LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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TRADITIONALIS VIA ANGELICA

Breve introduzione a Journet e a Przywara

Il grande tomismo del Novecento, quello figlio della rinascita neoscolastica, è stato coltivato, come abbiamo visto, nella sua forma tradizionale dai Domenicani. Ma vi sono anche altri autori che, senza appartenere alla schiera dei figli di San Domenico, hanno seguito quest’indirizzo in modo fecondo. Essi sono Charles Journet ed Erich Przywara.

CHARLES JOURNET

Charles Journet nacque a Ginevra nel 1891. Frequentò il Grande Seminario di Friburgo e fu ordinato prete nel 1917. Parroco a Carouge, Friburgo e Ginevra, iniziò ad insegnare nel Grande Seminario che lui stesso aveva frequentato nel 1924, sulla cattedra di teologia dogmatica. Fu docente fino al 1970. Nel 1926 fondò la rivista Nova et Vetera, che diresse fino alla morte e sulla quale pubblicò tantissimi scritti. Nel 1965 San Paolo VI (1963-1978) lo creò Cardinale e in questa veste partecipò all’ultima sessione del Concilio Vaticano II. Fu membro di numerose Congregazioni romane. Morì nel 1975.

Journet fu essenzialmente un ecclesiologo e alla Chiesa dedicò il suo capolavoro, La Chiesa del Verbo Incarnato, progettato in quattro volumi ma priva del terzo che non fu mai pubblicato. Secondo Journet la Chiesa può essere descritta, osservata attentamente od essere oggetto di fede. Con questo atteggiamento vi si avvicina il cristiano e il teologo. La Chiesa va compresa essenzialmente a partire dalle cause che la originano. Perciò il nostro comincia proprio dalla causa efficiente ultima della Chiesa, che è la Santissima Trinità. Il Padre invia il Figlio a diventare il Capo della Chiesa e lo Spirito Santo a formare, mediante la Grazia e l’inabitazione, il Corpo di essa. Sin dall’Incarnazione del Verbo si pose il seme della Chiesa. Egli, nascendo, già irradia i Suoi raggi di luce che possono salvare l’umanità e crea un embrione di Chiesa che non somiglia ancora pienamente a Cristo, non avendo né sacerdozio né giurisdizione, ma che ha già la sua anima, quella carità cristica che è segnata dalla Regalità, dalla Santità e dal Sacerdozio di Lui e che lo spinge a salire sulla Croce per poi risorgere. Essa è vincolo di unità in tutti coloro che la ricevono. Con la Pentecoste lo Spirito Santo porta a compimento l’opera di edificazione della Chiesa, mediante la Grazia che comunica a tutti le ricchezze del Cristo, così da rendere i fedeli conformi al loro Capo.

La natura della Chiesa è ovviamente la parte successiva dello studio di Journet. Essa è determinata dalla causa formale e dalla causa materiale sue proprie. La prima è proprio la Grazia, che unisce tutti quelli che la ricevono in un solo Corpo, per azione dello Spirito Santo. La seconda è costituita proprio da chi appartiene alla Chiesa, dai suoi membri. Essi sono di due tipi. Il primo è quello di coloro che sono battezzati ed in grazia di Dio. Il secondo è di coloro che sono in peccato, che sono battezzati fuori della Chiesa Cattolica e che, non essendo battezzati, aspirano ad esserlo. Perciò solo i giusti appartengono pienamente alla Chiesa, mentre tutti gli altri vi partecipano nella misura in cui regna in essi la carità. Siccome essere della Chiesa ed essere di Cristo sono la stessa cosa, chi appartiene in forme non perfette alla Chiesa ha in sé quel tanto di buono che fa sì che tale appartenenza sia reale, proveniente da Cristo, e in attesa che giunga a compimento, sulla base di un effetto più o meno profondo dell’azione in essi dello Spirito Santo. In tal modo Journet ha mostrato come le Chiese cristiane, pur essendo dissidenti, non sono del tutto separate dal Corpo di Cristo, e che, pur essendo cristiane, non possono dirsi autenticamente Chiesa di Cristo.

ERICH PRZYWARA

Con Przywara la teologia tomista è senz’altro rappresentata nelle sue forme più profonde e difficili. Pensatore solitario, importante, vigoroso, acuto, speculativo, brillante e profondo, Przywara fu cultore non solo di Tommaso, ma anche di Agostino, di Ignazio di Loyola, di Newman, di Kant e di Kierkegaard e fu maestro di Von Balthasar, che lo considerò il maggior teologo del suo secolo. Egli fu teologo, filosofo, letterato e maestro spirituale di grande valore.

Erich Przywara nacque a Katowice, nella Polonia tedesca, nel 1889. Nel 1908 divenne Gesuita. Dal 1910 al 1913 studiò filosofia a Valkenburg in Olanda e approfondì la Scolastica come l’agostinismo e la filosofia contemporanea. Dal 1913 al 1917 fu Prefetto di Musica al Collegio Stella Matutina di Feldkirch in Austria e vi studiò Nietzsche e i Romantici. Dal 1917 al 1921 tornò a Valkenburg e vi studiò teologia, approfondendo la Patristica e Newman. Redattore, assieme a Guardini, di Stimmen der Zeit, Przywara, pur non essendo docente di nessuna disciplina in modo stabile, divenne un pensatore assai influente e noto nei paesi di lingua tedesca. Collaboratore di molte riviste, conferenziere, animatore di circoli culturali, cappellano universitario e dei laureati cattolici, il nostro servì la Chiesa tedesca con zelo durante gli anni bui del Nazismo, agli ordini di Preysing, arcivescovo di Berlino, e di Faulhaber, arcivescovo di Monaco. Nel 1951 la sua precaria salute lo costrinse a vivere in campagna, a Murnau in Baviera, dove continuò a studiare e a scrivere. Morì nel 1972.

Przywara scrisse diverse opere. La maggiore è Analogia entis, in tre volumi intitolati rispettivamente Il Principio, Il Ritmo del tempo, Gli Scritti. Ricordiamo anche altre opere come gli otto volumi di John Henry Newman-Christentum, Il segreto di Kierkegaard, Kant oggi, Agostino, Hölderlin – di argomento storico- e Deus semper maior: Teologia degli esercizi (in tre volumi), Crucis Mysterium, Che cos’è Dio?, Antica e Nuova Alleanza – di tema teologico – e L’uomo. Antropologia tipologica – di argomento filosofico.

