LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
Entra nella sezione TEOLOGIA SISTEMATICA

Se vuoi comunicare con Vito Sibilio: gianvitosibilio@tiscalinet.it

DOCTORES EXTRAVAGANTES

Dottori, missionari, fondatori e Papi della Controriforma

In questo capitolo tratteremo di quegli autori della Controriforma che non sono ascrivibili in alcuna scuola. Sono San Lorenzo da Brindisi, Dottore della Chiesa, San Tommaso da Villanova - in predicato di diventarlo - i missionologi dell’epoca, i Papi riformatori, i Santi fondatori del medesimo periodo, gli eruditi e i filosofi cattolici della Modernità – anche se questi ultimi non sono solo ascrivibili al periodo barocco.

SAN TOMMASO DA VILLANUEVA

Nacque a Fuenllana presso Villanueva in Spagna nel 1488 e morì nel 1555. Agostiniano a ventisette anni, fu uomo di profonde virtù. A quindici anni fu mandato a studiare all'Università di Alcalà dove, nel 1509, ottenne il titolo di maestro di logica, fisica e metafisica. Per tre anni seguì il corso di teologia, interrompendolo per la cattedra di logica (1512-1516). Nel 1516 a Salamanca entrò nell'Ordine agostiniano. Ricevette il sacerdozio nel 1518. Fu poi priore di Salamanca (1519-21 e 1523-25), visitatore della provincia di Castiglia (1525-27), provinciale di quella andalusa (1527-29), priore di Burgos (1531-34), provinciale di Castiglia (1534-37), priore di Burgos (1541-44). Più volte reggente in svariate diocesi, alla fine divenne arcivescovo di Valenza. Predicò con grande successo in tutta la sua vita e fu un benefattore instancabile dei bisognosi

SAN LORENZO DA BRINDISI, DOTTORE DELLA CHIESA

Giulio Russo nacque a Brindisi nel 1559. A tredici anni, morto il padre, si trasferì a Venezia dallo zio sacerdote, che insegnava nelle scuole dei Chierici di San Marco. A sedici divenne novizio tra i Cappuccini di Verona, prendendo il nome di Frate Lorenzo. Nel 1582 fu ordinato sacerdote a Venezia. Divenne lettore di scienze sacre e padre guardiano nella Città della Laguna dal 1587 al 1590, poi provinciale della Toscana nello stesso anno, indi del Veneto nel 1594, poi commissario generale in Boemia e Austria dal 1599 al 1606, in Baviera nel 1612 e nel Tirolo nel 1612; fu definitore generale nel 1596, nel 1599 e nel 1612; divenne vicario generale dal 1602 al 1605; fu ancora provinciale della Liguria nel 1613. Nel corso di questa sfolgorante carriera conventuale fu sempre predicatore poliglotta e assai versato nella Scrittura, che interpretava con profondità. Fermezza di carattere, austerità di sentimenti e zelo veemente lo fecero paragonare a San Paolo. Gregorio XIII (1572-1585) e Clemente VIII (1592-1605) lo incaricarono di predicare agli Ebrei a Roma. Paolo V (1605-1621) gli riconobbe la volontà del martirio. Fu ancora lui a predicare la Crociata contro i Turchi che li sconfisse ad Alba Reale nel 1601. Tra il 1609 e il 1610 promosse la Santa Lega che salvò la Boemia dal protestantesimo, negoziando accordi tra la Baviera e la Spagna. Nel 1614 mediò tra i Ducati di Parma e Mantova e il Granducato di Toscana; nel 1615-1616, per incarico papale, tra la Spagna e i Savoia per la successione di Mantova; nel 1618 ancora tra i Savoia e il governatore spagnolo di Milano, sempre per mandato del Papa. Nel 1619 morì a Lisbona, avvelenato come aveva profetizzato, mentre rappresentava Napoli presso il Re di Spagna.

Scrisse molte opere, pubblicate solo nel secolo scorso in undici volumi. Tra esse ricordiamo l’Explanatio in Genesim, le Lutheranismi Hypotiposis, il Mariale, i quattro Quadragesimalia, i due Adventus, i tre Dominicalia e i panegirici del Santorale. San Lorenzo scrisse quasi sempre in un classico latino dallo stile vivace, ma qualche dissertazione e alcuni panegirici sono stati redatti rispettivamente in greco e italiano. L’autore amava citazioni in varie lingue e allegava fonti sacre e profane. Aveva uno zelo infuocato nel condannare l’errore e un amore veemente per coloro che lo professavano. Il Mariale è la maggior produzione mariologica tra Cinquecento e Seicento, a causa della sua dottrina sicura e profonda nonché della sua eccezionale erudizione. In esso il Dottore riprese le dottrine scotiste sull’Immacolata Concezione e sull’Incarnazione del Verbo. Apologeta modello, Lorenzo da Brindisi sostenne una ecclesiologia infallibilista simile a quella che poi avrebbe trionfato al Concilio Vaticano I (1868-1870).

I TEOLOGI DELLA MISSIONE

Furono i pensatori che risposero ai problemi teorici della evangelizzazione del Nuovo Mondo e in genere dei popoli pagani nell’età della Controriforma. Tra di essi Bartolomeo di Las Casas, Josè di Acosta e Antonio de Vieira furono non solo i fondatori della disciplina, ma anche gli esponenti della prima fase della storia teologica dell’America Latina, la cosiddetta fase profetica.

