LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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DOCTORES ECCLESIAE

Breve introduzione ai Dottori della Chiesa

CHI SONO I DOTTORI DELLA CHIESA

Accanto alla teologia dei Padri, si colloca, quale strumento privilegiato per la custodia della Tradizione, quella dei Dottori della Chiesa. Essi spesso sono anche dei Padri, ma lo Spirito li suscita in tutte le epoche, per cui mentre i Padri sono scrittori del Primo Millennio, i Dottori lo sono anche del Secondo e ce ne saranno anche in futuro. Sono infatti Dottori della Chiesa coloro che hanno affermato e difeso con i propri scritti l'ortodossia cristiana e il cui ruolo è stato solennemente riconosciuto dal Papa o dal Concilio Ecumenico o Generale. Tre sono i requisiti di un Dottore della Chiesa, secondo la definizione di Benedetto XIV (1740-1758), ossia una dottrina eminente, la santità di vita e appunto il riconoscimento del Sommo Pontefice o di un Concilio almeno generale. Sono queste le condizioni per le quali la Chiesa nel corso dei secoli ha riconosciuto alcuni Santi Dottori della Chiesa universale. Per cui il Dottore è colui che ha ricevuto una ratifica ufficiale ad uno stato che già gli è riconosciuto.

In verità questo istituto dottorale, che è specifico della Chiesa Latina ma che ovviamente è vigente anche in quelle Orientali unite a Roma, nasce spontaneamente in quanto nazioni, Chiese e Ordini religiosi sono sempre stati soliti individuare dei dottori propri venerandoli alle condizioni di santità di vita e di dottrina, per cui, specie nel Medioevo e nella Controriforma, molti sono chiamati Dottori senza averne ancora il titolo se non tradizionalmente. Per i Dottori vi è un ufficio proprio nella liturgia e una memoria nella Messa. Fino al Beato Pio IX (1846-1878) i Dottori furono proclamati solo tra i Padri, il che era una semplice sanzione di una loro già conclamata sovraeminenza; da papa Mastai Ferretti in poi si proclamarono anche dei Santi moderni, con grande aumento del loro prestigio. Dal Beato Paolo VI (1963-1878) si è iniziato ad elevare al Dottorato anche le donne. I Dottori della Chiesa sono relativamente pochi, e di essi ho già trattato nel mio libro sui Padri della Chiesa quando erano annoverati tra questi. Eccone un elenco:

San Gregorio I Magno, papa, proclamato da Bonifacio VIII (1294-1303) nel 1298;

Sant’Ambrogio di Milano, vescovo, proclamato dallo stesso Papa nello stesso anno del precedente;

Sant’Agostino di Ippona, vescovo, proclamato sempre nel 1298 da Papa Caetani e a cui spetta l’appellativo di Doctor Gratiae per la sua trattazione soteriologica che è pressoché normativa per la Chiesa;

San Girolamo, sacerdote, anch’egli proclamato nel medesimo anno da Bonifacio VIII, il quale con queste quattro proclamazioni volle glorificare i Grandi Padri della Latinità;

San Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, proclamato nel 1568 da papa San Pio V (1565-1572);

San Basilio Magno, vescovo, proclamato nello stesso anno dal medesimo Pontefice;

San Gregorio Nazianzeno, vescovo, anch’egli proclamato in quell’anno dallo stesso Papa Ghislieri;

Sant’Atanasio, vescovo, ancora proclamato nel 1568 da Pio V;

San Tommaso d’Aquino, sacerdote, proclamato nel 1568 sempre dallo stesso Pontefice e detto Doctor Angelicus per l’altezza del suo magistero o Doctor Communis per la sua universale autorità;

San Bonaventura, sacerdote, proclamato nel 1588 da Sisto V (1585-1590) e detto Doctor Seraphicus per la sua teologia dell’amore;

Sant’Anselmo d'Aosta, vescovo, proclamato nel 1720 da Clemente XI (1700-1721) e detto Doctor Magnificus per l’ampiezza del suo discorso teologico;

Sant’Isidoro di Siviglia, vescovo, proclamato nel 1722 da Innocenzo XIII (1721-1724), detto Doctor Egregius per la sua distinzione teologica;

San Pietro Crisologo, vescovo, proclamato nel 1729 dal venerabile Benedetto XIII (1724-1730);

San Leone I Magno, papa, proclamato nel 1754 da Benedetto XIV (1740-1758);

San Pier Damiani, vescovo, proclamato nel 1828 da Leone XII (1823-1829);

San Bernardo di Chiaravalle, sacerdote, proclamato nel 1830 da Pio VIII (1829-1830) e detto Doctor Mellifluus per la sua eloquenza piena di affettività;

Sant’Ilario di Poitiers, vescovo, proclamato nel 1851 da Pio IX;

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo, proclamato nel 1871 dallo stesso Papa e detto Doctor Zelantissimus, un titolo che non ha bisogno di commenti;

San Francesco di Sales, vescovo, proclamato ancora da Pio IX nel 1877;

San Cirillo di Alessandria, vescovo, proclamato da Leone XIII (1878-1903) nel 1883 e detto Doctor Incarnationis per il ruolo svolto nel Concilio di Efeso;

San Cirillo di Gerusalemme, vescovo, proclamato sempre nel 1883 dallo stesso Pontefice;

San Giovanni Damasceno, sacerdote, proclamato nello stesso anno dal medesimo Papa, che così diede lustro a tre grandi della Chiesa Greca;

San Beda il Venerabile, sacerdote, proclamato nel 1899 sempre da Papa Pecci;

Sant’Efrem, diacono, proclamato da Benedetto XV (1914-1922) nel 1920, glorificando la Chiesa Siriaca;

San Pietro Canisio, sacerdote, proclamato da Pio XI (1922-1939) nel 1925;

San Giovanni della Croce, sacerdote, proclamato nel 1926 dal medesimo Papa e detto Doctor Mysticus per la sua dottrina mistica;

San Roberto Bellarmino, sacerdote, proclamato dallo stesso Pontefice nel 1931;

Sant’Alberto Magno, vescovo, proclamato sempre nel 1931 ancora da Papa Ratti e detto Doctor Universalis per la vastità del suo ingegno;

Sant’Antonio di Padova, sacerdote, proclamato nel 1946 dal Venerabile Pio XII (1939-1958) e detto Doctor Evangelicus per la sua predicazione in cui abbondano le citazioni bibliche e impreziosita dalla vita francescana;

San Lorenzo da Brindisi, sacerdote, proclamato nel 1959 dallo stesso Papa e detto Doctor Apostolicus;

Santa Teresa di Gesù, vergine, proclamata nel 1970 da Paolo VI;

Santa Caterina da Siena, vergine, proclamata nello stesso anno dal medesimo Papa;

Santa Teresa di Gesù Bambino, vergine, proclamata nel 1997 da San Giovanni Paolo II (1978-2005) e detta Doctor Amoris per la centralità della carità nel suo insegnamento;

Sant’Ildegarda di Bingen, vergine, proclamata da Benedetto XVI (2005-2013) nel 2012;

San Giovanni d’Avila, sacerdote, proclamato nel 2012 dallo stesso Papa;

San Gregorio di Narek, sacerdote, proclamato nel 2015 dal Papa regnante Francesco.

Come si vede, molti di essi sono grandissimi teologi, alcuni importanti filosofi mentre altri sono soprattutto autori spirituali. Per ognuno di essi daremo una trattazione contestualizzata. Per quanto sarà possibile parleremo anche di quei Dottori che sono riconosciuti come tali nell’opinione comune.

A tale proposito elenchiamo anche quei Santi e quelle Sante per i quali è in predicato la proclamazione dottorale: san Giovanni Bosco, i santi Cirillo e Metodio, san Lorenzo Giustiniani, sant’Antonino di Firenze, san Tommaso da Villanova, sant’Ignazio di Loyola, san Vincenzo de’ Paoli, san Luigi Maria Grignion de Montfort, san Bernardino da Siena, santa Veronica Giuliani, santa Gertrude di Helfta, santa Brigida di Svezia, santa Margherita Maria Alacoque, la beata Giuliana di Norwich.

Faccio inoltre notare che molti Padri potrebbero essere proclamati Dottori, per il ruolo svolto nella teologia del loro tempo, ma che sono stati penalizzati dalla prassi di non concedere tale titolo ai Martiri, o semplicemente perché la questione non è stata posta. A mio parere questo titolo spetterebbe a Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Erma di Roma, Giustino, Teofilo di Antiochia, Atenagora di Atene, Ireneo di Lione – la cui mancanza nell’elenco ufficiale è semplicemente assurda – Ippolito di Roma – il quale pur essendo un antipapa è venerato come martire e quindi può meritare l’onore minore del Dottorato- Cipriano di Cartagine, Clemente di Alessandria – al quale ingiustamente è stata sottratta la qualifica tradizionale di Santo, almeno a mio avviso – Didimo il Cieco, Gregorio di Nissa – la cui mancanza dall’elenco è anch’essa incomprensibile – Teodoro di Mopsuestia (che, riletto alla luce delle dichiarazioni cristologiche congiunte della Chiesa Cattolica e di quella Assira, potrebbe essere almeno Dottore della Chiesa Siriaca riconosciuto da Roma, nonostante gli anatemi controversi del II Costantinopolitano), Epifanio di Salamina, Afraate, Rufino di Aquileia, Lucifero di Cagliari, Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Gelasio I Papa, Rabbula di Edessa, Mesrope di Mashtots, Dionigi l’Areopagita, Romano il Melode, Germano di Costantinopoli, Tarasio di Costantinopoli, Sofronio di Gerusalemme, Massimo il Confessore, Andrea di Creta, Pacomio, Macario il Grande, Arsenio il Grande, Giovanni Climaco, Teodoro Studita, Evagrio Pontico – se si leggessero in senso ortodosso o se si contestualizzassero storicamente le sue dottrine origeniane – Vincenzo di Lerino, Boezio, Cesario di Arles, Martino di Tours, Benedetto da Norcia, Colombano il Giovane, Leandro di Siviglia e Prospero di Aquitania (venerati già localmente quali dottori), Teodulfo di Orléans, Paolino di Aquileia, Benedetto di Aniane, Rabano Mauro, Pascasio Radberto, Bernone Oddone e Odilone di Cluny, Lanfranco di Bec, Gregorio VII, Anselmo di Lucca, Ivo di Chartres, Stefano Harding, Simeone il Nuovo Teologo, Guglielmo di San Teodorico, Isacco della Stella, Aelredo di Rievaulx, Ruperto di Deutz, Ugo e Riccardo di San Vittore, Pietro il Venerabile, per citare solo autori dei quali ho già parlato nel mio libro sui Padri della Chiesa.

Aggiungo anche che a mio avviso i grandi Fondatori monastici dovrebbero essere considerati dottori per il loro insegnamento verbale, tradito dai loro biografi. Tra essi Antonio Abate, Simeone il Vecchio e il Giovane, Ilarione, Caritone, Saba, Romualdo, Giovanni Gualberto, Bruno di Colonia, Norberto di Xanten.

Esaurita la parte generale, mi accingo a trattare dei Dottori in ordine cronologico. Per forza di cose dirò adesso qualcosa di introduttivo sulla Scolastica del XIII secolo, quale ambiente di riferimento dei primi dei Dottori di cui parlerò.

