LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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CHI SONO I DOTTORI DELLA CHIESA
PRAEDICATORUM SCHOLA

Breve introduzione a Sant’Alberto Magno e ai dottori domenicani

LA SCUOLA DOMENICANA

Nel XIII secolo per la prima volta il Cristianesimo prese coscienza di tutto il suo potenziale filosofico trovando una formula intellettuale che gli permettesse di estrinsecarlo. Questa formula era quella di Aristotele: un giro compatto e denso di concetti necessariamente collegati che dicesse ad un tempo tutto quello che la ragione deve conoscere e la fede deve credere. Questo edificio concettuale fu costruito non senza sforzi: le opposizioni erano potenti e si incentravano sulla consapevolezza che l’aristotelismo in molti punti era diametralmente opposto al Cristianesimo. Perciò bisognò rendere comprensibili ed emendare i concetti partoriti dalla mente dello Stagirita, piegandoli alla dottrina cristiana, con una operazione simile ma ancor più profonda di quella con cui nell’età dei Concili cristologici il lessico comune della filosofia greca era stato forzato ad esprimere i dogmi di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia.

I grandi geni che riuscirono in questa impresa di battezzare Aristotele furono essenzialmente due: Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo merita una trattazione a sé e perciò in questa sede esporremo il pensiero di Alberto e degli altri maestri domenicani minori, non tralasciando di iniziare dal tratteggio del magistero spirituale di San Domenico di Guzman.

SAN DOMENICO DI GUZMAN

Nacque in Spagna a Calaruega nel 1170. Recatosi in Francia assieme al suo vescovo Diego, nel 1205, conobbe la miseria spirituale dei Catari di Tolosa e decise, già canonico di Osma, di costituire un nucleo di religiosi missionari che combattessero l’eresia in modo specializzato, direttamente al servizio della Gerarchia ecclesiastica, usando sia la dottrina che la santità dell’esempio.

San Domenico capì che la predicazione era un dovere di tutti i cristiani, tanto che dopo di lui essa non fu più riservata ai soli Vescovi ma fu estesa a tutti i presbiteri e diaconi, purchè degnamente preparati. Promosse una vita religiosa mista, sia attiva che contemplativa. La sua idea, basata su una ispirazione pauperistica ortodossa, fu approvata verbalmente da Innocenzo III (1198-1216) nel 1206 e poi per iscritto da Onorio III (1216-1227) nel 1216 e nel 1217. Nacquero così i Frati Predicatori o Domenicani. Il Santo fondò una prima Casa a Tolosa, adottò la regola agostiniana e iniziò la sua azione apostolica. Domenico decise di predicare in Italia ma evangelizzò anche la Francia e la Spagna. Nel Capitolo Generale di Bologna nel 1220 il Santo elaborò una prima Costituzione che fu completato sotto i generalati di San Raimondo di Peñafort e del Beato Umberto di Romans, ossia tra il 1241 e il 1259. La costituzione impose la povertà del singolo e della comunità, mutuò caratteristiche tradizionali delle congregazioni dei canonici regolari, specialmente dei Premostratensi, si ispirò a forme di vita monastica, specie dei Cistercensi. Ordinava di vivere di elemosine. Possedimenti terrieri ed introiti fissi furono aboliti. Il Capitolo generale annuale ebbe poteri legislativi supremi e l’incombenza di eleggere il maestro generale, nonché di deporlo all’occorrenza. I Capitoli provinciali eleggevano i maestri provinciali che venivano confermati dal maestro generale. I due gradi capitolari controllavano i rispettivi maestri. La funzione centrale della predicazione nel programma domenicano fece sì che si nominasse un maestro di teologia e un direttore di studi per ogni convento, si erigesse uno studio generale per ogni provincia e si mandassero i migliori studenti allo Studio parigino di San Giacomo. I Domenicani dovevano essere sottomessi al Papa e ai Vescovi. Il tenore di vita dei frati doveva essere austero, basandosi su povertà, digiuno, astinenza e penitenze personali). Domenico viaggiò indefessamente, fino in Inghilterra, lavorando per far entrare i suoi frati nelle Università. Morto a Bologna nel 1221, fu canonizzato da Gregorio IX (1227-1241) nel 1231. Dal 1240 i conventi domenicani divennero centri di lavoro pastorale basato sulla predicazione, la liturgia, la cura d’anime e la direzione confraternale. Il Papato attinse ai quadri dell’Ordine per l’Inquisizione. Gli studi domenicani furono i vivai dei massimi teologi. L’Ordine si diede alla missione in Prussia, Provenza, Palestina, Spagna, Africa settentrionale; promosse l’unione della Chiesa greca con quella Latina; raggiunse per evangelizzare i Mongoli e i Cumani. Ebbe ben presto un Secondo ramo, l’Ordine femminile, quello delle Penitenti di Santa Maria Maddalena, fondato dal canonico regolare Rodolfo di Hildesheim, tra il 1226 e il 1227. Infine dalla confraternita laicale della Militia Christi si sviluppò il Terz’Ordine domenicano, i Fratelli e le Sorelle della Penitenza di San Domenico.

I PRIMI MAESTRI DOMENICANI

Abbiamo parlato di Rolando di Cremona, che fu domenicano. Tra i primi maestri domenicani, oltre a lui, ci sono Ugo di San Caro (†1263), cardinale, commentatore profondo dei sacri testi, e Pietro di Tarantasia, nato nel 1225, poi papa Innocenzo V (nel 1276, anno in cui morì) e beatificato dalla Chiesa. Sono degni di essere menzionati anche il Beato Giordano di Sassonia (1190-1237) e il Beato Umberto di Romans (1200-1277), primo e quarto successore di Domenico nel generalato dell’Ordine, rispettivamente dal 1222 al 1237 e dal 1254 al 1263. Il primo fu autore di diverse lettere, il secondo di un Opus Tripartitum.

SAN RAIMONDO DI PEŇAFORT

Dall’epoca del Decretum Gratiani, il diritto canonico aveva continuato il suo impetuoso sviluppo. I decretisti condensarono in glosse, quaestiones, trattati e somme tutto il materiale giuridico ad uso dell’insegnamento e dei tribunali. Sorse così la sintesi teorica e pratica del nuovo diritto, alimentato dalle decretali papali e dalle costituzioni conciliari. Le raccolte di tal genere furono più di ottanta, fatte da privati o per volontà dei Papi. Le maggiori sono le cinque comprese tra il 1191 e il 1126. Di esse due furono autenticate e date in uso in scuole e tribunali: la Compilatio Tertia di Pietro di Benevento sotto Innocenzo III (1198-1216) nel 1209 e la Compilatio Quinta di Tancredi sotto Onorio III (1216-1227) nel 1220. Tuttavia il grande maestro e fondatore del Diritto Canonico fu proprio un domenicano.