Bartolomeo de Las Casas nacque nel 1484 a Siviglia. Si trasferì in America nel 1502 e nel 1507 fu ordinato prete a Roma. Nel 1508 aveva una encomienda a Española. Colpito dalle prediche dei domenicani sbarcati nell’isola nel 1511, i quali denunciarono lo sfruttamento inumano dei nativi, Bartolomeo si convertì alla nobile causa della difesa dei loro diritti, calpestati, contro il volere divino, dagli Spagnoli, sebbene cristiani. Nel 1516 si recò in Ispagna per chiedere l’abolizione delle encomiendas. Nel 1522 Bartolomeo si fece domenicano nelle Americhe. Nel 1527 scrisse la Historia de las Indias, da cui fu tratta la Apologetica Historia. Per quattordici volte perorò in Spagna la causa degli Indios. Nel 1542 scrisse la Brevissima redaciòn de la destrucciòn de las Indias. Ottenute mitigazioni legislative per i nativi, Bartolomeo rifiutò l’arcidiocesi di Cuzco e assunse la diocesi del Chiapas, assai miserabile. Qui proibì di dare l’assoluzione ai padroni di schiavi. Nel 1547 tornò in Spagna dove, appoggiandosi all’Università di Salamanca e a Francisco de Vitoria, polemizzò contro i teologi di corte favorevoli alle guerre contro gli Indiani d’America, ottenendone la proscrizione. Nel 1555 scrisse la Lettera a Bartolomeo Carranza, uno dei teologi salmancensi al Concilio di Trento, al quale denunciava gli odiosi metodi di evangelizzazione delle Americhe. Dal 1550 al 1566 Bartolomeo completò la Historia, scrisse l’Apologetica, pubblicò diversi trattati tra cui l’Octavo Rimedio, il Confesionario, il De imperatoria vel regia potestate, il De thesauris e il Testamento. Morì nel 1566, dopo un’ultima petizione a Pio V (1565-1572) per i diritti degli Indiani d’America, che il Papa incorporò nella bolla In Coena Domini.

Bartolomeo de Las Casas è ricordato come uno strenuo paladino dei diritti degli Indios e lo fu senz’altro, ma fu anche un teologo della missione fondata sul riconoscimento dei diritti non solo soprannaturali ma anche naturali degli evangelizzati. La tutela della vita, l’integrità della persona, il rispetto della famiglia, la dignità del lavoro, la libertà, la conservazione della propria cultura e il diritto di aderire liberamente alla vera fede, oltre che quello di conservare in essa le proprie tradizioni sono i valori irrinunciabili che il missionario deve rispettare e promuovere per un annuncio del Vangelo autenticamente umano. Cristo ha portato il Suo Vangelo ai poveri e agli oppressi, non ai ricchi e agli oppressori, per cui Las Casas può riconoscere negli Indios così maltrattati proprio i preferiti di Gesù, la Cui intenzione è completamente opposta a quella che sottende le azioni di rapina e violenza che compiono i colonizzatori, i quali, proprio per la loro avidità di potere, ricchezza e gloria, sono essi stessi diventati apostati della fede, che invece è stata abbracciata dalle loro vittime. Esse vanno risarcite di quanto hanno perso e reintegrate nei loro diritti. Non si può assolvere in confessione chi non vuole restituire quanto ha rubato e usurpato e chi non vuole rendere la libertà agli schiavi. Lungi da ogni legittimazione conquistatrice, Las Casas afferma che i primi ad avere torto sono i Reali di Spagna, quando coprono la violenza sopraffattrice dei loro sudditi. Non vi è peraltro bisogno, per Las Casas, di nessuna copertura militare per l’evangelizzazione, in quanto chiunque, anche se pagano, può salvarsi se, ignorando Cristo senza sua colpa, segua quanto la retta coscienza gli detta per piacere a Dio.

Josè de Acosta nacque a Medina del Campo nel 1540, divenne gesuita nel 1552, fu ordinato prete nel 1566, nel 1567 finì gli studi ad Alcalà e nel 1572 fu inviato nel Perù. Professore a Lima nel Collegio gesuita nel 1575 e provinciale dal 1576 al 1581, il de Acosta accrebbe le fondazioni del suo Ordine e partecipò, quale teologo, al III Concilio di Lima tra il 1582 al 1583, di cui redasse gli atti e in ottemperanza dei cui canoni contribuì a redigere un catechismo in spagnolo, quechua e aymarà. Il nostro collaborò anche al Confesionario para los curas de Indias e poi tornò in Ispagna, dove morì nel 1600 come rettore del Collegio di Salamanca. Storico, teologo, missionologo, omileta, etnografo, mineralogo, botanico ed antropologo, Acosta scrisse, tra le altre cose, il De Christo revelato, tre volumi di Conciones, il De natura novi orbis et de promulgatione Evangelii apud barbaros sive de procurando Indorum salute e la Historia natural y moral de las Indias. Se la penultima opera è un caposaldo della storia missionologica cattolica, l’ultima opera è una vera enciclopedia sulle Americhe che valse all’autore il soprannome di Plinio del Nuovo Mondo.

