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Nel mio intervento al convegno "Insight" svoltosi nell'aprile del 2003, esprimevo alcune condizioni in cui si trova a vivere l'artista e più in generale, la ricerca artistica nella contemporaneità. Indicavo in una prima parte analitica, le ambiguità, le difficoltà, le problematiche soprattutto di un rapporto tra la ricerca espressiva e il pubblico, in quanto le ricerche dell'arte sperimentale contemporanea risultano essere mediate al pubblico da un sistema economico - relazionale che accentua, esalta, interpreta e talvolta occulta o devia certi "sensi" della ricerca, secondo finalità, intenzioni e metodologie non sempre chiare al pubblico e non sempre dovute ad opportune, chiare ed approfondite scelte culturali.
Nella seconda parte dello stesso intervento, proponevo anche delle vie, degli atteggiamenti che potrebbero portare ad un diverso rapporto tra pubblico e ricerca artistica e anche ad un differente approccio alla considerazione e all'osservazione di quanto gli artisti vanno producendo, liberando così da una mediazione passiva tanto l'artista che l'osservatore e il fruitore. Questo discorso, (che per la verità era "inedito" solo nella sua seconda parte, in quanto l'aspetto analitico è stato ampiamente svolto da molte personalità della critica e della curatorialità artistica contemporanea con molta più precisione, amarezza e pessimismo) ha suscitato diverse resistenze e anche un certo atteggiamento di sufficienza. La prima "resistenza" è arrivata (per la verità non molto elegantemente durante il corso stesso della mia comunicazione) da un relatore che opera strettamente all'interno del "sistema" dell'arte, preoccupato di puntualizzare alcuni elementi del discorso senza provare ad aspettare le conclusioni, quasi si sentisse giudicato dall'analisi sul sistema dell'arte che, del mio intervento, era il momento più "banale" e ampiamente consolidato da vasta letteratura critica, tanto che su di esso procedevo volutamente a grandi linee. In verità il mio discorso non esprimeva alcun tipo di giudizio morale, ma semplicemente la constatazione e la descrizione dei modi di esistenza di questo sistema. Pertanto l'ostacolo posto al mio intervento mi è sembrato li per lì incomprensibile e mirato solo a sminuirne la portata. Ritorno adesso, dopo la pubblicazione degli atti su questo episodio fastidioso per capire le ragioni di una reazione e per provare a rispondere ad alcune obiezioni postemi. Per ciò che mi riguarda il problema non è tanto nel ribadire e dimostrare che esista il "sistema dell'arte" e che i suoi legami relazionali siano prevalentemente costruiti su regole "economiche", ma valutare che spazio esse diano a valori e tematiche onestamente culturali e che libertà consentano all'immaginario stesso dal momento che la comunicazione (anche in arte) tende ad essere univoca (enunciatore > enunciatario). Se per la sua sopravvivenza, l'artista, l'operatore, la creatività stessa hanno bisogno di strutturarsi in certe regole e in certi rapporti (pubblicistica, sistemi espositivi, fiere mercantili, curatori ecc.) ciò è perfettamente legittimo. Il problema sta appunto nell'onestà intellettuale dell'operatore che si delinea nelle sue scelte, nella sua apertura intellettuale, nella sua formazione e nella capacità di gestire correttamente la comunicazione. Il problema sta dunque nel salvaguardare l'aspetto etico e l'onestà intellettuale di fronte alle esigenze mercantili ed economiche. Si tratta di valutare fino a che punto le logiche strutturali del sistema possano (o non possano) condizionare l'autonomia del giudizio, l'onestà intellettuale tanto dell'artista che di colui che comunica, esprime, "media" nei confronti del pubblico di appassionati o di acquirenti. La reticenza ad accettare che esistano e che vengano spiegate al pubblico le regole della struttura pubblicitaria e mercantile (che ormai è pienamente propria al sistema dell'arte), mi appare un tentativo di continuare a proporre uno statuto "romanticista" dell'arte e di chi pensa di sapere come occuparsene, in un tentativo di settorializzare, di continuare a coltivare una "sudditanza" tra operatori e fruitori dell'attività artistica che è propria e profondamente utile alla logica del mercato, così come è propria di un "criticismo" un po' ideologico, normativo e scarsamente disposto a mettersi in discussione. Osservare, esporre e valutare i fenomeni del reale non è un "insulto spoetizzante" all'ineffabilità della creazione, o un attentato alla scienza e alla sapienza dei suoi "custodi" ma è un atto di conoscenza e di onestà che non va a toccare la qualità di ciò che si fa o che si propone ma aiuta a capire e a disvelare, quindi permette di demistificare. E demistificare significa arrivare a capire, conoscere ed essere "con più chiarezza" se stessi, nel proprio ruolo e nel proprio operare. Demistificare è un atto di giustizia e di "amore" verso l'arte, gli artisti e il pubblico. E, ripeto, il discorso non è nuovo e non è mio ma continua a non essere gradito e soprattutto, continua a non essere compreso nelle sue finalità: non è un modo di giudicare ma un contributo alla conoscenza che intende portare a recuperare, o per lo meno a bilanciare con una progettualità etica e culturale, le esigenze potentissime, e non sempre culturali dell'economia. La seconda obiezione, più discreta e in un certo senso, più vera al mio intervento, è arrivata dagli artisti: mi si contestava l'affermazione che ci sia una forte ambiguità nell'attività artistica contemporanea, richiamandosi