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XI Lezione

Il secondo modello di corpo che prenderemo in esame è quello relativo alla visione cinico-stoica.

Il fondatore del cinismo dal punto di vista della dottrina fu Antistene, che visse tra il V e IV secolo a.C.. Discepolo di Socrate, sviluppò del maestro soprattutto l’aspetto morale.

La sapienza e la felicità stanno nel conseguire il bene, e questo è per l’uomo la piena autarchia, cioè il dominio di sé, anche se ciò costa fatica e rinuncia al piacere.

Antistene tendeva a svalutare la ricerca logica e metafisica verso la quale andava spingendosi Platone. Dell’insegnamento socratico riamane soprattutto il sapere di non sapere e la critica senza tregua dei falsi concetti. Diogene Laerzio in Vite dei filosofi così ce lo introduce:

«Attinse da Socrate la sua tolleranza e fu emulo della sua impassibilità dando inizio al Cinismo».

Il cinismo vuole restituire alla normalità indebolita dagli agi (anche tecnologici) occasioni di dolore. Solo attraverso il dolore ci si fortifica. Antistene soleva ripetere:

«Vorrei piuttosto impazzire che sentir piacere».

Egli reputava la fatica un bene e a chi lo rimproverava di comportarsi duramente con i discepoli soleva rispondere:

«Anche i medici si comportano così con gli ammalati».

A Diogene che gli chiedeva una tunica ordinò:

«Avvolgiti attorno due volte il mantello».

Indossava un mantello lacero, dimostrando di vivere con il minimo necessario. Toglie il superfluo, che appartiene ai princìpi borghesi (dove si annoverano i commercianti) che hanno bisogno di lusso, di un di più. Questi elementi cinici sono organici all’aristocrazia. A chi lodava il lusso, ribatté:

«Vivano nel lusso i figli dei nemici».

Gli fu domandato quale fosse la scienza più necessaria, ed egli rispose:

«Quella di non dimenticare ciò che si è appreso».

Dimostrava che la virtù si può insegnare e che solo i nobili sono virtuosi. L’assenza di gloria è un bene, similmente alla fatica.

Il sapiente non deve vivere secondo le leggi vigenti della città, ma secondo la legge della virtù.

Riprese da Socrate il concetto secondo il quale era insensato eleggere con sorteggio i governanti della città, quando nessuno vorrebbe servirsi di un pilota scelto con sorteggio, né di un costruttore, né di un flautista, né di alcuno scelto per un’altra attività di questo tipo nella quale gli sbagli producono danni molto minori di quelli connessi alla guida dello stato.

Antistene è contro il sistema democratico-assembleare ateniese. Solo gli aristocratici possono governare la città.

«Consigliava gli Ateniesi di decretare che gli asini sono cavalli, e poiché quelli lo ritenevano assurdo, disse: "Eppure da voi per diventare strateghi non occorre alcuna istruzione: basta l’alzata di mani».

Un atteggiamento analogo, lo ritroviamo in Caligola che nomina senatore il suo cavallo, gesto compiuto a dimostrazione della sua completa autonomia nei confronti del senato romano.

Il cinismo viene bandito e isolato dalla classe borghese. Questo risultato viene salutato come una vittoria per i sostenitori di tale pensiero.

Il poeta Charles Baudelaire, a sua volta emarginato dalla grande città borghese, risponderà con un atteggiamento di indifferenza verso questo atteggiamento nei propri riguardi, poiché il poeta è un principe, e come tale deride il borghese che lo emargina e va dritto per la sua strada quella della virtù artistica.

Tanto più si vive emarginati, tanto più si accentua il senso di superiorità. (Baudelaire: "Sono un principe" - Antistene: "Sono un re").

Il disprezzo della folla è atteggiamento di taglio aristocratico come il rifiuto della democrazia di massa.

Nel Decadentismo, che non è altro che la radicalizzazione estrema di certe frasi e posizioni romantiche, troveremo l’artista che si rifiuta di essere giudicato dalla massa perché questa non è all’altezza di giudicare.

La democrazia viene disprezzata se essa significa supremazia della quantità sulla qualità. E’ un vecchio atteggiamento aristocratico che passa per tutto il mondo dell’arte nei vari secoli.

Un altro elemento fondamentale è l’atteggiamento di rifiuto della cultura scritta. Ad un suo amico che si lamentava di aver perduto degli appunti Antistene risponde:

«Dovevi scriverli nell’anima e non sulla carta».

Questo rifiuto della scrittura attraverserà tutti i secoli; ad esempio Rousseau nell’Emilio affermerà:

«Solo a tredici anni Emilio saprà cos’è un libro».