CARATTERISTICHE DELLA GRANDE SCOLASTICA

La Grande Scolastica è la vetta storica della filosofia e della teologia: della filosofia perché chiude e porta a compimento i temi della speculazione classica, primo tra tutti quello ontologico, in quanto la soluzione alla domanda sulla natura dell’essere può rintracciarsi, in forme sempre più perfette, in Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso; della teologia, perché essa dà una sistemazione definitiva, e sulla scorta della più raffinata cultura filosofica che sia mai esistita, alla dottrina della fede. I teologi della Grande Scolastica sono i più grandi geni della teologia in assoluto.

Essa ha come caratteristica la produzione esclusivamente sistematica e scientifica, condensata nelle enciclopedie dette Summae. L’enunciazione avviene sulla base del primato dei contenuti sulle fonti, della verità rivelata sulla Rivelazione; la classificazione delle verità di fede avviene secondo criteri logici e concatenazioni rigide che mette sullo sfondo l’economia salvifica nel suo svolgersi storico, che invece aveva caratterizzato la Patristica, nella quale, peraltro, la Rivelazione e le sue fonti avevano il primato sulle verità rivelate e sui contenuti. I protagonisti di questa stagione aurea sono soprattutto teologi degli Ordini Mendicanti, che lavorano nelle Università e si servono del pensiero arabo, ebraico, greco e in particolare di quello di Aristotele.

Il contesto politico e religioso è dei più favorevoli: l’egemonia assoluta della Chiesa sull’Impero, la nascita dei summenzionati Ordini Mendicanti con il rinnovamento della vita religiosa e la stessa proliferazione delle eresie quale fattore stimolante nella riflessione teologica sono altrettanti presupposti irrinunciabili per lo sviluppo della cattedrale concettuale che è la Grande Scolastica. Quello culturale è altrettanto favorevole per la nascita delle Università, tra le quali primeggia in teologia la Sorbona di Parigi.

La Scuola parigina di Notre Dame, scuola cattedrale, si trasformò progressivamente in Università. Già cresciuta enormemente nel XII secolo, con l’arrivo di Abelardo la Scuola aveva trasferito le sue sezioni per lo studio delle Arti sulla sinistra della Senna e mantenuto quella teologica presso il Chiostro di Notre Dame; su entrambe esercitavano la loro giurisdizione l’Arcivescovo di Parigi e il Cancelliere della Cattedrale. Tuttavia ben presto i docenti e gli studenti, provenienti da tutta Europa, si costituirono in corporazioni denominate Universitates, le quali ricevettero privilegi dalla Corona francese e dalla Curia Romana, per cui si sottrassero alla giurisdizione tradizionale. Innocenzo III (1198-1216) assecondò al massimo questo sforzo di autonomia dell’ateneo per metterlo sotto il suo controllo e farne uno strumento per la lotta all’eresia e la diffusione del pensiero cristiano. Dal 1200 al 1210 sotto l’egida del Papa anagnino si sviluppa l’Università di Parigi, mentre il Re riconosce ai chierici parigini, intesi come studenti, il privilegio del Foro ecclesiastico. Vedremo come si svilupperanno contrasti sia per ulteriori autonomie sia per l’insegnamento libero, trattando dei maestri francescani e domenicani. Per ora basti dire che l’Università parigina divenne la sola che avesse la facoltà di abilitare all’insegnamento della teologia. Accanto all’Università di Parigi ne sorsero molte altre, anch’esse sotto l’egida della Chiesa, o almeno molto spesso: tra esse quella di Bologna, dove si coltivò il diritto sia romano che canonico. Ben presto l’Europa cristiana si ricoprì di un manto di Università, dalla Spagna al Portogallo, dalla Svezia all’Italia, dall’Inghilterra all’Ungheria. Oxford, Cambridge, Salamanca, Salerno, Napoli, Roma, Tolosa, Cracovia, Uppsala, Praga e molte altre furono le gemme della corona intellettuale della Cristianità.

L’Università, detta o degli Studi o dei Maestri e degli Scolari, era divisa in Facoltà in base agli studi e in Nazioni in base all’origine degli studenti. Le prime erano quattro gerarchicamente disposte: delle Arti (del Trivio e del Quadrivio), di Medicina, di Diritto Canonico e Romano e di Teologia. La prima era propedeutica alle altre tre. Il governo dell’Università spettava al Rettore.

I metodi erano quelli delle Scuole cattedrali e abbaziali. Un testo da commentare, un commento d’autore, le glosse del maestro o una sua somma. La teologia si imparava a partire dalla Bibbia e dalle Sentenze di Pietro Lombardo. I maestri migliori scrivevano appunto le loro Somme. Nelle Arti si leggeva l’Organon di Aristotele e i suoi commenti di Boezio e altri maestri; con il ritorno in forze del pensiero greco e dello Stagirita in particolare, si lessero e commentarono le sue opere di fisica e metafisica. Le forme fondamentali dell’insegnamento erano la lezione e la disputa. La prima introduceva meticolosamente allo studio dei testi e si teneva al mattino, la seconda usava la dialettica per trattare temi svariati tra docenti e studenti e si teneva il pomeriggio. Toccava poi al maestro dare la soluzione o determinazione della disputa. I maestri migliori tenevano solo dispute, lasciando ai loro assistenti, chiamati baccellieri, le lezioni. Le dispute spesso vennero raccolte nelle Questioni Disputate dai vari maestri che le avevano tenute. La forma più alta di disputa era quella sul Quodlibet, ossia su un qualsiasi argomento casuale. In essa il maestro, davanti a tutto il corpo docente, ingaggiava la tenzone intellettuale coi suoi colleghi, mostrando la sua competenza enciclopedica. Anche queste questioni quodlibetali venivano raccolte in testi omonimi.

La carriera universitaria prevedeva il grado di baccelliere, ossia di assistente, che poteva essere biblico, dopo sette anni alla Facoltà delle Arti e due a quella di Teologia, sentenziario, dopo due anni di studio delle Sentenze di Pier Lombardo e formato, dopo tre anni di partecipazione alle dispute; dopo di ciò si poteva conseguire la licenza da parte di una commissione per l’insegnamento e avere il grado di maestro.

Il ritorno di Aristotele in Occidente, per il tramite degli autori arabi che a loro volta lo avevano ereditato dai siriaci che l’avevano tradotto dal greco, fornì alle università uno strumento concettuale poderoso. I concetti metafisici, ontologici, teologici, psicologici, gnoseologici, epistemologici, fisici, politici, morali, dianoetici, estetici e poetici dello Stagirita furono di impatto enorme sul mondo medievale. L’ingresso concomitante delle opere originali e di commento a quelle aristoteliche di Avicenna (980-1037), Al-Farabi (870-950) e Averroè (1126-1198) completarono la rivoluzione intellettuale. Tuttavia all’inizio la Sorbona, preoccupata dall’interpretazione ereticale che delle opere aristoteliche era stata data da Amalrico di Benè (†1206) e da Davide di Dinant († dopo il 1260), non accolse facilmente questi testi. Anzi nel 1210 il Concilio Provinciale di Sens condannò i due eresiarchi su richiesta dei maestri di Parigi e vietò l’uso dei libri di Fisica di Aristotele nell’insegnamento universitario. Il divieto venne ribadito dal legato pontificio Roberto di Courçon nel 1215 ed esteso alla metafisica. Tali divieti estensivi vennero accolti con disappunto dai maestri delle Arti e, dopo le vicende di cui diremo parlando di Guglielmo di Auxerre e dei suoi contemporanei, essi andarono esaurendosi. Dopo il 1250 essi scomparvero, anche se non insensibilmente, come vedremo parlando della Scuola tomista.

SERAPHICA SCHOLA

Breve introduzione ai Dottori francescani del XIII sec.

CARATTERI GENERALI

La Scuola serafica è quella dei Francescani, nella quale si annoverano ben due Dottori della Chiesa, Sant’Antonio e San Bonaventura. Tale scuola è, assieme alla domenicana, quella che porta a piena maturazione la Grande Scolastica del XIII sec. Tra i figli di Francesco vi è poi una maggiore unità di pensiero, conseguenza dei presupposti condivisi. Per cui, per parlare dei due Dottori, è bene parlare dei loro colleghi e confratelli.

La Scuola francescana, come tutte le scuole teologiche, studia la Scrittura e si differenzia dalle altre accademie del pensiero cristiano perché, nell’epoca in cui Aristotele ritorna in Occidente, essa decide di utilizzarlo in modo circoscritto e circostanziato, specialmente in metafisica, inserendolo in una cornice che rimane prevalentemente platonizzante ed agostiniana. Questo intento fu raggiunto grazie all’uso di Avicenna (†1037), per cui si può parlare della filosofia francescana come di un platonismo aristotelizzante. In teologia l’impianto francescano ha i suoi pilastri nel cristocentrismo e nell’agapismo. La teologia sgorga dall’amore per Dio, per Cristo che Lui ha mandato, per la Sua Parola e per i Suoi Dolori espiativi e redentori: un amore che nasce dal fatto che Dio stesso ci ha amati per primo dando per noi il Suo Unigenito Figlio. Lo scopo dunque di questa conoscenza è l’innalzamento dell’uomo verso Dio tramite Cristo, è la contemplazione affettuosa e intima, è l’ascesi amorosa, è la mistica unione. Ossia appunto l’agape. Questa impostazione, non nuova, ha una linfa tutta sua nel francescanesimo grazie all’esempio del Fondatore eponimo, il quale raggiunse egli stesso le vette di questa amara e dolce contemplazione mediante il dono divino delle stigmate, che fece del Poverello d’Assisi un rappresentante stampato della Passione di Cristo. L’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura è il manifesto di questa concezione teologica: i suoi primi sei capitoli vogliono condurre all’estasi, quella stessa estasi nel corso della quale Francesco d’Assisi ricevette le stigmate. Sono sei come le ali del Serafino che agì nella stimmatizzazione. Al centro dei capitoli c’è la Passione di Gesù, il Mediatore dell’estasi. Potremmo dire che la scuola francescana, senza mezzi termini, tende laddove il suo Padre spirituale salì in solitudine, dando una sistemazione teologica alla sua esperienza spirituale e volendo in un certo senso metterla a disposizione di tutti, trarne beneficio per tutti.

La scuola serafica fiorì a Parigi e ad Oxford. Nella prima si distinguono Alessandro di Hales, Ottone Rigaud, Guglielmo di Auvergne e Bonaventura. Nella seconda Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone e Giovanni Duns Scoto, che però opera soprattutto nel XIV sec. Ne diremo a breve, non senza aver tratteggiato brevemente la figura alla quale tale scuola deve di più, ossia lo stesso Francesco d’Assisi, che egli stesso meriterebbe il titolo di Dottore, e quella di Santa Chiara.