De Acosta ritiene che l’annuncio del Vangelo possa avvenire in tre modi: con la mera persuasione ai popoli di antica civiltà come i Cinesi o gli Indiani; con una predicazione all’occorrenza temperata dalla forza per abolire i cattivi costumi radicati in essi come gli Aztechi o i Maya o gli Incas; con la forza se necessario per quegli indigeni privi di ogni civiltà. La forza ovviamente serve sempre a rimuovere solo gli ostacoli alla predicazione, ma come si vede in almeno due casi è necessaria per proteggere la missione, onde evitare guerre ai cristiani, rifiuto della predicazione e martirio dei missionari. Una volta però che si impianta la missione, anche per De Acosta è inaccettabile la violazione dei diritti degli Indios, sia tramite la sottomissione politica che con la schiavizzazione; sebbene la conquista spagnola sia stata provvidenziale per la diffusione del Vangelo nelle Americhe e nel Perù in particolare – dove il nostro opera – questo non legittima la prosecuzione delle ingiustizie e delle vessazioni. Tuttavia l’evangelizzazione è urgente, perché senza la fede esplicita in Cristo nessuno può salvarsi.

Antonio Vieria, portoghese, nacque nel 1608 e morì nel 1697. Prima diplomatico della Corona portoghese e poi missionario gesuita in Brasile dal 1652, Vieira da questa data cristianizzò e civilizzò cinquanta villaggi della costa amazzonica. Visitatore delle missioni gesuite brasiliane nel 1653, Vieria ottenne un salario per gli Indios delle fazendas amazzoniche e denunciò la durezza del lavoro nelle miniere, per sfuggire al quale molti indigeni tornavano nelle foreste e al paganesimo, così come stigmatizzò il fatto che l’evangelizzazione spesso era superficiale e priva di cambiamenti di vita. Troppo impegnato nella pacificazione delle tribù indigene tra loro e con i portoghesi, nonché nella difesa dei diritti dei nativi, Vieira fu rispedito con la violenza dai coloni nella madrepatria. Qui i toni gioachimiti della sua opera Quinto Imperio del Mundo, a favore del patronato portoghese sulle missioni nelle proprie colonie, gli procurano serì guai con l’Inquisizione, nel 1667. Trasferitosi a Roma, viene riabilitato da Clemente X (1670-1676), che gli permise di tornare in patria nel 1675 e in Brasile nel 1681, dove diffuse le opere di Santa Teresa d’Avila, scrisse e predicò, componendo lettere e omelie considerati capolavori della letteratura portoghese. Morì nel 1697. A parte le sue teorie sulla missione salvifica del Portogallo che coniugavano concezioni regaliste altomedievali e precorritici del sistema delle Chiese di Stato che si sarebbe affermato nel secolo successivo, teorie coonestate dal suo messianismo di matrice gioachimita – matrice assai diffusa nella cultura teologica lusitana dal 1500 – Vieria è degno di menzione per la difesa dei diritti degli Indios, che però non gli sembrano tanto importanti quanto quello di essere evangelizzati, tanto che il nostro valuta con indulgenza l’ordine sociale instauratosi nelle colonie, nonostante lo abbia di fatto combattuto.

Gli altri dottori della missione operarono nel mondo antico: Alessandro Valignano in Giappone, Matteo Ricci in Cina e Roberto de Nobili in India. Alessandro Valignano nacque a Chieti nel 1539, studiò a Padova e a Roma e divenne gesuita nel 1566; sacerdote nel 1570, fu visitatore delle missioni afro-asiatiche del suo Ordine nel 1574. Si recò quindi in India, poi in Cina e infine in Giappone, dove arrivò nel 1579. Qui si pose il problema di una formazione profonda di quei fedeli che, essendosi convertiti per opportunismo, avrebbero potuto facilmente apostatare. Valignano allora concepì la sua strategia missionaria: adattamento integrale nelle cose lecite agli usi e ai costumi nipponici, studio del giapponese, formazione del clero. Attorno a questi concetti costruì il suo Cerimoniale per i missionari del Giappone, onde essi sapessero come comportarsi nell’Impero del Sol Levante. Con il Valignano iniziò una fase storica nuova nella missione extraeuropea ed extramediterranea: per la prima volta la diffusione della fede non coincideva con quella delle culture originarie del Cristianesimo – greca, latina, copta, siriaca – ma si identificava con un processo di inculturazione che arricchiva la prospettiva stessa dell’evangelizzazione. Valignano fondò seminari, un noviziato, una scuola di lingue, ordinò preti e stabilì una dotazione economica per la Chiesa nipponica, per poi trasferirsi in India dove divenne provinciale nel 1582. Da qui mandò Matteo Ricci ad evangelizzare la Cina, mentre lui morì a Macao nel 1606.

