RIFLESSIONI SULL'ARTE 

A cura di: Antonio Zimarino
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Ciò che è e ciò che nasce dall’arte
 

Sono stato di recente alla mostra di un amico e ho assistito alla presentazione che di lui e delle sue opere hanno fatto delle persone di varia formazione e di varia esperienza d’arte. Sono rimasto colpito da un particolare: pur nella competenza, nell’entusiasmo, nella sincerità di ciascuno dei “presentatori” ho sentito parlare di un solo argomento: ciò che l’arte fa nascere in chi la osserva.

Slanci poetici, riferimenti culturali e riflessioni varie, vertevano su “sensazioni” emozioni, generazione di idee nell’osservatore, inferenza nell’ambiente, psicologie, empatie et similia. Non che tutto ciò non esista e non sia attinente a ciò che l’arte è o diviene per un osservatore ma sicuramente tutto ciò appartiene a “come” l’arte viene vissuta e non alla proprietà specifica di un’opera. Anche altre volte mi son trovato a pensare che si è troppo frequentemente concentrati sull’effetto dell’arte genera ma mai troppo sull’a sua eventuale identità. Stavolta, ho pensato un po’ di approfondire la questione: cos’è l’identità di un’opera? La si può definire? Come la si determina o identifica? Di fronte o in relazione a cosa noi trattiamo quell’ oggetto, quella “situazione” quella manifestazione “come arte”? Tralasciando un’attimo la “vexata quaestio” di “cosa l’arte sia” (spinosa, complessa, mai univoca ma assolutamente centrale, sulla quale la letteratura dell’”estetica analitica” offre continui e bellissimi spunti di ricerca), vorrei soffermarmi sul fatto che, normalmente in molte, se non nella maggior parte delle mostre d’arte non venga mai indicato, citato, suggerito, spiegato qualcosa riguardo il perché quelle sensazioni si siano (eventualmente) liberate dalle opere e che cosa mai le abbia potute generare.

Una prima resistenza naturale a questi problemi, proviene spesso dagli stessi artisti: “ … domande inutili, perché l’artista fa e non si pone questioni esplicite e logiche del “perché lo fa” e del “come” opera per produrre l’eventuale senso di ciò che fa. C’è, l’intuizione, l’alchimia,il piacere, il gusto, l’empatia ecc.. Bene, ma se c’è chi ha il diritto di “produrre” senza spiegarsi il processo e senso del suo produrre, credo sia un fatto leggittimo che chi avrà di fronte quel “dato” visuale e formale, si domandi le ragioni, le possibilità e le complessità dei suoi vari sensi e si interroghi sul fatto che l’opera non sia una determinazione soggettiva di chi fa o chi osserva, ma sia un dato che una volta espresso (come un libro, una foto, un pensiero, un film ecc.) abbia una autonomia e si presenti con una sua “identità” a chiunque lo incroci.

Fare arte è una attività “culturalmente” orientata, cioè rimanda e si relaziona ad un sistema di sensi, significati, ipotesi, osservazioni, comportamenti ecc. ecc. che definiscono una “cultura” cioè un sistema di relazioni più o meno esplicitamente sensate che permettono di riconoscere e riconoscersi. Al di là del fatto che io ne abbia coscienza o meno, il mio “fare” è un dato di cultura, per cui è doveroso e leggittimo domandarsi cosa esso dice di partecipativo al costituirsi della cultura stessa in cui anch’io abito e respiro. Dunque se io faccio qualcosa di culturalmente orientato esso non può che acquisire il suo senso in relazione alla complessità intera del sistema a cui si riferisce. Quindi non posso non “pensare”, non riflettere e non tentare di “ridare” alcuni aspetti di quel che è stato fatto, percorrendo le possibili relazioni culturali suggerite dal dato visuale: si tratta di riconoscere la “posizione” eventuale, probabile e possibile di quel dato dentro la “cultura” generale che io condivido

Quindi “devo” dire qualcosa dell’arte, perché è il mio dire, che la fa essere ancora di più, attività culturale orientata e sensata. Ma devo dire della specificità dell’opera perché essa è il nodo in cui faccio convergere le relazioni: è relativamente utile dire gli aspetti soggettivi che essa può generare perché essi dicono qualcosa del mio processo psicologico che non necessariamente è un “dato culturale”. Allora, se io parlo di ciò che l’opera genera in me, non realizzo il “senso culturale” di quell’opera ma solo il senso che essa ha nella specifica sensibilità che può essere culturalmente relativa, sia pur degnissima e magari interessante. L’opera è alterità da me, è fuori di me, in una sua indipendente identità che io posso provare a percorrere non assimilandola esclusivamente ad una mia biblioteca di riferimento soggettiva ma al contrario, provando ad entrare dentro la possibile biblioteca di riferimento che essa chiama in causa , della quale io devo ricercare indizi, tracce e possibilità.