Nato nel Castello di Peñafort in Catalogna nel 1175, si diede agli studi giuridici e a vent’anni iniziò ad insegnare a Barcellona e poi passò a Bologna. Nel 1219 divenne sacerdote e canonico di Barcellona. Nel 1222 divenne domenicano. Gregorio IX (1227-1241) lo volle a Roma quale consigliere, confessore e Penitenziere Maggiore; gli conferì poi l’incarico di raccogliere in un solo corpo giuridico i decreti pontifici. Nacque così la raccolta del Liber decretalium extra decretum vagantes, il primo codice pontificio universalmente vigente, che riuniva i testi fino a quel momento sfusi e dispersi in ben cinque tomi. Correva l’anno 1234. Raimondo, ammalatosi per la fatica, fu poi maestro dell’Ordine domenicano dal 1238 al 1241. Morì centenario nel 1275. L’attività di sistematizzazione giuridica continuò con Innocenzo IV (1243-1254) – autore di ben tre raccolte di sue leggi e di un Apparatus di commento alle decretali di Gregorio e Raimondo- , Enrico l’Ostiense (†1270) e Giovanni Andrea (1270-1348). Bonifacio VIII (1294-1303) che promulgò il Liber Sextus, contenente le altre decretali e costituzioni promulgate dopo l’opera di San Raimondo. Ciò avvenne nel 1298. Clemente V (1305-1314) nel 1314 promulgò le sue decretali nel 1314 nella raccolta delle Clementinae. Tale raccolta fu ripromulgata da Giovanni XXII (1316-1334) nel 1317, mentre le sue Extravagantes rimasero a lungo alla base della giurisprudenza ecclesiastica.

DOCTOR UNIVERSALIS: SANT’ALBERTO MAGNO

La sintesi culturale albertina è speculare a quella bonaventuriana, essendo quest’ultima funzionale alle esigenze dello spirito francescano e a quella di mantenere salda l’unità del sapere sotto l’egida della sapienza divina, mentre la prima è stata adatta ai bisogni domenicani e al grande scopo di salvaguardare la specificità di ogni scienza profana, sia pur emendata dai suoi errori, onde giungere ad una più matura intellezione delle realtà umane e divine, debitamente coordinate.

L’opera di Alberto è il presupposto del pensiero tomista, che si è nutrito dell’oceano di nozioni raccolto dal Dottore, che di Tommaso- come vedremo- fu il maestro. Senza questa messe sterminata, il raccolto di Tommaso sarebbe stato o più striminzito o più faticoso. Inoltre non tutto quanto raccolto da Alberto fu assimilato da Tommaso, per cui il pensiero del Dottore Universale è suscettibile di sviluppi ulteriori e diversi, di cui quello tomista è solo uno possibile e nemmeno il più fedele all’ispirazione del magistero albertino.

Sant’Alberto nacque a Böllstadt presso Lauingen in Svevia tra il 1200 e il 1206; studiò a Bologna e a Padova – in quest’ultima non solo le Arti ma anche filosofia e medicina – e nel 1223 divenne domenicano; fece il noviziato a Colonia dove continuò a perfezionarsi negli studi. La sua specialità furono le scienze naturali. Nel 1228 iniziò la sua carriera di lettore di teologia in vari conventi tedeschi, sino al 1240. In quell’anno venne inviato a Parigi per graduarsi in teologia; fino al 1242 fu baccelliere sentenziario; da questa data al 1248 fu maestro reggente di una delle due cattedre domenicane della Sorbona. In quell’anno gli fu affidato l’incarico di allestire lo Studio generale e solenne del Convento di Colonia. Si chiuse così quel periodo parigino nel quale Alberto non solo aveva avuto come allievo Tommaso d’Aquino– ora al suo seguito in Germania – ma aveva consolidato la sua fama e composto due opere fondamentali come la Summa de Creaturis e il Commento alle Sentenze.

A Colonia il Santo introdusse corsi di filosofia e si diede a commentare gli scritti di Dionigi l’Areopagita. Nel 1254 venne eletto provinciale della Germania, rimanendo in carica fino al 1258. Finito il mandato, riprese ad insegnare a Colonia fino al 1260. Nel corso della furiosa polemica sul diritto dei Mendicanti di insegnare all’Università oltre che di curare le anime, l’intervento di Alberto presso papa Alessandro IV (1254-1261) – al quale era stato inviato dal Capitolo generale domenicano del 1256 – fu determinante per la soluzione della disputa a vantaggio dei nuovi Ordini. Nel 1257 non solo i Francescani e i Domenicani vennero confermati nella cura d’anime, nell’apostolato e nell’insegnamento, ma sia Tommaso che Bonaventura ricevettero la laurea dottorale a Parigi, il tutto per volontà del Pontefice. Nel frattempo Alberto, la cui eloquenza nel commento biblico non solo aveva fugato ogni dubbio della Curia sulla capacità dei Frati di insegnare e predicare, ma l’aveva anche infervorata per la loro causa, fu incaricato dal Papa di confutare l’errore averroista che negava l’immortalità dell’anima umana. Nacque così il De Unitate intellectus contra Averroem, destinato ad essere inserito nella Summa di Alberto. Nel 1260 il Dottore divenne Arcivescovo di Ratisbona, sede nella quale stette fino al 1261, dopo aver represso gli abusi maggiori. L’ufficio episcopale infatti imponeva ad Alberto un governo temporale che egli non sentiva consono alla sua indole più intima. Dal 1262 al 1280, anno della sua morte, il Santo fu dedito a svariate attività, senza tralasciare mai l’insegnamento e la scrittura. Predicò la Crociata nel 1263 in Germania e Boemia. Dal 1264 al 1270 visse tra Visburgo e Strasburgo. Nel 1274 partecipò al II Concilio di Lione. Nel 1277 si recò a Parigi per difendere il tomismo dalle accuse di Stefano Tempier. Il 14 febbraio 1278 partecipò alla traslazione delle reliquie di Santa Cordola e delle sue compagne martiri. Il 15 novembre 1280 morì santamente. Beatificato nel 1622 da Gregorio XV (1621-1622), venne canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa da Pio XI (1922-1939).