SAN FRANCESCO D’ASSISI

Nacque tra il 1181 e il 1182 da Pietro di Bernardone e Monna Pica, di probabile origine francese. Battezzato come Giovanni, il Santo fu chiamato sempre Francesco dal padre che appunto aveva questa grande predilezione per la Francia. Fu introdotto dal padre al commercio che praticava ma nel quale il Santo non era a suo agio; ebbe una giovinezza spensierata, forse con qualche intemperanza, segnata da una militanza politica che lo portò in guerra contro i guelfi fuoriusciti di Perugia assieme agli Assisiati. Catturato nel 1202, stette un anno a Perugia nelle carceri, dove si ammalò e nel contempo si elevò a più alti ideali. Tornato ad Assisi, avrebbe voluto partire crociato, ma desistette da questo proposito dopo essersi incamminato per Spoleto; dopo aver errato per contrade solitarie oramai libero dalle vecchie abitudini di spensieratezza, incontrò Cristo Crocifisso nella Chiesa fatiscente di San Damiano. Il Signore gli ordinò di restaurare la Chiesa che andava in rovina, riferendosi all’edificio spirituale. Francesco all’inizio intese materialmente il comando e si diede a raccogliere elemosine e a vendere la merce paterna per finanziare il progetto. Picchiato, imprigionato e poi denunziato dal padre al Vescovo per sottrazione dei suoi beni, Francesco ruppe con la famiglia in modo celeberrimo spogliandosi di tutto e votandosi immediatamente e completamente a Dio, nella primavera del 1206. Continuò a restaurare edifici di culto, tra cui la benedettina Porziuncola, che poi divenne Santa Maria degli Angeli. Se il suo stile di vita meravigliò i più e lo fece deridere, alcuni ne furono attirati e iniziarono con il Santo vita comune, consacrata ufficialmente in chiesa nell’aprile 1209. Francesco cominciò a predicare, a curare i malati e i reietti, specie i lebbrosi, continuando a raccogliere seguaci. Quando nel 1210 ne ebbe dodici, si recò a Roma a chiedere l’approvazione per il suo modo di vivere da papa Innocenzo III (1198-1216), il quale riconobbe nel Poverello colui che in sogno aveva visto sostenere la Basilica del Laterano che stava crollando con la sua spalla. Il Papa gli concesse una approvazione orale nella primavera di quell’anno. Tornato ad Assisi coi suoi Francesco visse prima a Rivotorto e poi a Santa Maria degli Angeli. Il numero dei seguaci crebbe a dismisura. Nacquero conventi dappertutto. Francesco, che voleva lasciare ai francescani libero movimento perché evangelizzassero ogni ambiente e che nel 1212 aveva fondato il Secondo Ordine, quello delle Clarisse, per le donne su ispirazione di Santa Chiara sua compagna spirituale, per ordine di Onorio III (1216-1227) redasse una Prima e una Seconda Regola nel 1221 e nel 1223. In seguito a ciò fondò un Terzo Ordine per i laici, meno legato alle norme della vita religiosa. Francesco al seguito della Quinta Crociata del 1216-1217 si recò in Egitto per convertire il Sultano ma senza esito, anche se ottenne la sua stima. Voleva evangelizzare la Spagna ma dovette tornarsene per una malattia. Lasciò il Generalato nel 1223 e oramai malato si ritirò sulla Verna dove il 14 settembre 1224 fu stigmatizzato. Nel 1226 morì, sfinito e quasi cieco, in Assisi. Gregorio IX (1227-1241), che da cardinale Ugolino dei Conti di Segni era stato il primo Protettore dell’Ordine Francescano e grande amico di Francesco, lo canonizzò a furor di popolo il 16 luglio 1228.

Tra le sue opere annoveriamo quindi le due Regole, alcuni frammenti inseriti in quella delle Clarisse, ventotto ammonizioni, la Salutatio Virtutum, l’opuscolo De Religiosa Habitatione in eremo, sei lettere, le Laudes, la Salutatio Beatae Mariae Virginis, l’Ufficio della Passione e naturalmente il Cantico delle Creature.

Come maestro spirituale del Francescanesimo, il Poverello d’Assisi non elaborò una dottrina ma un metodo di vita umana e religiosa ispirato alla rigorosa osservanza delle massime evangeliche. Propose un rinnovamento sociale e religioso basato sul ritorno ai tempi apostolici per rendere la pace ai popoli stabilendo l’amore tra gli uomini sul presupposto di quello per Dio. Egli volle superare le contese tra ceti, placare i desideri insoddisfatti e insaziabili, eliminarne le conseguenze. Predicò povertà, castità, umiltà, obbedienza, giustizia e carità. La povertà sebbene non fine a se stessa fu avvertita come mezzo potente per realizzare nelle anime il Regno di Dio, tanto che Francesco, nell’agiografia, celebrò le nozze con Madonna Povertà.

SANTA CHIARA DI ASSISI

Accanto a Francesco non si può non menzionare Santa Chiara, nata nel 1194 e morta a San Damiano nel 1253. Appartenne alla Casa degli Scifi e fu attratta dalla perfezione evangelica di Francesco suo concittadino. Lasciò la casa di nascosto in una notte del marzo 1212 e vestì il saio nella Porziuncola dalle mani di Francesco. Stette prima tra le Benedettine di Bastia e poi tra quelle di Sant’Angelo in Pansa. Con la sorella Agnese passò poi in San Damiano, fondando con Francesco le Clarisse. Ne fu la prima Badessa e con lei divennero monache la madre e un’altra sorella oltre a tante ragazze. Fermamente resse l’Ordine rinunciando a qualsiasi dispensa per il possesso dei beni temporali. Nel 1243 disperse col Ciborio i saraceni all’assalto di Assisi. La Regola dell’Ordine abbozzata da Francesco nel 1215 fu sistemata nel 1247 in modo definitivo e approvata nel 1252-1253, prima della morte della Santa. Nel 1255 fu anch’essa canonizzata a furor di popolo da Alessandro IV (1254-1261).

DOCTOR EVANGELICUS: SANT’ANTONIO DA PADOVA

Il primo grande teologo francescano e il primo Dottore della Chiesa del XIII secolo non ha mai fatto parte di nessuna scuola filosofica e fu un contemporaneo di Francesco ed è Sant’Antonio. Nato a Lisbona nel 1195 morì all’Arcella presso Padova il 13 giugno 1231. Nobile, battezzato come Fernando, canonico regolare di Sant’Agostino a Lisbona e Coimbra, studiò in questa città e divenne prete. Entrò nei Frati Minori nel 1220 e cercò inutilmente il martirio in Marocco dal quale dovette rientrare per una malattia. Partecipò al Capitolo delle Stuoie in Assisi nel 1221 e fu aggregato alla Provincia di Romagna. San Francesco lo autorizzò a predicare e ad insegnare per primo tra i suoi frati avendone conosciuto la sbalorditiva conoscenza teologica e biblica, per cui Gregorio IX lo chiamò Arca del Testamento. Antonio nel 1225 predicò in Francia e nel 1227 in Italia settentrionale, sforzandosi anche di porre fine alle discordie civili e ottenendo molti successi. Fu ed è ancora potente taumaturgo.

Scrisse e pronunziò i Sermones Dominicales e i Sermones in festivitates Sanctorum, mostrandosi profondo teologo, robusto apologeta, delicato moralista, ardente asceta e mistico, forbito ed efficace oratore. Dopo undici mesi dalla morte anche lui a furor di popolo divenne Santo il 30 maggio 1232.

GUGLIELMO DI AUXERRE

Nel XIII secolo la teologia diventa compiutamente scienza, e lo fa definendo il suo statuto epistemologico proprio in alternativa e concomitanza con le altre scienze, anche alla luce delle acquisizioni in materia desunte da Aristotele. I Francescani parteciparono a questo dibattito tenendo spesso posizioni di maggior prudenza e facendosi eredi dell’insegnamento di quei maestri, in genere chierici secolari, che per primi avevano trattato questo tema con una certa circospezione. Cominciamo a parlare quindi proprio di un autore non francescano, Guglielmo di Auxerre, che giocò in tale senso un ruolo importante, per definire l’alterità della scienza teologica.

Nacque tra il 1140 e il 1150, insegnò all’Università di Parigi nella Facoltà delle Arti e di Teologia. Nel 1228 iniziarono quei tumulti che avrebbero potuto mettere in forse l’esistenza stessa dell’Università, reazione all’attacco concentrico della Curia arciepiscopale parigina e della Cancelleria cattedrale di Notre Dame, volto a sottrarre ai chierici i privilegi e le immunità concessi loro dal Papato su richiesta della Corte francese, che però ora era passata dalla parte dei nemici dell’ateneo. Per salvare il salvabile Guglielmo si recò nel 1230 da papa Gregorio IX (1227-1241), il quale diede ragione all’Università, confermò i suoi privilegi con la bolla Parens Scientiarum, che confermò il privilegio del foro e del canone per gli studenti (ossia un tribunale separato e la scomunica per chi facesse loro violenza) che così erano equiparati ai chierici, anche quando non erano ordinati. La bolla confermava lo statuto corporativo di docenti e studenti, concedeva loro un sigillo, ne ribadiva l’inserimento nella struttura gerarchica della Chiesa e consacrava il ruolo di Parigi come quello dell’Atene della Cristianità, rafforzando la concezione di quella traslatio studiorum che, parallela a quella Imperii, giustificava il primato culturale francese sulla scia di quello che nei secoli precedenti era stato di Bisanzio, di Roma, della Grecia classica. Siccome poi uno dei nodi della contesa tra studenti, maestri e alto clero era lo studio di Aristotele, precedentemente vietato, Gregorio IX mitigò il divieto e impose il silenzio per ventuno anni, nel corso dei quali una commissione pontificia, presieduta da Guglielmo stesso, avrebbe dovuto emendare i testi dello Stagirita. Tuttavia il nostro maestro morì nello stesso 1231 e non poté ottemperare ai mandati papali.

Guglielmo scrisse una Summa aurea, di commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, e una Summa de divinis officis, più altri scritti minori. Nella prima opera, scritta tra il 1215 e il 1229, e che deve il suo aggettivo alla grande stima da cui fu circondata, Guglielmo rivendica alla teologia il suo carattere scientifico di conoscenza certa mediante le cause; tuttavia puntualizza che queste cause non appartengono all’ordine naturale ma a quello soprannaturale e sono conoscibili solo per fede, anche se grazie ad essa esse si configurano come principi certi ed evidenti e universali; la fede infatti non si dimostra ma è essa stessa dimostrazione e prova, non argomentazione ma argomento; i suoi principi, inderivabili da altri, sono noti di per sé e tanto più evidenti quanto più viva è la fede stessa di chi li contempla. Perciò la teologia è una scienza possibile solo ai credenti, i cui principi sono gli articoli della Fede. Dal metodo teologico Guglielmo espelle gli argomenti razionali, forieri di eresia, in quanto è assurdo applicare le ragioni necessarie delle conoscenze naturali a quelle soprannaturali. La ragione va dunque assunta nel lavoro teologico rendendola pienamente recettiva delle verità di fede. In conseguenza di ciò, per Guglielmo di fatto la ragione non ha un ruolo proprio e la scienza teologica è in realtà una sapienza contemplativa e non un sapere speculativo. Il termine scienza qui è dunque inteso in un modo completamente differente da quello che si adopera di solito.

IL BEATO ROLANDO DA CREMONA

Il secondo maestro che consideriamo antesignano di quelli serafici è un domenicano, che scrive in un clima analogo a quello di Guglielmo e arriva anche lui a fondare l’alterità della scienza teologica. Rolando nacque a Cremona nel 1190. Studiò e insegnò a Bologna nella Facoltà delle Arti dell’Università, per poi diventare domenicano nel 1219 e andare a studiare teologia a Parigi nel 1228. Nel 1229 inizia ad insegnare alla Sorbona. Sarà poi predicatore contro l’eresia a Tolosa e poi professore a Bologna nel 1258 dove morì l’anno dopo. Fu autore di una Summa che manifesta un grande interesse per tutta la cultura, intesa come punto di partenza della scienza teologica; tale passione enciclopedica è una conseguenza dell’ammirazione di Rolando per Aristotele, i cui scritti egli adoperò per primo a Parigi.