Matteo Ricci nacque a Macerata nel 1552 e divenne gesuita nel 1571. Terminati gli studi filosofici fu inviato a Goa nel 1577, dove finì quelli teologici. Nel 1583 fu inviato in Cina con Michele Ruggeri per evangelizzare il paese. All’inizio visse come un monaco buddhista, ma questo non gli ottenne successi missionari. Poi, consigliato da Valignano, studiò il cinese e riuscì ad entrare nel mondo culturale del Celeste Impero. Nel 1595 scrisse in cinese La vera dottrina di Dio, annoverata tra i classici di quella letteratura. Fu matematico, astronomo, musicologo e filosofo. Abbracciò il metodo di Valignano e riuscì ad avvicinare la corte imperiale dove fu ricevuto nel 1601 dal sovrano. Iniziarono le conversioni e nel 1605 due cinesi divennero gesuiti. Ricci fondò piccole comunità, non riuscendo ad avere conversioni di massa, nella speranza che mettessero radici nella cultura locale. Nel Diario Ricci spiega che preferì inculturare il Cristianesimo in Cina a partire dal Confucianesimo, la cui morale era affine a quella evangelica e che non aveva una dogmatica particolare. Il nostro scelse una terminologia teologica che fino a quel momento non era stata adoperata dai catechisti di origine cinese, che erano stati molto più esigenti di lui. Ne derivò una controversia che si concluse con un riconoscimento, da parte dell’Ordine gesuita, della giusta interpretazione, anche se ampia, che Ricci aveva dato delle parole cinesi da lui adottate. Morì nel 1610, universalmente stimato in Cina.

Roberto De Nobili nacque a Montepulciano nel 1577, nel 1597 entrò nel noviziato gesuita e poi chiese e ottenne di andare missionario in India, dove operò fino alla morte a Madurè. Col metodo di Valignano De Nobili penetrò nella mentalità indiana: adottò gli usi locali fin quanto fu possibile e lasciò intatte le istituzioni civili, incluse le caste, così reinterpretate e svuotate di significato religioso. Nonostante i suoi grandi successi, De Nobili fu accusato di sincretismo col paganesimo ed allontanato; dopo una lunga istruttoria fu riabilitato da Gregorio XV (1621-1624) e rimandato in India dove morì nel 1656.

I PAPI RIFORMATORI

Come nel Medioevo, nella Controriforma diverse figure di Pontefici plasmarono, coi loro atti, la fisionomia della Cristianità coeva. Pio IV (1559-1565) promulgò i decreti del Concilio di Trento nel 1564 e l’indice dei libri proibiti dallo stesso Sinodo nello stesso anno; concesse la Comunione sotto le due specie, a discrezione dei Vescovi, ai protestanti convertiti di Germania, Austria, Ungheria e altri paesi; sempre nello stesso anno promulgò e fece sottoscrivere la Professio fidei tridentinae. Ristrutturò la Sacra Rota Romana, la Santa Penitenzieria Apostolica, la Cancelleria Apostolica e la Camera Apostolica. Ordinò la compilazione del Catechismo e la revisione del Messale e del Breviario, completate dal successore.

Questi, San Pio V (1566-1572), fu il maggior Papa della Controriforma. Obbligò i chierici a rispettare il dovere di residenza nei propri benefici; ispezionò tutti gli Ordini religiosi abolendo quelli decaduti e riformando gli altri; pubblicò nel 1566 il Catechismo Romano e nel 1568 il Breviario Romano e nel 1570 il Messale Romano. Avviò la revisione della Vulgata, disciplinò le indulgenze e le dispense e ristrutturò il sistema penitenziale. Inviò i decreti tridentini in tutto il mondo. Fondò la Sacra Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Pubblicò una nuova edizione delle opere di San Tommaso d’Aquino. Censurò nel 1576 settantanove tesi di Michele Baio e ripromulgò la bolla In Coena Domini nel 1568 in termini più severi.

Gregorio XIII (1572-1585) curò l’applicazione dei decreti tridentini, vigilò sulla scelta e la residenza dei Vescovi, trasformò le Nunziature Apostoliche in strumenti di riforma religiosa, promosse i Collegi del clero a Roma, approvò gli Oratoriani e le Carmelitane Scalze, pubblicò una revisione del Corpus Iuris Canonici (1582) e infine riformò il Calendario che porta il suo nome ed è attualmente in uso in tutto il mondo (1582).

Sisto V (1585-1590) riformò il Sacro Collegio dei Cardinali e la Curia Romana; proibì la simonia e il cumulo delle cariche; ripristinò la norma delle Visite ad limina Apostolorum; avviò e seguì personalmente la revisione della Vulgata, pubblicandone una versione che però conteneva diversi errori e che fu ritirata alla sua morte.

Clemente VIII (1592-1605) pubblicò la versione corretta della Vulgata riveduta, la Sisto-Clementina, nel 1592. Pubblicò anche le nuove versioni del Pontificale Romano, del Breviario, del Messale, dell’Indice dei libri proibiti.

Paolo V (1605-1621) rinnovò l’obbligo di residenza dei Vescovi, pubblicò il Rituale Romano riveduto e rese più severa la disciplina degli Ordini religiosi. Approvò gli Oratoriani francesi e rimando sine die la soluzione della controversia sulla Grazia.

Gregorio XV (1621-1624) riformò il Conclave e fondò la Sacra Congregazione di Propaganda Fide per centralizzare le missioni.