Don Abbondio dei Promessi sposi che parla in latino per prendere in giro Renzo, non è altro che una sottile presa di posizione di Manzoni, nei confronti del potere della scrittura. Don Abbondio afferma la sua superiorità sopraffacendo chi non sa leggere e scrivere.

Paradossalmente un aristocratico che legge, tradisce la propria classe di appartenenza. In taluni casi si manifestano osservazioni che ci portano a considerare delle duplicità di aspetti.

Platone, pur avendo un atteggiamento contrario ai libri (in quanto tecnologia nuova che in qualche modo è più limitata della tecnologia orale) tuttavia al contrario di Socrate scriverà, e questa è certamente una posizione di duplicità.

Ogni innovazione tecnologica porta generalmente gli intellettuali istintivamente a posizioni di contrarietà. (Di fronte al colore si sostiene che era meglio il cinema bianco e nero; di fronte alla tv si sostiene è meglio il cinema ecc.).

L’insegnamento austero di Antistene venne continuato da Diogene di Sinope nella scuola cinica; vero fondatore di tale corrente di pensiero.

Il compito che si propose fu appunto quello di portare alla vista quei facili mezzi di vita, e di dimostrare che l’uomo ha sempre a sua disposizione ciò che occorre per essere felice, purché sappia rendersi conto delle effettive esigenze della sua natura.

Alla meditazione concettuale viene sostituito il comportamento, l’esempio, l’azione.

Il cinismo con Diogene diventa la più anticulturale delle filosofie greche e dell’occidente.

Diogene è figlio di un banchiere (vedremo in seguito un continuatore di certe istanze in Francesco d’Assisi figlio di un mercante) e quindi della classe portante della città che sta scalzando gli aristocratici dal dominio. Abbandona la propria classe di appartenenza ma non la città; vive dove capita e da ultimo in una botte.

Ravvisiamo in questo atteggiamento il capovolgimento assoluto dei modi di vita mercantile.

Diogene si colloca al centro della città come elemento di provocazione a questi ceti stessi. E’ una provocazione nei confronti di chi ha una visione della città geometrica, pulita, civile. L’aristocratico sente che Diogene agisce contro quella classe (la borghesia) che sta combattendo.

«D’estate si rotolava sulla sabbia ardente, d’inverno abbracciava statue coperte di neve, volendo in ogni modo temprarsi alle difficoltà».

Si rimarca la posizione stoica.

«Interrogato in qual luogo dell’Ellade avesse visto uomini buoni, rispose: "Uomini buoni in nessun luogo, ragazzi buoni a Sparta».

Diogene ritiene dunque che non esistano uomini buoni nell’Ellade (ch’è abitata dai commercianti, mercanti, fatta di lusso borghese) ma sicuramente esistono ragazzi buoni a Sparta (città aristocratica).

Gli atteggiamenti giullareschi che ci vengono presentati nei Fioretti di Francesco d'Assisi sono tratti che ritroviamo in Diogene.

«Una volta poiché nessuno badava ad un suo discorso serio, cominciò a trillare come un uccello. Convennero molte persone ed egli le rimproverò perché a sentir le ciarle erano venuti di buona lena, ma a sentir cose serie nessuno si era affrettato».

Tutta la tradizione dei Fioretti non parlerà mai di sordidezza, ma in un altro filone cristiano questa sordidezza appare. Manzoni ad esempio ci configura il Seicento come un secolo di sudiceria, un residuo cristiano della sordidezza civica. Troviamo un esempio nel 1655 da un mistico parigino Jean-Jacques Olier di ceto aristocratico, che ha mostrato questo in una sua Guida alla santità:

«Cos’è dunque l’umiltà? E' l’amore della propria abiezione, per il quale, a poco a poco, si diventa così amanti della nullità, della piccolezza e della bassezza da prediligere in tutto e per tutto».

Questa posizione non parla di disprezzo di se stessi ma di un ritrovare Dio attraverso il compiacimento della propria piccolezza.

«Si deve trovare nell'abiezione vaghezze così deliziose, che non trovi nulla di così amabile e la consideri come la sua regina, la sua anima, la sua diletta. Amore di piccolezza, amore di bassezza, amore di abiezione, di umiliazione: ecco la nostra felicità, ecco l’unica nostra pace».

Queste espressioni sottolineano un qualcosa che è tipico di un filone dell’Umanesimo.

Gli aspetti cinici della tradizione francescana non avrebbero mai parlato in termini di abiezione, di bassezza, di piccolezza, perché in qualche modo sia il corpo, che la natura, sono create ad immagine e somiglianza di Dio. Il cinismo di Francesco è diverso, talvolta diametralmente opposto al cinismo che viene esposto da questa mistica francese che si compiace della sordidezza.