Se dunque il senso dell’arte va cercato a partire da un opera che è stata realizzata, le emozioni che io posso eventualmente provare in sua presenza appartengono all’opera? Sono proprie dell’arte? Non credo proprio: l’emozione è un dato assolutamente rispettabile ma inevitabilmente soggettivo; dipende dunque dal fruitore. Le categorie che rappresentano e descrivono “cosa genera in me l’arte” certamente appartengono alla sensibilità umana ma le “emozioni” estetiche possono nascere non solamente dall’arte. Esse prescindono da cosa sia l’arte e possono nascere soggettivamente rispetto a qualunque tipo di manufatto o situazione, infatti esperienze emotive analoghe o identiche a quelle che si attribuiscono all’arte possono appartenere anche ad altri “oggetti”, ad altri fenomeni, ad esempio, ad un concerto rock o ad un concerto di musica classica “a seconda della soggettività del pubblico che assiste”. Quindi non è corretto dire che l’emozione sia un dato dell’arte, essa è piuttosto un dato di chi la osserva e la assimila al suo “cosmo di riferimento” … ovviamente diverso per ciascuno. Dunque l’arte non è mai “ciò che io cerco e sperimento da essa”, anche se ciò appartiene al contesto dell’arte, nell’ara della sua ricezione

Se ammettiamo per un attimo che effettivamente l’emozione ( più in generale, la percezione empatica) nasca “dall’opera”: non sarebbe allora ancor più necessario indagare “l’opera” e la sua identità, in questo caso, magica? Se dunque tutto ciò nasce dal quadro, allora perché non parlare del quadro? Perché non indagarlo per ciò che esso è nella sua identità piuttosto che raccontare della mia percezione sublime di fronte ad esso o dell’impressione che esso genera in me? Se invece tutto ciò nasce dal fruitore, perché interessarsi di arte dal momento che certe condizioni emozionali si danno “nella circostanza”, cioè, nella soggettiva della propria sensibilità alle esperienze estetiche o cognitive, anche indipendentemente dalla presenza di fronte ad un opera? Tenendo presente l’infinita casistica possibile di tutte le cose o le condizioni che sono in grado di generare questa o quella emozione, in questo o quell’essere umano dalla formazione, identità, storia interiore affettiva o razionale, infinitamente variabile rispetto ad un altro essere umano, come possiamo ricorrere all’”emozione empatica” come categoria di approccio all’arte?

In pratica l’atteggiamento che ho avuto sotto gli occhi nella mostra del mio amico, rifletteva un comportamento abbastanza consueto del rapporto Arte / Pubblico. Si guarda l’arte per ciò che ci dà. Ci preoccupiamo di descrivere l’emozione, l’interiorità, il coinvolgimento, lo psicologismo che da essa scaturirebbe, perché la ragione dell’arte starebbe in ciò che a noi dà. Ma quello che ci dà eventualmente l’arte non è nel campo della soggettività: l’arte dà la sua identità che noi possiamo riconoscere con una esperienza intellettuale di comprensione di gran lunga più completa rispetto a quella istintiva o psicologistica perché investe una globalità di tensioni e dimensioni dell’individuo: cultura, intelligenza, apertura, disponibilità, conoscenza …. Non contesto comunque chi si affida all’indeterminatezza dell’”emozione” e rispetto profondamente tutte le emozioni, comunque si generino, ma mi sembra che ciò sminuisca le possibilità offerte dell’arte perché l’approccio istintuale o irrazionale finisca per esprimere un’aspetto “sociologico” non proprio dell’arte, ma piuttosto di ciò che vogliamo che essa sia per noi.

L’assenza di discorsi “sensati” sull’arte, (dove per “sensato” si può intendere l’espressione di una ( o più) ipotesi interpretativa/e fondata/e sull’analisi del “dato” visivo messo “in campo” e delle relazioni che esso ha con altri dati visuali e formali) credo sia un sintomo preoccupante. L’assenza di “pensiero razionale” culturalmente orientato e metodologicamente coerente che scaturisca dall’arte, è il sintomo di una perdita di contatto e di una perdita di funzione culturale ( e per questo anche sociale) dell’Immaginazione. E’ comprensibile che ciò sia potuto accadere dal momento che troppo spesso il pensiero sull’arte non si è ancorato al vincolo del dato formale, finendo per diventare discorso assolutamente fine a se stesso o alla promozione, ma non è positivo che oggi, per qualsiasi motivo utilitaristico o meno, ci si rifiuti di “pensare” con l’arte e sull’arte, ributtandola di fatto indietro di un paio di secoli in un irrazionalismo ingiustificabile che spesso incrocia la reale ignoranza, irrazionalismo buono solo per gonzi.


Theorèin - Ottobre 2007