Rolando nella sua opera afferma senza mezzi termini che la teologia è una sapienza, non una scienza, e che per questo è ancor più che una scienza, in quanto la sapienza è superiore alla scienza, avendone le caratteristiche e di sue proprie ancor più elevate. L’oggetto materiale della teologia è il Cristo integro, inteso come mistero comprensibile solo nella contestualizzazione non solo sua propria, ma anche trinitaria ed ecclesiologica. L’oggetto formale della teologia è inoltre la fede, le cui caratteristiche epistemiche sono in Rolando simili a quelle di Guglielmo e affermate con maggior forza, perché, mentre nelle altre scienze le disposizioni dello studioso verso il suo oggetto di studio sono indifferenti, per il teologo sono fondamentali in quanto una fede ardente e viva dona una intellezione più profonda del mistero. La teologia è quindi anche in Rolando mistica e contemplativa, non speculativa. Proprio perché è un sapere sapienziale la teologia svetta su tutte le scienze, delle quali è l’unico scopo e ragion d’essere; essa è la signora di ogni forma di sapere.

ALESSANDRO DI HALES, DOCTOR IRREFRAGABILIS

Con lui inizia la vera scuola serafica, sia perché è un francescano, sia perché scrive dopo la fine dei divieti – se non totale almeno parziale – agli studi aristotelici, in seguito alla Parens Scientiarum, che con la sua commissione erigenda per l’emendazione dei testi dello Stagirita di fatto apriva le porte alla loro consultazione. Egli fu il primo a voler dimostrare che in teologia vi è uso, almeno estrinseco, di ragione.

Egli nacque ad Hales in Gloucester nel 1190. Studiò arti e teologia a Parigi e divenne presto docente in entrambe le facoltà. Reggente di quella di Teologia, acquisì prestigio collaborando alla soluzione della disputa tra Università, Corona, Curia parigina e romana, avvenuta nel 1231. Impiegato anche con successo in missioni diplomatiche tra Inghilterra e Francia, Alessandro divenne francescano nel 1231 e fu il primo Frate Minore ad essere professore universitario. Insegnò fino al 1238, fu maestro di Bonaventura, fu creato cardinale, partecipò al I Concilio di Lione del 1245 e morì nello stesso anno a Parigi. Fu autore di una monumentale Summa theologiae.

Alessandro identifica la teologia con lo studio della Bibbia. Siccome per Aristotele la scienza riguarda ciò che è conoscibile mentre la fede concerne ciò che è credibile, essendo tali ambiti differenti e vertendo la prima su principi universali e la seconda sui fatti singolari narrati nella Scrittura, la teologia non potrà mai essere una scienza. Essa è una sapienza: perché il suo oggetto è più elevato di quello delle scienze, perché la sua conoscenza è deliziosa gustosa e sapida a differenza di quella scientifica, perché accende l’amore da cui è generata, mentre le scienze non hanno rapporti con la carità e perché lo scopo suo proprio è contemplativo e non speculativo, pur non mancando, strumentalmente, anche tale aspetto. Fu dunque Alessandro di Hales che conferisce alla scuola francescana il carattere affettivo che le fu proprio. Egli individua l’oggetto formale della teologia con la Sostanza divina, conoscibile tramite Cristo nella Sua opera redentiva. Questa unifica tutte le branche del sapere teologico come ragione fondamentale della divina azione in ognuna di esse, in vista della redenzione dell’uomo.

Sebbene avesse marcato fortemente la distinzione da Aristotele, Alessandro usò ampiamente la grande cultura custodita nelle sue opere. Queste nozioni furono usate in modo estrinseco dall’Halense, ma pur sempre rilevante. Il nostro maestro inoltre introdusse alcune dottrine chiave della scuola francescana in filosofia: l’ilemorfismo, l’illuminazione e l’esemplarismo.

Il primo consta di quel principio per cui ogni cosa, anche le spirituali, sono composte di forma e materia, supponendo che questa sia dunque presente, come principio di finitezza, nelle anime e negli angeli; la seconda ribadisce la dottrina gnoseologica che era stata di Agostino attribuendo all’azione del Verbo nelle intelligenze la conoscenza dei principi primi senza astrazione empirica; il terzo insegna che Dio è causa esemplare di tutto ciò che esiste e quindi che tutto ciò che c’è è immagine dell’Essere divino. Egli infatti ha creato tutto per pura bontà, per cui questa è il principio su cui Alessandro costruisce la teologia naturale.

GIOVANNI DE LA ROCHELLE

Fu successore di Alessandro di Hales sulla sua stessa cattedra ma morì prima di lui nel 1245. In psicologia sostenne che l’anima fosse una sostanza semplice che vivifica il corpo. Senso, immaginazione, ragione, intelletto e intelligenza sono le facoltà gerarchicamente disposte dell’anima stessa. Corpi, somiglianze dei corpi, nature dei corpi, spiriti creati e Spirito divino sono i rispettivi oggetti della conoscenza di queste facoltà. Nell’intelletto distinse aristotelicamente il passivo e l’attivo.

ODDONE RIGALDO

Nacque presso Melun nel 1200 circa e divenne francescano nel 1236. Studiò teologia a Parigi e la insegnò dalla cattedra che era stata di Alessandro di Hales; nel 1245 divenne reggente della Facoltà. Fu eletto e consacrato Arcivescovo di Rouen da Innocenzo IV (1243-1254) e fu consigliere di San Luigi IX (1226-1270), che accompagnò nella sua ultima Crociata e che assistette in punto di morte. Partecipò al II Concilio di Lione nel 1274 e morì nel 1275. La sua opera maggiore è il Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo.

Oddone rappresenta una tappa importante nell’evoluzione della fondazione teoretica della teologia. Il maestro, chiedendosi se la teologia sia una scienza, risponde negativamente come Alessandro di Hales, perché le scienze si occupano di verità universali e incorruttibili, mentre la teologia si basa su verità singolari rivelate. Ma siccome essa ha un contenuto di verità di gran lunga superiore a qualsiasi disciplina profana, allora anche la teologia può essere considerata, da questo punto di vista, una scienza. Essa non si basa sul rigore dei procedimenti ma sulla luminosità della fede; la teologia è una intensificazione della luce della fede e del potere della grazia. La ragione è invece estranea, con le sue motivazioni, alla ricerca teologica, che ha principi propri. In questo senso, ancora una volta, la teologia non è una scienza, se non nel senso comune del termine, quale cognizione intellettiva e certa. Scienza e teologia somigliano soprattutto nel procedimento, quando da principi in sé evidenti si desumono delle conclusioni certe, ma per la seconda tali principi sono evidenti solo per i credenti, in quanto articoli di fede. Anche per Oddone l’oggetto materiale della teologia è il Cristo integro di Rolando da Cremona, mentre riconosce alla teologia uno scopo sia speculativo che pratico contemplativo, anche se ovviamente il secondo è per lui maggiore.

GUGLIELMO DI AUVERGNE

Guglielmo nacque in Auvergne prima del 1180. Studiò a Parigi, vi insegnò teologia, vi divenne canonico e fu eletto Arcivescovo della città nel 1228 da Gregorio IX. Fu coinvolto nella disputa tra Università parigina, Corte regia, Curia romana e arciepiscopale. Esercitò il suo ministero curando la riforma del clero e la cura d’anime. Protesse i Mendicanti e li favorì nell’insegnamento universitario. Morì nel 1249. Scrisse una enciclopedia teologica, il Magisterium Divinale, in sette parti, e opere minori.

In qualità di Arcivescovo parigino, Guglielmo fece rispettare i divieti papali dell’uso di Aristotele, promuovendo all’insegnamento maestri legati alla corrente antica che però non disdegnavano il materiale della nuova cultura, inserendolo in un quadro teologico classico. Promosse perciò la linea sapienziale e mistica della teologia ed è avvicinabile alla scuola serafica pur non essendo un francescano.

Come filosofo, Guglielmo rifiutò espressamente l’aristotelismo, rappresenta la reazione platonizzante ed agostiniana alle incipienti forme nuove di pensiero, compreso quello arabo, conservò i metodi espositivi della Prima Scolastica e privilegiò come fonti i Padri e la Scrittura. Tuttavia seppe utilizzare la distinzione che Avicenna aveva introdotto tra essenza ed esistenza. Infatti il termine essere significa innanzitutto l’essenza o la sostanza spogliata dei suoi accidenti. Ma significa anche quello che si predica di una cosa qualunque quando si dice che essa esiste. Questa distinzione però non vale per Dio, la Cui esistenza si predica della sua essenza, perché essa non può essere concepita senza l’esistenza stessa. Guglielmo perciò ebbe intuizioni filosofiche di eccezionale modernità: il primato assoluto dell’essere sulle sostanze e le essenze, la distinzione reale tra essenza ed essere negli enti, la partecipazione degli enti all’essere sussistente, l’analogia dell’essere. Sono concetti che sarebbero stati approfonditi da San Tommaso. Inoltre Guglielmo dimostra l’esistenza di Dio argomentando, sulla scia di Avicenna, sulla distinzione tra ciò che esiste per sé e ciò che esiste per altro. Gli enti che esistono per altro devono avere per forza un Ente primo che esiste per Sé su cui poggiare la propria consistenza ontologica, pena un risalire all’infinito che, vanificando la causa, renderebbe impossibile anche l’effetto che pure esiste. Così come non avrebbe senso che gli enti che esistono per altro si causassero gli uni con gli altri. Ragion per cui Guglielmo inferisce che esista Dio, a Cui si addicono infiniti Nomi, dei quali il più alto è quello che Egli stesso si è dato: Io sono Colui Che è, in quanto Egli non ha né natura limitata né definizione. Dio è quindi l’Essere per cui tutte le cose sono, anche se Guglielmo aggiunge che l’esistenza sarebbe come un accidente dell’essenza e nello stesso tempo la sua attualizzazione. Manca dunque il senso dell’autonomia di ogni singolo atto dell’essere a questa filosofia, che rimane immatura ontologicamente e a metà strada tra Avicenna e Tommaso d’Aquino.

Per Guglielmo Dio ha creato il mondo nel tempo né poteva essere diversamente; da Lui dipendono le operazioni e le nature delle cose, che quindi non sono autonome come dicevano Aristotele e Avicenna. In questo anticipò Ockham e il suo volontarismo. Il maestro sostenne anche l’esistenza dell’anima del mondo e negò quella delle aristoteliche intelligenze motrici. Asserì l’assoluta semplicità dell’anima umana e negò quindi che avesse due intelletti, uno passivo e uno attivo. In gnoseologia Guglielmo inserisce l’astrazione dal sensibile di matrice aristotelica nell’illuminazione agostiniana, attribuendo a Dio la funzione dell’intelletto attivo universale dello Stagirita.

ROBERTO GROSSATESTA

Nacque nel 1175 a Stradbrock e morì nel 1253. Studiò ad Oxford e forse anche a Parigi. Fu il primo maestro delle scuole all’Università di Oxford nel 1214; entrato nel clero, divenne arcidiacono di Leicester nel 1229 e poi vescovo di Lincoln nel 1235. Sin dal suo magistero universitario egli chiamò i Francescani ad Oxford e fu lettore di Sacra Scrittura e teologia nel loro Studium. Conobbe il greco e fu tra i pochi nella sua epoca.