Alberto fu detto Magno proprio per la sua sterminata produzione letteraria, che impresse un’orma indelebile per tutto il Medioevo nei campi più svariati. Si disse che se paradossalmente si fosse perduto tutto il sapere, Alberto l’avrebbe risuscitata con la sua sola memoria. In effetti la sua vita videro congiunte inestricabilmente virtù e apostolato, concepito integralmente quale termine di tutte le attività e quindi in special modo le intellettuale. Fu chiamato il Varrone germanico, per la sua versatilità nella dialettica, nella matematica, nella fisica, nella geometria, nella metafisica, nell’etica, nella teologia e nelle scienze occulte. Conobbe Platone, Aristotele, Epicuro, Pitagora, Euclide, pensatori latini greci ebrei arabi egiziani. Fu il primo latino a commentare non solo Aristotele, ma anche Euclide e Pietro Lombardo. Fu tra i massimi teologi della sua epoca e il maggiore degli scienziati. La foga con cui Alberto si diede a conoscere ogni ramo dello scibile fu paragonata all’appetito necessario a chi si asside ad un banchetto pantagruelico. Un eroico sforzo di mettere a disposizione di tutta la Chiesa tutto quanto è possibile conoscere. Sebbene ancora oggi molte attribuzioni siano dubbie e alcune senz’altro inautentiche, il corpo albertino si spalma su di un arco cronologico di quattro periodi. Il primo va dal 1228 al 1248 e corrisponde all’insegnamento tedesco fino al 1240 e il soggiorno a Parigi. In esso vennero scritte il Tractatus de Natura Boni, la Summa de Creaturis (che include il De Quattuor Coevis e il De Hominis, i quali a loro volta con il De Bono, il De Sacramentis e il De Resurrectione – opere ancora inedite – costituiscono una sola Summa di teologia non completamente nota al pubblico), i commentari ai Salmi, a Geremia, a Daniele, ai Profeti Minori, ai Vangeli, all’Apocalisse e ai Quattro Libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. Il secondo periodo è quello in cui Alberto fu dedito alla lettura e al commento delle opere dell’Areopagita, dal 1248 al 1254. In esso il Santo insegnò a Colonia e commentò appunto tutto il corpo areopagitico e l’Etica Nicomachea. Il terzo periodo è quello aristotelico, dal 1254 al 1270, nel quale parafrasò tutte le opere aristoteliche, creando una sorta di enciclopedia in tre parti: la filosofia razionale, la filosofia reale (ossia le opere dello Stagirita sul mondo fisico e astronomico) e la filosofia morale. Nella prima parte Alberto parafrasò anche alcune opere di Boezio: il De Divisione e il De Syllogismo. Il quarto periodo corrisponde alla stesura della Summa Theologiae, che però rimase incompiuta. Le opere di Alberto sono in genere poco lette e poco comprese, a causa della forte tendenza assimilatrice dell’autore rispetto alle sue fonti. Egli raccoglie, classifica, respinge, concilia ed interpreta le sue fonti, ma quanto così scremato resta spesso non è chiaro se è totalmente condiviso dal Santo, che esplicitamente dichiara di non parlare sempre a suo nome quando scrive ed argomenta. Questa incertezza ermeneutica dipende essenzialmente dall’impostazione concettuale di Alberto, che era sicuro solo di due cose: la fede e i fatti osservati personalmente. Non a caso Alberto, che pure ha una completa cosmologia, non ha una specifica cosmogonia. La fisica inizia quando inizia il mondo, e può essere desunta dall’osservazione; ma come capire il modo in cui il mondo è nato, se quando questo avvenne la fisica ancora non si strutturava? Solo la Rivelazione di Dio può istruirci su tali cose, che evidentemente non sono legate a nessuna necessità naturale ma alla volontà di Dio, non sono assoggettate a nessuna legge ma ne sono esse stesse il fondamento.

Pensatore dotto e profondo, spirito sensibile, ricco di belle doti, recettivo per ogni impressione che lo colpisca, Alberto dominò sovranamente il ribollire intellettuale della sua epoca, che fu di trapasso da un modello culturale all’altro, dal platonismo all’aristotelismo.

Ad Alberto spetta innanzitutto una nuova puntualizzazione sull’epistemologia teologica, teorizzando quello che chiamiamo l’uso intrinseco della scienza in teologia. Ciò fu la conseguenza della progressiva decadenza dei decreti di condanna dell’aristotelismo nell’Università di Parigi, dove dal 1250 al 1255 tutte le opere dello Stagirita divennero materia di insegnamento obbligatorio nella Facoltà delle Arti. Essa spianò la strada alla riflessione epistemologica proprio di coloro che prima di tutti fecero propri i principi dell’aristotelismo, ossia Alberto stesso e Tommaso d’Aquino suo discepolo.

Il grande merito di Alberto sta nell’aver capito che le opere di Aristotele erano una miniera troppo grande di nozioni per lasciarle inerti, sigillate dietro un anatema. Volle così persuadere i suoi contemporanei della loro utilità, parafrasandone i testi e correggendone i punti incompatibili con la dottrina cristiana. Il Santo era peraltro convinto non solo della possibilità, ma dell’utilità stessa dello sviluppo di una scienza profana autonoma basata sulla ragione umana. Nella definizione dello statuto teologico però, il Dottore non andò oltre le posizioni dei maestri francescani. La teologia per lui è senz’altro scienza aristotelicamente intesa, ossia accertamento della verità, mediante ragioni certe e stabili, a partire dalle nozioni rivelate da Dio. Ciò si addice senz’altro a degli esperti. Tuttavia Alberto concepisce l’uso di questo metodo in senso polemico più che per l’approfondimento delle verità rivelate stesse. Così di fatto le sue posizioni coincidono con quelle di Alessandro di Hales. Teologia e filosofia differiscono perché, pur trattando entrambe di Dio, lo fanno l’una mediante principi di fede e l’altra mediante principi di ragione. Inoltre hanno due oggetti formali diversi, perché la prima tratta di Dio in base a ciò che gli è sostanziale secondo la fede, la seconda in base a ciò che gli è sostanziale secondo le proprietà del primo ente e la sua natura razionalmente conoscibile. Infine hanno un differente fine: l’una studia il vero per condurre al bene e l’altra lo studia per conoscerlo. Perciò l’epistemologia teologica albertina è paradossalmente priva di influssi aristotelici, nonostante sia stata concepita per adoperare l’aristotelismo in teologia.

