partendo addirittura dalla Creazione come atto di amore libero, in cui Dio fa l’uomo a sua immagine, perché libero nell’arbitrio. La volontà umana è una scintilla dell’amore di Dio, e l’uomo ama il Signore naturaliter. Amato da Dio, l’uomo può e deve amarsi, e questo amore coordinato, dell’uomo verso Dio che si ama da sé, e verso se stesso amato da Dio, è la vera unione con Lui.

Tale unione è infranta dal peccato, che è l’amore di qualcosa oltre il volere di Dio, non per Lui. L’uomo si rende dissimile da Dio. Ma questi continua ad amarlo, e con il Cristo Redentore lo rimette in condizione di amarLo e, in Lui, di amare ogni cosa. In quest’ottica l’uomo si rieduca all’amore continuamente per opera di Dio, maestro interiore di carità. Tutta la vita è mistica, perché divina le cose scorgendovi dietro la forza misteriosa della carità, e in essa vi è tutto il senso dell’elevazione dello spirito, che non ha bisogno di estasi o miracoli. Per questa storia d’amore coronata dal successo, l’uomo ama Dio non per la ricompensa ma per sé, e Dio, che lo riama, lo vuole in eterno accanto a sé. Tutto l’impianto giuridicizzante della vita cristiana ordinaria è ripensato magistralmente. Ed è a questo punto che l’anima, amando Dio per sé e sé stessa in Dio, può da questi essere pienamente amata, anche in senso metafisico, meritando il sublime tocco dell’estasi. Non dunque questa esperienza come frutto di una segregazione fisica dal mondo, ma come una separazione dalla propria natura corrotta. Il mistico bernardiano è a suo agio nel monastero come tra i crociati o tra i templari o tra gli architetti gotici; egli è unito a Dio oltre le cose, sia che dissodi le terre col saio bianco dei cistercensi, sia che combatta gli Slavi sul Baltico, sia che predichi agli eretici, e può liberamente parlare con tutti con umile senso di uguaglianza, dall’Imperatore, ai Re, al Papa.

IL BEATO GUGLIELMO DI SAN TEODORICO

Bernardo fece scuola, nel senso che ebbe discepoli ed amici che ne continuarono ed integrarono l’insegnamento lungo le tracce che egli aveva seguito: fedeltà alla patristica, alla tradizione benedettina, alla teologia di sempre, spiritualità mistica e opposizione alla teologia dei maestri tipo Abelardo e Gilberto Porretano. Furono discepoli del Padre Guglielmo di San Teodorico, Isacco della Stella, Aelredo di Rielvaux. Ad essi si può accostare Ruperto di Deutz.

Guglielmo di San Teodorico o di Saint Thierry fu il biografo di Bernardo oltre che suo amico, ma anche il teologo che meglio di tutti seppe attingere al ritrovato patrimonio patristico greco, realizzando un rinnovamento nella continuità. Egli nacque a Liegi intorno al 1085, studiò a Laon e si impratichì sia di Agostino che di Scoto Eriugena. Lasciò gli studi per il monachesimo, entrando nell’abbazia di San Nicasio di Reims. Qui si perfezionò in teologia biblica e patristica. Nel 1118 conobbe Bernardo, che avrebbe voluto subito seguire come cistercense, ma ne fu dissuaso. Nel 1119 Guglielmo divenne abate di San Teodorico a Reims. Nel 1135 poté realizzare il suo sogno, diventando semplice monaco cistercense a Signy, sempre presso Reims. Combattè Abelardo componendo la Disputatio adversus Petrum Abaelardum e Guglielmo di Conches scrivendo l’Epistola de Guillelmi erroribus; si dedicò alla stesura di importanti opere teologiche: il De Corpore et Sanguine Domini contro la concezione eucaristica di Ruperto di Deutz, il De Natura Corporis et Animae (dove riporta estratti di Agostino, Gregorio di Nissa e Claudiano Mamerto), l’Expositio in Epistolam ad Romanos (che combina come fonti Agostino, Ambrogio, Origene ed altri), il De Natura et Dignitate Divini Amoris, lo Speculum Fidei (di carattere agostiniano) e l’Enigma Fidei (degno di nota perché tratta egregiamente della Santissima Trinità, seguendo Atanasio, Basilio e Dionigi, ma anche utilizzando Platone, Plotino e citazioni di Orazio, Virgilio ed Ovidio). Una menzione più approfondita merita l’Expositio super Cantica Canticorum, perché in essa la dottrina agostiniana dell’anima immagine di Dio in quanto dotata di memoria, ragione e volontà viene approfondita da Guglielmo in modo personale. Sempre in questa opera il Beato si sofferma sulla mediazione del Verbo e sulla teoria della conoscenza di Dio secondo l’amore, riprendendo l’insegnamento di Gregorio di Nissa. Non mancano in essa anche reminiscenze di Agostino e Origene. Guglielmo scrisse anche delle Sententiae oramai perdute sulla scia di Boezio. L’ultima opera di Guglielmo, considerata il suo testamento spirituale, è l’Epistola ad Fratres de Monte Dei, o Epistola Aurea, i cui destinatari sono i certosini di Mont-Dieu. Condensandovi tutta la sua esperienza e tutta la sua riflessione, Guglielmo sintetizza in quest’opera tutta la spiritualità e la teologia del monachesimo, scrivendo l’opera più illustre mai realizzata su tale argomento e mostrando anche la sua conoscenza delle lettere profane, specie di Seneca. Morì l’8 settembre del 1148.

Guglielmo rifiuta il razionalismo e si rifà alla tradizione patristica greca di Origene, Gregorio di Nissa, Atanasio, Didimo il Cieco, Basilio Magno, Gregorio di Nazianzo Evagrio Pontico, Giovanni Crisostomo e Dionigi commentato da Eriugena, e fa entrambe le cose in modo tanto marcato da renderle le note specifiche del suo pensiero. La teologia deve attingere alla Bibbia e alla Tradizione, non alle opinioni dei teologi e dei filosofi; in caso di disaccordo tra i testimoni tradizionali, essi vanno analizzati proprio per lasciar emergere meglio la dottrina, lasciando cadere le proprie opinioni. Guglielmo insegna che bisogna assentire con purezza e semplicità di fede alle verità rivelate, senza esitazioni o dubbi; poi si deve consegnare allo Spirito Santo tutto il nostro spirito onde ben comprendere quello che si crede, così che si realizzi non l’ambizione della ragione ma l’attaccamento dell’amore pio e devoto. Questo è il vero metodo teologico da contrapporre alla mera analisi razionalista e relativista di Abelardo, il metodo che unisce conoscenza ed amore.

Secondo Guglielmo l’uomo ha tre generi di teologia da praticare: quella che scaturisce dalla semplice fede, quella che deriva dalla lettura biblica e quella di pensare secondo la fede che conduce essa stessa ad una esperienza personale nutrita di sapienza mistica.

In antropologia Guglielmo segue Origene distinguendo nell’uomo corpo anima e spirito. Nell’anima distingue la funzione vegetativa da quella razionale, e chiama quest’ultima animo. In ragione di ciò il percorso ascetico deve trasformare l’anima in animo e l’animo in spirito. Il primo stadio è quello in cui l’anima, rovinata dal Peccato, aderisce alla fede ricevendola dall’esterno e solo in ispirito di obbedienza, perché solo così può sottrarsi alla malefica influenza della carne. Il secondo stadio è l’impratichirsi nell’obbedienza della necessità, fatta senza comprendere, per cui l’animo domina progressivamente il corpo. Il terzo suppone una obbedienza di carità, che avviene nello spirito, dove opera lo Spirito Santo, perché è la parte più alta dell’uomo. Così il discernimento razionale non è più necessario e viene sostituito dall’ammaestramento dello Spirito stesso, per il Quale si ama ciò che Dio ama e lo si vuole come Lui lo vuole. La scienza è diventata sapienza contemplativa.

Nella teologia trinitaria Guglielmo descrive il mistero come i Greci, sottolineando la primazia del Padre, dal Quale è generato il Figlio e da Cui, insieme a Quest’ultimo, procede lo Spirito. Uno Spirito che ha dunque una Doppia Processione, che però suppone che proprio il Padre abbia dato al Figlio il potere di far procedere da Sé come il Suo Genitore lo Spirito Santo, per cui Egli deriva dal Padre sia direttamente che tramite la Seconda Persona Divina. Questa Doppia Spirazione manifesta l’Unità essenziale delle Ipostasi. Della loro serie di relazioni Guglielmo non dà una lettura esemplificata sulla psicologia umana ma fornisce una lettura agapica: è l’amore che fa generare il Padre, che fa nascere il Figlio e che fa spirare da Entrambi lo Spirito. Guglielmo, che pure ascende tanto in altro, non può che concludere sottolineando l’ineffabilità di questo meraviglioso mistero, come avevano fatto Agostino e Dionigi.