La produzione di Roberto, grosso di testa ma sottile di intelletto come si diceva, comprende trattati, traduzioni e commenti. I primi sono di geometria, astronomia, fisica, filosofia e teologia; le seconde sono di Giovanni Damasceno, Dionigi l’Areopagita e Aristotele; i terzi vertono sui Salmi, sulle Lettere di Paolo e su alcune opere aristoteliche. Furono proprio le sue traduzioni a dargli un posto importante nella storia del pensiero, contribuendo ad una lettura aristotelizzante del pensiero di Agostino. Assai originale in filosofia con la sua cosmogonia della luce e la classificazione delle scienze, in teologia fu guardingo e tradizionalista.

Roberto Grossatesta affermava che Dio creò dal nulla e insieme forma e materia prima, concentrandole entrambe e tutte in un solo punto; la forma, conformemente al dettato biblico, è la luce, in quanto corpo sottilissimo capace di generarsi perpetuamente e di diffondersi sfericamente istantaneamente. Questo fa sì che all’inizio del tempo il punto originario subito si espanda ed estenda con sé la materia che costituisce il cosmo. In questa cosmogonia Grossatesta applica rigorosamente la matematica alla fisica. Inoltre usa la luce anche per spiegare i rapporti tra anima e corpo, mentre sostiene l’illuminazione in gnoseologia.

DOCTOR SERAPHICUS: SAN BONAVENTURA DA BAGNOREGIO

E’ il primo dei grandi quattro dottori del XIII secolo: lui stesso, Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, Duns Scoto. E’ il maggior teologo dell’Ordine francescano e proprio per questo, anche se non è il primo, è anche il caposcuola. Nel suo magistero si trasfondono egregiamente i carismi di San Francesco, ossia pace, carità, povertà, amore per le creature, imitazione di Cristo, unione mistica nella Passione. Al centro del pensiero di Bonaventura c’è una contemplazione, quella del Crocifisso, ma così come Egli era contemplato dal Poverello di Assisi. Tutte le rivelazioni si possono comprendere solo mediante la Croce.

Il suo vero nome era Giovanni Fidanza; fu detto Bonaventura perché da bambino fu guarito da grave malattia. Nacque a Bagnoregio nel 1217 o nel 1221. Studiò a Parigi nelle Facoltà delle Arti e della Teologia; nel 1243 divenne francescano. Fu discepolo di Alessandro di Hales del quale sviluppò mirabilmente la dottrina. Nel 1253 divenne maestro, ma la Facoltà teologica non lo riconobbe per la disputa tra il clero secolare e i Mendicanti, i quali si contendevano l’egemonia sull’Università. La decisione di papa Alessandro IV (1254-1261) a favore dei Mendicanti permise a Bonaventura di insediarsi in cattedra, ove rimase fino al 1257 quando fu eletto Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori, che governò fino al 1274, mettendo ordine tra le parti in lotta sull’interpretazione della Regola. Rimase sempre vicino al mondo universitario, prendendo posizione per tre volte contro l’aristotelismo in altrettanti scritti denominati Collationes e risalenti al 1267, al 1268 e al 1273. Continuò a scrivere ma brevemente, sebbene con successo. Creato cardinale nel 1273 dal Beato Gregorio X (1271-1276), partecipò al II Concilio di Lione nel 1274 e morì nello stesso anno, assistito dal Papa stesso. Nel 1482 fu canonizzato da Sisto IV (1471-1484), francescano come lui, mentre un altro papa francescano, Sisto V (1585-1590) lo proclamò Dottore della Chiesa. Fu detto Dottore Serafico perché concepì una teologia che servisse alla santificazione dell’anima.

Le sue opere teologiche sono moltissime ed importanti. Il Commentarium alle Sentenze di Pietro Lombardo fu la sua dissertazione magisteriale che gli valse l’insegnamento e che è considerata la Summa del suo pensiero. Essa è presumibilmente del 1253. Vi sono poi le Quaestiones Disputatae, il Breviloquium – una piccola somma teologica del 1257 che aprì la serie dei suoi opuscoli in materia – l’Itinerarium Mentis in Deum – scritto nel 1259 alla Verna come compendio armonioso di dottrine filosofiche, mistiche e teologiche- il De Reductione Artium ad Theologiam – che riunifica tutte le discipline nella scienza teologica sia perché tutte le servono sia perché in ogni cosa è contenuta la sapienza divina – le summenzionate Collationes decem Praeceptis, Collationes de Septem Donis Spiritui Sancti e Collationes in Hexaemeron, nonché altre opere su argomenti specifici. Scrisse anche trattati di esegesi biblica: i Commentarii ai Vangeli di Giovanni – in due redazioni – e di Luca, all’Ecclesiaste e alla Sapienza. Compose opuscoli mistici tra cui i principali sono il De Triplici Via, il Soliloquium, il Lignum Vitae, il De Praeparatione ad Missam, il De Sex Alis Seraphim. Scrisse l’Apologia Pauperum in difesa degli Ordini Mendicanti, l’Expositio Regulae e le due Legendae Sancti Francisci. Promulgò le Costituzioni di Narbona nel 1260 per il suo Ordine. Pronunziò quasi quattrocento Sermones de Tempore, de Sanctis et de Beata Virgine Maria.

Il pensiero di Bonaventura è platonico, agostiniano e francescano, con una venatura mistica molto forte. I quattro elementi si spiegano bene: se come filosofo egli deve tutto ad Agostino e tramite questi a Platone, come teologo ovviamente si mise alla sequela dell’Ipponense; ma come figlio di Francesco, suo discepolo e biografo, egli meditò la sua vita e trascrisse in termini speculativi la sua esperienza mistica. Conformemente alla definizione che ne abbiamo data, il pensiero di Bonaventura si distingue per il suo esemplarismo; analogamente ai suoi predecessori francescani nello studio teologico, egli fu cristocentrico e amò enormemente lo studio biblico.

Bonaventura prende posizione contro la dottrina della doppia verità di matrice averroista, che concede solo ai dotti la conoscenza filosofica e lascia al volgo la religione. Bonaventura dapprima si limitò ad affermare la superiorità della teologia e della fede sulla filosofia e la ragione, patrocinando l’assoggettamento strumentale delle seconde alle prime, ma ostentando rispetto per le scienze profane, in quanto ci fanno conoscere Dio nella natura e sono orientate al possesso di Lui. In un secondo tempo, quello delle Collationes in Hexaemeron, tenute come conferenze all’Università parigina nel bel mezzo di questa disputa, il Santo condannò qualsiasi forma di sapere umano che pretenda da solo di raggiungere la verità senza l’apporto della fede. Tale condanna viene ribadita nelle Collationes de Septem Donis. Bonaventura insegnò chiaramente che la filosofia è fallibile perché quando si separa dalla teologia distrugge il retto pensiero sia nell’ordine naturale, sia in quello intellettuale sia in quello morale, generando altrettanti errori. Il primo implica l’eternità del mondo, il secondo la necessità del corso degli eventi, il terzo l’unità dell’intelletto per tutti gli uomini. Solo la Rivelazione corregge tutti e tre questi errori.

La metafisica bonaventuriana è di tipo esemplaristico: Dio è la causa efficiente ed esemplare di tutte le cose, per cui l’oggetto della metafisica non è l’essere in se’ ma l’essere delle cose in rapporto a Dio stesso. Dio è l’Essere perfetto ed infinito, archetipo e causa agente di tutte le creature che sono quindi tutte una sua imitazione, intese alcune come vestigia – tutte le creature – altre come immagini – gli esseri razionali – e altre come somiglianze – gli esseri in Grazia e quindi deiformi. Tuttavia anche Bonaventura come Tommaso non intende l’essere come il concetto più esteso e ultimo determinato, ma come primo determinante, in quanto ogni cosa è innanzitutto per poi essere qualsiasi altra cosa proprio in quanto esistente. Fuori di tutti i generi, al di sopra di essi, l’essere è la prima idea che l’uomo ha anche se non se ne accorge; esso è il centro e il fulcro di tutte le perfezioni e quindi è il Nome proprio di Dio. Analogamente all’Aquinate, il Serafico sale dalle creature al Creatore e dagli esseri imperfetti, potenziali e mutevoli all’Essere perfetto, attuale, necessario e immutabile. La precarietà e la limitatezza dell’essere degli enti è la strada che porta all’Essere primo che è sommo, incausato, fine a se stesso, semplice, uniforme, attuale, immutabile, indipendente, al di fuori di ogni genere. Tuttavia, come dicevamo, essendo una metafisica dell’esemplarità, quella del Serafico enuncia la sua ontologia asserendo che l’Essere, in quanto centro di ogni perfezione, è ciò che tutte le cose riproducono in se stesse, ossia la loro causa esemplare. Ossia tutte le cose sono imitazioni dell’Essere primo e non attualizzazione parziale dell’Essere stesso, come invece è in Tommaso.

Tuttavia alla vera conoscenza di Dio non si arriva con la metafisica ma con la teologia, che per Bonaventura è una scienza perfetta, perché parte da ciò che è primo, il Principio, e arriva a ciò che è ultimo, ossia il premio eterno; comincia dalle altezze di Dio e giunge all’abisso infernale. Essa è sapienza perfetta perché comincia da dove arriva la filosofia, ossia il Principio causale primo, e passando per Esso quale causa di salvezza e redenzione, vi ritorna quale Fine a cui tendono tutte le creature per appagare i loro desideri.

L’oggetto della teologia è il Verbo eterno di Dio, il Cristo della Scrittura, la quale sovrasta ogni verbo umano, per l’ampiezza dei testi e della dottrina, per la lunghezza dei tempi dall’inizio alla fine del mondo e del dispiegarsi della Provvidenza, per l’altezza degli oggetti trattati nelle tre gerarchie ecclesiastica, angelica e divina – dalla quale ultima prende il suo nome – e per la profondità dei suoi tre sensi letterale allegorico morale anagogico.

La teologia si articola in tre forme: la simbolica, che ci fa usare rettamente dei sensi; la letterale, che ci fa usare rettamente l’intelligenza; la mistica, che ci rapisce nella regione transrazionale dell’estasi o fuoriuscita sovramentale.

Esaminando la questione della natura della teologia, Bonaventura, nelle quattro questioni del Proemio del Commento alle Sentenze, si chiede quale sia la materia, la forma, il fine e l’autore della teologia. La materia è enorme e va dalle Processioni delle Ipostasi Divine alla Creazione all’Incarnazione del Verbo e alla Sua circolazione in tutte le cose all’economia sacramentale. Questa stessa materia si può considerare unitariamente in tre maniere: la riconduzione di tutte le sue diramazioni alla sua sorgente, il collegamento di tutte le sue parti formando un tutto integrale oppure un tutto universale. In questo modo si giunge rispettivamente a Dio, a Cristo e alla Rivelazione come realtà concettuale credibile. La forma teologica implica la distinzione della disciplina teologica propriamente detta dalla Bibbia, in quanto la prima presenta la Rivelazione credibile in quanto intellegibile alla mente umana, mentre la seconda la presenta in quanto tale. L’intellezione del credibile avviene in teologia mediante la perscrutazione, ossia col metodo inquisitivo o raziocinativo. Esso si svolge in tre modi diversi a seconda dei suoi destinatari: ai nemici della fede si riserva la confutazione; ai deboli nella fede si riserva il sostegno argomentato; ai perfetti la forma sapienziale e agapica. A costoro è concesso di penetrare i misteri nella loro intimità e di gustarne la bellezza. Questa scienza teologica è subalterna alla Bibbia in quanto tale, perché riceve da essa la giustificazione dei suoi principi primi. Dicendo questo, Bonaventura prepara la dottrina della subalternazione per la definizione epistemologica della teologia formulata da Tommaso d’Aquino. La causa finale della teologia è mettere l’uomo in condizione di fare il bene, per cui essa è una scienza pratica e non speculativa, pur essendo anche dotata di questo intento. La teologia è una conoscenza che serve alla fede e che si trova nell’intelletto per suscitare l’amore verso Dio e verso il Cristo Crocifisso. In questo senso la teologia serafica è una notizia di Gesù Cristo, che spinge l’uomo a ricambiare spontaneamente il suo amore. L’autore della teologia è senz’altro Dio quale Agente principale. Ma Dio è come Colui Che insegna a un discepolo, l’uomo o maestro, che a sua volta fa vedere quanto gli è stato insegnato, senza aggiungere nulla di suo se non in modo esplicativo, per cui aggiunge in modo complementare e non distraente. Con questa dottrina delle quattro cause, Bonaventura ha di fatto impostato e risolto anche la questione dello statuto epistemologico della teologia. Essa infatti ne ha uno suo proprio distinto da quello della scienza aristotelica ma è pur sempre intellegibile a suo modo, sia per l’originalità del credibile sia per la realizzazione sua propria dell’intellegibile che si realizza salendo e crescendo nella fede, da una forma imparagonabile di esperienza e conoscenza. E’ una intellegibilità interiore al credibile ed esprimibile con gli elementi epistemologici che esso stesso esibisce.