Alberto Magno organizzò un piano di lavoro che incorporasse nel lavoro scientifico di Aristotele tutti i dati naturalistici e filosofici disponibili all’epoca. Il suo schema enciclopedico lo dovette ad Avicenna, in quanto vi è una esposizione continua di temi e argomenti desunti da varie fonti e contemporaneamente ve n’è il commento, ma proprio per questo motivo il materiale così raccolto fu eterogeneo; analogamente, il Dottore potè essere, proprio perché commentatore in tal guisa, pensatore originale. Alberto prese anzitutto posizione contro quei maestri parigini francescani e secolari ostili alla rinascita aristotelica, esortandoli ad una prudente assimilazione. Poi si impegnò a dimostrare che la lettura che Averroè aveva dato di Aristotele era sbagliata e che quindi la metafisica e la psicologia dello Stagirita potevano essere assimilate tranquillamente. Alberto afferma senza mezzi termini che la fede domina la ragione, che la teologia sovrasta la filosofia, che l’autorità di Agostino è indiscutibile nelle cose di fede e che Aristotele e molti greci hanno commesso gravi errori dottrinali. Ma nello stesso tempo poneva quei principi epistemologici di autonomia di ricerca profana che abbiamo enunciato. Alberto abbracciò la metafisica di Aristotele e le sue dottrine principali con qualche ritocco opportuno e significativo, preso da Agostino, Maimonide, Avicenna e Boezio. E’ sembrato ai più un compilatore eclettico, ma in realtà Alberto fu filosofo originale che mediò tra sistemi differenti e approfondì la scienza. L’unico difetto è che non riuscì ad unificare tutte le fonti del suo sistema in modo armonico.

Come dicevamo, per Alberto la teologia è una scienza pratica ed ha una forte componente affettiva. Essa dà certezze incrollabili, fa riposare lo spirito, costituisce il vertice del sapere razionale e trascende con i suoi fulgori anche le intelligenze angeliche. La teologia è la scienza perfetta e necessaria, che ci fa conoscere tutto quanto serve alla salvezza. Essa soddisfa al triplice bisogno di conoscere meglio le verità di fede, di condurre ad essa i semplici mediante le prove persuasive e di vincere l’opposizione degli increduli.

Parlando della ragione, Alberto usa toni più personali, che saranno ripresi da Tommaso d’Aquino, e innovativi. Essa produce la filosofia e la scienza. La prima può costruirsi indipendentemente dalla fede ma in armonia con essa. Filosofia e teologia non si scontrano né si ripetono perché distinti per principi, oggetti, metodi, nonché per le autorità che le sorreggono, ossia rispettivamente le Fonti della Rivelazione e i filosofi antichi. Proprio a partire da Alberto, l’esegesi teologica imposta dalla ragione si restringe mentre si amplia la responsabilità filosofica imposta dalla teologia. Inizia con lui il processo di più netta demarcazione tra l’una e l’altra disciplina, riservando alla prima alcuni ambiti sino ad allora regolati dalla seconda e restituendo a quest’ultima diversi temi fino ad allora trattati da quella. All’autorità dei filosofi Alberto assegna un ambito assai vasto, che preserva la Rivelazione dal rischio di impantanarsi e di svergognarsi in questioni profane che non le competono, mentre la libera dal fardello pedagogico di insegnare ogni tipo di verità, anche empirica. Tuttavia, se glorificava la sapienza pagana a dispetto di quella cristiana in certi ambiti non religiosi, Alberto non ne fece mai una autorità indiscutibile, considerando Aristotele, Galeno e Ippocrate quali maestri della libertà di pensiero, nella quale potevano essere anche corretti ed integrati, se non respinti.

Appare in questo già lo spirito razionalista di Tommaso d’Aquino e da esso discendono le caratteristiche comuni all’albertinismo e al tomismo: gnoseologia empirista, negazione della prova ontologica per l’esistenza di Dio e adduzione per essa di prove tratte dal mondo esterno, indimostrabilità della creazione del mondo nel tempo, individualità dell’intelletto agente.

Per Alberto l’uomo è composto di anima e di corpo. La natura specifica della sua anima fa di lui un animale razionale e quindi un uomo propriamente detto. L’anima è la forma del corpo, ma questa definizione ne stabilisce la funzione non l’essenza. Essa è capace di conoscenza intellettuale. Ma è contraddittorio che un intelletto sia la forma di un corpo, almeno per Alberto, che così contraddiceva Tommaso. L’anima è una sostanza intellettuale che svolge diverse funzioni tra cui quella di forma del corpo.

La completa verità filosofica consiste nell’accordo tra Platone e Aristotele. Infatti l’anima platonico-aristotelica che egli descrive è adatta a un mondo in cui i due filosofi sono conciliati. In esso, l’Universale esiste ante rem, nell’intelletto di Dio, e corrisponde alle Idee di Dio. Il conoscere divino altro non è che l’intelletto agente separato di Aristotele, quello che avvolge e penetra la materia come l’arte dell’artigiano fa con le sue opere. Le Idee costituiscono il mondo intellegibile che causa quanto vi è di intellegibile nella materia stessa. Ogni forma potenzialmente contenuta nella materia prima vi si trova in virtù della conoscenza che ne ha l’intelletto divino. Creando il mondo, Dio conferisce alla materia le forme distinte, che sono le immagini delle Idee stesse, ossia gli universali in re. Risiedendo nelle sostanze che concorrono a comporre, sono ad un tempo la causa del loro essere e della loro intellegibilità agli intelletti umani. La conoscenza per l’uomo consiste nel trarre l’Universale dal sensibile, quale post rem, liberandolo dalla materia e restaurandolo nella sua condizione intellegibile analoga a quella che ha nella mente di Dio.