Urbano VIII (1623-1644) partecipò personalmente alla revisione del Breviario, rivide le procedure per le Beatificazioni e le Canonizzazioni, diede una nuova stesura alla In Coena Domini, sostenne le missioni e approvò le Visitandine e i Lazzaristi. Obbligò i Vescovi e i Cardinali a risiedere nelle loro diocesi. Condannò Galileo Galilei (1564-1542) nel 1633 e censurò per la prima volta il Giansenismo nel 1643.

I FONDATORI RELIGIOSI

Nella Riforma Cattolica e nella Controriforma vi furono numerosi Fondatori di nuovi Ordini religiosi che arricchirono la teologia spirituale dei loro tempi. La prima figura che merita di essere ricordata è quella di San Francesco di Paola (1416-1507), eremita, mistico e taumaturgo, poi fondatore dell’Ordine mendicante dei Minimi. Il Santo visse ed operò tra l’Italia e la Francia. San Gaetano da Thiene (1480-1547) e Gian Pietro Carafa, poi papa Paolo IV ([1476] 1555-1559) furono i fondatori dell’Ordine dei Teatini, chierici regolari di regola agostiniana, il cui nome si deve a Chieti, la città di cui il Carafa, primo superiore, era Vescovo. Sant’Antonio Maria Zaccaria (1502-1537) fondò i Chierici regolari di San Paolo, detti Barnabiti dal Convento di San Barnaba che fu affidato loro e dediti all’apostolato. San Girolamo Emiliani (1481-1537) fondò l’Ordine dei Somaschi nella città a cui devono il nome, Somasca, per votarlo all’attività caritativa. Sant’Angela Merici (1474-1540) fondò la Compagnia delle Dimesse di Sant’Orsola – le Orsoline – che dopo la sua morte divenne una Congregazione e poi un Ordine di clausura. Il Beato Matteo di Bascio (1495-1552) e Ludovico da Fossombrone (1490-1560) promossero la nascita di quello che Bernardino di Asti (1484-1557) 1avrebbe fatto diventare l’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, restaurando una più stretta osservanza della regola francescana. San Filippo Neri (1515-1595), maestro di pedagogia, fondò la Congregazione dell’Oratorio a Roma, imprimendogli la sua instancabile volontà evangelizzatrice. San Carlo Borromeo (1538-1584) fondò gli Oblati di Sant’Ambrogio, anch’essi chierici regolari. San Giovanni Leonardi (1541-1609) istituì i Chierici regolari della Madre di Dio, educatori della gioventù più povera. Lo stesso scopo fu degli Scolopi, detti così dalle loro scuole pie, fondati da San Giuseppe Calasanzio (1556-1648). San Giovanni di Dio (1495-1550) fondò l’Ordine dei Fatebenefratelli per l’assistenza dei malati. Una fondazione analoga fu fatta da San Camillo de’ Lellis (1550-1614), quella dei Chierici regolari per l’assistenza degli infermi, detti Camilliani. Santa Francesca Frémiot di Chantal (1572-1641) fondò l’Ordine delle Visitandine, dedito all’educazione delle ragazze. Maria Ward (1585-1645) fondò l’Istituto delle Dame Inglesi per l’istruzione delle fanciulle. Santa Luisa di Marillac (1591-1660), sviluppando un’iniziativa di San Vincenzo de’ Paoli, fondò le Figlie della Carità, dette anche Vincenziane.

GLI ERUDITI

Nella Controriforma la Chiesa riscoprì, nell’ascesa della teologia positiva, le sue fonti storiche, usandole per difendersi dai Protestanti. Ci furono innumerevoli edizioni dei testi patristici, tra le quali vanno menzionate quelle bilingui – le prime – di Fronton du Duc (†1624) o la Bibliotheca Sanctorum Patrum di Marguerin de la Bigne (†1589), comprendente gli scritti di oltre duecento autori antichi e medievali. Francesco Torres (†1584) dimostrò l’autenticità dei Canoni apostolici, delle Costituzioni Apostoliche e delle Decretali dello Pseudo-Isidoro. Onofrio Panvinio (1530-1564) studiò le chiese stazionali, i titoli e le diaconie romani, l’origine del Sacro Collegio e l’iconografia papale. Antonio Bosio (1575-1629) studiò le Catacombe. Gli atti degli antichi concili furono pubblicati da Jacques Merlin ([†1541] 1524), da Pietro Crabbe ([1471-1554] 1538), da Lorenzo Surio ([1523-1578] 1567) e da Severino Bini ([†1641] 1606), che prepararono quella ufficiale voluta da Sisto V e pubblicata da Paolo V. Bartolomeo Carranza (1503-1576) scrisse una storia compendiata dei Concili. Angelo Rocca (†1620) pubblicò una Epitome della letteratura cristiana. Antonio Possevino (1533-1611) redasse un Apparatus Sacer di moltissimi autori ecclesiastici, in ordine alfabetico, con una guida annessa alle biblioteche. Un ulteriore catalogo fu realizzato da Aubert Miraeus (1573-1640). Un libretto sugli autori ecclesiastici, come vedemmo, lo fece anche Roberto Bellarmino.