Per Bonaventura la teologia abbraccia qualsiasi realtà e verità, per cui nessuno più di lui nel suo secolo ha saputo ricondurre ogni scienza al sapere religioso mettendolo al suo servizio. Naturalmente la teologizzazione universale di tutto il sapere che vede ogni cosa sotto la Luce di Dio ha suscitato resistenze, in quanto sembrava e sembra che la dimensione specifica di qualunque conoscenza e della relativa realtà di riferimento fossero puramente estrinseche nella loro giustapposizione all’essenziale della conoscenza e del suo oggetto, tanto da degenerare in una sorta di monismo mistico. In verità questa scienza teologica serafica esige una profondità mistica che sola può vedere, nell’uno a cui tutto riconduce, il sopravvivere e anzi il fondarsi della sua molteplice articolazione. Bonaventura da questo punto di vista è platonico più di Agostino. Del resto la sintesi neoplatonica di Bonaventura, in cui il processo discensivo ed ascensivo dall’Uno ai molti e viceversa ha Cristo come protagonista esclusivo, è stato ampiamente paragonato a quello agostiniano per farne risaltare l’armonia e la bellezza che non scompaiono dinanzi all’opera dell’Ipponense.

La teologia trinitaria di Bonaventura tratta senz’altro dell’oggetto primo della disciplina teologica, ma ovviamente non nel modo impersonale dei filosofi ma quale Dio vivo e vero in Tre Persone uguali e distinte. Partendo dalla Santissima Trinità, Bonaventura mostra come Essa si sia rivelata nella storia della salvezza, trattando l’argomento in sette parti: la Trinità in Sé, la Creazione, la Caduta, l’Incarnazione, la Grazia dello Spirito, i Sacramenti, il Giudizio finale. Il Dottore studia la Santissima Trinità soprattutto come archetipo di tutte le cose, fedele al suo esemplarismo.

Tutto il cosmo di Bonaventura si scandisce sul ritmo ternario dei neoplatonici, di Dionigi, di Massimo e che sarà degli Idealisti. Tutto l’universo ha una struttura triadica che viene colto dalla fede e non dalla ragione, perché muove non solo l’intelletto ma il cuore. Perciò lo studio teologico è una meditazione trinitaria. Bonaventura afferma che le nobiltà dell’Essere divino si riducono a tre: Eternità Sapienza e Beatitudine, che contengono in se stesse vita, sensibilità, intelligenza, immortalità, potenza, giustizia, bontà, incorruttibilità, immutabilità, incorporeità. Le tre nobiltà poi si riconducono alla Sapienza, intesa sia come Mente generante o Padre, sia come Verbo generato o Figlio, sia come Amore tra l’Uno e l’Altro o Spirito Santo. Le Tre Processioni sono la causa della distinzione delle Ipostasi; in particolare lo Spirito Santo è l’unità di un medesimo atto di amore di due Persone distinte, per cui è il nesso unitario delle altre due Ipostasi.

Spetta al Dottore Serafico l’introduzione del termine circuminsessione, che in effetti fu tra i primi ad usare. Esso traduce il termine greco pericoresi, usato da Giovanni Damasceno. Con questa parola Bonaventura indica la compenetrazione senza mescolanza delle Tre Persone Divine, Ognuna delle Quali non può essere pensata senza le Altre, perché Ciascuna è presente nelle Altre.

Per dimostrare l’esistenza di Dio, che considera attingibile dalla mente umana, Bonaventura distingue la possibilità di asserire che Egli ci sia da quella di capire cosa Egli sia. La prima è alla nostra portata e la seconda no. Proprio perché l’uomo può concepire il concetto di Dio senza errore bisogna inferire che Egli esista realmente, in quanto da un lato l’intelletto non potrebbe concepire un simile concetto assoluto senza che esso avesse un corrispettivo reale e dall’altro che tale concetto, implicando quello dell’esistenza del suo oggetto quale presupposto delle sue perfezioni, postula che il corrispettivo esista realmente. E’ la ripresa della prova ontologica anselmina, tanto che Bonaventura definisce Dio quale Ipsum Esse, Quo nihil melius cogitari potest. Accanto alla prova ontologica, Bonaventura adduce dieci prove cosmologiche, che giungono a Dio attraverso il concetto di subordinazione, dipendenza, possibilità, relatività, limitazione, ordine, partecipazione, composizione, potenzialità e mutamento. Ognuna di queste verità è indubitabile e quindi Dio è una verità indubitabile: se vi sono gli enti subordinati, vi è quello sovraordinato; se vi sono quelli dipendenti, vi è l’indipendente; se vi sono gli enti possibili, vi è quello necessario; se vi sono quelli relativi, vi è l’Ente assoluto; se vi sono quelli limitati, vi è quello illimitato; se vi sono gli enti ordinati, vi è quello ordinatore; se vi sono quelli che partecipano di qualcosa vi è quello di cui partecipano e che non partecipa di nulla se non di sé; se vi sono gli enti composti vi è quello semplice; se vi sono quelli in potenza vi è quello in atto; se vi sono gli enti mutevoli, vi è l’Immutabile. Ognuna di queste vie o prove si basa sul fatto che una caratteristica sua propria degli enti suppone un Ente che la causi e che non l’abbia a sua volta.

Ma a queste prove Bonaventura ne aggiunge una ulteriore basata sui desideri di felicità dell’uomo. Infatti l’uomo desidera talmente la felicità da non poter essere privo della nozione stessa di Dio quale bene supremo, che quindi deve esistere per forza quale causa di questa nozione.

L’antropologia teologica di Bonaventura è una antropologia iconica, in quanto l’uomo è l’immagine principale di Dio. Sulla scia di Filone, Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio Nisseno e Agostino, Bonaventura adduce per la sua tesi ragioni sia teologiche che filosofiche. Le ragioni bibliche sono le più cogenti ma quelle filosofiche sono importanti perché coerenti con l’esemplarismo metafisico. Ogni agente agisce in modo tale da fare cose simili a sé; a questo principio non fa eccezione Dio, al Quale anzi, come Creatore di tutte le cose, non ve n’è una che non somigli. A Lui si può somigliare per natura, per partecipazione, per proporzionalità, per causa ed effetto, per ordine. All’uomo compete la somiglianza con Dio per proporzionalità, per causalità e per ordine, ossia esemplarità, in quanto essi non sono consostanziali né partecipano ontologicamente di un medesimo genere. Nel caso del nesso causa effetto, l’uomo è legato da esso a Dio da ben più di semplici vestigia, ma da una manifesta somiglianza, a causa della ragionevolezza, per l’origine l’ordine e la distinzione delle facoltà interiori, che sono in tal modo simili a quelle delle Persone Divine. Esse sono la memoria l’intelletto e la volontà. L’uomo, comportandosi secondo i divini voleri, diviene pienamente e consapevolmente immagine di Dio, per cui tale condizione non è solo il portato ontologico ma esistenziale dell’uomo. Diversamente egli si degrada al rango di semplice vestigio. Le sorti dell’immagine di Dio sono dunque le sorti della storia della Salvezza, per tutti e per ciascuno. La deformazione è causata dal peccato, originale ed attuale; la restaurazione è prodotta dall’Incarnazione del Verbo quale principio di Redenzione. Perciò Gesù di Nazareth, Verbo Incarnato di Dio, è il modello ed il prototipo di ogni uomo, che tutti devono sforzarsi di imitare, per essere realmente, come Lui e per quanto possibile, immagine di Dio.

Per questa altissima vocazione l’uomo occupa un posto centrale nel cosmo, ha una dignità enorme. Ha una funzione mediana tra il naturale e il sovrannaturale. La sua comparsa ha dato un senso alle cose, facendo emergere da esse la razionalità e facendo sì che da mezzo ad esse sorgesse la lode a Dio loro Creatore. L’uomo dunque è la creatura alla quale sono ordinate tutte le altre perché egli le conduca a Dio. Egli è il compendio di tutta la natura, la conosce e la ricrea in se stesso. Sono, questi, accenti che si ritroveranno, sia pure viziati di immanentismo, nell’Idealismo tedesco. L’uomo raccoglie in sé la razionalità inespressa e inconsapevole delle cose create.

L’anima umana è fatta per godere un giorno il Bene infinito che è Dio. Di Lui ha una conoscenza imperfetta ma sicura che gli viene dalla fede. Questa mette in moto la ragione filosofica perché l’amore verso Dio esige di conoscere meglio l’oggetto amato. Ciò significa che fede e ragione e filosofia e teologia si completano e svolgono la funzione di guidarci nel nostro pellegrinaggio verso Dio. L’anima umana ha facoltà diverse a seconda degli oggetti cui si applicano: la sensitiva che subisce l’azione degli oggetti esterni e l’intelletto che astrae la conoscenza intellegibile dalle immagini sensibili.

In gnoseologia Bonaventura riprende la dottrina dell’Illuminazione agostiniana, intendendo con essa anche e soprattutto un processo di liberazione della mente dalle tenebre dell’ignoranza prodotte dal peccato e di avanzamento nella contemplazione del mistero divino, le cui tracce, come dicevamo, sono state lasciate ovunque dal Creatore del cosmo. Pur accettando che ogni uomo abbia un intelletto passivo predisposto alla conoscenza, Bonaventura asserisce che i principi infallibili, evidenti, oggettivi, universali e assoluti non possono essere comunicati ad esso da quello attivo per astrazione, in quanto questo intelletto è fallibile, mutevole e condizionato. Esso serve per le conoscenze particolari ma quelle universali dipendono dalla luce divina che irradia il fondo dell’anima e nella quale le vediamo. Bonaventura ha così interpretato e integrato la gnoseologia aristotelica in senso agostiniano. La luce interiore che illumina l’uomo è, anche nell’ordine naturale, Cristo, Verbo di Dio.