Ogni anima possiede un intelletto possibile e un intelletto agente che sono suoi propri, in quanto l’anima è una sostanza spirituale completa che deve essere fornita di poteri e facoltà necessarie all’adempimento delle operazioni sue proprie, che la contraddistinguono quale intellegibile. Le anime non sono individualizzate dai loro corpi e costituiscono altrettanti oggetti distinti, a cui Dio dà l’esistenza perché possano essere illuminate dalla Sua luce. Immagine di Dio, l’anima ha un intelletto agente, ossia una luce che è in noi quale causa della conoscenza, universalmente capace di causare l’intellegibile e continuamente impegnata a causarlo. Per ricevere questo intellegibile bisogna associarvi un intelletto possibile, potenzialmente capace di qualsiasi nozione intellegibile ma senza alcuna di esse, esattamente come i sensi sono potenzialmente capaci di ogni forma sensibile. L’intelletto agente inteso come luce porta dalla potenza all’atto la forma della cosa conosciuta e ne informa l’intelletto possibile. Così operando l’intelletto agente si comporta da intelletto formale e la forma intellegibile che libera dall’oggetto è l’intelletto in effetto. Proprio perché dotata di intelletto agente ed esattamente come dicevamo, l’anima è immagine di Dio, e quindi è aperta alla Sua illuminazione. In gnoseologia dunque Alberto mette insieme l’illuminazione agostiniana e l’astrazione aristotelica. In un certo qual senso bisogna dire che ogni conoscenza vera, anche naturale, suppone una grazia di Dio e un raggio di luce maggiore di quello della natura umana. Il che è sostanzialmente una potenziale contraddizione del sistema albertino.

Per Alberto Dio esiste in modo evidente. Tuttavia adduce una serie di ragioni per cui non si può dubitare di tale evidenza. Sono praticamente delle prove: quella della causa efficiente del mondo, quella che dalla materia e dal mutevole risale all’immateriale e all’immutabile, quella della causalità prima, quella della superiorità dell’intellegibile sul sensibile, quella dei gradi di perfezione. Sono, come si vede, prove desunte dalla tradizione, tramite Avicenna, Maimonide e Pietro Lombardo. Alberto vi aggiunge la prova aristotelica del moto causato dal motore immobile, nonché quella avicenniana della composizione reale tra essere e id quod est. Questa prova si struttura in questa maniera: tutto ciò in cui si distinguono l’essere e l’id quod est ha l’essere da una causa diversa da quella che produce l’id quod est. Questo lo riceve da una causa seconda della sua stessa natura, mentre l’essere lo riceve dalla Causa prima la quale, essendo essere per essenza, è causa generale di tutto ciò che appartiene all’essere. Tutte le prove conducono quindi ad un Essere con caratteristiche concrete, precise e personali; ma nessuna di esse può dare di Dio una definizione piena, che invece sfugge continuamente e approda ad una prospettiva apofatica. La negazione ci spinge infatti a dire tutto ciò che Dio non è, mentre l’eminenza Gli attribuisce una serie di Nomi riferiti alla Sua Natura semplice e alle Sue relazioni con le Persone. Il Nome divino dell’Esodo è per Alberto un Nome Essenziale, sebbene abbia anch’Esso una connotazione negativa, in quanto non de-finitorio. Dio è Uno, perché non vi possono essere molti assoluti, è Vero, perché è ciò che è, è Buono, perché come Eterno ed Immutabile non perde né guadagna nulla e quindi agisce per bontà, essendo tale di per Sé e in relazione alle creature. Egli è il Sommo Bene. Come causa di tutto il bene nel mondo è il Creatore. Egli cioè è la Causa efficiente di ogni cosa mediante il Suo intelletto agente, al Quale solo compete di agire assolutamente e in tutti i modi possibili.

Dogmatico di grande respiro, Alberto Magno trattò tutte le discipline teologiche. In ecclesiologia sottolineò la natura della Chiesa quale Corpo di Cristo. Evidenziò che essa è anche società gerarchica e istituzione di salvezza, fondata sul Papato a cui appartengono la pienezza del potere e la giurisdizione universale. Alberto tuttavia non predica del Papa soltanto ma di tutta la Chiesa l’inerranza e l’indefettibilità, sottolineando che Pietro è tale solo in persona Ecclesiae. In mariologia, particolarmente nel Mariale, affrontò duecentotrenta questioni mariologiche e sostenne l’onnicontinenza di Maria, in Cui si trovano in grado eminente tutte le perfezioni delle altre creature.

Nella vita spirituale Alberto assegnò il primato alla carità, che infatti costituisce la perfezione cristiana. Vi è l’obbligo di tendere ad essa. Intelletto e sapienza perfezionano la fede. Essi sono mezzi di cui Dio si serve per intervenire nella contemplazione. Alberto sostiene il carattere mediato della contemplazione mistica, che avviene per specie astratte e in una certa confusione. Tutta la teologia di Alberto ha come obiettivo principale il fervore e la pietà. Essa deve congiungerci a Dio nella mente nell’affetto e nella sostanza. La mistica dunque è la più genuina sostanza della teologia.

Il pensiero albertino ebbe vasta influenza in Germania, in Polonia, tra tutti i Domenicani e nelle scienze, almeno fino al XVIII sec. Tra i suoi discepoli più importanti citiamo Ulrico di Strasburgo (†1267).

GUGLIELMO DI MOERBECKE

Nacque nel 1215 e morì nel 1286. Fu domenicano e vescovo di Corinto. Pensatore egregio, tradusse in latino le opere di Aristotele per Tommaso d’Aquino. Tradusse anche Ippocrate, Tolomeo, Archimede, Ammonio Sacca, Alessandro di Afrodisia, Galeno.

IL BEATO IACOPO DA VARAZZE

Nato nel 1230, morì nel 1298. Fu arcivescovo di Genova, oratore e narratore, famoso per la sua raccolta di sermoni mariani e per l’ampia silloge agiografica denominata Legenda Aurea.

TEODORICO DI VRIBERG

Fu un altro maestro domenicano, morto dopo il 1310, che non fu discepolo di Alberto ma pensatore influenzato dal Liber de Causis di Proclo. Questo autore combinò appunto Proclo con Avicenna e Agostino. Teodorico pone anzitutto Dio; poi il Suo primo significato che è l’Uno o Verbo; indi la creazione dal nulla dell’essere da parte dell’Uno, intesa come ribollimento e trasfusione all’esterno di quanto è all’interno di Esso. La creazione è quindi intesa come una emanazione intellettuale. Ogni intelligenza seconda viene da quella prima; analogamente direttamente dalla prima vengono il primo cielo e la sua anima. Con lo stesso sistema derivano dalle intelligenze seconde i cieli e le rispettive anime subordinati al primo. In questo senso Dio è creatore, in quanto inizio del processo di emanazione intellettuale che tutto contiene in Sé. Ogni intelletto agente umano è una sostanza individuale; è immagine dell’essere totale e può produrre intellegibili, che ricava dalla piena conoscenza dell’essere che porta nella sua memoria. Prima ci sono le cose e le loro impressioni sensibili, indi le immagini particolari e la loro elaborazione in intenzioni universali tramite la riflessione, poi, superato così il sensibile, l’intelletto agente lo eleva all’intellegibile in quanto volto perennemente a Dio. Vengono così tirate fuori quelle conoscenze innate nella memoria di cui ho detto, conoscenza delle cose e non delle loro immagini, racchiusa nel recesso dello spirito dove brilla la luce universale della verità. Teodorico quindi identifica questo recesso agostiniano con l’intelletto agente aristotelico.