Przywara insiste molto sulla presenza di Dio nel mondo e nella storia, sulla Sua immanenza in esse, attraverso Cristo e la Sua Chiesa. Per lui Dio è fuoco consumatore, spada che uccide e amore che rapisce. Ma tale presenza non pregiudica l’autonomia e il dinamismo umani, anzi li rafforza. Dio è immanente e trascendente alle creature. L’analogia entis è la formula con cui il pensatore gesuita sintetizza il suo pensiero, nel quale è appunto centrale la trascendenza immanente del Dio cattolico, il Quale non pregiudica né sminuisce il valore delle creature, salvaguardandolo e potenziandolo. Tra Dio è uomo vi è dunque una correlazione e una polarità. Il polo divino è quello da cui discende l’amore di Dio mediante Cristo e la Chiesa; quello umano è il polo che ha nostalgia del divino e che, quando aderisce a Dio, supera e vince i contrasti degli uomini. L’uomo da solo non può né superare le proprie antinomie né ristabilirsi nell’unità interiore che dà pace e felicità, ma la Grazia di Dio gli concede tutto questo. Il finito, di cui l’uomo è espressione, è perennemente in movimento verso un continuo irraggiungibile che sta in alto e verso cui tuttavia esso è orientato. L’analogia che regge l’ordine del reale è dunque questa doppia potenzialità, nella quale la pura manipolazione dall’alto di ogni creatura è arricchita dalla sua volontà di essere se stessa guardando verso l’alto. Una potenzialità negativa e positiva ad un tempo, che però mai giunge ad un compimento pieno, perché la distanza tra Dio e l’uomo è infinita. Dio infatti è sempre il più grande e qualsiasi tentativo di capirlo serve solo a mostrarne meglio l’incomprensibilità. Il tema dell’analogia, che come si vede Przywara ha impostato in modo complesso e a volte oscuro, divenne uno dei più dibattuti in teologia e filosofia, per cui oggi appare comprensibile solo se associato a quello dell’analogia fidei in entrambe le discipline.

ROMANA SCHOLA

Breve introduzione ai teologi italiani classici

Anche in Italia vi furono teologi neotomisti tradizionali, che per comodità conviene considerare parte di una sola Scuola, che chiameremo Romana perché gravitante attorno alla Santa Sede e viva all’Angelicum e alla Gregoriana, alla Lateranense e al Seminario di Venegono. Nelle prime due Università pontificie insegnavano stranieri, nella terza e nel quarto istituto invece erano in cattedra italiani. Furono Parente, Piolanti e Colombo gli alfieri del tomismo italiano, autori notissimi e prestigiosi anche all’estero, forse poco originali ma fedelissimi alla Tradizione e ferratissimi conoscitori dell’Aquinate e di tutte le fonti teologiche. Chiara, solida e profonda, questa teologia, conforme al pensiero tomista, diede al suo magistero una compattezza che mai aveva avuto in passato nessun altro italico e, se non colmò lo iato tra cultura cristiana e profana – come le venne rinfacciato – fu in questo simile a tutte le altre teologie di cui andiamo parlando, pur essendo molto più precisa di ognuna di esse.

PIETRO PARENTE

Nacque a Casalnuovo Monterotaro presso Foggia, nel 1891. Nel 1906 entrò in Seminario a Benevento, da cui per concorso si spostò al Seminario Pio di Roma, nel 1909. Si laureò in filosofia all’Apollinare e in teologia alla Lateranense. Nel 1916 divenne prete e fu nominato Rettore del Seminario di Benevento, rimanendo in tale carica fino al 1926. Nel 1925 conseguì anche la laurea in Lettere a Napoli. Nel 1926 divenne docente di dogmatica alla Laternanense e, nel 1930, anche all’Urbaniana. Nel 1934 divenne Rettore del Collegio Urbano di Propaganda Fide. Nel 1955 il venerabile Pio XII (1939-1958) lo elesse arcivescovo di Perugia. Nel 1959 San Giovanni XXIII (1958-1963) lo chiamò a Roma come Assessore del Sant’Uffizio. Intervenne con profitto al Concilio Vaticano II e San Paolo VI lo creò cardinale nel 1967. Morì a Roma nel 1986.

Parente scrisse diverse opere: L’Io di Cristo, Itinerario teologico ieri e oggi, Teologia di Cristo, Il mistero teandrico della Chiesa e la collegialità, L’uomo in ascolto di Dio, Terapia tomistica. Ha collaborato con molte voci all’Enciclopedia Cattolica. Scrisse con Antonio Piolanti il Dizionario di teologia dogmatica.

Parente fu il massimo esponente della Scuola Romana. Scriveva fluentemente in un lucido ed elegante latino. I suoi manuali della Collectio theologica romana diedero una diffusione mondiale alla linea teologica corrispettiva. Egli applicò intelligentemente e proficuamente il Neotomismo alla riflessione teologica. Mostrò la fragilità delle nuove correnti del pensiero teologico ma esplorò le tematiche contemporanee usandole per approfondire il mistero di Cristo. Proprio in cristologia Parente diede un contributo fondamentale, mostrando come proprio oggi, alla luce delle moderne concezioni della persona basate sull’autocoscienza e sulla libertà, bisogna ripartire, per una corretta comprensione del mistero, dalla nozione tomista di persona, ben più solida perché fondata sulla sussistenza del soggetto, ed applicarla alla formula dogmatica di Calcedonia, che così viene ampiamente e proficuamente approfondita. Parente trattò con acume la perfetta Unione delle Due Nature integre del Cristo nella Sua Persona e approfondì il tema inedito della psicologia di Gesù. Il nostro afferma che il Cristo ebbe, come proprietà della Sua Natura umana, una Coscienza, consapevole dell’essere e dell’operare umano suo proprio. Tuttavia essa non ebbe autonomia ontologica e psicologica, sussistendo e personificandosi nel Verbo, il Quale agisce attraverso la Sua Umanità stessa. In ambito ecclesiologico, Parente sostenne la dottrina del Corpo Mistico e, in sede conciliare, quella della Collegialità episcopale.

ANTONIO PIOLANTI

Antonio Piolanti nacque a Predappio nel 1911. Studiò nel Seminario di Bertinoro e in quello di Bologna. Laureato in teologia e in utroque iure alla Lateranense, vi ottenne una cattedra di teologia e poi di sacramentaria. Una stessa cattedra ottenne all’Urbaniana. Nel 1957 divenne Rettore della Lateranense. Partecipò alla preparazione del Sinodo romano e del Concilio Vaticano II. Fu vice presidente dell’Accademia Pontificia di San Tommaso d’Aquino. Morì nel 2001 a Roma. Scrisse, tra le altre cose, Dio nel mondo e nell’uomo, Dio Uomo, Il Corpo Mistico e le sue relazioni con l’Eucarestia in Sant’Alberto Magno, Il tomismo come filosofia cristiana nel pensiero di Leone XIII, Il mistero eucaristico. In tutte le sue opere Piolanti ebbe stile chiaro, acutezza indagatrice, vasta cultura. Espose con maestria i misteri della fede, specie quelli cristologici, ecclesiologici, antropologici e sacramentari. Fedele al magistero e alla metafisica tomista, si oppose ad ogni cedimento alla cultura contemporanea e accolse le problematiche moderne per risolverle alla luce dei suoi principi.