I maggiori successi si ebbero però nella storia della Chiesa. Corrado Braun (1491-1563), Pietro Canisio e Gilberto Génébrard (1537-1597) 1furono i primi a prendere la penna contro le Centurie di Magdeburgo. Il cardinale Cesare Baronio (1538-1607) fu tuttavia il vero grande storico cattolico della Chiesa, con i suoi Annales Ecclesiastici, in dodici volumi, scritti per impulso di San Filippo Neri. Terenzio Alciati (1570-1651) e il cardinale Pietro Sforza Pallavicino (1607-1667) scrissero la storia del Concilio di Trento, difendendola dalle calunnie di Paolo Sarpi.

In agiografia Luigi Lippomanni (†1559) – con le Vitae Sanctorum Priscorum Patrum – e il summenzionato Lorenzo Surio (†1578) – con il De probatis Sanctorum historiis – realizzarono le prime raccolte di vite di Santi secondo i parametri eruditi della Controriforma, attingendo anche a fonti manoscritte e alla tradizione greca. Eriberto Rosweyde (1569-1629) progettò gli Acta Sanctorum sin dal 1607, ma essi cominciarono ad essere stampati solo nel 1643.

Nella storia dei dogmi si distinse Dionigi Petavio (1593-1652), che praticamente fondò la disciplina con i Dogmata theologica e redasse la prima cronologia scientifica ecclesiastica con la Doctrina Temporum, contribuendo alla formazione delle scienze storiche ausiliarie.

Infine nella canonistica i nomi più illustri furono quelli di Martino di Azpilcueta (†1586), Diego di Covarrubias (†1567), Antonio Agostino (†1586), Agostino Barbosa (†1649) e Paolo Layman (†1635).

I FILOSOFI

La nostra trattazione non è filosofica ma teologica, per cui parliamo dei filosofi quando sono anche teologi. I grandi filosofi moderni poi raramente si occupano di teologia cristiana, al massimo di teologia naturale. Tuttavia il legame tra filosofia e teologia, il fatto che la prima tratti spesso questioni un tempo appannaggio dei teologi e la nuova supremazia che la filosofia ottiene sulla teologia dal cui servaggio si emancipa sono motivi sufficienti per parlare di alcuni autori, sia pure sommariamente, della Modernità filosofica. In genere, a tutti gli autori di essa va imputata la responsabilità di avere secolarizzato il discorso teologico riducendolo ad una naturalità che non aveva dai tempi della Grecia antica, impoverendo così anche il discorso teologico, in nome di una terzietà intellettuale che alla fine ha comportato essenzialmente la negazione di Dio nella cultura profana.

Ma nonostante questa linea tendenziale nella teologia naturale, la Modernità filosofica non è soltanto razionalismo e idealismo, ossia non è solo anticristiana: essa ha anche una linea ontologista che inizia da Cartesio, prosegue per Geulinx e Malebranche, arriva a Pascal, tocca Vico, approda a Leibniz e sfocia in Rosmini. Cartesio viene liberato da Pascal dal suo razionalismo metafisico, mentre è arricchito da Malebranche con la presenza di Dio nella mente umana. Pascal conduce Malebranche all’ontologismo di Rosmini. In genere il Seicento francese rompe con l’aristotelismo scolastico e prepara la teodicea di Leibniz. Vico dal canto suo recupera il senso storico, carente in Cartesio, e se viene letto ontologisticamente ed occasionalisticamente costituisce un antemurale alla filosofia della storia atea e nichilista di Machiavelli, Boyle e Hobbes. L’ontologismo religioso moderno attinge a una parte di Cartesio che si basa su Agostino. In sintesi, la linea Cartesio – Geulinx – Malebranche – Vico può sostituire Gassendi, Locke e Boyle. Con questa premessa, rimandando Pascal ad una trattazione futura, vediamo gli aspetti essenziali del pensiero degli autori cattolici che abbiamo citato, che non hanno bisogno di presentazioni e che costituiscono una parte integrante, anche se a volte ambivalente, della cultura della Controriforma e del Seicento. E’ bene premettere però che nella loro trattazione teologico-razionale tutti questi filosofi muovono dal tema dominante della modernità, che non è l’ontologia ma la gnoseologia, la cui fondazione è ciò che sta loro maggiormente a cuore. Sviscerando il tema conoscitivo, essi non hanno nessuna certezza data e quindi trattano con estrema libertà anche gli argomenti relativi a Dio, senza arrivare al panteismo o all’ateismo o all’agnosticismo di altri loro contemporanei.