Cristo è il Verbo divino, il modello universale, il centro del cosmo. Su questi tre concetti Bonaventura costruisce la sua cristologia. E’ Verbo di Dio in quanto Seconda Persona della Santissima Trinità, Parola proferita da Lui nella quale dice tutto di Sé, tutto ciò che sa e tutto ciò che può. E’ la Parola che chiama all’essere tutte le cose, le quali rispecchiano quegli archetipi contenuti nel Verbo stesso. E’ il Verbo che illumina l’anima e le fa conoscere la verità. E’ il Verbo che, umiliandosi nell’Incarnazione, ha innalzato la natura umana ai fastigi della Divinità, mostrandole la luce della verità rivelata e compiendo la Creazione nel suo scopo ultimo. La Parola del Verbo è umile perché incarnata, ma potente e salvifica perché divina. L’uomo nel Verbo Incarnato contempla l’unione mirabile dell’Umanità e della Divinità, simile a quella del primo e dell’ultimo, del sommo e dell’infimo, della circonferenza e del centro, dell’alfa e dell’omega, del causato e della causa, del Creatore e della creatura, del libro scritto dentro e di quello scritto fuori.

Cristo è il modello universale, nell’ordine dell’essere quale Verbo Creatore che contiene gli archetipi, e nell’ordine dell’agire, in quanto con la Passione ci spiega come morire al peccato per amore e con la Resurrezione ci spinge a praticare la giustizia che è premiata con la gloria di un corpo incorruttibile.

Cristo è il centro ancor più che l’elemento mediano del cosmo e della storia. Infatti come mediano unisce Umanità e Divinità, ma come centro è la misura e il fulcro di ogni cosa ricondotta in Lui all’unità. Cristo è centro non solo in quanto Dio ma anche in quanto Uomo, nato da Donna e Crocifisso. Passione, Risurrezione ed Ascensione sono le tre delle posizioni centrali di Cristo che riguardano la Sua Umanità.

In cosmologia Bonaventura sostiene l’ilemorfismo universale, in quanto la materia non è principio corporeo ma di limitatezza, per cui tutte le cose devono avere una materia loro propria, anche quelle spirituali, ed una forma. La forma è l’atto dell’ente e la materia la sua potenza. Tuttavia se anche gli spiriti sono fatti da una materia spirituale, allora anche gli angeli possono costituire un genere o una specie e soprattutto le anime sono anch’esse composte di forma e materia spirituale. L’anima dunque diventa forma del corpo senza cessare di essere un composto e può sopravvivergli benissimo quando si separano, non essendo la sua forma diretta. Il corpo riceve la sua ultima perfezione dall’anima, ma questo è un composto separato da esso. Bonaventura sostiene anche la pluralità delle forme, per cui ogni essere ha tante forme quante sono le sue facoltà; la conseguenza è che esiste una forma vegetativa, una sensitiva ed una razionale e che tutte e tre sono nell’uomo. Saranno i discepoli di Bonaventura ad accorgersi che la struttura dei composti così concepita rischiava di essere troppo ingarbugliata, specie se mescolata all’ilemorfismo. Il Dottore Serafico sostiene altresì che la creazione è avvenuta nel tempo in quanto se fosse eterna non sarebbe compatibile con la Provvidenza e la libertà umana. Del resto se il tempo dell’Universo fosse eterno, non dovrebbe essere divisibile in parti né suscettibile di accrescimento, come invece avviene con il trascorrere dei giorni, delle stagioni e degli anni; analogamente in un mondo eterno avremmo infiniti enti limitati, il che sarebbe anch’esso contraddittorio. In questo cozza fortemente con Aristotele considerandolo incompatibile col Cristianesimo. Infine sostiene, come Agostino, che Dio, quando ha creato tutte le cose, alcune le ha fatte subito, altre le ha poste sotto forma di semi, che potenzialmente contengono quanto poi diverranno, nel momento in cui Egli ha stabilito che si sviluppino. Tali semi, contenuti nella materia, si sviluppano sotto l’azione di un elemento agente.

In mariologia Bonaventura è grande quanto Bernardo ed Alberto Magno; trattò della Maternità Divina, sostenne la Maternità spirituale verso ogni anima, la Mediazione Universale e la Regalità di Maria. Asserì che accanto all’imitazione di Cristo quella mariana è fondamentale per il progresso spirituale. La devozione mariana è per lui segno di predestinazione, così come nessuno si è mai santificato senza la mediazione e l’esempio di Maria.

Vero principe della teologia mistica, Bonaventura sostenne che vi sono tante manifestazioni della vita spirituale, disposte gerarchicamente, quanti sono i giorni della Creazione: senso, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e sinderesi. Oltre essi, al settimo giorno corrisponde la contemplazione mistica. L’uomo scorge Dio nell’orma impressa nel mondo sensibile; poi ancor meglio Lo vede in se stessa per l’immagine e nell’immagine; indi coglie alcuni brandelli del divino tramite la luce che splende sopra il nostro intelletto e in essa; alla fine brama di conoscere l’essenza stessa del Principio supremo e del Mediatore tra lui e Dio, ossia Cristo e vuole sprofondare nelle verità che non hanno riscontro nelle realtà empiriche e che superano le capacità del nostro intelletto. A tal punto deve immergersi nelle sue visioni, trascendendo il sensibile e anche se stessa.

Per ascendere a Dio l’anima deve evitare il peccato che la deforma, deve esercitare le proprie facoltà naturali per ottenere con la preghiera la Grazia che le restaura, con la giustizia di impostare correttamente i rapporti coi suoi simili, con la meditazione la scienza che lo illumina e con la contemplazione la sapienza che dà compimento all’anima. Alla meta finale si arriva mediante la via purgativa, quella illuminativa e quella unitiva. Ognuna di esse si serve dei medesimi mezzi – orazione contemplazione meditazione - ma ha anche degli strumenti propri e uno specifico suo fine. La via purgativa fugge il peccato e si esercita nella virtù meditando la Passione. La via illuminativa si raccoglie mediante la preghiera, esercita i doni infusi, imita Cristo e pratica la devozione mariana. La via unitiva vive la vita eucaristica, contempla e giunge all’estasi, che può giungere alla morte mistica, alla tenebra luminosa e al rapimento. Il vertice mistico è oltre le creature, ma vive della vita di tutte.

Si può concludere asserendo che Bonaventura ci ha lasciato una sintesi mistica dell’agostinismo medievale, con una forte ispirazione francescana, il cui scopo è rendere l’uomo migliore.

RUGGERO BACONE

Nacque a Ilchester intorno al 1215, studiò a Oxford e a Parigi. Fu spirito enciclopedico e cultore delle scienze e delle lingue. Insegnò dal 1240 al 1247 a Parigi e diffuse l’aristotelismo nella Facoltà di Teologia. Nel 1256 divenne francescano, al massimo nel 1257. Scrisse l’Opus Maius, l’Opus Minus e l’Opus Tertium in onore di papa Clemente IV (1265-1268), per proporgli un piano di riforma degli studi. Ma nel 1277 alcune sue tesi sull’astrologia furono condannate e lui stesso venne imprigionato. In carcere compose il Compendium studii theologiae. Morì nel 1292.

Nell’Opus Maius Bacone dà inizio alla Rivoluzione Scientifica, anche se non lo sa, e tracciando un solco sul quale si muoverà il suo omonimo Francesco quattro secoli dopo, descrive non solo ampiamente il quadro di tutte le scienze ma denuncia gli ostacoli che la conoscenza trova sulla sua strada e dai quali l’uomo deve liberarsi: il principio di autorità, la consuetudine, il consenso alle opinioni comuni, l’uso di un sapere apparente. Inoltre Bacone riafferma il primato della teologia sulla filosofia, considerando quest’ultima come il complesso di tutte le conoscenze, e affermando che quest’ultima serve per una maggior intellezione del testo sacro alla cui esegesi essa fornisce mezzi e strumenti. Ciò è tanto più comprensibile se si pensa che ai filosofi Dio rivelò tante verità sia pure tramite la ragione. Bacone raccomanda poi lo studio delle lingue, specie l’ebraico, e della grammatica per capire la Bibbia. Matematica, ottica, scienza sperimentale e morale sono poi gli altri argomenti affrontati nell’opera.

Tutti questi temi tornano approfonditi nell’Opus Tertium, nel quale Bacone ribadisce che una cultura ampia e approfondita non solo non è dannosa ma è utile per lo studio teologico. Il progetto baconiano è la fondazione e la rinascita di tutte le scienze nel quadro della sapienza cristiana, per rivitalizzare il mondo cristiano e la sua civiltà. Convinto di vivere in una età barbara, il filosofo vuole rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della filosofia, cominciando dalla superstizione dell’autorità, e vuole adoperare un metodo empirico che interpreta i dati con la matematica. All’esperienza Bacone attribuisce sia la conoscenza corporea esterna che quella spirituale interna che porta anche alla mistica. La scienza sperimentale supera tutte le conoscenze umane naturali perché garantisce conoscenze complete, concatena i risultati di tutte le discipline e permette di conoscere il passato e il futuro mediante l’individuazione delle leggi sempre simili della natura. Bacone adottò una ontologia neoplatonica e una gnoseologia agostiniana sintetizzandole in una cosmovisione coerente. L’agostinismo baconiano è senz’altro originale, spiccatamente oxfordiano; si innestò sulle fondamenta filosofiche del Francescanesimo e si caratterizzò per il volontarismo, lo spirito pratico e l’ottimismo naturalistico e storico.

I MAESTRI INGLESI

Tra essi vi sono i più pugnaci avversari del tomismo. Negli anni cinquanta del XIII secolo Aristotele aveva trionfato nell’Università e il suo studio era diventato obbligatorio. Alberto Magno e Tommaso avevano creato delle sintesi concettuali su base aristotelica. Ma negli anni settanta riesplose la polemica, a causa delle traduzioni latine delle opere di Averroè, che interpretavano Aristotele in un modo assolutamente incompatibile con la fede cristiana e del fatto che esse influenzarono alcuni pensatori, tra i quali Sigieri di Brabante (1240-1282), che era il massimo filosofo dell’epoca e maestro delle Arti alla Sorbona. In conseguenza di ciò, l’Arcivescovo di Parigi Stefano Tempier nel 1270 condannò tredici proposizioni averroiste (unicità dell’intelletto per tutto il genere umano, la scelta umana come necessitata, il governo dei corpi celesti sulle vicende terrene, l’eternità del mondo, l’anima come forma mortale del corpo, la conoscenza divina come incentrata solo su di Sé, la negazione della Provvidenza) per vietarne l’insegnamento universitario. Nel 1277 lo stesso prelato tornò sul tema e sulla base di una sua inchiesta che, sebbene voluta da papa Giovanni XXI (1276-1277) e condotta con l’ausilio di grandi periti, fu affrettata e incoerente, di sua iniziativa fulminò duecentodiciannove anatemi su altrettante proposizioni che sembrarono imporre una definitiva battuta d’arresto anche all’aristotelismo cristiano, temporaneamente espulso dalla Sorbona ma non, come si crede, condannato come eresia. Riguardavano centosettantanove errori filosofici e quaranta teologici; i primi vertevano sulla natura della filosofia, su Dio, sugli Angeli, sui corpi, sull’uomo e la sua attività spirituale, sui miracoli; i secondi riguardavano la religione cristiana, i dogmi, le virtù e il fine dell’uomo. Gli autori da cui esse erano desunte erano essenzialmente Sigieri e Averroè, ma non mancavano Avicenna e Tommaso, quest’ultimo in una dozzina di citazioni. Alcune erano di ignoto autore. La conseguenza fu che, se gli errori averroisti furono arginati, il tomismo venne screditato e sorse un aristotelismo eclettico assai pericoloso, mentre il pensiero platonico ed agostiniano sembrò riprendere il sopravvento, mentre si gettarono le basi per la nascita del volontarismo che avrebbe distrutto la filosofia medievale. Ebbene proprio in Inghilterra vi furono i maggiori avversari del tomismo.