CARLO COLOMBO

Carlo Colombo nacque ad Olginate vicino Lecco nel 1909. Studiò nel Seminario Maggiore di Venegono e fu ordinato prete nel 1931. Insegnò al Seminario Minore di Seveso e dal 1938 nella Facoltà Teologica del Seminario di Milano, di cui divenne Preside. Dal 1946 al 1964 scrisse instancabilmente con successo e ampiezza di vedute. Dopo il 1964, quando divenne vescovo titolare di Vittoriana, come presidente dell’Istituto Giovanni Toniolo e direttore della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, fu costretto a rallentare gli studi e a dedicarsi al loro aspetto pastorale. Morì a Milano nel 1991.

Colombo scrisse circa duecento saggi su varie riviste, dei quali i maggiori sono raccolti nel volume Scritti teologici. Pubblicò per i suoi studenti De Deo Uno et Creatore, De Gratia, De Virtutibus, De Ordine, De Matrimonio, De Baptismo, De Chresima, De Eucharestia. Ha inoltre curato Problemi e orientamenti di teologia dogmatica, assieme ad altri, e ha trattato Il dogma dell’Assunzione di Maria nella traduzione italiana della Dogmatica di Bartmann.

Il merito principale di Colombo fu di aver ripensato lo statuto scientifico della teologia utilizzando categorie della moderna filosofia francese. La teologia per lui è finalizzata alla carità e l’insegnamento della disciplina è segnato dal medesimo fine. I suoi contributi maggiori vertono sulla definibilità del dogma assunzionista e sull’approfondimento della dottrina della Transustanziazione.

VIA ANGELICA TRASCENDENTALIS

Breve introduzione ai tomisti trascendentali

Accanto all’indirizzo tomistico classico si colloca un altro indirizzo, di tipo trascendentale, che cercò di coniugare la metafisica tomista con le istanze gnoseologiche del kantismo. Questo importante esperimento filosofico fu impostato da Joseph Maréchal, di cui abbiamo già parlato, e seguito da diversi autori (i già menzionati J. B. Lotz e J. de Finance, più Andrè Marc [1892-1961] ed Emerich Coreth [1919-2006]), dei quali i maggiori furono Rahner e Lonergan.

KARL RAHNER

Karl Rahner elaborò una teologia trascendentale della Grazia che fece di lui la maggiore potenza teologica della Chiesa dopo il Concilio. Non privo di alcune ombre a causa della sua fondazione filosofica non sempre sufficiente, Rahner rimane in ogni caso una importantissima personalità. Egli nacque a Friburgo nel 1904. Entrò nella Compagnia di Gesù dopo la maturità e durante il noviziato si interessò dei problemi della teologia spirituale. Compì dapprima gli studi filosofici, nei quali scoprì Maréchal e Kant, e poi quelli teologici, a Valkenburg in Olanda. Nel 1932 divenne prete. A Friburgo si iscrisse alla Facoltà di Filosofia e vi conobbe Heidegger, che esercitò su di lui una certa influenza. Rahner in ogni caso si laureò approfondendo studi neoscolastici che però già mostravano in lui una certa propensione ad andare oltre l’orizzonte tomista classico. Nel 1936 iniziò gli studi dottorali ad Innsbruck. Nel 1937 divenne docente nella Facoltà Teologica della stessa città. Soppressa la Facoltà dal Nazismo nel 1938, Rahner riparò a Vienna dove lavorò nell’amministrazione diocesana e nell’Istituto di Pastorale. Rimase conferenziere e divenne poi cappellano in Baviera e docente di dogmatica al Collegio gesuita di Pullach. Nel 1949 divenne professore ordinario a Innsbruck. Interdetto temporaneamente alla scrittura teologica per l’ostilità di alcuni ambienti ecclesiastici, Rahner fu riabilitato da San Giovanni XXIII e nominato perito conciliare. Nel 1964 passò all’Università di Monaco di Baviera come docente di filosofia della religione. Nel 1967 insegnò a Münster. San Paolo VI lo nominò membro della Commissione Teologica Internazionale nel 1969. Tra gli anni sessanta e settanta si impegnò nella diffusione di una ermeneutica conciliare aperta al dialogo con la cultura atea e marxista, mentre affrontava i problemi della secolarizzazione. Fu sempre duramente attaccato dai suoi avversari, fautori di una linea tradizionale in teologia. Terminata la docenza a Monaco, Rahner tornò ad Innsbruck, dove morì nel 1984.

Rahner scrisse quasi quattromila opere, coprendo tutti gli ambiti teologici e trattando dei temi più disparati della scienza, della tecnologia, della politica e della sociologia, oltre ovviamente che della filosofia. I suoi scritti maggiori possono essere così raggruppati. In filosofia, Spirito del mondo e Uditori della Parola. In teologia, Corso fondamentale sulla fede e Scritti sulla teologia (in sedici volumi). A cavallo tra le due discipline, come questioni disputate edite nella serie omonima, Sulla teologia della morte, Il problema dell’ominizzazione e Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica. Di genere divulgativo sono La fede in mezzo al mondo, La fede che ama la terra, Io credo in Gesù Cristo, Libertà e manipolazione nella Chiesa e nella società, Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chanche. Rahner inoltre ha diretto sia la seconda edizione del Lexicon für Theologie und Kirche sia il lessico teologico Sacramentum Mundi. In essi ha curato moltissime voci e tutte le maggiori della dogmatica del secondo.

La teologia di Rahner è una autentica teologia trascendentale, perché si serve una filosofia trascendentale e tratta i problemi connessi alle modalità gnoseologiche del soggetto in relazione alle verità di fede, sia in generale che in particolare, partendo sempre da problemi teologici. Sulla scorta di Kant, Rahner individua le condizioni aprioristiche della conoscenza di Dio e delle verità di fede da parte del soggetto. Queste condizioni sono definite a priori trascendentali, distinte dalle categorie, che servono all’acquisizione dei dati sensibili. I trascendentali di Rahner sono le possibilità stesse della conoscenza, dell’azione e delle altre esperienze umane, sono le condizioni stesse dell’esperienza categoriale. Questa esperienza è intrinsecamente quella della finitezza conoscitiva, che però presuppone l’infinito; è quella della verità e della responsabilità, che rimanda all’assoluto nell’una e nell’altra; è quella dell’amore e della fedeltà radicali, che rimanda all’incondizionato. In ragione di ciò, i trascendentali che sono il presupposto delle categorie – mediante cui l’uomo conosce orizzontalmente – sono anche la condizione della conoscenza verticale. Essi sono la prova che lo spirito finito è aperto all’infinito. In conseguenza di ciò, esiste una costitutiva apertura dell’uomo a Dio e alla Sua possibile rivelazione.