Nella teologia spirituale Guglielmo sostiene che la ricerca di Dio deve essere guidata dalla scienza teologica, ma che questa serve solo nella misura in cui aiuta il perfezionamento. Questa spiritualità è rigorosamente monastica in quanto solo il monaco può dedicarsi totalmente a Dio. Ricalcando lo schema origeniano che abbiamo già fornito, Guglielmo, spirito più filosofico di quello di Bernardo, dipende più di lui dalla dottrina della reminiscenza di Agostino. Dio, infatti, ha naturalmente inserito nell’uomo l’amore per Lui. Solo il peccato distoglie l’uomo da questo amore. Il monachesimo è proprio lo sforzo di ricondurre l’amore dell’uomo a Dio. Il metodo da seguire impone prima che l’anima conosca se stessa come imago Dei, nel suo pensiero stesso (mens). In essa, Dio ha lasciato la sua impronta, perché lo ricordiamo sempre. E’ la memoria, segreta, che genera la ragione; da entrambe procede la volontà. In effetti, la memoria è memoria di Dio, la ragione è lo sforzo di comprenderlo alla sua stessa luce, la volontà il conato verso di Lui. Questa generazione delle facoltà dello spirito ricalca l’eterna genesi della Trinità. Senza il peccato, sarebbero solo per Dio. Col peccato, si pervertono, e possono essere redente solo dalla grazia. Così restaurate, esse, progredendo nella conoscenza d’amore, rendono l’anima sempre più uguale a Dio stesso. Essere immagine di Lui implica infatti la conoscenza di Lui. Guglielmo dice che l’uomo deve dapprima obbedire per sottomettere la sua animalità, indi comprendere i contenuti della fede per realizzare la sua razionalità, infine contemplare il Volto di Dio così da esserne trasformato sempre più profondamente; questo accade per opera dello Spirito Santo e realizza la parte più alta dell’uomo. Questa conoscenza spirituale ci fa comprendere il piano di amore di Dio su di noi, ci fa entrare nei Suoi pensieri, ci incammina nella sapienza spirituale che culmina nell’unità dello spirito con Lui. Lo Spirito Santo si intronizza in noi e ci dona la conoscenza di Dio basata sull’amore. L’amore stesso è conoscenza, dice Guglielmo. Infatti Dio conosce Se stesso e per questo Si ama, e Si ama conoscendosi, e ciò avviene tra le Persone Divine; orbene, l’uomo unito a Dio Lo conosce e perciò stesso Lo ama, Lo ama e perciò stesso Lo conosce. Viene dunque a vivere come Dio stesso vive, per Sua grazia.

Si può concludere a proposito di Guglielmo dicendo che egli non fu solo un discepolo di Bernardo, ma un pensatore originale, sobrio, possente, erudito ed autonomo.

IL BEATO ISACCO DELLA STELLA

Nacque in Inghilterra tra il 1110 e il 1120. Si trasferì in Francia per seguire le lezioni di Abelardo, Gilberto Porretano e Guglielmo di Conches. Conobbe San Bernardo e Guglielmo di San Teodorico, subendone l’influsso. Insegnò forse a Chartres nel 1140. Nel 1142 accompagnò Gilberto Porretano a prendere possesso della sua diocesi di Poitiers e insegnò in quella città. Nel 1145 si ritirò nel monastero della Stella vicino a Poitiers, come cistercense. Nel 1147 ne divenne abate. Partecipò a tutte le dispute della sua epoca in materia teologica e sostenne San Thomas Becket (1162-1170) contro Enrico II Plantageneto (1152-1189) che, per rappresaglia, riuscì a farlo deporre dall’abbazia e a mandarlo in esilio sull’Isola di Ré. Non sappiamo quando morì.

Isacco scrisse cinquantaquattro sermones, che contengono il grosso della sua teologia; redasse il De Anima, in cui espose la sua antropologia, simile a quella di Guglielmo di San Teodorico; compose il De Canone Missae, in cui spiega il canone della Messa; vergò anche un commento al Cantico dei Cantici, un’esposizione del Libro di Rut e un De Sacramento Altaris.

Come Guglielmo e come Bernardo Isacco segue i Padri e tra essi particolarmente Agostino, Dionigi e Scoto Eriugena. Il suo modulo teologico è quello monastico. Isacco rifiutò consapevolmente la nuova teologia, perché l’aveva studiata e ne aveva constatato il cattivo razionalismo. Isacco non fu un sistematico, pur avendo pensiero coerente e uniformemente influenzato da Dionigi e da Eriugena.

In antropologia Isacco segue l’esemplarismo: l’uomo è immagine di Dio perché Lo conosce e Sua somiglianza perché può vivere come Egli comanda. Ciò è conforme alla Patristica greca. Nella metodologia teologica egli sottolinea la natura apofatica della teologia stessa, alla luce di Dionigi, e dice che Dio è una realtà metaessenziale della quale qualsiasi definizione è valida sino ad un certo punto, di cui la definizione è meno valida della negazione e la cui denominazione avviene più proficuamente con parole nuove sino a sfociare nel silenzio. Il linguaggio su Dio è un linguaggio di analogia e di sovraeminenza, forgiato soprattutto con il prefisso “super”. Dio è fonte, principio, causa di tutto, non è sapienza, né misura, né peso, è oltre ogni giustizia, bontà e bellezza.

Nella teologia trinitaria Isacco ricalca lo schema agapico di Guglielmo di San Teodorico, ma sottolinea la gioia che accompagna e causa le Relazioni trinitarie come fonte stessa dell’amore: il Padre gioisce generando, il Figlio ad essere generato ed entrambi si amano con gioia facendo procedere da Sé lo Spirito Santo. Sempre in chiave gaudiosa viene letta da Isacco la Creazione, perché Dio ha la gioia di amare gratuitamente ed in particolare di creare una natura razionale che a sua volta può gioire amandolo e sapendo di essere amata da Lui. E’ la natura angelica ma anche quella umana.

Nella sua ascesi, Isacco segue ancora la via del gaudio: la natura corporea serve all’istruzione di quella razionale; lo spirito razionale è fatto per gioire di Dio e solo di Dio e in Dio di ogni cosa. Razionale per cercare Dio, concupiscibile per amarLo, irascibile per opporsi a chi vuole separarlo da Lui, l’uomo è tutto quello che è in vista del godimento celeste. Le virtù, praticate in questo spirito, si fondano sull’umiltà, si perfezionano nella giustizia e sfociano nella carità. La Redenzione stessa è opera di divinizzazione dell’uomo, voluta dalla Trinità per capovolgere la situazione di odio in cui egli era precipitato verso Dio. E’ questo un motivo tipicamente greco, quello della divinizzazione umana. L’uomo è condotto dallo Spirito al Figlio ma il Figlio lo porta al Padre, per questo quando il Figlio ascende è mandato lo Spirito. Isacco dice icasticamente che il Padre bacia l’uomo con la Sua bocca, in quanto la bocca del Padre è il Figlio e il Suo bacio è lo Spirito. Infatti la carità è infusa in noi mediante lo Spirito che ci è donato.

SANT’AELREDO DI RIEVAULX

Sebbene sia morto dopo il terminus ad quem che ci siamo dati per questa esposizione patristica, ossia dopo il trapasso di San Bernardo, Aelredo rimane un personaggio importante della scuola bernardiana e per completezza ne parliamo. Nacque ad Hexham verso il 1110, in Inghilterra, da una famiglia nobile. Studiò i classici nella scuola di grammatica della sua città e poi si recò presso il re di Scozia San Davide I (1124-1153), alla cui corte divenne capitano di giustizia. A ventiquattro anni abbandonò il secolo ed entrò nell’abbazia cistercense di Rievaulx, fondata nel 1132, ossia pochi anni prima. Per sette anni fu dedito allo studio, all’ascesi e al lavoro. Nel 1142 fu inviato a Roma per dirimere la controversia nata in seguito all’elezione simoniaca del nuovo Arcivescovo di York. Nel viaggio conobbe San Bernardo, che lo esortò a scrivere quello che sarebbe diventato il suo capolavoro, ossia lo Speculum Caritatis. Divenne poi maestro dei novizi a Rievaulx, abate di Revesby e infine di Rievaux stessa. Sotto la sua guida l’abbazia divenne una delle più celebri dell’isola, con centoquaranta monaci e cinquecento conversi. Evangelizzò i Pitti e stremato dalle malattie che continuamente lo tormentarono morì nel 1167.