Prima della condanna ed eccettuati Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone, in Inghilterra si erano distinti Tommaso di York, francescano morto nel 1260 e sostenitore dell’ilemorfismo oltre che studioso di gnoseologia, e Riccardo Fishacre, morto nel 1248, domenicano e seguace di Agostino.

Roberto Kilwardby (1215 ca.-1279), maestro delle Arti a Parigi, domenicano, teologo ad Oxford, provinciale inglese, Arcivescovo di Canterbury e Cardinale, nonostante il suo saio bianco fu assertore dell’agostinismo nel modo più egregio al suo tempo. Nel 1277 condannò ad Oxford trenta proposizioni di ispirazione tomista. Queste condanne non furono però come di eresie, ma per proscrivere l’insegnamento di quelle dottrine nelle Università. Insegnò le ragioni seminali, la pluralità delle forme, l’ilemorfismo, l’illuminazione, la creazione nel tempo, la distinzione formale delle facoltà dell’anima. Classificò tutto lo scibile umano, dividendo le scienze divine dalle umane: le prime hanno Dio per autore e vertono sulla Bibbia e la teologia; le seconde annoverano le discipline del Trivio e del Quadrivio e la triplice filosofia, ossia divina o metafisica, matematica e naturale. Roberto considera la teologia come una scienza pratica e il teologo quale mero compilatore. Essa ha come oggetto Gesù Cristo e la Chiesa.

Giovanni Peckham (1220-1292), francescano inglese, fu entusiasta assertore della Regola del suo Ordine e considerava il suo Fondatore come un altro Cristo in terra. Docente a Parigi e ad Oxford, provinciale di Inghilterra e Arcivescovo di Canterbury, scrisse diverse opere e ribadì le condanne tomiste del 1277. Si oppose all’uso della gnoseologia e della metafisica aristoteliche in teologia. Sostenne la dottrina dell’illuminazione, la pluralità delle forme e le ragioni seminali. Affermò che ogni uomo ha un suo intelletto agente per le conoscenze naturali ma dipende dall’Intelletto divino per le verità eterne. Considerò l’ideale della povertà come la realizzazione delle aspirazioni delle scuole filosofiche antiche, come presupposto per giungere alla perfetta umiltà, alla tranquillità, alla sapienza e al superamento della condizione di peccato mediante la restaurazione dell’innocenza, la quale originariamente comportava appunto comunanza dei beni e rifiuto dello spirito di possesso.

Degno di menzione è l’anonimo autore dell’oxfordiana Summa Philosophiae. Divisa in trattati, traccia la storia del pensiero, predilige Platone, loda il metodo e la cultura di Aristotele, classifica gli autori sacri e i teologi, enuncia i concetti della verità e della scienza, risolve il problema del rapporto tra fenomeno e noumeno molto prima di Kant, spiega la differenza tra materia e forma, asserisce l’ilemorfismo e l’esemplarismo nella Creazione, insegna che l’intelletto agente ha nozioni innate, spiega questioni di psicologia, di fisica, di astronomia e di mineralogia.

I DISCEPOLI DI BONAVENTURA

Sono tutti agostiniani per il tramite del Serafico. E ovviamente francescani. Il primo è Eustachio di Arras (†1291) fu celebre predicatore e sostenitore della dottrina dell’illuminazione. Gualtiero di Bruges (†1307) fu agostiniano e bonaventuriano ad un tempo.

Matteo di Acquasparta (1240 ca.-1302), cardinale, teologo e filosofo, maestro reggente a Parigi, docente a Bologna e a Roma, ministro generale dei Francescani, autore di molte opere in gran parte ancora inedite, sostenne l’agostinismo in modo polemico contro il tomismo. Rigettò la possibilità di una creazione eterna, sostenne che la materia fosse principio di individuazione, l’ilemorfismo, le ragioni seminali e un certo occasionalismo, l’illuminazione, l’autointuizione immediata dell’anima, la colleganza naturale tra essa e corpo. Il Cardinale fu anche un deciso sostenitore della ierocrazia pontificia come formulata da Bonifacio VIII (1294-1303)

Ruggero Marston (morto dopo il 1298) elaborò un pensiero su base aristotelica con una serie di sovrastrutture agostiniane.

Pietro di Giovanni Olivi (1248/1249-1298), maestro in Francia e a Firenze, autore di svariate opere, venerato in morte per la santità della sua vita, assertore pugnace della povertà evangelica, fu un sostenitore deciso della pluralità delle forme e dell’ilemorfismo. Nel suo sistema la materia spirituale dell’anima ha una forma intellettiva ma anche una sensitiva che a sua volta è forma diretta del corpo umano. Questa foresta di forme e materie fu disboscata dal Concilio di Vienne che nel 1311 condannò la tesi per cui l’anima non è la forma diretta del corpo. Pietro professa la dottrina dell’illuminazione ma si rende conto delle difficoltà che solleva; abbandona la dottrina delle ragioni seminali; nega che la sensibilità possa influire sull’intelletto se non per una sorta di solidarietà tra le facoltà dell’anima, sostenne che l’esistenza di Dio si può dimostrare sia con prove a posteriori che con quella a priori. Pietro insegnò altresì che nella storia della Chiesa vi sono sette età e che ai suoi tempi si era prossimi alla settima, per entrare nella quale i veri fedeli avrebbero dovuto sostenere una dura persecuzione da parte dell’Anticristo insediatosi sul trono di Pietro. Questa tesi fu condannata da Giovanni XXII (1316-1334) nel 1326 e segnò il declino del culto postumo di Pietro. Egli additò nella meditazione del Vangelo e nella lettura dei Padri le basi di una spiritualità in cui la teologia stessa contempla i misteri della vita trinitaria. Con Bonaventura e Scoto Olivi fu il massimo pensatore francescano del periodo.

Pietro di Trabes, vissuto nell’ultimo terzo del XIII secolo, è fautore di uno psicologismo gnoseologico che ripudia parzialmente la dottrina dell’illuminazione.

Vitale di Four (†1327), cardinale, sostenne che l’essenza e l’esistenza degli enti sono identiche, non perché tutti gli enti siano necessari ma perché l’esistenza stessa non aggiunge altro alla sua essenza se non un rapporto con la sua causa efficiente. Essenza e esistenza stanno a potenza ed atto ma per il mezzo della partecipazione all’Essere divino. Qui è proprio l’esistenza il principio di individuazione di ogni ente.

Con Riccardo di Middleton, morto all’inizio del XIV secolo, il processo di dissoluzione dell’agostinismo filtrato da Bonaventura giunge all’estremo. Egli sostiene che l’anima ha un intelletto agente che astrae le forme dai sensibili, che non ha notizia diretta di sé, che Dio si dimostra esistente solo a posteriori. Tuttavia fonda la sua teologia sull’ontologia di Agostino e Bonaventura, sostenendo il primato del bene, quello della volontà in psicologia e morale, rifiuta la distinzione tra essenza e esistenza in senso reale, attribuisce alla materia una minima attualità, nega la pluralità delle forme e conserva le ragioni seminali. Sostenne che l’universo si espande e si ingrandisce. Come reazione alle condanne antiaristoteliche del 1277 di cui diremo, Riccardo può sostenere che il necessitarismo non esiste e che possono sussistere più universi e che il primo cielo potrebbe essere mobile all’occorrenza per divino volere. La sintesi tra pensiero di Bonaventura e aristotelismo propugnata da Riccardo non ebbe seguito.

Guglielmo di Ware, morto dopo il 1300, fu maestro probabilmente di Duns Scoto e filosofo volontarista con posizioni spesso vicine al tomismo ma senza mai rinnegare l’agostinismo del tutto.

IL BEATO RAMON LULL, DOCTOR ILLUMINATUS

Fu l’ultimo francescano in cui visse lo spirito serafico del XIII secolo. Nacque nel 1235 e morì nel 1315. Di Maiorca, ricco e padre di famiglia, fu poi francescano, missionario tra i musulmani che lo arrestarono e flagellarono, indi dedito alla filosofia e al rinnovamento del mondo cristiano, maestro a Montpellier e a Parigi, morì martire in Marocco. Considerato dottore dai francescani e detto Illuminato, ma non riconosciuto dalla Santa Sede, scrisse opere polemiche contro gli averroisti e sistematici, e tra le altre cose l’Ars magna, un testo che voleva convincere gli infedeli con l’apologetica. Siccome musulmani e averroisti rigettano rispettivamente la Rivelazione e la sua ragionevolezza, Lull, tornando al programma anselmino delle ragioni necessarie, argomenta per costruire l’armonia tra teologia e filosofia partendo da principi condivisi da tutti: nove trascendenti -bontà grandezza eternità potenza sapienza volontà virtù verità gloria- e nove relativi alle arti - differenza concordanza contrarietà principio mezzo fine maggiore eguaglianza minore. Tutti gli esseri sono implicati in questi principi o si sono sviluppati per essi nella loro essenza o natura. Ramon Lull enuncia le regole che permettono di combinare questi principi; esse sono delle domande molto generali applicabili a tutti: di che, perché, quanto, quale, quando, dove e altre simili. Le operazioni che realizzano le combinazioni esigono nozioni metafisiche e logiche che Lull mette sullo stesso piano e considera egualmente evidenti. In poche parole, Lull fu un precursore dell’arte combinatoria di Leibniz. In ogni caso queste combinazioni, evidenti per tutti gli uomini, avvengono tra enti che sono imitazioni di Dio, perciò combinando essi l’uomo conosce meglio Dio. A dimostrazione della validità del suo sistema Lull articolò l’albero della scienza, che ha come radici i diciotto principi elencati sopra e come rami sedici discipline che a loro volta sono alberiformi. Le tavole combinatorie sono lo strumento con cui Lull voleva conoscere e dominare le cose, superando la logica tradizionale. A tale scopo il Beato approfondì molto la mnemotecnica che gli faceva padroneggiare infinite cognizioni. Di questo filosofo molti ebbero una immagine alchemica perché con questo procedimento voleva arrivare alle essenze delle cose stesse. Il suo pensiero ebbe fortuna specie quando, ripreso da Cusano, giunse sino ai platonici dell’Umanesimo.

In teologia Ramon Lull non distingue più tra verità della teologia razionale e verità della rivelata, assoggettando tutte al metodo delle ragioni necessarie. Dio per Lull è una realtà dinamica le Cui caratteristiche sono tutte attive. Ognuna si dispiega in una terna di agente, paziente e atto. Diviso in piani esemplificati sulla perfezione divina, l’universo lulliano serve all’uomo per contemplare il Signore. In cristologia Lull sostiene l’assoluto primato di Cristo, in mariologia l’Immacolata Concezione. Per queste posizioni meriterebbe che il suo Dottorato tradizionale fosse riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa.

In filosofia Ramon Lull sostenne i rapporti tra fede e ragione in modo simile a Tommaso e in modo similare insegnò le funzioni della ragione nell’approfondimento delle verità rivelate; ma fu francescano fino al midollo insegnando l’impossibilità della Creazione eterna del mondo, l’ilemorfismo, la pluralità delle forme, il primato della volontà sull’intelletto, l’univocità dell’essere.


Theorèin - Maggio 2017