Su di essa Rahner svolge considerazioni serrate, partendo da tre tesi. La prima tesi riguarda l’uomo in quanto spirito. Egli è tale perché si può interrogare sul senso dell’essere, sia nell’ente che è lui stesso o che gli è accanto, sia di per sé, mostrando così di avere una apertura ad esso che è l’orizzonte in cui coglie ogni possibile realtà. Da ciò si deduce la natura spirituale dell’uomo. Questi, anticipando l’essere – nel senso che lo coglie in modo previo rispetto a qualsiasi altra cosa e senza la possibilità di esimersi dal coglierlo – anticipa in un certo senso anche Dio. L’essere infatti è precompreso come assoluto e infinito, ma queste due nozioni sono proprie della Natura di Dio. Rahner non riesuma la prova ontologica, ma afferma che ogni conoscente conosce implicitamente Dio in ogni cosa che conosce, in quanto da tali conoscenze può ricavare quella esplicita di Dio e senza di essa non potrebbe conoscere alcunchè. Rahner in questo echeggia Tommaso, ma con una maggior forza, perché tale conoscenza implicita in fondo è la premessa indispensabile di ogni conoscenza e dello stesso essere dell’uomo.

La seconda tesi verte sulla possibilità della Rivelazione. L’uomo è in relazione a Dio ma in modo dinamico: nulla c’è in lui che obbligava il Suo Creatore a produrlo. L’uomo dunque sa che Dio agisce in modo libero e gratuito. Proprio creandolo, Dio si manifesta all’uomo. Ma la Creazione non è una manifestazione piena, per cui è sempre possibile la Rivelazione. L’uomo, in quanto ente libero e capace di amare, può relazionarsi con questo Dio Che, a Sua volta, può rivelarsi a lui, se lo vuole. L’uomo, in quanto spirito, attende una possibile Rivelazione. Ma soprattutto l’uomo, in quanto libero, può amare o non amare la Rivelazione e quindi può scegliere o meno di riconoscerla come tale.

La terza tesi è che Dio, rivelandosi, deve in un certo senso operare in un modo specifico. Ossia, avendo fatto l’uomo come essere storico, Dio, se vuole rivelarsi, deve farlo nel corso degli eventi. Inoltre, siccome Dio ha fatto l’uomo in un certo modo, se si rivela, deve farlo in maniera tale da essere atto a farsi comprendere secondo il modo dell’uomo. Ora, l’uomo comprende tramite la parola, per cui Dio deve comunicarsi a lui tramite la Sua Parola, che diventa uomo Essa stessa. Diversamente, Dio non sarebbe intellegibile all’uomo. Del resto, la piena rivelazione di Dio suppone che Egli si comunichi pienamente, per cui non basterebbero meri intermediari, come i Profeti, ad esaurire il messaggio di Dio.

Attraverso queste tre tesi, Rahner ha descritto una antropologia teologica fondamentale e, preso atto che la possibile Rivelazione è diventata reale in Cristo, passa a descrivere la teologia positiva, che si basa sul presupposto che la Rivelazione sia accaduta.

In teologia Rahner forse è più problematico che in filosofia, a causa della sua svolta antropologica che, sebbene mai censurata, potrebbe essere suscettibile di interpretazioni e deduzioni erronee. Questa svolta è una sorta di rivoluzione copernicana nella gnoseologia teologica, una imitazione di quella di Kant. Per Rahner al centro della conoscenza teologica non c’è Dio come oggetto, ma l’uomo come soggetto, sia perché nella fede cristiana Dio si fa Uomo estraniandosi da Sé senza smettere di essere Se stesso, sia perché l’annuncio evangelico oggi può essere inteso meglio se al posto del teocentrismo si mette l’antropocentrismo. La conseguenza di ciò, discutibile tanto quanto la sua seconda premessa, è che ogni branca della teologia è legata all’antropologia teologica e ogni dottrina dogmatica è una proposizione di antropologia teologica.

Proprio per questo Rahner, nella sua dogmatica, considera l’uomo e il mondo come realtà aventi un fine sovrannaturale, che deve emergere in ogni fase della loro esistenza, compresa la morte. Gli stessi dogmi fondamentali del Cristianesimo, la Trinità l’Incarnazione e la giustificazione mediante la Grazia, sono per Rahner comprensibili a partire dall’uomo senza che però scadano dal loro piano soprannaturale e che la loro Rivelazione sia necessitata. Rahner, ribattendo all’accusa di modernismo, immanentismo, soggettivismo e relativismo che i suoi detrattori mossero alla sua svolta antropologica, affermò che essa altro non è che la consapevolezza che Dio ha messo l’uomo al centro della Sua azione.

Proprio nella considerazione della Grazia, Rahner attua in modo compiuto la sua svolta. Secondo il nostro, proprio questo mistero è l’architrave della Rivelazione. Dio si rivela per salvare l’uomo e proprio rivelandosi diventa per noi Grazia, intesa e definita come Increata. Questa Grazia è dunque il mistero della comunicazione di Dio all’uomo, una comunicazione che è trinitaria – perché è di creazione, di redenzione e di santificazione – e cristologica – in quanto è comunicata per i meriti dell’Uomo Dio sin dalla fondazione del mondo. In ragione di questa sua capacità di far dedurre da sé i misteri principali della fede in relazione all’uomo, essa è, come concetto, appunto il fulcro della dottrina cristiana. La Grazia è un esistenziale soprannaturale, il solo modo di essere possibile per l’uomo che vive di una vita soprannaturale. Essa è l’autocomunicazione di Dio all’uomo e, come per la Trinità e per l’Incarnazione, così da essa si postulano tutte le verità di fede, dalla Chiesa ai Sacramenti, passando per gli Angeli, i Santi, la Vergine e fino all’escatologia. Per Rahner la Grazia non è un dono creato, ma il dono increato della presenza di Dio in noi, mediante lo Spirito, da Cui sono prodotte tutte le altre grazie, che sono create. Come Duns Scoto, Rahner ritiene che l’Incarnazione sia avvenuta per la comunicazione della Grazia all’uomo, e non per la Redenzione, ossia che sarebbe accaduta anche se Adamo non fosse caduto. La Grazia inoltre è un dono universale, perché Dio vuole tutti gli uomini salvi e, se ai cristiani ha dato i Sacramenti, a Se stesso non ha certo posto limite alcuno di azione. Nemmeno l’ignoranza dell’azione della Grazia ne annulla l’effetto, per cui molti sono cristiani inconsapevoli o, come diceva il nostro, anonimi. Naturalmente questo non significa che la salvezza esista anche fuori della Chiesa ma che essa sia l’intenzione dell’azione divina nell’unitaria storia dell’uomo, nella quale il merito di uno è a vantaggio dell’altro, in attesa che tutta la pasta fermenti, senza che il lievito non sia tale prima ancora di aver agito.

Come abbiamo detto, per Rahner l’Incarnazione non è un evento subordinato al peccato di Adamo, quasi che Dio non l’avrebbe prevista se esso non fosse mai accaduto, ma è un evento preordinato da Lui per realizzare pienamente l’incontro con l’umanità. Questo è l’asserto fondamentale della cristologia rahneriana. Il nostro autore condivide la critica alla Patristica e alla Scolastica di aver trascurato l’Umanità di Cristo in conseguenza della definizione di Calcedonia, ma non abbraccia la scelta di chi, unilateralmente, oggi si focalizza solo sull’Uomo Gesù, dimenticando che Egli è Dio. Per Rahner sempre dalla definizione calcedonese bisogna partire, approfondendo sia la Divinità che l’Umanità di Cristo. Egli lo fa a partire dal concetto giovanneo per cui il Verbo si è fatto carne. Da esso ricava molteplici deduzioni.