Aelredo era considerato il San Bernardo inglese. Fu scrittore fine e fecondo, di schietta spiritualità, sensibile al fascino di Cicerone e di San Bernardo, capace di profonda penetrazione psicologica e di elevato sentire. Scrisse opere teologiche e storiche. Le prime comprendono lo Speculum Caritatis e il De Spirituali Amicitia, che rispettivamente trattano dell’amore di Dio e del prossimo, il De Institutione Inclusarum, che è una regola per le claustrali, il Dialogus de Anima, che sintetizza la dottrina agostiniana sull’anima, i Sermones de Oneribus, il De Jesu Puero Duodecim e alcune Epistolae. Le seconde comprendono una Vita Sancti Niniani, il De Sanctis Ecclesiae Hagulstadensis, il De Bello Standardii e la Vita Sancti Eduardi Confessoris.

Il nostro Santo era un umanista, sia per la conoscenza dei classici che per l’attenzione ai temi della vita dell’uomo, alla sua psicologia e ai suoi sentimenti. Moralista autentico, concepì la sua letteratura monastica come un processo di educazione e di edificazione della vita interiore di coloro che volevano intraprendere la via del chiostro. Tuttavia i suoi interessi sono e rimangono cristiani, legati a temi pratici e morali. Aelredo è il teologo della carità. Ma questa carità si nutre di una umanità comprensiva e profonda. La fondazione della virtù dell’amore avviene su di una concezione agapica della Trinità, affine a quella di Isacco della Stella. La carità è l’essenza stessa di Dio, quindi le tre Persone sono legate da tre distinte relazioni di amore. Questo amore che il Padre ha per il Figlio e il Figlio per il Padre è il Loro abbraccio, la Loro quiete, la Loro felicità. Ed è esso stesso Persona, ossia lo Spirito Santo. Lo chiamiamo così perché ha quello che accomuna il Padre e il Figlio, ossia è Spirito ed è Santo come Loro, ne è, appunto, la Carità mutua e l’Unità consostanziale.

Dio ha creato l’uomo a Sua immagine, ma l’uomo ha usato male la sua libertà e ha deturpato questa immagine. La sua restaurazione avviene mediante Cristo e il Suo amore, assolutamente disinteressato, pura amicizia. Essa è, come per Cicerone, anche per Aelredo un accordo su tutte le cose umane e divine accompagnato da benevolenza e carità, ma ancor di più è una realtà divina, in quanto essa è innanzitutto una qualità divina. Chi rimane nell’amicizia rimane in Dio e Dio in lui. E come si fa ad essere amici di Dio? Semplicemente volendo o non volendo una cosa in base a quello che Lui vuole o non vuole. E come può avvenire tale conformità? Tramite l’effusione dello Spirito Santo nelle nostre anime. Aelredo distingue tre stadi dell’amicizia umana con Dio: il risveglio, la purificazione e la tranquillità, ognuna delle quali è accompagnata da una visita di Dio stesso, il Quale la prima volta converte, poi mortifica e infine beatifica. Perciò prima ci si converte, poi si è messi alla prova e infine si ottiene la dolce devozione. Nella terza visita lo spirito umano si lascia andare sicuro e generoso nell’abbraccio divino, così che si solleva dalla carnalità e può contemplare Gesù Cristo, la Sua Luce, che gli svela l’essenza divina e lo fa entrare nel Sabato del suo Signore. Qui l’uomo possiede Dio, perché Dio stesso lo possiede. Perché l’uomo si innamori di Dio Aelredo come Bernardo gioca la carta della sensibilità, presentando in modo amabile i misteri della vita di Gesù sia nei Sermoni che nel De Jesu Puero.

IL VENERABILE RUPERTO DI DEUTZ

Non fu discepolo di Bernardo ma rappresentò egregiamente quanto lui la linea antidialettica, essendogli affine per sensibilità e visione teologica. Nacque a Liegi tra il 1074 e il 1080, fu oblato di Saint Laurent della sua città e poi sacerdote nel 1106. Nel 1120 venne chiamato a fare l’abate a Deutz presso Colonia. Si impegnò in polemiche con Anselmo di Laon, Guglielmo di Champeaux e Abelardo. Morì nel 1129.

Scrisse il De voluntate Dei, il De omnipotentia Dei, i Commentaria in Canticum Canticorum, il De divinis officiis, il De Victoria Verbi Dei, il De Gloria et Honore Filii Hominis super Mattheum (del 1127), il De Trinitate et operibus eius (scritto tra il 1112 e il 1116), il De glorificatione Trinitatis et processione Spiritus sancti (1128), un commento all Regola benedettina e il De Vita Vere Apostolica.

Ancora più energico di Bernardo nel difendere la tradizione teologica, Ruperto, rifiutando ogni razionalismo, fu assertore del biblicismo, ossia della fondazione meramente biblica della teologia. Tuttavia Ruperto conosceva tanto bene la Scrittura e tanto ampiamente le scienze che potevano interpretarla e il modo in cui era stata commentata che non correva il rischio di essere rozzo o povero di concetti, anzi si opponeva a chi sosteneva che nel campo esegetico non vi fosse più nulla da dire. Solo le novità profane vanno rigettate, adattando le arti liberali allo studio sacro, alla luce dell’unica ed eterna fede. Le ragioni necessarie, i ragionamenti e la dialettica sono rigettate, il sillogismo considerato soverchio, la dialettica di Abelardo è considerata mera curiosità, mentre rimangono sovrane il beneplacito divino e la meditazione d’amore. Ruperto accetta la lettura allegorica della Bibbia ma non l’argomentazione, accetta i sensi spirituale, morale ed anagogico della Parola ma non l’analogia: il monaco trova nelle figure bibliche tutta la realtà celeste esattamente come è già in Cielo pur vivendo nella materialità del chiostro. La vita claustrale poi è la più perfetta perché è la vita degli Apostoli, come dimostra nello scritto De Vita Vere Apostolica. La Chiesa nacque come vita monastica, i Padri del Monachesimo diedero solo delle regole e i principi della perfezione monastica, intesa come vita comune, povertà, obbedienza, castità, furono i principi della vita degli Apostoli. Perciò l’unico rinnovamento possibile viene, per la Chiesa dei suoi tempi, dalla restaurazione e diffusione di questa vita.

Ruperto intervenne nella controversia eucaristica e si fece deciso sostenitore del realismo eucaristico e soprattutto nel De divinis officiis affermò la continuità tra il Corpo del Verbo incarnato di Cristo e quello presente nelle Specie eucaristiche del pane e del vino, usando il termine caratteristico “impanazione”. Questo termine fu osteggiato da Guglielmo di San Teodorico, perché considerato inadatto ad esprimere l’idea di cambiamento di sostanza che avviene nel Sacramento.

Un’altra controversia nella quale l’abate di Deutz fu coinvolto riguarda il problema della conciliazione della bontà e dell’onnipotenza di Dio con l’esistenza del male. Se Dio è onnipotente e buono, come si spiega la realtà del male? Ruperto reagì alla posizione della scuola teologica di Laon, che insegnava che Dio permette il male senza approvarlo e, dunque, senza volerlo. Ruperto, invece, parte dalla bontà di Dio, dalla verità che Dio è sommamente buono e non può che volere il bene. Così egli individua l’origine del male nell’uomo stesso e nell’uso sbagliato della libertà umana. Quando Ruperto affronta questo argomento, scrive delle pagine piene di afflato religioso per lodare la misericordia infinita del Padre, la pazienza e la benevolenza di Dio verso l’uomo peccatore.

Anche Ruperto si domandava perché il Verbo di Dio, il Figlio di Dio, si fosse fatto uomo. Con una visione cristocentrica della storia della salvezza il Padre sostenne che l’Incarnazione, evento centrale di tutta la storia, era stata prevista sin dall’eternità, anche indipendentemente dal peccato dell’uomo, affinché tutta la creazione potesse dare lode a Dio Padre e amarlo come un’unica famiglia radunata attorno a Cristo, il Figlio di Dio. Egli vedeva nella donna incinta dell’Apocalisse l’intera storia dell’umanità, che è orientata a Cristo, così come il concepimento è orientato al parto, una prospettiva che sarà sviluppata dalla teologia contemporanea. Ruperto fu il primo scrittore che ha identificato la sposa del Cantico dei Cantici con Maria santissima. Così il suo commento a questo libro della Scrittura è una summa mariologica, in cui sono presentati i privilegi e le virtù di Maria, Che il Padre vede come la parte più santa della Chiesa intera.

LA SCUOLA DI SAN VITTORE E GUGLIELMO DI CHAMPEAUX

Bernardo fece scuola, ma senza mai fondarne una. Invece l’altra grande scuola della teologia dei Padri nel secolo XII fu vera ed autentica, fu quella dell’Abbazia di San Vittore di Parigi, fondata dai Canonici regolari agostiniani nella prima metà di quel secolo. In essa i suoi autori, legati alla Tradizione ma più di Bernardo sensibili ai problemi metodologici, terminologici ed epistemologici della teologia della loro epoca, seppero continuare il magistero dei Padri secondo il loro stesso modo di scrivere ed intendere, nello stesso tempo comportandosi da maestri, che usavano la dialettica e le altre scienze sempre allo scopo di edificare l’uditorio, monastico, e mai per se stesse. Il senso letterale e storico della Bibbia è per i Vittorini quello principale, ma essi non trascurano quello allegorico, che permette di passare dal segno alla cosa stessa. Le loro fonti sono la Bibbia, Agostino, Dionigi l’Areopagita e Anselmo d’Aosta, le cui tesi sulle ragioni necessarie dei dogmi sono riprese e condivise dai maestri parigini.