Un ulteriore rappresentante del neoplatonismo domenicano è Bertoldo di Mosbourg, autore del XIV secolo conoscitore di Ulrico di Strasburgo e di Teodorico di Vriberg, citato e apprezzato da Niccolò Cusano.

Egidio di Lessines (†dopo il 1304), Tommaso di Sutton (sec. XIII-XIV), Herveo di Nédellec (XIV sec.), Egidio di Orlèans (XIV sec.), Bartolomeo di Lucca (†1326), Pietro di Trivet (†dopo il 1330) sono altri autori domenicani, generalmente e tendenzialmente discepoli di San Tommaso. Tomisti puri furono anche Bernardo de la Treille (†1292), Bernardo d’Auvergne (†dopo il 1300), Guglielmo Goudin (†1336), Pietro della Palude (†1342), Giovanni di Napoli (†1336).

COHORS DOCTORUM

Breve introduzione ai Dottori minori del XIII sec.

Nel XIII secolo, oltre alle due grandi scuole francescana e domenicana, esistono alcuni autori che tradizionalmente sono considerati Dottori e che non appartengono a nessun orientamento. Vediamone i principali.

ENRICO DI GAND, DOCTOR SOLEMNIS

Nacque a Gand nel 1217 circa, fu canonico della Cattedrale di Tournai, maestro di teologia a Parigi nel 1276 fino al 1293, anno in cui morì. Si distinse dai tomisti e dagli averroisti; contribuì ad elaborare il Syllabus del 1277 di Stefano Tempier. Non ebbe discepoli e non fondò alcuna scuola. Non appartenendo a nessun Ordine, le sue opere non furono conservate con cura e in gran parte si dispersero, con grande danno per i posteri. I Servi di Maria ne fecero a posteriori uno di loro e lo presero come proprio Dottore consuetudinario.

Enrico scrisse diverse cose tra le quali le maggiori che ci sono giunte sono una Summa quaestionum ordinariarum e XV Quaestiones Quodlibetales. Sono inediti un Syncategorematum Liber, le Quaestiones in libros metaphisicae e il Commentarium in libros phisicorum. Pensatore difficilmente classificabile, Enrico è forse il solo esponente di una forma di agostinismo influenzata da Avicenna.

Infatti Enrico parte proprio dallo schema avicenniano della metafisica come scienza dell’essere in quanto essere. L’essere è ciò che per primo si offre alla conoscenza umana. Non si può definirlo ma tutti sanno cosa significa essere, ossia “ciò che è”. Invece di distinguere l’essere in necessario e possibile come faceva Avicenna, Enrico di Gand distingue analogicamente tra essere increato ed essere creato, ossia tra l’essere che è se stesso e qualcosa a cui l’essere conviene o può naturalmente convenire.

Il primo è Dio. Dell’esistenza di Dio si possono dare, secondo Enrico, diverse prove cosmologiche, ma la principale è quella a priori.

Per garantire la separazione tra i summenzionati due tipi di essere Enrico ricorre ad alcune distinzioni. Innanzitutto quella tra Dio e le Sue Idee, le quali sono distinte da Dio stesso in quanto rappresentano i possibili e non hanno una sussistenza propria perché esistono nella mente divina. L’essenza ideale ha un proprio essere che dunque non si aggiunge a quello di Dio ma se ne distingue come oggetto di conoscenza, ossia l’essere dell’essenza in quanto essenza. La volontà di Dio poi acconsente liberamente a dare l’esistenza ad alcuni possibili e questa è la Creazione. Sulla questione della distinzione tra essenza ed esistenza Enrico afferma che essa non è reale, ma solo intenzionale, in quanto l’esistenza aggiunge all’essenza solo il riferimento a Dio quale Creatore. L’esistente è lo stesso ente possibile realizzato dalla sua causa, esattamente come diceva Avicenna.

Le creature sono dunque distinte dal Creatore perché Questi è inseparabile dalla Sua Esistenza mentre quelle esistono attualmente per Suo volere. Gli esseri finiti sono essenze esistenti e per questo sono individuali. Tra tutte le creature l’uomo è l’unione di un corpo e di un’anima razionale. Il corpo ha una sua forma propria. L’anima quindi non informa direttamente il corpo e in esso vi sono due forme sostanziali, una della corporeità e una dell’umanità, creata da Dio nel momento stesso in cui la prima agisce sull’embrione per strutturarlo. Elevata al di sopra del corpo, l’anima è aperta alle influenze degli intellegibili. Enrico accetta la distinzione tra intelletto possibile ed intelletto agente e spiega l’astrazione in modo simile a quello di Tommaso. Aggiunge altresì che la totalità della conoscenza non è in questo. L’astrazione ci fa raggiungere quello che la cosa è, ma non ci fa raggiungere l’essenza intellegibile della cosa. Per giungervi bisogna anche definirne l’essenza con un giudizio sicuro. Questo si fa con una riflessione che parte dalla nazione prima di essere e prosegue sotto l’azione regolatrice della luce divina. Enrico identifica il Dio illuminatore di Agostino con l’Intelligenza agente di Avicenna, ma intende la sua funzione solo come regolatrice dell’instabilità dei giudizi umani, posti al di sotto della sicurezza delle Idee divine. Secondo Enrico questa illuminazione è un dono che Dio dà solo ad alcuni, in quanto solo alcuni possono vedere in Dio la verità delle cose, che corrisponde alla conformità di esse con gli archetipi ideali contenuti in Lui.

Nell’uomo Enrico asserisce la superiorità della volontà sull’intelletto, perché superiori sono il suo abito, il suo atto e il suo oggetto. Il primo è la carità, superiore alla sapienza che è l’abito dell’intelletto. Il secondo è l’atto con cui muove tutte le facoltà compreso l’intelletto, che invece non può muovere la volontà stessa, ma solo guidarla. Essa va verso l’oggetto così com’è mentre l’intelletto va solo verso la conoscenza di esso che è solamente e sempre parziale. Il terzo è il bene universale mentre l’oggetto dell’intelletto è solo il bene come vero. In ragione di questo primato del volere, Enrico sostiene che la libertà è una sua proprietà e non dell’intelletto.