Renato Cartesio (1595-1650) inserisce Dio nel cuore della sua gnoseologia. Il fondatore del razionalismo moderno sostiene che l’uomo non può conoscere nulla di certo, in quanto i sensi lo possono ingannare e persino la logica potrebbe essere programmata nella sua mente in modo ingannevole o perturbata da un influsso esterno che le impedisca di sortire risultati veritieri nelle sue indagini e applicazioni. Così il dubbio metodico, indispensabile per fondare il metodo, diventa iperbolico e invade tutto lo scibile, mediante l’ipostatizzazione del Genio maligno, così che l’uomo non può essere sicuro più di nulla, nemmeno della sua corporeità. Assediato dall’ingannevole ignoranza, l’uomo si rinserra nel suo pensiero, dove scopre l’unica certezza: pensando, non può non intuire immediatamente la sua esistenza. Cogito ergo sum è la celebre massima cartesiana, che però era ripresa dal francesissimo Ugo di San Vittore che a sua volta la desumeva da Agostino. Tutti e tre i filosofi desunsero proprio da essa uno speciale legame dell’uomo con la Verità e quindi con Dio, ma solo Cartesio costruì questo nesso nel modo più articolato possibile. Intuita la sua esistenza grazie al proprio pensare, Cartesio fonda le sue certezze su questa ridotta intellettuale inespugnabile. Dovendo recuperare la sicurezza del mondo esterno, il filosofo cattolico cataloga tre forme di idee nella mente, le avventizie, le fattizie e le innate. Le prime sono corrispondenti alle cose esterne e quindi sono suscettibili di dubbio, le seconde sono prodotte assemblando le prime e quindi sono insicure anch’esse, mentre le terze sono certe in quanto generate dalla mente stessa senza alcun ricorso alle nebbie dei sensi. Tra esse svetta l’idea di Dio. Se Egli esistesse, in quanto Creatore dell’uomo e del mondo e Sapienza infinita, sarebbe il garante della possibilità umana stessa di conoscere. Cartesio dimostra che Dio esiste adducendo tre prove: la prima è che la sua stessa nozione è perfetta e quindi suppone che non la mente dell’uomo l’abbia prodotta – che anzi la trova in sé senza saperselo spiegare – ma una causa analoga, ossia quell’Essere stesso a cui si riferisce, non potendo sussistere una nozione perfetta se non come effetto di una perfetta causa; la seconda è che se Dio non esistesse, l’uomo sarebbe la causa del proprio esistere, il che è contraddetto sia dall’evidenza che dal fatto che, se si fosse prodotto da solo, si sarebbe fatto perfetto come invece concepisce Dio solo, il Quale dunque è il suo Creatore; la terza è la prova ontologica anselmina, per cui Dio esiste in quanto è la sua stessa essenza, così come viene concepita, che implica la sua esistenza, che dunque c’è, non potendo il piano dell’essere risultare inferiore a quello del pensiero. Dio dunque esiste fuori dalla mente umana ed è sia il garante della conoscenza deduttiva, quale fondatore della logica, che di quella induttiva, quale Creatore dei corpi, nonché della stabilità di questo conoscere con cui non interferisce nessuna potenza maligna, alla quale il Signore mai permetterebbe di mettere in disordine la sua Creazione. Cartesio inoltre, concependo il mondo o come sostanza estesa o come sostanza pensante, a cui riconduce rispettivamente la materia e lo spirito e, per loro mezzo, i corpi e le menti, mette al di sopra di questi due primi principi creati la sostanza eterna e increata di Dio, che quindi si configura come completamente differente sia dalla materia che dal pensiero. E’ appena il caso di far notare che la concezione della materia come estensione è una idea tardomedievale, che modifica l’aristotelismo e che il nostro riprende facendone uno dei capisaldi della filosofia moderna. Creatore del soggettivismo moderno che porta al kantismo, all’idealismo e alla fenomenologia, Cartesio ebbe un’influenza enorme sulla sua epoca e sulle generazioni successive; grazie al suo interiorismo e al suo platonismo piacque sia agli apologeti che agli autori spirituali cattolici del Seicento.

Proprio per arginare la deriva postcartesiana che portava la gnoseologia ad essere indipendente da Dio, specie per l’interpretazione meccanicistica delle leggi che reggono la natura sensibile e per la svalutazione del ruolo divino nella conoscenza intellegibile quale mero garante della stabilità delle leggi del pensiero che però potrebbero essere autoevidenti, nonché per la difficoltà di sincronizzare materia e spirito, di per sé irriducibili l’una all’altro, nell’atto conoscitivo, nacque l’Occasionalismo, per il quale non vi è interazione diretta tra spirito e materia nella conoscenza, mentre volontà e pensiero, che non agiscono sui corpi, sono solo occasioni perché Dio stesso intervenga a produrre i corrispettivi effetti nei corpi medesimi, così come i loro mori sono altrettante cause occasionali perché sempre Dio intervenga a produrre le rispettive idee. Il suo primo grande teorico fu Arnoldo Geulincx (1624-1669). Con esso si evitava ogni riduzionismo gnoseologico, dal materialismo meccanicistico di Hobbes al panteismo di Spinoza.