Il Cinismo attraversa tutti i secoli, tutto il francescanesimo, tutto il cristianesimo, per poi prendere delle strade diverse.

Diogene riduce al minimo ciò che in termini moderni chiamiamo consumismo, che non è altro che il lusso, acclamato dall’Illuminismo.

«Una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: "Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità". Buttò via anche il catino, perché pure vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane».

Diogene sosteneva che i beni degli amici sono comuni; ma non si riferiva a tutti i beni. Questa idea di pareggiamento faceva già raccapricciare Cicerone, il quale rispondendo al tribuno della plebe Filippo, che ebbe a definire ingiusto che i beni complessivi dei romani fossero nelle mani di poche famiglie, attizzando di conseguenza la plebe contro queste che possedevano tutta Roma, ebbe a rispondere: «questo signore ha come ideale la equatio bonorum» (ossia il pareggiamento dei beni N.d.R.)

Definendo questa posizione peste del genere umano. Quello del tribuno è un discorso comunistizzante, ma il pareggiamento di beni a cui si riferisce Diogene è un pareggiamento di beni fra amici appartenenti tutti all’aristocrazia, quindi si tratta in sostanza di un equatio bonorum ben diverso.

La messa in comune dei beni appare anche nell'istituzione dell’ordine francescano ma in una maniera diversa. Francesco non parla di un equatio bonorum generalizzato, esso riguarda solo l’intero ordine, quindi si tratta dello stesso concetto di equatio bonorum di Diogene ossia di pareggiamento all’interno della cerchia.

I sapienti possiedono ogni cosa. Come gruppo i sapienti possiedono il sole (Diogene). Troviamo un parallelismo con il Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi.

Siamo nel 1677, inizia la modernità che s'interseca con l’epoca del Barocco. Si sviluppa la scienza in termini moderni, ma allo stesso tempo insistono ancora influenze addirittura greche, intermediate dal cristianesimo. Giovanni Bona è un nobile piemontese generale dei cistercensi il quale nel suo Corso di vita spirituale scrive:

«La natura ci comanda di estinguere la sete; ma che il recipiente sia di creta o si prenda nel cavo della mano, alla natura non importa niente. Ma la mollezza ci staccò dalla natura e c'impose di bere in un vaso di cristallo, facilmente frangibile, che insieme c'insegna a bere e a temere. Saremo perciò liberati da grandi molestie, se impareremo a desiderare soltanto le cose che sono assolutamente necessarie».

Tanto più c’è lusso, tanto più c’è da temere perché ci si allontana da Dio. L’ordine francescano si fa erede del pensiero di Diogene, ma non la chiesa secolare che ha un’istituzione aristocratica e neppure l’ordine cistercense. Diogene come Antistene disprezza i libri.

«Un tale leggeva da moltissimo tempo e alla fine del libro indicò che non v’era scritto più nulla: allora Diogene toccò la fronte e disse: Coraggio, uomini. Vedo terra».

Questo pensiero contro i libri si ripeterà innumerevoli volte nella storia occidentale. Teresa d’Avila scriverà nel Cinquecento:

«Quando furono messi all’Indice molti libri scritti in volgare, io ne provai un vivo dolore perché alcuni di quelli li leggevo con molta edificazione, cosa che non avrei potuto più fare, perché quelli permessi erano in latino. Ma il Signore mi disse: "Non rattristarti, io ti darò un libro vivente" [...] Da allora in poi non ho più avuto che pochissimo o quasi nessun bisogno di libri. Sua Maestà è stato il vero libro dove ho imparato tutte le verità. Sia benedetto quel libro, che lascia impresso in tal modo quel che si deve leggere e operare, che è impossibile dimenticarlo».

Questo termine "vivente" rispetto alla purificazione delle cose rappresentate dalla scrittura, è un elemento platonico che si infila nel cinismo ed arriva fino alla mistica di Teresa.

Mentre parliamo l’ascoltatore può interrogarci, farci cambiare parere, e meglio ancora, può dimenticare quello che abbiamo detto, se ritiene che stiamo sbagliando. Assistiamo ad una dialettica di corpi. Viceversa, dice Platone, con la scrittura io non ho un interlocutore ma è una macchina; si tratta di un combattimento impari.

Un altro collegamento con i cinici lo troviamo in un movimento del tardo medioevo. Johan Huizinga ne L'autunno del Medioevo del 1961, ci parla dei Galois e Galoises (gente allegra) un Ordine cavalleresco tardo-medievale i cui adepti erano vestiti d’estate con cappotti foderati, pellicce, cappelli e vivendo in casa con il cammino acceso, e d’inverno andavano quasi nudi. Naturalmente l'Ordine era riservato ai soli nobili.


Theorèin - Marzo 2003