Innanzitutto mostra come solo il Verbo, tra le Tre Persone, poteva farsi Uomo convenientemente. Infatti l’Incarnazione comunica Dio all’uomo e il Verbo è l’Immagine stessa del Padre, quindi la più consona alla manifestazione alle creature. Poi passa a mostrare come ciò che il Verbo si è fatto, ossia carne, è indispensabile per capire cosa è l’uomo realmente. La carne è termine biblico che indica la natura umana individuale, per cui il Verbo ne ha assunta una che è divenuta la propria. Ma l’uomo è una apertura illimitata al mistero infinito della pienezza dell’essere, ossia al mistero di Dio. La definizione dell’uomo è questa, la sua delimitazione sta nell’essere illimitatamente aperto. Con la assunzione della carne il Verbo porta a compimento la natura umana, realizzandone pienamente la vocazione. L’uomo, alienandosi da sé mediante il dono di se stesso a Dio, può ricevere Dio, che ha fatto la medesima cosa per primo. Ovviamente questo non significa che Dio è obbligato ad Incarnarsi, sia perché l’apertura dell’uomo all’infinito non postula, ma rende solo conveniente, tale evento, sia perché la nostra condizione peccaminosa rende sempre instabile e precaria la realizzazione dell’uomo stesso. Ma il compimento dell’essere dell’uomo attraverso l’Incarnazione del Verbo è senz’altro un fatto reale. L’ultima deduzione della cristologia di Rahner riguarda il concetto di “divenire” applicato a Dio che si fa Carne. Il divenire non è proprio della Divinità, ma lo è di quella storia della quale Egli ha deciso di fare parte come Uomo e alla cui legge di trasformazione si è quindi liberamente sottoposto. Anzi, proprio come Uomo, Gesù è Egli stesso recettore della Rivelazione di Dio, che avviene in Lui nel momento stesso in cui la riceve nell’Unione Ipostatica. Gesù quindi conduce, come Uomo, l’umanità e il cosmo di cui è parte alla loro pienezza. In genere, la cristologia di Rahner ha una sua grandiosità che però non ha convinto tutti sul fatto che essa sia immune, come sostiene l’autore, da ogni influsso idealistico e dalla conseguente ed esiziale confusione tra essere e conoscenza.

In ecclesiologia Rahner ancora prende le mosse dal mistero della Grazia. La Chiesa infatti è il segno della Grazia di Dio nel mondo e sua manifestazione storica, laddove la storia è già proiettata verso il suo compimento escatologico. Essa è il perdurare della volontà divina di Grazia verso il mondo intero, manifestatasi in Cristo. Essa è la permanenza di quella Parola salvifica che annunzia la Grazia. Essa è il Sacramento primo, presenza del Cristo nel mondo, da cui scaturiscono tutti i Sacramenti. Ognuno di essi è la risposta specifica di Dio a un bisogno salvifico dell’uomo sia come individuo che come essere sociale. Secondo Rahner l’ordine della loro fondazione è il seguente: Penitenza, Eucarestia, Ordine, Battesimo, Confermazione, Matrimonio e Unzione degli Infermi. Per il nostro ognuno di essi è fondato da Cristo ma non necessariamente in modo diretto, in quanto il fatto che la Chiesa ne abbia posto qualcuno è la conseguenza del suo essere Sacramento primo, voluto, esso sì, dal Redentore direttamente. Rahner poi, dilungandosi sulla consistenza ontologica della Chiesa, afferma che essa sussiste tutta non solo nella sua pienezza universale ma anche nella sua partizione locale. La Chiesa locale è universale anch’essa, in quanto in essa sussistono tutte le caratteristiche di quella Universale propriamente detta: la presenza di Cristo, i Sacramenti, la Gerarchia e il Magistero. La trattazione rahneriana sulla Chiesa si completa con la sua concezione della salvezza dei non cristiani. Il nostro, come dicevamo, suppone che le vie straordinarie della salvezza siano tali da far sì che molti siano cristiani senza nemmeno saperlo, venendo incorporati nella Chiesa, al di fuori della quale non vi può essere salvezza.

BERNARD LONERGAN

Bernard Lonergan nacque a Buckingham presso Ottawa in Canada nel 1904. Nel 1922 divenne Gesuita. Studiò filosofia, letteratura e scienze matematiche ad Oxford dal 1926 al 1930, mentre approfondisce la teologia alla Gregoriana. Per tredici anni insegna dogmatica a Montréal e a Toronto. Dal 1953 al 1965 insegna alla Gregoriana. Fa poi ritorno in Canada per ragioni di salute. Nel periodo canadese si occupò di tutti i temi dogmatici tradizionali nella sua trattatistica, mentre in quello romano ne seguì due, sui quali compose il De Deo Trino e il De Verbo Incarnato, che quindi sono particolarmente approfonditi. Da ciò ricavò alcuni manuali di studio. San Paolo VI lo nominò membro della Commissione Teologica Internazionale nel 1969 e rimase in tale incarico sino al 1974. Morì nel 1984 a Pickering negli Stati Uniti.

Autore poco prolifico ma sempre originale e profondo, Lonergan puntò su un rinnovamento metodologico e formale della teologia, senza toccare i contenuti, lavorando su una sua rifondazione conforme alle trasformazioni della coscienza individuale nell’età moderna. Egli scrisse Gratia operans – tesi di dottorato in cui tratta la questione della Grazia operante nel tomismo – Verbum: Parola e idea in San Tommaso – raccolta di saggi pubblicati in Theological Studies, nei quali tratta il tema dell’emanazione intellegibile che è il modo proprio di operare della coscienza intelligente razionale e morale, facendone una ipotesi esplicativa della vita intima di Dio, in cui l’Unità della Natura si realizza quale principio originante di una Parola infinitamente vera e di un Amore perfettamente santo – Intelligenza – trattato di gnoseologia che mira all’approfondimento dell’appropriazione personale della coscienza autorazionale di ognuno, a partire dal tomismo e servendosi di Galilei, Bacone, Cartesio, Kant, Hume e Hegel – Il metodo in teologia – in cui la tematica metodologica viene sviscerata alla luce delle istanze specifiche della disciplina e delle acquisizioni della Rivoluzione Scientifica e della filosofia moderna – e infine Collezione I e II – saggi di svariati argomenti.

La maggiore conquista intellettuale di Lonergan, uomo dall’ingegno solido e vigoroso la cui traccia è meno visibile ma più profonda di tanti suoi contemporanei anche trattati in queste pagine – è il riassetto del metodo teologico, per garantire una maggiore precisione epistemologica della disciplina. Tale metodo consta di otto momenti.