Geulinx è un autore che vive a cavallo tra la Controriforma e il Seicento. Ancor più di lui l’oratoriano Nicolas Malebranche (1638-1715) si situa nella cultura secentesca. Secondo lui le funzioni dell’anima si riducono al pensare e al volere, mentre il corpo è solo estensione. I corpi e le anime non agiscono gli uni sulle altre né accade il contrario, mentre i corpi stessi non interagiscono tra loro. L’anima, separata da tutte le altre cose, ha una unione diretta ed immediata con Dio, nel Quale vede e conosce tutte le cose, mentre conosce se stessa mediante una visione interiore. Siamo dunque certi dell'esistenza dei corpi mediante la rivelazione che di essi riceviamo da Dio, perché Egli produce nell’anima umana i diversi sentimenti e le svariate sensazioni che la toccano in occasione di mutamenti corporei. In quanto alle attività dell’anima che hanno effetti sul corpo, esse sono efficaci solo per volontà di Dio e in quanto cause occasionali. Dio lo si conosce per Sé stesso, mediante una intuizione simile a quella del cogito. Egli è immenso, perciò contiene e trascende ogni cosa. Il suo essere è tale che Egli è tutto intero in tutti i momenti della sua eternità, sia nell’estensione che nella durata. Il sistema di Malebranche è quindi teocentrico e anticipa alcune idee di Spinoza, di Leibniz, di Berkeley e di Hume. Gli interessi teologici di Malebranche, che furono forti, fecero di lui un grande apologeta della fede dinanzi al razionalismo ma lo fecero incappare anche in un procedimento inquisitoriale per le sue idee sulla Grazia, che furono censurate nel 1690 da Alessandro VIII (1689-1691).

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), teologo e filosofo, impegnato nella causa dell’ecumenismo cristiano, anch’egli autore secentesco, fu autore di un razionalismo eclettico di grande fascino. In un universo in cui abolisce la distinzione tra materia e spirito, Leibniz asserisce l’esistenza delle monadi, atomi – perché indivisibili – spirituali – perché inestesi – ultimi componenti di tutte le cose che, frazionate all’infinito, escono dalla materia estesa per entrare nello spirito che, appunto, non occupa alcuno spazio. Incomunicanti tra loro, centri di vita psichica, capaci di conoscenza sempre più consapevoli, indistruttibili, le monadi esistono perché sono state create e il loro Creatore è la monade suprema, Dio, che le produce per fulgurazione e armonizza in modo prestabilito quelle interazioni che non solo creano i corpi sotto le monadi egemoni ma che anche permettono la conoscenza stessa mediante una mera apparenza di interazione. Il Dio di Leibniz, orologiaio del mondo, è oggetto di una appassionata teodicea del filosofo. Questi ne dimostra l’esistenza mediante la prova del possibile e del necessario, mentre lo discolpa da ogni male non solo riprendendo la tripartizione del male agostiniana (male fisico, metafisico e morale, dei quali solo l’ultimo è tale di per sé ed è attribuibile alla libera volontà umana, mentre gli altri due sono parte integrante della struttura delle cose e rientrano nell’ordine del cosmo, per cui sembrano negativi solo all’uomo) ma asserendo che, proprio perché Dio è onnipotente e infinitamente buono, non solo ricava dal male sempre il bene, non solo lo permette sempre in vista di un maggior bene, ma ha creato questo mondo perché esso è il migliore dei possibili. Oggetto di svariate critiche, questa posizione esprime un razionalismo estremo che vuole sindacare anche la mente divina e va obiettivamente molto più innanzi di quanto è possibile alla mente umana. Più corretto è dire che questo mondo, peraltro decaduto per il peccato, è il migliore che Dio poteva fare in relazione agli obiettivi per cui l’ha creato ed è gestito da Lui nel modo più adatto in vista dei medesimi scopi. Ciò ovviamente non esclude che Dio possa aver creato altri mondi, né lo esige. In genere, il sistema leibniziano è una sorta di estrema costruzione dello spirito barocco, in cui ogni aspetto viene illuminato dallo sfavillio del raziocinio con conseguente perdita del senso del mistero cristiano e della centralità filosofica dell’ontologia e teologica della Croce.

Autore settecentesco, Giambattista Vico (1668-1744) è il fondatore del platonismo storico, che riconduce il divenire degli eventi ad un unico archetipo, la storia ideale eterna, sulla quale si esemplificano le varie epoche nei loro corsi e ricorsi storici. A questa teoria è funzionale l’idea di Dio quale Provvidenza, che conduce il flusso del tempo infallibilmente verso quei fini che la Sua mente ha fissato e che la Sua volontà realizza proprio mediante lo schema storico che continuamente applica.

Tirando le somme di questi autori, a proposito delle tematiche chiave della teologia possiamo proporre questo sguardo di sintesi. Razionalisti di stampo platonico e agostiniano, Cartesio, Malebranche, Leibniz e Vico riescono ad incorporare nei loro sistemi le verità fondamentali del Cristianesimo, mantenendo la tradizionale armonia tra fede e ragione. Cartesio lo fa il minimo indispensabile, per avviare il sistema, lasciando fuori della sua riflessione il Peccato originale, la Grazia, Gesù e la Redenzione. Leibniz e Vico invece tengono in gran conto la Rivelazione biblica. Nemici dell’aristotelismo scolastico, i nostri pensatori affermano che l’esistenza di Dio può essere dimostrata, sia pure in prospettive differenti, ora come Essere perfettissimo, ora come Possibilità senza limiti, ora come Provvidenza, ora come Causa immediata infinita, giungendo ad identificarlo con il principio più alto di ciascuno dei loro pensieri e rivalutando tutti la prova ontologica. Nemici del predeterminismo, Cartesio e Leibniz in particolare sottolineano che Dio non è mai la causa del male e tantomeno di quello fatto dagli uomini, anche se il secondo sottomette le cattive azioni ai fini supremi del governo del cosmo.


Theorèin - Febbraio 2018