Il fondatore della Scuola di San Vittore fu Guglielmo di Champeaux, nato verso la metà del secolo in quella città. Egli studiò presso Anselmo di Laon, fu reggente della scuola capitolare di Notre Dame di Parigi, ebbe come allievo il terribile Abelardo che lo costrinse, in un pubblico scontro, a modificare la sua posizione sul problema degli universali, e si ritirò, in conseguenza di ciò, ad insegnare altrove. Nel 1108 si ritirò a San Vittore con i suoi alunni in una comunità per la quale nel 1113 adottò la Regola agostiniana della stretta osservanza sull’esempio dei Premostratensi; questi furono anche il modello ai quali il Padre guardò fondando nel monastero una scuola aperta gratuitamente a tutti per l’insegnamento delle Lettere, come strumento di apostolato. Ma i monaci si opposero a questa prassi e per la seconda volta Guglielmo dovette ritirarsi da Parigi in un luogo imprecisato. Vi ritornò per le insistenze del vescovo di Le Mans e riaprì la scuola vittorina, al centro della quale ora mise l’insegnamento religioso. Nel 1113 Guglielmo divenne vescovo di Châlon-sur-Marne, dove applicò con rigore e fecondità i principi della Riforma gregoriana: promosse la vita comunitaria dei canonici, la loro pubblica celebrazione della Messa, la loro comune recita dell’Ufficio, il celibato del clero, la vita monastica – specie quella cistercense. Ordinò prete San Bernardo quando questi divenne abate. Disputò pubblicamente più volte in teologia (una volta anche con Ruperto di Deutz sulla Provvidenza) e tenne conferenze. Morì nel 1121. Fu autore di una delle prime raccolte di Sententiae e di un riassunto dei Moralia in Job di San Gregorio Magno.

Guglielmo fu uno dei maggiori protagonisti della Disputa sugli Universali. Al nominalismo di Roscellino di Compiégne (†1120) Guglielmo oppose il suo realismo estremo, affermando che gli Universali esistono realmente e non per mera convenzione linguistica, e sono essi che indicano i nomi di genere. Tuttavia per Guglielmo gli Universali non esistono separatamente dai corpi ma in essi stessi, per cui gli individui si differenziano solo per le caratteristiche accidentali. Questa concezione della comunità degli enti nell’essenza, se applicata rigorosamente ad Universali amplissimi come la sostanza o l’essere stesso poteva portare al panteismo, e questo gli fu rinfacciato da Abelardo. Allora Guglielmo modificò il suo pensiero, affermando che gli enti singoli sono, se appartenenti ad un medesimo genere, indifferenti (ossia non differenti) in quanto all’essenza, anche se questa non esiste al di fuori di ognuno di essi. Anche questa tesi era, se portata all’estremo, foriera di panteismo e anche questa volta Abelardo sloggiò il suo maestro dalle sue posizioni. Allora Guglielmo addivenne alla soluzione della somiglianza delle essenze. Fu l’ultima sua capriola ontologico-gnoseologica, perché poi decise di ritirarsi dalla disputa. In quanto al suo magistero teologico, è di troppo scarna consistenza nei suoi scritti per essere opportunamente valutato.

IL BEATO UGO DI SAN VITTORE

Astro luminosissimo della Scuola di San Vittore, Ugo nacque nel 1096 circa ad Hartingham in Sassonia da una nobile e potente famiglia, ricevendo la sua prima educazione dagli agostiniani di Hammersleben. Inviato a Parigi per proseguirvi gli studi lontano dalla guerra che Enrico V conduceva contro i feudatari sassoni ribelli, Ugo vi rimase per sempre, prima come discepolo indi come maestro, abbracciando precocemente la vita religiosa. Il Padre morì nel 1141.

Ugo scrisse diversa opere, tra le quali ricordiamo anzitutto il Didascalicon, che fu ottimo e fortunatissimo manuale di introduzione allo studio filosofico, teologico e biblico; il De Sacramentis Christianae Fidei, somma della teologia del Vittorino in materia di sacramentaria, nella quale fu maestro indiscusso e fondamentale; il Commento al De Coelesti Hierarchia di Dionigi, in cui mostrò di padroneggiare benissimo anche il Neoplatonismo; il De Substantia Dilectione, sulla natura dell’amore; il De Arrha Animae, sui doni della Promessa divina all’anima, considerato il geniale testamento spirituale dell’autore. Poi vanno menzionate le altre: il De Grammatica, l’Epitoma Philosophiae, la Chronica, di filosofia e varia erudizione; il De Verbo Incarnato Libri Tres, il De Quattuor Voluntatibus in Christo, il De Sapientia Animae Christi an aequalis cum divina fuerit, il De Beatae Mariae Virginitate, il De Assumptione Beatae Mariae Virginis Sermo, di teologia dogmatica; indi Institutiones in Decalogum Legis Dominicae, De Quinque Septenis seu Septenariis, De Sacramentis legis naturalis et scriptae, di teologia morale; ancora De Scripturis et scriptoribus sacris praenotatiunculae, Adnotationes elucidatoriae in Libros Regum, Adnotationes elucidatoriae in Threnos Jeremiae, Explanatio in Canticum Beatae Mariae Virginis, in teologia biblica; ancora, De Meditando, De Modo Orandi, De Vanitate Mundi et Rerum Transeuntium Usu, De Amore Sponsi ad Sponsam, De Laudi Caritatis di argomento mistico; in aggiunta, De Institutione Novitiorum, Expositio in Regulam Sancti Augustini, di tema monastico; infine il De Operibus Trium Dierum, di argomento contemplativo. Autore di amplissima erudizione, Ugo fu, specialmente come teologo, pregno di una ammirabile serenità, scaturente dalla consapevolezza di possedere la Verità tanto cercata e amata, per cui scrisse senza pesanti involucri e con uno stile sobrio ed attraente. Ebbe vigile senso psicologico e capacità di elevazione spirituale al trascendente.

Ugo apparve già ai contemporanei talmente grande da essere considerato un secondo Sant’Agostino, del quale approfondì e rielaborò il pensiero con vigore e originalità. Fu pensatore ricco e geniale, stimato da Pietro Lombardo, Tommaso e Dante. Ugo combattè la dialettica abelardiana, il suo metodo e le sue innovazioni, proclamando il primato della Fede sulla ragione, della Bibbia sulla teologia e del senso storico e letterale su quello allegorico. Ugo non concepiva lo studio come fine a se stesso ma solo come strumento di apostolato, pur essendo dotto come Abelardo, in quanto molto più umile e santo di lui. Coloro che studiano la Bibbia impiegandovi tutto il loro tempo ed angustiandosi per questo, non sono filosofi cristiani ma professionisti, mossi da ambizione: il vero studioso cristiano infatti è dedito soprattutto alla meditazione e alla contemplazione. Non a caso Ugo è un maestro della mistica.

Nella sua concezione antropologica – sviluppata nel I libro del Didascalicon quale prodromo alla sua pedagogia – Ugo ha una impostazione platonica e neoplatonica, fedele al magistero dei classici di quella filosofia e di Agostino e Boezio. L’uomo è essenzialmente la sua anima, decaduta, esiliata, imprigionata in un corpo che la ottunde coi sensi e la prova con le tentazioni, corpo che è soltanto uno strumento per l’anima stessa. Essa è immortale, come dimostrano le sue attività più specifiche, ossia quelle intellettive, e ha tre potenze fondamentali, la vegetativa, la sensitiva e la razionale.