Il primo è la ricerca, che raccoglie i dati pertinenti alla Storia della Salvezza. Il secondo è l’interpretazione che ne svela il significato e lo fissa. Il terzo è la storia, che rintraccia tali significati in azioni e movimenti. Il quarto è la dialettica, che indaga sulle posizioni conflittuali di storici, interpreti e ricercatori sui vari temi teologici. Il quinto è la fondazione, mediante cui vengono stabilizzate le posizioni acquisite mediante la conversione morale, intellettuale e religiosa. Il sesto è la dottrina, mediante cui la fondazione sceglie tra le alternative della dialettica. Il settimo è la sistematica, che chiarisce definitivamente il significato delle dottrine. L’ottavo è la comunicazione, che presenta in modo intellegibile ed efficace il messaggio cristiano, con le trasposizioni necessarie perché sia compresa da tutti gli uomini di tutte le condizioni. Questi otto momenti sono strettamente interconnessi e non possono sussistere l’uno senza l’altro. Essi servono a seguire il criterio unico che si impone al teologo, ossia la ricerca dell’autenticità del pensiero. Infatti ortodossia e verità sono il presupposto dell’autenticità e il lavoro del teologo, muovendosi nel loro alveo, deve giungere ad una posizione meramente autentica, intesa come distinzione normativa della conoscenza soggettiva.

Lonergan infatti abbraccia una gnoseologia nella quale il realismo non è più la mera conoscenza della cosa in sé ma è la posizione al centro del processo conoscitivo del soggetto, inteso come interiorità (realismo critico). L’interiorità fissa termini e relazioni di base con la debita attenzione alle operazioni consce e alla struttura dinamica che le lega. Le norme del suo agire sono essere attento, intelligente, responsabile ed interiore. Ossia essere se stessi e quindi autentici. Il teologo deve seguire questa via maestra, la cui architrave è la conversione, per cui l’autenticità che sovrintende alla sua produzione è proprio quella della sua conversione.

Tale criterio di autenticità vale anche per le categorie teologiche. Lonergan distingue tra un pluralismo di espressione e uno radicale. Il primo rispetta la fede, esprimendola in modo adatto alle sensibilità e alle condizioni di uomini, gruppi, popoli ed epoche, anche contemporaneamente. Il secondo invece privilegia le costruzioni concettuali dei singoli, negando persino le verità di fede e quindi venendo meno al principio della conversione.

Lonergan è risoluto nell’affermare che i dogmi sono immutabili e fonda questo suo asserto nella metafisica trascendentale. Per essa l’uomo ha una struttura conoscitiva aperta basata su categorie immanenti sempre operanti, che sono quelle elencate prima: attenzione, intelligenza, responsabilità ed interiorità. Esse, operando automaticamente, fanno si che ogni uomo riconosca la vera Rivelazione di Dio, che è così uniformemente conosciuta per le caratteristiche del soggetto, ma fonda sull’autonomia dell’azione divina la sua stessa permanenza ed immutabilità.

VIA ANGELICA AESTHETICA

Breve introduzione a Von Balthasar e a Daniélou

Esiste una ulteriore partizione del tomismo novecentesco, quella di indirizzo estetico, che trova in Balthasar il suo esponente. A questo indirizzo per comodità di catalogazione avviciniamo anche Daniélou, sebbene egli abbia fatto ricerca a partire dal dato storico.

HANS URS VON BALTHASAR

Fu il maggior genio teologico del Secondo Novecento. Nacque a Lucerna nel 1905, fu di ingegno e sensibilità precoce e studiò dai benedettini di Engelberg e poi dai gesuiti di Feldkirch. Frequentò le Università di Zurigo, Vienna e Berlino, dove seguì, tra gli altri corsi, quelli di Romano Guardini su Kierkegaard. Si addottorò in germanistica nel 1928 mostrando da allora originalità di metodo e portentosa erudizione. Nel 1929 divenne gesuita. Finito il noviziato, per tre anni studiò a Pullach con Przywara, da cui Balthasar apprese ad amare Tommaso d’Aquino, la cui metafisica non abbandonò mai. Proseguì a Lione gli studi teologici e vi conobbe Danièlou e De Lubac, che gli svelò la bellezza della Patristica e lo iniziò alla teologia storica, nonché ad una concezione del sovrannaturale che è intimamente connesso alla natura dell’uomo per l’apertura di questa alla Grazia. Conobbe anche Paul Claudel (1868-1955) e ne divenne amico. Altre frequentazioni di letterati ed artisti lo sensibilizzarono al tema del bello, quale manifestazione religiosa ed espressione teologica. Traducendo in tedesco gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, Balthasar trovò in essi la via per avvicinarsi asceticamente a Cristo e concepì la sua teologia secondo il paradigma gesuita della maggior gloria di Dio. Nel 1940 fu ordinato prete e divenne cappellano degli studenti nell’Università di Basilea. Vi conobbe Karl Barth (1886-1968) al quale dedicò, oltre che la sua amicizia, un importante studio: Karl Barth. Presentazione e studio della sua teologia, nel 1951. Il libro si imposta su un serrato confronto tra analogia entis ed analogia fidei, ossia tra i due pilastri dei due sistemi dei due teologi. A Basilea conobbe anche Adrienne von Speyr, la grande mistica che lui stesso convertì al Cattolicesimo e il cui influsso lo aiutò a maturare ulteriormente la sua teologia. Innamoratosi poi della vita consacrata negli Istituti Secolari, Balthasar scrisse Il laico e lo stato religioso, mentre nel 1948 chiese ed ottenne la dispensa dai voti per entrare egli stesso in quello stato di vita e darsi più pienamente allo studio. Nel 1952 scrisse Abbattere i bastioni, in cui propugnò una liberazione della Chiesa dai limiti angusti della Controriforma. L’opera fu misconosciuta e criticata, tanto che l’autore non fu invitato al Concilio Vaticano II. Ma il suo influsso fu forte lo stesso sull’assise e, se grazie ad esso i Padri Conciliari fecero significative aperture in molti campi, dopo la fine del grande Sinodo Balthasar ne difese la corretta interpretazione in linea con la Tradizione, con testi come Solo l’amore è credibile, Cordula, Punti fermi, Il complesso antiromano. Balthasar nel 1961 cominciò la sua monumentale somma teologica, in tre parti: Gloria (sette tomi), Teodrammatica (cinque tomi) e Teologica (quattro tomi). Conobbe don Luigi Giussani e dedicò a Comunione e Liberazione il libro L’impegno del Cristiano nel mondo. Fondò la rivista Communio e le relazioni coi numerosi autori, coltivate nelle riunioni della redazione a Basilea, gli permisero di mantenere viva sia la sua linfa creativa in teologia sia la sua linea ermeneutica del Concilio, trasfondendole nella nuova testata. Insignito del Premio Internazionale Paolo VI per la teologia, Balthasar fu creato cardinale da San Giovanni Paolo II nel 1988, ma morì, oramai malato, prima di ricevere la berretta rossa.