LA SVOLTA DEL 1277 E SIGIERI DI BRABANTE

Tra il 1270 e il 1280 lo scontro tra la scuola agostiniana e quella aristotelica raggiunse l’apice. Dagli anni cinquanta del XIII sec. le opere dello Stagirita dilagarono nelle università e per vent’anni colonizzarono menti e studi. Ma la traduzione latina delle opere di Averroè e la nascita di una scuola averroista latina costituirono il motivo di una recrudescenza dello scontro teologico e filosofico, in quanto il pensiero del Filosofo arabo era senz’altro incompatibile col Cristianesimo e mostrava gli sviluppi possibili della dottrina di Aristotele. Stefano Tempier, su mandato di quel Giovanni XXI del quale abbiamo fatto menzione quale pensatore eclettico, non solo condusse una affrettata inchiesta su questi temi – cosa su cui ci siamo dilungati nel capitolo precedente – ma fulminò duecentodiciannove anatemi su altrettante proposizioni di Sigieri di Brabante (1240-1282) e altri autori – tra cui Tommaso – inglobando alcune precedenti condanne del 1270 di proposizioni brabantine e ampliandole. Si tratta di una condanna senz’altro non di magistero infallibile, anzi nemmeno papale e conciliare, una condanna inflitta senza una vera istruttoria soddisfacente, che colpiva i maestri averroisti ma anche quelli che come Alberto e Tommaso avevano lavorato per la conciliazione dell’aristotelismo con la fede.

Questa condanna non impedì la conservazione nella Tradizione del magistero dei Dottori domenicani e aristotelizzanti. Ma nello stesso tempo spinse i filosofi della generazione successiva a distaccarsi sempre più dal razionalismo, considerandolo foriero di sviluppi ereticali, accostandosi a forme di volontarismo che alla fine contribuirono alla dissoluzione della scolastica.

Dei maestri condannati Sigieri di Brabante è senz’altro il più importante. Non è certo un Dottore della Chiesa, perché la sua filosofia è incompatibile con la teologia razionale cristiana, ma non fu nemmeno un eretico, in quanto sconfessò in teologia quanto la ragione lo spingeva a sillogizzare in filosofia. Non a caso la condanna inflittagli a Parigi fu poi rimessa ed egli fu assolto dall’accusa di aver negato delle verità di fede. Per questo fu addirittura posto tra gli spiriti dei maggiori dotti del IV Cielo da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Apparve quindi ai suoi contemporanei come un grande, anche se controverso, maestro.

Nato nel Ducato di Brabante, studiò a Parigi nel 1240 dove divenne maestro. Diacono e canonico, ma non presbitero, fu subito averroista e perciò attaccato da Bonaventura e Tommaso. Condannato nel 1270 per tredici proposizioni, come ho detto, venne accusato di aver sostenuto i capisaldi dell’averroismo: unità dell’intelletto agente, negazione della libertà, eternità del mondo, mortalità dell’anima, ignoranza da parte di Dio di altro al di fuori di Sé, negazione della Provvidenza. Per sfuggire alla condanna, Sigieri corresse in parte il suo pensiero ma ciò non soddisfò né Tommaso né Bonaventura ne’ l’Inquisizione né l’Università parigina. Appellatosi al Papa Giovanni XXI per sfuggire ai rigori della legge canonica, Sigieri incorse nella condanna del 1277 che ho descritto. Fuggito a Roma, fu qui assolto dall’accusa di eresia e tenuto in soggiorno obbligato presso la Corte papale, dove morì.

Sigieri scrisse commenti aristotelici e opere filosofiche. Separando scienza e fede, filosofia e teologia, fu un aristotelico neoplatonizzante eterodosso. La ragione lo spinse ad affermare tutta una serie di cose in contrasto con la fede, ma questa lo determinò a sostenere che tali conclusioni erano errate. In conseguenza, egli screditò il potere della ragione. La sua non fu quindi una negazione di una o più verità di fede, ma una concezione della ragione umana incompatibile con la visione cristiana di essa e con la teologia naturale. Questo è il punto dolente del suo pensiero. Qui risiede il nocciolo storico della dottrina della doppia verità che però egli mai professò. Anzi, egli sostenne che non vi è contraddizione tra ragione e fede, tra verità di ragione e verità rivelate, e laddove sembra che ci sia, allora le prime devono cedere il passo alle seconde, negando esplicitamente che quelle siano correttamente usata e scoperte. In effetti questo dipende dalla debolezza intrinseca della ragione umana. In tal maniera Sigieri afferma la stessa cosa che in materia insegnava Tommaso, per cui non fu appunto condannato per eresia.

EGIDIO ROMANO, DOCTOR FUNDAMENTALISSIMUS

Nato a Roma nel 1247 circa, divenne Eremitano di Sant’Agostino nel 1260, fu allievo di Tommaso tra il 1269 e il 1272 e prese posizione contro la dottrina della pluralità delle forme nel 1277. Stefano Tempier gli chiese di ritrattare e lui rifiutò lasciando Parigi. Vi torna nel 1285 per occuparvi la prima cattedra assegnata al suo Ordine. La tenne fino al 1291. Nel 1287 la sua dottrina divenne quella ufficiale degli Agostiniani eremiti. Maestro generale del suo Ordine nel 1292, Arcivescovo di Bruges nel 1295, collaboratore di Bonifacio VIII – che sostenne in tutte le sue iniziative contro la Francia compresa la stesura della Unam Sanctam- morì ad Avignone nel 1316. Lasciò scritti filosofici e teologici: commenti alle opere aristoteliche, Questioni disputate e quodlibetali, Theoremata su argomenti diversi, commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo e al Liber de causis, un trattato In Hexaemeron, altri di politica e, tra essi, il De Ecclesiastica Potestate e il De Regimine Principum, trattati sull’ente e l’essenza, sugli errori dei filosofi, sugli universali, sulla materia dei cieli contro gli averroisti, sulla purificazione dell’intelletto possibile, sulla distinzione degli articoli di fede, sulla predestinazione la prescienza il paradiso e l’inferno, sul peccato originale, sull’oggetto della teologia.