In pedagogia Ugo si prefigge l’obiettivo di condurre l’uomo fuori dalla situazione di alienata dispersione in cui versa. L’istruzione ci aiuta a riprendere conoscenza del nostro essere e ci spinge a non cercare nel mondo esterno ciò che invece abbiamo in noi stessi. Perciò la più grande consolazione della nostra vita è la ricerca della sapienza, in quanto chi la trova ha una grande fortuna e chi la possiede è felice. Due discipline concorrono alla purificazione dell’anima, al suo rientro in sé e al ritorno nella sua patria celeste intima: la filosofia e la teologia. Nei primi tre libri del Didascalicon Ugo introduce allo studio della filosofia e negli ultimi tre a quello della Bibbia e della teologia. Della filosofia il Padre ha una concezione platonica e la considera amore della sapienza e ricerca della verità, senza misconoscere la definizione aristotelica di essa, quale scienza protologica, e storica, quale scienza delle cause. Alla filosofia sono orientate tutte le arti e le scienze. Essa comprende quattro ambiti: quello teoretico (che riunisce teologia, matematica, fisica; la matematica a sua volta si articola in aritmetica, musica, geometria e astronomia), il morale (che annovera l’etica individuale, l’economia domestica e la politica), quello tecnico e quello logico (che comprende la grammatica e l’arte del discorrere, forte a sua volta di teoria della dimostrazione, retorica e dialettica). Singolare ed originale quello tecnico (annoverante la tessitura, la fabbrica d’armi, la navigazione, l’agricoltura, la caccia, la medicina e il teatro), che regola e ordina le attività terrene; in esso tutte le arte e le tecnologie sono, per la prima volta, trattate e valorizzate. Tra tutte le discipline eccellono quelle del trivio e del quadrivio, vere vie che conducono alla sapienza. Tutte loro sono interconnesse e non si può studiarne una trascurando le altre. Questo attesta da un lato che la filosofia ughiana si identifica con la cultura in genere, dall’altro che la spiritualità intellettuale dei canonici regolari è diversa da quella dei cluniacensi, dei cistercensi e degli altri monaci.

Dopo aver illustrato le discipline, Ugo suggerisce agli studenti umiltà, raccoglimento, distacco dal mondo, meditazione; insegna a non disperdersi in tante letture ma a concentrarsi sui testi fondamentali. Il Vittorino disegna un celebre ritratto dello studente modello, virtuoso perché umile e docile, alieno dalle occupazioni mondane e dai diletti dei sensi, diligente, zelante, disponibile ad imparare qualcosa da tutti, mai presuntuoso per ciò che sa, rifuggente da scritti erronei, incline a formulare i giudizi con cognizione di causa, preoccupato di essere e non di apparire colto, amante delle parole dei sapienti e di tradurne in pratica gli insegnamenti, capace di accettare il limite della mente quando non permette di conoscere tutto o subito.

In esegesi biblica il nostro autore, trattandola negli ultimi tre libri del Didascalicon, fornisce un quadro completo delle fonti passando in rassegna tutti i libri della Scrittura, per poi spiegare come va intesa alla luce della migliore tradizione antica e moderna. Nel testo sacro bisogna cercare anzitutto il senso letterale e poi quello spirituale, inteso sia come allegorico o volto ad una più felice intellezione della fede sia come morale e tropologico ossia indirizzato ad un miglior comportamento. Ugo raccomanda agli studiosi di non fidarsi tanto di sé quanto di radicarsi nell’insegnamento precedente per evitare avventure ermeneutiche. Lo studio biblico è per Ugo quello che era per Clemente di Alessandria, ossia teoretico, apologetico e catechetico, ossia di comprensione di difesa e di insegnamento della fede. Sulla Bibbia poggia le sue fondamenta l’edificio della dottrina, che non può essere costituito su libere basi. Su di esse nasce e si sviluppa storicamente la grandiosa costruzione della Salvezza, ergendo sette piani: dopo il prologo in Cielo nel beneplacito della Santissima Trinità Che volle creare e salvare e santificare il mondo, la Creazione, il Peccato, la Salvezza nell’ordine sapienziale dei Patriarchi, quella secondo l’Antica Legge, quella secondo la Nuova dopo l’Incarnazione, la Resurrezione di Cristo, quella di tutti noi. In questo edificio il materiale laterizio viene dai Padri e a volte anche da autori profani, ma – si badi bene- le fondamenta sono solo quelle bibliche.

Ma è in sacramentaria che Ugo dona il meglio di sé. Nel De Sacramentis egli definisce il sacramento quale elemento corporeo o materiale proposto in maniera esterna e sensibile, che rappresenta perché ha somiglianza con quello che vuol rappresentare, significa perché è stato appositamente istituito per simboleggiare una azione legata alla Redenzione operata da Cristo e contiene una qualche grazia invisibile perché capace di santificare. Perciò il sacramento è innanzitutto una realtà materiale percettibile dall’uomo, ma esso diviene, in quanto analogo a quello che vuole significare, sacramento in quanto tale perché Cristo l’ha scelto per tale scopo, e non perché il ministro lo consacra. Egli può solo riempire il vaso scelto della grazia sacramentale, e il vaso è appunto il sacramento.

Il sacramento è medicina per il peccatore. Esso esiste per far esercitare l’uomo nell’umiltà, per erudirlo e per farlo esercitare nella virtù. L’uomo trova nei sacramenti la sua vera dimensione di creatura peccatrice bisognosa di salvezza e viene educato ad un uso corretto delle realtà create mediante la Grazia. Questa caratterizzazione antropologica del sacramento era senz’altro originale e sotto certi aspetti migliore di quella che poi prevarrà, su altra base, con Pietro Lombardo.

Ugo fu infine un grande maestro spirituale. La sua dottrina della contemplazione, che echeggia Agostino e Dionigi l’Areopagita, si basa sull’amore. Esso conduce alla contemplazione meglio e dopo della cogitatio, della meditatio e dell’oratio. Rimane tuttavia nella contemplazione una matrice speculativa, alimentata dalla filosofia prima, quale sapienza inferiore, e dalla teologia dopo, quale sapienza superiore orientata a Cristo che è venuto a riparare in noi l’immagine divina ferita dal Peccato. La cognizione della fede serve ad aumentare l’affezione ad essa, ma entrambe tendono alla devozione, in quanto filosofia e teologia puntano alla mistica.

In politica Ugo sostiene una piena integrazione dell’ordine temporale nella Chiesa e ne dà per la prima volta una piena giustificazione. Dio infatti ha promulgato la Legge perché l’uomo diventi consapevole del suo stato di peccato e gli concede la Grazia perché possa osservarla. La vita della Grazia riunisce tutti gli uomini nella Chiesa che è il Corpo di Cristo. In questa Chiesa i fedeli si dividono in chierici e laici, quasi due lati di un unico corpo, e i primi sono come il lato destro, perché detengono il potere spirituale che rende possibile la vita delle anime che sono immortali, mentre i secondi sono come il lato sinistro, perché detengono il potere temporale che rende possibile la vita dei corpi che sono mortali. In ragione di ciò ci sono due gerarchie, la prima sovrastata dal Papa e l’altra dominata dall’Imperatore o dal Re. Ma il potere spirituale è superiore a quello temporale tanto quanto l’anima è superiore al corpo: perciò lo istituisce con la consacrazione regia e lo giudica se sbaglia, all’occorrenza scomunicandolo. E’ proprio la consacrazione che dimostra la superiorità del potere spirituale sul temporale: siccome in questo modo il primo conferisce il secondo, non solo ha il potere di riprenderselo, ma anche di dominarlo. Questo avviene esemplificandosi sull’istituzione della regalità nell’Antico Testamento, dove essa nasce dopo e per opera del Sacerdozio.

In filosofia Ugo, assertore della dottrina gnoseologica aristotelica interpretata in chiave psicologica, è consapevole dell’ampliamento delle frontiere cognitive della sua epoca, e della esplosione delle forme classificatorie tradizionali del sapere, per cui si sforza lui stesso di elaborare una nuova forma di enciclopedismo che superi, integrandolo, il sistema del trivio e del quadrivio, ma ribadisca con forza la supremazia della teologia, culminante nella sistematizzazione della mistica. In questo senso l’enciclopedismo medievale, degno di essere affiancato a quello ellenistico e a quello illuminista per vastità d’intenti e solidità di risultati – sia pure in proporzione alle diverse epoche – trova una delle sue ragioni d’essere proprio nel misticismo, ansioso di alimentare la propria conoscenza di Dio attraverso la riconversione religiosa dello stesso sapere profano. Il De Sacramentis di Ugo è infatti una vera enciclopedia. La complessa organizzazione delle scienze del vittorino è avviata dalla constatazione che il sapere è sempre utile per l’amore – in quanto oggetto d’amore è Colui che fece ogni cosa – e conclusa dalla sua mistica. Essa cerca d’interpretare in senso allegorico il messaggio spirituale insito in ogni cosa. L’anima riconosce in esso come l’orma che Dio ha lasciato nel cosmo, in attesa di vederlo in Cielo. Per ora essa sta ritirata in se stessa, come Noè nell’Arca, lasciandosi scivolare sul mare del mondo, ostile ed insidioso. La decodificazione del senso delle cose avviene in ordine alla creazione e alla redenzione; la prima è esplorata dalle scienze profane, l’altra da quelle sacre. Gli ambiti sono dunque significativamente e modernamente complementari ma separati. Non a caso Ugo accetta di leggere la Bibbia secondo l’allegorismo agostiniano, rifiutando ogni fondamentalismo e anticipando Galilei, senza che la Chiesa dei suoi tempi avesse laceranti crisi di coscienza.