L’indirizzo complessivo del pensiero di Balthasar ha dei tratti facilmente riconoscibili. Anzitutto la scelta del concetto della bellezza quale principio ermeneutico della Rivelazione, che genera l’indirizzo della teologia estetica. Indi la grandezza incomparabile della documentazione addotta in ogni posizione presa. Ancora, la posizione di grande coerenza mantenuta nei confronti del Concilio, del quale è stato ispiratore mantenendosi fedele alla Tradizione e denunciando i principali errori della tendenza opposta: cristianesimo anonimo, demitizzazione e secolarizzazione. Balthasar desunse da De Lubac e dai francesi l’amore della Scrittura, dei Padri e l’apertura al mondo moderno; dai tedeschi suoi connazionali prese un forte misticismo che fa del suo sistema una teologia contemplativa. Nonostante ciò, colse la profonda linfa spirituale del Tomismo.

Nella sua trilogia enciclopedica Gloria-Teodrammatica-Teologica Balthasar offre un quadro completo della Rivelazione così come è intesa dalla teologia cattolica. Egli illustra i tre trascendentali dell’ontologia tomista: bellezza, bontà e verità, in ciascuna delle tre opere, dando la priorità alla bellezza. Il bello infatti è lo splendore dell’essere, ossia la prima cosa che vede il bambino e l’uomo semplice. Ebbene lo splendore dell’Essere di Dio è quello che si manifesta nel Cristo. Esso, quando viene percepito, suscita l’adorazione, da cui scaturisce tutto il resto, ossia la missione e la teologia. La prima, come dramma – nel senso etimologico di azione – di tutta la vita del discepolo e della Chiesa in particolare; la seconda, come esplicitazione in linguaggio umano dell’annunzio. Per costruire la sua opera, Balthasar studia tutta la cultura umana, compresa la filosofica, per mostrare come essa tenda sia pure inconsciamente alla Rivelazione. Tale ricerca è solidamente radicata nella civiltà moderna, da cui vengono desunti innumerevoli spunti. In ragione di ciò la teologia di Balthasar è ad un tempo apologetica e dialogica.

In questa costruzione, Balthasar mette molta filosofia che però non è mai sviluppata né per se stessa né in se stessa: all’autore serve per comprendere il mistero della fede ed egli non la concepisce senza un apporto del dato rivelato. Il metodo seguito è quello fenomenologico di Guardini, il più adatto mettendo al centro del discorso la bellezza. Il metodo trascendentale di Rahner è rigettato. Il metodo fenomenologico rimette l’oggetto al centro del processo conoscitivo. L’oggetto, proprio perché si mostra, attraverso la sua forma svela la sua vera natura. Conseguenzialmente il metodo fenomenologico non coglie solo la bellezza, ma anche la verità oggettiva. Ciò che appare è il reale, ad un tempo vero e bello. La forma si automanifesta e diventa oggetto di comprensione, senza modificarsi in seguito all’apprensione del soggetto né residuarsi in un inesistente noumeno, mentre rimanda all’assoluto che l’ha prodotta. La forma è la figura della cosa, il simbolo che comunica il suo significato. In questa prospettiva Balthasar si avvicina molto all’ermeneutica di Paul Ricoeur (1913-2005) e alla teologia di Paul Tillich (1886-1965).

Ciò che questa fenomenologia svela è l’essere stesso, esattamente come nella tradizione tomista che lo mostra mediante i trascendentali, dei quali bellezza e verità sono parte integrante. L’essere di Balthasar è quello tomista, intensivo e analogicamente inteso, difeso dalla critica di Karl Barth. L’unica cosa che Balthasar concede alla critica di Barth all’analogia è una mutazione prospettica: non è tanto il nostro essere che è simile a quello divino, per cui la conoscenza parte dal basso verso l’alto ma il contrario, per cui è quello di Dio che suscita dal nulla quello degli enti, e solo così la comprensione avviene correttamente, conseguenza di un moto ontologico dall’alto al basso, che meglio può essere definito come catalogia.

Trattando l’essere attraverso la bellezza, Balthasar non può non parlare della gloria e dell’amore, in quanto le tre cose sono strettamente collegate. La gloria è l’automanifestazione di Dio che ha il sigillo dell’amore. Essa è catalogica, ossia avviene mediante un moto dall’alto al basso, attraverso un abbassamento. Dio si glorifica mediante la kenosi, mediante la spoliazione, mediante la Croce. Questa dimostra l’amore e lega esso e la gloria tramite se stessa in un inscindibile trinomio. Alla luce della Croce, vissuta e non solo intellettualisticamente intesa, il mondo intero viene compreso e l’amore stesso viene ricondotto alla sua radice fondamentale, che è Dio stesso.

Cristo è il principio architettonico della teologia di Balthasar. Cristocentrica in modo esemplare, questa teologia mostra come solo nel Redentore si identificano e spiccano gloria, amore e croce. Nella sua figura il nostro vede come tratto distintivo l’obbedienza: del Figlio al Padre, sia come Dio che come Uomo. La piena recettività del Figlio nei confronti del Padre sta nella Sua stessa Generazione: Egli esce dal Padre e da Lui riceve quel che è. La Sua missione è di essere inviato dal Padre. Per questo Egli si incarna e diventa Uomo. Non è l’Uomo Gesù che pratica l’obbedienza, ma è per obbedienza che Gesù diventa Uomo. Per obbedienza Egli non solo muore, ma scende agli Inferi, per espiare al nostro posto e identificarsi pienamente con la deiezione dell’uomo. Proprio questo estremo annichilimento del Cristo fa sperare a Balthasar che, sebbene l’Inferno esista, la bontà di Dio possa strappare, in punto di morte, ogni uomo a quel baratro.

Nella teologia trinitaria Balthasar identifica la Generazione del Figlio non solo con l’emanazione della Sapienza del Padre ma anche con quella del Suo Amore, esattamente come nella Processione dello Spirito Santo. La differenza tra le due Relazioni sta nel fatto che la Generazione del Verbo avviene, come dice San Bonaventura, a modo di esemplare, ossia per fare del Figlio l’immagine del Padre, mentre la Processione dello Spirito, che avviene da Padre e Figlio congiunti in una Spirazione che da soli non facevano, è nel modo della liberalità, ossia di una pienezza sovrabbondante che si comunica.

In ecclesiologia Balthasar adopera diverse chiavi di lettura del mistero della Chiesa, tra le quali spiccano la sacramentale e la mariologica.

La prima chiave di lettura considera la Chiesa come sacramento generale ed universale di salvezza, dipendente in modo assoluto da Cristo quale sacramento originario e primordiale. L’Umanità di Cristo è precisamente questo sacramento primigenio, che opera attraverso la Chiesa esemplificando il Suo rapporto con essa mediante ciascuno dei Sette Sacramenti. Questo è assai visibile nell’Eucarestia perché, quando rende presente il Cristo nelle Sacre Specie mediante il suo potere sacerdotale, edifica se stessa avendogli obbedito e si realizza come comunione mediante l’unico Pane.