Egidio ha diversi punti in comune con Tommaso – come la creazione del mondo nel tempo, l’unicità della forma sostanziale, il primato dell’intelletto, che sostiene in modo rigido - ma non è un tomista. Distingue realmente essenza ed esistenza, tanto che la disputa sull’argomento inizia proprio con lui. Tuttavia la distinzione egidiana non è come quella tomista: l’ultima è basata sulla differenza tra potenza e atto, la prima invece si costituisce sul presupposto che essenza ed esistenza siano due cose e quindi differenti. La reificazione dell’esistenza si congiunge in Egidio con la teoria della partecipazione, fondata sull’autorità di Proclo e di Boezio. Egidio intese l’essere come la forma di Proclo, per cui preesiste alle essenze. La filosofia egidiana concepisce una selva di forme intellegibili; la loro conoscenza avviene in questi termini: l’intelletto agente muove il fantasma di esse e illumina l’intelletto possibile, che interagiscono, in quanto il primo agisce nel secondo e produce la specie intellegibile. L’intelletto agente è quindi la forma dell’intelletto possibile. La quiddità è universale nella mente e individuale nella cosa. L’anima è una tavoletta su cui nulla è scritto ma che è nondimeno un atto, non acquisito ma connaturale all’anima.

In politica, Egidio fu un fautore della ierocrazia papale e del curialismo estremo. Tutto il temporale esiste per lo spirituale, chi domina lo spirituale domina quindi anche il temporale e chi guida le anime guida pure i corpi. I corpi e le anime non sono separabili e quindi sono sottoposti entrambi al Papa, in quanto questi comanda alle anime ed esse ai corpi. La supremazia del potere spirituale sul temporale avviene in quattro ordini esemplificativi: quello delle cause, delle quali la più alta è anche la più universale, per cui il potere spirituale, in quanto cattolico, è superiore a tutti gli altri; quello delle arti e delle tecniche, delle quali il potere spirituale dispone pienamente in vista di tutti i suoi fini; quello delle scienze, che tutte servono la metafisica che si innalza a Dio e questa alla teologia che verte su di Lui ; quello del potere politico, per cui i principi, per le precedenti ragioni staranno sottoposti al Papa, causa del loro potere, ordinatore della società, custode della sapienza e della Rivelazione. Il potere temporale deve stare sottoposto allo spirituale come la metafisica e le scienze lo sono alla teologia. Tuttavia questa concezione va letta soprattutto in chiave spirituale; Egidio infatti sostiene anche le tesi tomiste ed aristoteliche sul potere civile e delinea i contorni di uno Stato retto in modo tendenzialmente assolutistico.

LE MISTICHE

Santa Matilde di Hackeborn nacque ad Helfta nel 1241 circa e morì colà, ove sempre fu monaca cistercense, nel 1299. Sorella di Gertrude – monaca da non confondersi con l’omonima detta la Grande sua alunna- la seguì nella vocazione a soli sette anni. Direttrice della scuola e del canto sacro, incentrò la sua altissima spiritualità nell’amore e nella lode di Dio, specie verso il Sacro Cuore, del Quale parla nel Liber Specialis Gratiae, composto dalle sue discepole e da lei rivisto. A lei la Beata Vergine Maria rivelò la pia devozione delle Tre Ave Maria che, recitate mane e sera, ottengono la perseveranza finale.

Santa Matilde di Magdeburgo (1212- 1283), anch’essa cistercense di Helfta, coltivò una mistica speculativa influenzata dal tomismo (opera principale: La Luce fluente della Divinità). Tali caratteri si ravvisano del resto anche nel pensiero dell’altra Matilde e di Gertrude.

In predicato di ricevere il titolo di Dottore della Chiesa, Santa Gertrude la Grande nacque nel 1256 e morì nel 1302 circa. In tenera età divenne cistercense ad Helfta e vi rimase fino alla morte. Dopo un temporaneo intiepidimento dovuto agli studi umanistici, giunse al pentimento perfetto, all’amore mistico di Dio e alla gioia piena della Trasfigurazione. Lesse la Bibbia e i Padri. Lasciò scritti mistici che influenzarono i secoli seguenti. In particolare fu devota dell’Umanità di Cristo e del Sacro Cuore di Lui. I suoi scritti sono raccolti nelle Revelationes Gertrudianae e negli Esercizi spirituali.

In ben altro ambiente fiorì Santa Angela da Foligno (1248-1309). Convertita a Dio con grande fervore, dettò a Frate Arnaldo il Liber Mirabilium Visionum, al cui centro vi sono le esperienze mistiche fatte da lei del mistero di Cristo, Uomo e Dio.

AUTORI MINORI

Giovanni Lotario dei Conti di Segni (1160-1216), papa col nome di Innocenzo III dal 1198, oltre che canonista e politico di razza, fu autore ascetico e teologo erudito, di grande fortuna anche se poco originale: scrisse il De Contemptu Mundi, il De Sacro Altaris Mysterio e il De Quadripartita Specie Nuptiarum. In esse mostrò rispettivamente attitudine ad una ascetica classica che delinea l’uomo nella sua miseria – un’opera dedicata all’azione della grazia non fu mai scritta – ad una spiegazione allegorica e mistica della liturgia e ad una mistica di tipo bernardiano e vittorino con un forte impegno omiletico di tipo morale e parenetico.

Sono da segnalare tra i filosofi Lamberto di Auxerre, che intorno al 1250 scrive una Dialectica, nonché Pietro Iuliani di Lisbona, poi papa Giovanni XXI (1276-1277), dotto enciclopedico e scienziato, autore delle Summulae Logicales, di vari commenti ad opere aristoteliche e dei Syncategoremata, che sostenne un sincretismo tra la dottrina agostiniana dell’illuminazione e quella avicenniana dell’emanazione delle intelligenze.

Etienne Langton , morto nel 1228, arcivescovo di Canterbury e cardinale, fu autori di inni e sequenze, filosofo, teologo e giurista.

Giacomo da Vitry, morto nel 1240, fu uno dei maggiori predicatori della sua epoca, agostiniano di grande fascino oratorio e abile nell’uso di esempi e apologhi.

Vincenzo di Beauvais, morto nel 1264, fu autore enciclopedico dello Speculum Mundi e autore di opere sulla Vita e la Passione del Redentore.

Guglielmo de la Mare, francescano morto nel 1298, fu maestro reggente a Parigi e seguace di Bonaventura e Bacone. Autore prolifico, contestò aspramente Tommaso con il suo Correctorium, la cui lettura per i Francescani fu permessa solo assieme alle correzioni di Guglielmo. Egli tuttavia capì ben poco del pensiero tomista e i domenicani gli opposero diverse opere per correggere a loro volta le sue correzioni: tali opere significativamente si chiamano Corruptoria e sono in numero di cinque.


Theorèin - Giugno 2017