Inoltre il vittorino, precorrendo in questo lo spirito di altri filosofi futuri, coonesta il proprio misticismo epistemologico con una matrice esistenziale, proponendo una efficace e suggestiva dottrina del cogito. Non possiamo ignorare di esistere, né di essere al di là del nostro stesso corpo; la consapevolezza di non essere sempre esistiti e di non poter essere causa di sé, ci spinge a scoprire Dio come fondatore del nostro stesso esistere. E’ lo schema delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, senza la tortuosa cerebralità del dubbio iperbolico, e senza l’affannosa deduzione dell’esistenza di Dio tramite prove astruse. Ugo aggancia l’esistenza di Dio a quella di ognuno, prova la necessità di Dio in relazione alla vita del singolo. Mai la filosofia monastica aveva dovuto tanto alla suggestione di una vita solitaria. In questo cogito esistenziale fortissime, più che in Cartesio, sono le implicazioni idealistiche, che hanno però i propri contravveleni ortodossi nella rigorosa fondazione dell’essenza individuale su quella divina. Come Cartesio, Ugo afferma risolutamente che le cose sono buone perché Dio le ha volute, e non viceversa, fondando così il suo oggettivismo naturalistico su un volontarismo metafisico. Sebbene egli anticipi la figura moderna del filosofo scienziato, potè così evitare le cesure tra esprit de finesse e esprit de géometrie di Pascal, e i ragionamenti apodittici della teodicea di Leibniz. Segno, questo, di una società che fa progredire senza traumi scienza e fede in un parallelismo armonioso.

IL BEATO RICCARDO DI SAN VITTORE

Riccardo di San Vittore (1123 ca.-1173), sebbene muoia dopo San Bernardo e sia quindi al di fuori del confine ultimo della nostra trattazione, trova uno spazio nel nostro discorso per la sua importanza. Egli, discepolo e successore di Ugo nell’abbazia, più di lui indulge alla sistematizzazione della mistica, ancorandola ad una teologia speculativa che ripropone in modo serrato i ragionamenti di Anselmo di Aosta e Agostino. Sostenitore di una conoscenza di Dio che salga dall’esperienza alla ragione alla contemplazione, fino al tocco divino della visione estatica nell’oblio di sé, Riccardo suggella, nelle sue opere (Benjamin maior e Benjamin minor), lo sforzo di una teologia che, invece di mortificare il sapere come faceva Bernardo, vada alla ricerca di nuove sintesi culturali. Quando la rinascita dell’aristotelismo sarà piena, esse nasceranno. In tal senso, i vittorini hanno aperto la strada al futuro, tracciando una linea che conduce da Platone a Bonaventura passando per Agostino, Anselmo e essi stessi, progenitori di quel filone mistico-francescano che contenderà al tomismo l’egemonia culturale sul mondo cristiano e che, paradossalmente, saprà sostanziarsi dell’empirismo logico dell’Università di Oxford, nel XIII sec.

Riccardo nacque in Iscozia intorno al 1123 e dal 1162 fu priore di San Vittore a Parigi. Scrisse enormemente di esegesi, teologia e mistica. Fu discepolo di Ugo di San Vittore e quindi risentì del suo influsso, ma la sua forma non fu all’altezza di quella del maestro, anche perché Riccardo prediligeva il contenuto.

I suoi commentari biblici danno spazio anche all’interpretazione allegorica e spirituale. Essi furono: Expositio difficultatum suborientium in expositione taberculi fœderis, Declarationes nonnullarum difficultatum Scripturæ, In visionem Ezechielis, Explicatio aliquorum passum difficilium Apostoli, In Apocalypsim Joannis, composta di sette volumi, che trattano tutte le visioni dell'Apocalisse con parafrasi di ordine mistico; De Emmanuele, Quomodo Christus ponitur in signum populorum, il Liber Excerptionum, introduzione alla Bibbia con florilegio patristico.

In mistica scrisse il De præparatione animi ad contemplationem, liber dictus Benjamin minor, che è una allegoria del testo biblico che parla di Lia e Rachele le mogli di Giacobbe e dei loro tredici figli, in cui si attribuisce ad ognuno di essi un particolare significato nel cammino di perfezionamento dello spirito umano per raggiungere la contemplazione di Dio; il De gratia contemplationis, seu Benjamin major, molto più lungo, che tratta della contemplazione, perfezione della saggezza, e che è considerato un testo che prepara intellettualmente l’estasi; l’Allegoriae tabernaculis fœderis, appendice del precedente, che riassume nell’allegoria dell'Arca dell'Alleanza, che a sua volta è il nostro tabernacolo interiore, a cui ci porta il tabernacolo esteriore, che è la ragione; il Tractatus de quatuor gradibus violentæ caritatis, che è una descrizione della preghiera contemplativa, tanto poetica quanto profonda nella descrizione; l’In Cantica canticorum explicatio; le Mysticaæ adnotationes in psalmos, l’Expositio cantici Habacuc, il De exterminatione mali et promotione boni, trattato di morale mistica che esamina le virtù necessarie per purificare l'anima; il De conditione interioris homoris, sulla vita interiore basato sulla spiegazione del sogno di Nabucodonosor II riportato dal profeta Daniele; il De missione Spiritus Sancti, il De comparatione Christi ad florem Mariæ ad virgam, il De sacrificio David prophetæ; il De differentia sacrificii Abrahæ a sacrificio beatæ Mariæ virginis; il Tractatus de meditandis plagis quæ circa mundi finem evenient, il De gemino paschale. Per queste opere Riccardo è uno dei Padri della teologia spirituale.

In teologia scrisse anzitutto il De Trinitate che in materia è uno dei testi meglio riusciti della storia; poi il De tribus appropriatis personis in Trinitate, che alcuni contano come settimo libro del De Trinitate; il De Liber de Verbo incarnato; il Quomodo Spiritus Santus est amor Patris et Filii, il De superexcellenti baptismo Christi, il De statu interioris hominis, che espone lo stato di rottura dell'uomo dopo la caduta, a cui Riccardo contrappone come rimedio i comandamenti di Dio e le pratiche ascetiche e che conobbe un successo immenso esercitando una profonda influenza nei credenti dei secoli successivi; il De potestate ligandi et solvendi, il De judiciaria potestate in finali et universali judicio, il Tractatus de spiritu blasphemiæ, il De differentia peccati mortalis et venialis.

Come Anselmo, Riccardo crede che il contenuto della fede debba essere enunciata tramite la ragione: se Dio infatti ci ha svelato i Suoi segreti, evidentemente gradisce che noi li comprendiamo quanto più è possibile per alimentare la nostra speranza e la nostra carità. Il Beato crede nelle ragioni necessarie come l’Aostano: la mente può, con difficoltà, capire le ragioni del mistero, quanto meno per esclusione. Tuttavia Riccardo sa bene che le capacità dell’intelligenza umana sono limitate dinanzi al mistero divino.

Il capolavoro riccardiano è il De Trinitate, l’opera più profonda in materia tra l’omonimo testo agostiniano e la trattazione tomista nella Summa. Consta di sei libri, che trattano rispettivamente della Sostanza, degli attributi, dell’Unità e della Pluralità divine, delle Persone, delle Relazioni e dei Nomi di Esse. Riccardo comincia dimostrando che Dio esiste, in quanto gli enti che conosciamo non hanno l’essere di per sé e perciò esigono che un Essere Necessario li abbia voluti. Tale Essere sarà innanzitutto eterno, ossia increato, poi infinito, incorruttibile, immutabile, immenso, unico, onnipotente ed onnisciente. A Costui, Che è Dio, vanno assegnate tutte le caratteristiche che appaiono ottime. Proseguendo nella trattazione della Trinità e sviluppando una delle premesse della prova da lui fornita dell’esistenza di Dio, Riccardo afferma che accanto all’Essere eterno incausato può esistere l’Essere eterno causato, paragonando il rapporto tra i due a quello tra il Sole e la sua luce o tra la luce stessa e il suo raggio. Applicando questo concetto, Riccardo inferisce che all’interno della Trinità il Padre è l’Eterno incausato, mentre il Figlio e lo Spirito sono Eterni causati. Naturalmente questo non permette di dimostrare l’esistenza della Trinità come verità di ragione, ma solo di enunciarla come verità di fede, che rimane incomprensibile nella distinzione tra sostanza unica e triplice sussistenza. Il Beato fonda poi le Relazioni tra le Persone Divine su un principio agapico: Dio è amore, ma è proprio dell’amore il donarsi. Se il Padre non avesse generato, non avrebbe il Figlio da amare. Se Questi non fosse generato, non avrebbe il Padre da amare. L’amore esige l’alterità. Inoltre, perché esso raggiunga l’apice, esso esige una terzietà, un dono che i primi due diano ad un terzo. Ragion per cui dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito Santo. Potenza e sapienza suprema infatti potrebbero consumarsi in una sola persona, ma l’amore esige una pluralità. Queste Persone Divine sono distinte l’una dall’altra logicamente e ontologicamente non certo in quanto alla Natura, ma in quanto all’Esistenza. Questo è un termine tecnico riccardiano che corrisponde alla Sussistenza di Rustico di Cartagine ma con ulteriori significati esplicativi. Correggendo Boezio che affermava che la persona è una sostanza individuale di natura razionale, Riccardo afferma che essa è una esistenza incomunicabile, ossia che di per sé scaturisce da una sostanza, e che non può condividere con alcuno l’essere che è suo per tale scaturigine. Perciò, se negli enti dall’essere scaturisce una sola esistenza, in Dio nulla vieta che ve ne siano più di una, senza reali contraddizioni per la ragione, anche se questa non può capire come avvenga. L’Esistenza del Padre, che è la prima, possiede l’Essere divino di per sé ed è perciò incomunicabile; poi vi è l’Esistenza del Figlio che è generato dal Padre perché l’amore esige che Questi abbia Uno uguale a Sé da amare; indi vi è l’Esistenza dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio, in quanto nella Generazione Questi ha ricevuto il potere paritario di emanare da Sé la Terza Ipostasi tanto quanto lo ha la Prima. Il Figlio è dunque Immagine del Padre e Suo Verbo, mentre lo Spirito no, Egli è il Suo Dono, tra le Persone e poi agli uomini. Le Appropriazioni trinitarie di Riccardo sono le solite: il Padre è Potenza, il Figlio Sapienza e lo Spirito Santo Amore. Il Nome di Padre e Ingenerato sono della stessa Esistenza, come quello di Figlio e Generato, mentre a Questo spetta anche il Nome di Immagine del Padre.