La seconda chiave di lettura considera la Chiesa alla luce del modello rappresentato dalla Vergine Maria. Non solo membro eminentissimo della Chiesa stessa, la Beata Vergine Maria è innanzitutto colei che, come la Chiesa, genera verginalmente; indi è colei che è sottomessa e obbediente e umile, puramente recettiva, come la Chiesa dinanzi a Cristo; ancora, è madre dei credenti esattamente come la Chiesa e la sua soggettività femminile risponde a quella maschile accettando e ricevendo la forma spirituale della Grazia nello Spirito; inoltre Ella risponde nel modo più appropriato alla Parola, esattamente come deve fare la Chiesa. Grazie a Maria Santissima la stessa santità della Chiesa è più intellegibile, perché la perfezione della Vergine è il modello più eccelso della perfezione a cui è chiamata e da cui è adornata la Chiesa. Una perfezione che, come quella del Figlio, è fatta di umiltà e nascondimento, disprezzo e sofferenza, esattamente come quella della Chiesa, con la quale ha in comune il fatto di essere perfetto riflesso della santità del Figlio e pienamente dipendente da essa.

In genere, Hans Urs von Balthasar trattò tutti i grandi temi della teologia contemporanea, servendosi dei suoi principi base come li abbiamo esposti.

JEAN DANIÉLOU

Egli fu il teologo della storia, della cultura e delle religioni. Per comodità lo mettiamo qui con Balthasar, ma sono due pensatori molto differenti. Daniélou nacque a Neuilly-sur-Seine nel 1905. Studiò alla Sorbona filosofia e nel 1929 divenne gesuita. Nel 1938 fu ordinato prete. Nel 1941 divenne redattore della rivista Études, appartenente al suo Ordine. Nel 1943 si addottorò in teologia all’Istituto Cattolico di Parigi. Nello stesso anno si laureò in Lettere alla Sorbona. Ancora nel 1943 divenne titolare della cattedra delle Origini cristiane dell’Istituto Cattolico di Parigi. Nel 1961 divenne decano di quella facoltà. Nel 1962 partecipò al Concilio Vaticano II in qualità di perito. Nel 1969 San Paolo VI lo creò cardinale. Nel 1972 entrò nell’Accademia di Francia. Nel 1974 morì improvvisamente a Parigi, in circostanze poco limpide.

Daniélou scrisse moltissimo, in istoria e in teologia. Alla prima disciplina afferiscono Platonismo e teologia mistica (la sua brillantissima tesi di dottorato), Origene, I manoscritti del Mar Morto e le origini del Cristianesimo, Filone di Alessandria, La teologia del Giudeo-Cristianesimo, Messaggio evangelico e cultura ellenistica, I simboli cristiani primitivi, Miti pagani e mistero cristiano, La Chiesa degli Apostoli. Alla seconda disciplina sono ascritti Il segno del Tempio, Il mistero della salvezza delle nazioni, Il mistero dell’Avvento, Sacramentum futuri, Bibbia e liturgia (Lex Orandi), Gli angeli e la loro missione, Saggio sul mistero della storia, Dio e noi, Il cristiano e il mondo moderno, L’unità dei cristiani e la conversione del mondo, La preghiera problema politico, Il futuro della religione, La Trinità e il mistero dell’esistenza, La Resurrezione, Perché la Chiesa?

Danièlou ebbe un grandissimo merito, quello di capire che il Cristianesimo latino occidentale è una delle possibili inculturazioni del Cristianesimo stesso e non la sua forma definitiva. Aprì così la strada all’attesa di nuove e feconde inculturazioni in altre parti del mondo. Teologo attento ai segni dei tempi e profondo conoscitore del pensiero cristiano delle origini, Danièlou partecipò attivamente al Concilio e difese i suoi documenti dalla minaccia della disgregazione che incombeva su di essi a causa di ermeneutiche distorte e radicali. Al nostro vanno ascritte anche grandi benemerenze nei campi suoi propri, di storico della teologia, di teologo della storia e delle religioni non cristiane.

Innanzitutto egli svelò la complessità del Giudeo-Cristianesimo, a lungo appiattito sull’Ebionismo eretico, e che invece comprendeva un filone gerosolimitano – quello del Vangelo degli Ebrei – e una temperie più vasta che confluì nella Grande Chiesa. Indi apprezzò i valori salvifici delle religioni pagane, anche se naturali, forieri di alleanze tra Dio e l’uomo di tipo noachico, ossia basate sul ciclo del tempo e dei fenomeni. I valori pagani sono purificati dal Cristianesimo che li libera dall’idolatria e dalla corruzione morale. Ovviamente il passaggio dal paganesimo al Cristianesimo esige sempre una conversione e il Cristianesimo rimane la religione salvifica e capace di perfezionare le verità parziali detenute dalle altre.

Danièlou tuttavia spiccò come teologo della storia, convinto che il teologo debba tessere relazioni tra tempo ed eternità e che Dio opera nella storia stessa. Vi opera come Essere Tripersonale, mediante un evento che costituisce l’inizio della speranza, il compimento di un piano eterno, il mezzo per glorificare Se stesso e salvare l’uomo. Questo intervento dà senso alla storia ed è esso stesso storia, ma della salvezza. Essa è continua tra Antico e Nuovo Testamento, nonostante le differenze tra i due, che constano nel fatto che il primo prepara il secondo nella promessa di Cristo che gli antichi attendono e i nuovi possiedono. La comprensione del senso di questa storia avviene per comunicazione, mediante la profezia biblica, su cui si fonda il nesso tra le varie situazioni e persone della storia stessa della salvezza, ossia la tipologia biblica. L’una e l’altra hanno un forte senso escatologico e quindi cristologico. Il Cristo infatti compie le profezie e le tipologie ed è il vertice dell’azione divina nella storia. Principio e fine della storia, Cristo è Egli stesso l’evento chiave, nel quale Dio e Uomo si congiungono, modificando qualitativamente le vicende dell’uomo in modo reale e radicale. Infatti gli uomini possono modificare la propria storia solo attraverso azioni quantitative, come quelle della tecnica. Una tale lettura cristologica della storia parte dalla definizione del dogma di Calcedonia, che vanifica il rischio di un Uomo annichilito nel divino – dallo gnosticismo al monofisismo – e di un Dio abbattuto nell’umano – dall’ebionismo al nestorianesimo. Sono due rischi che Danièlou rintraccia anche nel presente teologico e li stigmatizza. Il nostro infine crea una teologia delle religioni non cristiane valorizzandone la consistenza ma sempre in chiave cristologica e cristocentrica, perché i loro valori sono sempre orientati alla preparazione di quella pienezza che solo in Cristo si rintraccia.


Theorèin - Novembre 2018