al fatto che l'artista è e fa perché sente di fare per se stesso e per gli altri. Crea senza il bisogno di spiegare, affermare … aspetta che gli altri chiedano, si facciano spiegare, incontrino l'opera, e se ciò non accade, accadrà … non è un problema dell'artista. Tutto ciò è molto bello e vero per chi vive la sua esperienza d'artista così, con questa dimensione etica ed esistenziale. A giudicare dalla mia forse limitata frequentazione di artisti sembra più la definizione di un "dover essere" che uno stato reale comune. Il discorso sull'ambiguità dell'arte si fonda, forse purtroppo per alcuni, ancora una volta sul dato razionale ed analitico che al solito, spoetizza ma disvela. Anche in questo caso siamo di fronte a scelte etiche che non possono essere "generalizzazioni": ci sono artisti intenzionalmente retorici, volutamente ambigui, che fondano la propria ricerca espressiva su un apertura di senso intenzionale e su una indeterminatezza strutturale. Ci sono artisti che vogliono esserlo e usano i mezzi e gli strumenti che ritengono più adatti per veder riconosciuto economicamente e socialmente il proprio statuto. Ci sono artisti che hanno pochi scrupoli culturali ed etici. Certo mi si potrà contestare il fatto che essi siano realmente "artisti", ma comunque la convenzione sociale li riconosce come tali e così il mercato, meglio disposto verso di loro che verso coloro che si mostrano eticamente più coerenti. Nelle personalità più sincere l'ambiguità può essere anche un dato culturale, una linea di ricerca; Purtroppo non è solo "l'amore" ad animare l'operatività e il progetto espressivo e nelle personalità meno sincere, (o più disilluse, o in declino di autenticità e creatività) essere ambigui è una via per mistificare intorno al senso stesso della ricerca e dell'attività artistica. E questa ambiguità mistificante è propria anche del sistema, della riflessione critica, della pubblicistica: insomma l'ambiguità può essere di volta in volta, una risorsa o una via di fuga, una scoperta esistenziale o un mezzo per far fortuna, appartiene allo statuto di molta ricerca contemporanea, può esserci e non esserci, ma non la si può negare e spesso essa è funzionale all'esistenza di un "sistema dell'arte", propria dei suoi operatori più spregiudicati, artisti, critici, giornalisti, galleristi ecc. Anche in questo caso, è una questione di etica ed è arduo definire cosa un artista sia e debba essere ma il dato fenomenologico mi sembra evidente, ampiamente documentato e riflesso dagli studi di estetica più recenti. Altra obiezione sempre proveniente dagli artisti è la seguente: bisogna capire, spiegare l'arte o lasciare che essa colpisca e agisca "motu proprio" ?. A quanto pare, e giustamente, il problema di spiegare (mediare culturalmente) non sembra necessario se è vero che l'atteggiamento dei bambini, aperto, non mediato culturalmente, permette di approcciarsi con grande facilità ad alcuni aspetti dell'arte sperimentale. Il discorso è estremamente complesso e mette in gioco problematiche notevoli. Il primo enorme problema che si pone è della necessità o meno della critica o dell'attività curatoriale (più accettata oggi dagli artisti stessi proprio perché più ambigua in quanto tende a gestire l'esistente e non sempre a ricercare sensi e relazioni in esso). Il problema è annoso, complesso, irriducibile … per quello che mi riguarda, credo che l'arte sia un fatto culturale e come tale non appartiene alla sfera ultramondana delle essenze proprie, riconoscibile per via empatica o mistica. Essendo attività di cultura, può essere legittimamente letta e il suo senso non appartiene solo all'artista ma anche ha chi ha desiderio di leggerla. Si tratta di vedere come la si legge e perché, per quali fini, per quali ragioni, con quale "biblioteca di riferimento" … insomma si tratta di vedere se la lettura (sempre polisemica, sempre aperta nel senso, sempre ulteriormente possibile) sia intellettualmente onesta e rispetti l'opera per ciò che è e non per quello che il lettore la vuol far essere. L'opera non la si deve affrontare come un oroscopo ma ha una sua grammatica visiva, un suo universo culturale di riferimento che va rispettato e confrontato con gli altri. Il bambino vive e non razionalizza, beato lui, ma non sempre sa esattamente ciò che fa e se lo fa, è perché è indirizzato. E' una condizione molto bella che purtroppo non è più dell'adulto: l'artista non è un bambino, sceglie cosa e come, non sempre con un preciso processo razionale (… allora Kosuth è un artista ?) ma sicuramente con un processo visuale. Fa cultura, che ne sia cosciente o no. Anche chi "legge" l'arte, fa cultura e i modi per leggerla ed esperirla sono tanti e tutti concorrono a costruire e a sviluppare altra e nuova cultura consentendo ad altri di entrare progressivamente e di orientarsi nella cultura visiva. Ma c'è bisogno di grande onestà intellettuale e umiltà per affrontare un opera. Avere e fornire gli strumenti per capire significa avere voglia e possibilità centuplicata di guardare, di lasciarsi interrogare dalle opere, cioè di rientrare in un rapporto sempre meno mediato, sempre più proprio e cosciente con le attività creative. Non voglio tediare nessuno con la vastissima bibliografia citabile per sostenere quanto ho cercato qui di spiegare, ma, a richiesta, posso indicarla. Credo che la conclusione sia appunto già espressa nel saggio che invito a leggere negli atti del convegno e che per varie ragioni in quella sede non ho potuto esporre con completezza, pressato dal poco rispetto. |