Un ulteriore concetto introdotto da Riccardo è l’ottinenza, ossia il modo per cui qualcuno ottiene ciò che è sostanzialmente o ha naturalmente. E’ il concetto che spiega come le Esistenze sono legate l’Una alle Altre. Vi è dunque in Riccardo una concezione sociale della Trinità, in quanto Esistenza e Ottinenza saldano le Persone Divine l’Una all’Altra tanto quanto la Loro unica Sostanza. Questa concezione sociale rimane tuttavia agapica, come dicevamo, esattamente come nei Cistercensi, in quanto l’Amore di Dio è paragonato ad un’onda, che ha un flusso, che poi sfocia e ritorna indietro. Questo ritorno è simile all’amore sponsale ed è lo Spirito Santo. Così anche questa tipologia di amore umano trova, accanto al paterno e al filiale, una corrispondenza nella Trinità.

Un ulteriore autore della Scuola di San Vittore, Acardo (†1171), scrisse un altro trattato De Trinitate, di minore importanza.

GOFFREDO DI SAN VITTORE

E’ l’ultimo dei Vittorini di cui facciamo memoria, nonostante anche egli sia morto nella seconda metà del XII secolo, dopo il 1194, in quanto anche egli fu legato alla corrente patristica di quel secolo. Nacque tra il 1125 e il 1130 e studiò a Parigi. Entrò a San Vittore nel 1155 circa e insegnò teologia. Dopo un periodo di allontanamento per contrasti col priore, intorno al 1180, nel 1185 rientrò e divenne sacrista. L’ultima volta che è menzionato è nel 1194. Scrisse la Fons Philosophiae in versi e il Microcosmus. La prima attacca duramente le filosofie del tempo e la dialettica, la seconda descrive ottimisticamente la natura dell’uomo, per i doni ricevuti da Dio e poi potenziati dalla Grazia. L’opera della natura è un corpo vitale, quella del peccato, detta anche dell’ira (ovviamente divina), è un corpo mortale, quella della Grazia un corpo immortale. L’uomo mortale è dunque solo il peccatore, mentre quello immortale è l’uomo giustificato, mentre l’uomo naturale è vitale. Conformemente a San Gregorio di Nissa, Goffredo afferma che l’uomo è stato creato in due tempi: un primo in cui ha ricevuto la natura, un secondo in cui ha potuto scegliere la Grazia, che quindi è un dono ed una scelta. A causa del Peccato la Grazia arriva per Redenzione, ma sempre corrisponde al piano divino su come l’uomo doveva essere.

Gualtiero di San Vittore, morto dopo il 1180, scrisse il Contra Quattuor Labyrinthos Franciae, che con linguaggio vivace e forte preoccupazione batte in breccia Abelardo, Gilberto Porretano, Pietro Lombardo e Pietro di Poitiers. Gualtiero combattè anche l’atomismo di Guglielmo di Conches. Fu lui il priore con cui Goffredo fu in disaccordo, costringendolo a ritirarsi.

ALTRI AUTORI DEL PERIODO

E’ questo, come dicevamo, un periodo di fioritura umanistica, di matrice monastica, in cui è stato detto che il latino ha i colori autunnali di una lingua che vive la sua ultima grande stagione letteraria.

Tra i cistercensi ricordiamo il beato Guerrico di Igny (1070/1080-1157), discepolo di San Bernardo, autore di cinquantaquattro sermoni che fanno di lui uno dei migliori autori medievali.

Ancora fu cistercense Ottone di Frisinga (1114-1158), divenuto vescovo di quella città, zio di Federico Barbarossa (1152-1190), e autore di un Chronicon o Liber de duabus civitatibus, in otto libri, che va dagli inizi del mondo fino al 1146, ispirato alla concezione agostiniana delle due Città interpretata in senso ghibellino, sviluppata in una visione dell'umanità come successivo degenerare attraverso i secoli in sei età. Ottone scrisse anche le Gesta Friderici I Imperatoris.

Sempre cistercense, Sant’Amedeo di Losanna (1110-1150) fu autore di alcuni scritti tra cui otto omelie mariane a modo di trattato in cui sosteneva l’Assunzione della Vergine.

San Gilberto di Hoyland, morto nel 1172, abate cistercense, scrisse sette brevi trattati spirituali, alcune lettere e quarantasette sermoni sul Cantico dei Cantici; completò gli LXXXVI sermoni di Bernardo sul Cantico dei Cantici.

Fondatore dei Canonici Regolari Premostratensi, San Norberto di Xanten (1080-1134) non scrisse nulla ma influenzò fortemente la spiritualità dell’epoca adottando la Regola agostiniana per la sua famiglia religiosa e dettandone la costituzione.

Anselmo di Havelberg (1099-1158), premostratense, fu autore di tre libri di Dialoghi con Basilio di Acrida e Niceta di Nicomedia, teologi greci.

Gerloch di Reichersberg (1093-1169), anche lui canonico regolare influenzato da Norberto, fortemente legato alla tradizione in teologia (come commento alla Scrittura e con tensione escatologica), fu avversario di Abelardo e di Gilberto Porretano, e di Pietro Lombardo, dei quali combatteva le novitates e il forte impegno speculativo. Tra le opere di Gerloch ricordiamo: Liber de aedificio Dei, Adversus duas haereses, Liber de simoniacis, De novitatibus huius saeculi, Liber de corrupto Ecclesiae statu, De investigatione Antichristi.

Sant’Acardo di San Vittore (†1171) fu autore di opere di cristologia, della De discretione animae, spiritus et mentis e del De unitate divinae essentiae et pluralitate creaturarum, in cui considera l'essenza divina la forma prima e divide le forme create in due distinte categorie: quella formata dagli oggetti del pensiero di Dio e quella costituita dagli oggetti presenti nella realtà del mondo.

Tra gli autori mistici menzioniamo Luca di Mont-Cornillon (†1179), premostratense, autore di un commento e di Moralia sul Cantico dei Cantici, ricchi di allegorie, con meditazioni scarne e rudi ma ricche di conoscenze bibliche e patristiche.

Filippo di Harvengt (1100-1183), anch’egli premostratense, scrisse, con larga cultura classica e patristica, in prosa rimata, di esegesi (commento al Cantico), vite di santi e un importante De institutione clericorum.

Tra i Cluniacensi si distinse San Pietro il Venerabile (1092/1094-1156) abate di Cluny. Egli riformò la Congregazione secondo lo spirito dei nuovi Ordini; fautore di Innocenzo II durante lo scisma di Anacleto II, fu a fianco della Chiesa contro le eresie del suo tempo polemizzando con petrobrusiani ed enriciani nella sua opera Contra petribrusianos, con i musulmani (conosciuti in un suo viaggio, verso il 1141, in Spagna, dove fece tradurre in latino il Corano) e infine con gli ebrei, a cui aveva rivolto l'altra sua opera Adversus Iudaeorum inveteratam duritiem. Queste opere polemiche attestano l’impegno enciclopedico della cultura cluniacense. Mostrano l'eccezionale personalità di Pietro le sue numerose lettere, tra cui notevoli per equilibrio di giudizio e per serenità di discussione quelle rivolte a San Bernardo, nella polemica tra cluniacensi e cisterciensi, e per delicatezza d'animo quelle scritte a Eloisa, per consolarla della morte di Abelardo, a cui egli del resto aveva offerto tranquillo asilo negli ultimi anni della sua vita. Nel 1146 Pietro, nell'intento di rendere sempre più rigoroso l'ordine cluniacense, emanò una serie di settantasei norme disciplinari per i suoi monaci. Abbiamo poi altre personalità che fanno storia a sé.

Ildeberto di Lavardin (1056-1123) fu un poligrafo di talento naturale, con gusto dell’antico, profondità di sentimento e uno stile tale da sembrare un autore dell’età augustea o antoniniana. Uomo di fede profonda, sentiva anche i valori umani. Il suo gusto raffinato gli permise di usare bene sia i versi quantitativi che i ritmici, impiegati soprattutto per gli argomenti sacri. Per esempio il De Querimonia atque conflictu carnis et animae è un dialogo vivace, ricco di reminiscenze bibliche ed agostiniane, in prosimetro ad imitazione di Boezio. L’esametro leonino è il verso dei poemetti di ispirazione biblica, come il De Ordine Mundi e il De Ornatu Mundi, che descrivono la bellezza del mondo e del Paradiso terrestre. In distici non rimati per l’uso di termini tecnici Ildeberto espone interpretazioni mistiche ed allegoriche delle varie parti della Messa, raccolte nel De Mysterio Missae. Ancora in distici si esprimono valori di morale classica e cristiana fusi nel De Quattuor Virtutibus Vitae Honestae, sulle virtù cardinali. Il tema è trattato in un altro poema che termina con la rappresentazione di Orfeo che domina la natura con la sua virtù canora, poema più lungo e anch’esso in distici. Ildeberto scrisse anche l’opera autobiografica De Exsilio Suo, il soliloquio spirituale Lamentatio peccatricis animae, il ritmo retorico Pergama flere volo e forse la controversia intitolata Quinta Catilinaria con la Responsio Catilinae. Vi è infine un ampio epistolario ildebertino.

Il Venerabile Guiberto di Nogent (1055-1124) fu uno degli ingegni più vivaci della sua epoca. Scrisse il De gesta Dei per Francos sulla Prima Crociata con poca indulgenza per il meraviglioso nel racconto; il De vita sua sive monodiarum suarum libri tres (del 1115), sul modello delle Confessioni di sant'Agostino; il commentario Tropologiae in prophetas minores; il De incarnatione contra Iudaeos; il De laude sanctae Mariae (1119); il De virginitate; il De bucella Judae data et de veritate Dominici Corporis; il De sanctis et eorum pignoribus, in cui egli spiega la natura della vere reliquie e condanna l'eccessiva ed indiscreta credulità di molti. Guiberto era indipendente nelle osservazioni, capace di critica, schietto e franco, confidente dei maggiori uomini dell’epoca.

Ilario, assurto a fama intorno al 1125, di nazionalità inglese, fu l’unico drammaturgo dell’epoca del quale ci giunse il nome. Scrisse un dramma sul profeta Daniele, uno sulla Resurrezione di Lazzaro e il Ludus super iconia Sancti Nicolai, dedicato a un miracolo del ciclo nicolaita.

Sugero di Saint-Denis (1081-1151), abate del celebre monastero di cui porta il nome, in tre opere, l'Ordinatio (1140-1142), il De consecratione ecclesiae Sancti Dionysii (dopo il 1144) e il De rebus in administratione sua gestis (1150 ca.) fornì, oltre che nel Testamentum del 1137, ampie descrizioni dei lavori svolti in Saint-Denis, permettendo di definire la cronologia degli interventi e aderendo alla dottrina neoplatonica di Dionigi e al magistero di Ugo di San Vittore.

Onorio di Autun (†1152) fu scrittore enciclopedico, liturgista, esegeta, predicatore. Ebbe mentalità ingenua, profondo desiderio di cultura, ampie conoscenze e capacità divulgativa. I suoi scritti teologici e filosofici sono di derivazione patristica (Gerolamo, Isidoro e Beda sono le sue fonti). La sua opera storica si intitola Summa totius seu de omnimoda historia; quella geografica è il libro primo dell’Imago Mundi, decisivo nella sua fantastica descrizione del mondo a plasmare l’immaginario medievale in materia; quella cronologica è costituita dai libri secondo e terzo della stessa Imago.

Santa Ildegarda di Bingen (†1179) fu detta la Sibilla del Reno per aver trascorso la sua vita in un monastero di quella città situata sulle rive del fiume. Essendo analfabeta, dettava le sue opere di fisica, di medicina e di teologia. Esse sono il Liber Compositae Medicinae, che studia il corpo umano e i metodi di cura delle varie malattie; il Liber Simplicis Medicinae, sulle proprietà curative delle piante, delle pietre preziose e degli animali, con abbondanti spiegazioni allegoriche; le Epistolae, a vari personaggi importanti, intrise di alta virtù, di zelo ardente, della convinzione di compiere un’alta missione per l’onore della Chiesa e conseguenza della sua fama di veggente e taumaturga; numerose raccolte di visioni corredate da spiegazioni allegoriche, intitolate Scivias, Liber Vitae Meritorum, Liber Divinorum Operum; infine scrisse anche alcune liriche.

Adamo di San Vittore (1112-1192) fu uno dei maggiori poeti sacri dell’epoca, che fece assumere alla sequenza la forma strofica dominante. La sua poesia fu simbolica, allegorica e biblica.

GRAZIANO

Fu il fondatore del diritto canonico di quest’epoca. Nacque tra il 1075 e il 1080 e morì tra il 1145 e il 1147. Maestro delle arti, vescovo di Chiusi, Graziano è autore del cosiddetto Decretum (Decretum Gratiani o Decretum Magistri Gratiani o Concordia discordantium canonum), con cui mette ordine i canoni contrastanti del diritto canonico, realizzando privatamente un codice mai ufficialmente promulgato che fu contemporaneamente applicato nei tribunali ecclesiastici e per l'insegnamento.

Graziano fa un uso massiccio delle quaestiones e della logica. A partire dal 1130-1131 egli subì il fascino e l'influenza degli insegnamenti della scuola teologica francese di Pietro Abelardo. Graziano ampliò così la sua opera con nuovi apparati denominati De poenitentia (presente in forma ridotta nella prima versione del Decretum) e De consecratione.

Graziano realizzò la Concordia discordantium canonum servendosi tra l'altro della Lex Romana Visigothorum e di collezioni di canoni che circolavano al tempo di Pasquale II (1099-1118). Essa fu probabilmente completata intorno al 1119-1120 al tempo di Callisto II (1119-1124). A partire dal 1139, anno in cui ebbe luogo il Concilio Lateranense II, si hanno notevoli ampliamenti della Concordia discordantium canonum, con l'inserimento di molti nuovi canoni. Secondo una fonte del secolo XII tali ampliamenti furono realizzati a Roma a partire dal 1139 con l'aiuto di un discepolo, il senese Rolando Bandinelli che sarà pontefice con il nome di Alessandro III (1159-1181).

Il Decretum ebbe immediata diffusione, specie in Francia e in Germania, anche grazie alle summae di Rolando e del francese Rufino. Con le decretali di papa Alessandro III, interpretative del Decretum, si inaugura l'era della decretalistica. Inoltre, il Decretum ebbe sempre importanza nella storia e perse parzialmente d'attualità dopo il 1179 con il Concilio Lateranense III, sebbene continuò ad essere aggiornato dai discepoli di Graziano per tutto il secolo XII. La sua spontanea diffusione, accettazione e applicazione derivano dalla sua genialità, saggezza e utilità, raggiunte grazie a una sofisticata tecnica interpretativa sorretta da passi dottrinali dello stesso Graziano (i dicta del Maestro).

La versione definitiva del Decretum consta di tre parti. La prima parte è divisa in centouno distinctiones (ogni parte in cui si chiarisce un argomento a partire dai suoi principi generali e dalle contraddizioni cui dà luogo, operando una serie di suddivisioni successive sempre più puntuali), a loro volta divise in capitoli. Le prime venti distinctiones considerano i problemi generali del diritto, le altre ottantuno trattano invece del governo ecclesiastico e della sua disciplina tramite le varie cariche.

La seconda parte è divisa in trentasei causae (controversie figurate, casi fittizi che introducono una discussione giuridica) dedicate a temi vari (diritto penale e processuale, il patrimonio ecclesiastico e il matrimonio) e divise in quaestiones (singoli problemi giuridici) e poi in capitoli, ognuna su un problema ipotetico per il quale vi sono varie soluzioni. Per ogni quaestio, Graziano illustra le sue soluzioni, con i suoi dicta. La terza parte suddivisa in sole cinque distinctiones, relativa a un trattato sui sacramenti che è stato anch'esso aggiunto dopo la redazione originaria.


Theorèin - Marzo 2017