LA SFIDA DI CARTESIO E LA RISPOSTA DI VICO
A cura di: Mario Della Penna
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XII Lezione

LE MEDITAZIONI METAFISICHE

QUARTA MEDITAZIONE

DEL VERO E DEL FALSO

Nel discorso cartesiano in cui viene chiamato Dio come garante della verità, della nostra conoscenza, nasce il problema di giustificare l'errore. Cartesio stesso fa questa obbiezione:

«E non resterebbe alcun dubbio su questa verità, se non se ne potesse, sembra, trarre questa conseguenza, che così, dunque, io non mi posso mai ingannare. Ed invero, quando non penso che a Dio, io non scopro in me nessuna causa di errore o di falsità; ma dopo, ritornando a me, l'esperienza mi fa conoscere che sono, tuttavia, soggetto ad un'infinità di errori». (29)

Sembra che qui si produca un'aporia, una certa contraddizione tra la teoria e l'esperienza. Secondo la teoria, noi non dovremmo sbagliare mai; secondo l'esperienza, noi invece constatiamo che sbagliamo. Si tratta da un lato di tener ferma la garanzia divina, della veracità della nostra conoscenza; dall'altro di rendere ragione della possibilità dell'errore. Per questo motivo, la meditazione s'intitola del vero e del falso. Cosa succede quando noi sbagliamo? Si tratta di rendere ragione nel discorso cartesiano, così come lui lo ha impostato, della possibilità dell'errore senza per questo attribuire la responsabilità a Dio. Quando ci si afferma a posizioni deistiche, creazionistiche, resta da spiegare come mai esiste il male. Si tratta di dimostrare che l'esperienza del male non contraddice l'affermazione che Dio è buono. L'errore dice Cartesio si potrebbe dire dipende da noi, perché siamo esseri limitati, perché in un certo senso partecipi dell'essere, ma dall'altro partecipi in un certo modo del niente. D'altra parte l'errore cos'è? L'errore non è un qualcosa di positivo, non è un ente positivo, ma è una mancanza.

«Così io dico che l'errore, in quanto tale, non è qualcosa di reale, che dipende da Dio, ma è solamente un difetto; e pertanto che io non ho bisogno per errare di qualche facoltà che mi sia stata data da Dio particolarmente per quest'effetto, ma che accade che io m'inganni per fatto che la facoltà, che Dio mi ha dato per discernere il vero dal falso, non è in me infinita». (30)

Già Agostino aveva parlato di male come carenza, ma dicendo che non basta dire mancanza, bisogna dire che è una privazione di un qualcosa che sembra devo possedere. Non è una mancanza per l'uomo, ad esempio, il non avere le ali, noi avvertiamo qualcosa come negativo quando ci manca qualcosa che per natura dovremmo avere. Cartesio infatti dice:

«E' una privazione di qualche cosa che sembra ch'io dovrei possedere. E considerando la natura di Dio, non mi sembra possibile ch'egli m'abbia dato qualche facoltà che sia imperfetta nel suo genere, cioè che manchi di qualche perfezione che le sia dovuta; perché se è vero che più l'artigiano è esperto, più le opere sono perfette, quale essere immagineremo noi essere stato prodotto da questo sovrano creatore di tutte le cose, che non sia perfetto ed interamente compiuto in tutte le sue parti? E certo non vi è dubbio che Dio avrebbe potuto crearmi tale, che io non potessi mai ingannare; certo è anche che egli vuol sempre il meglio: m'è, dunque, più utile errare che non errare? Considerando ciò con maggior attenzione, mi viene innanzi tutto in mente che io non mi debbo stupire, se la mia intelligenza non è capace di comprendere perché Dio fa quel che fa, pel fatto che, forse, vedo per esperienza molte altre cose, senza poter comprendere per quale ragione ed in che modo Dio le abbia prodotte». (31)

Si cerca di dare una risposta a questo interrogativo, risposta che già si trova nel libro di Giobbe, quando Dio chiede a lo stesso: "dov'eri tu quando io creavo il mondo, tu che adesso vuoi apparire come il mio censore?" La risposta contenuta nel libro di Giobbe si fa tesoro di un aspetto filosofico, cioè di una metafisica della creazione. Cartesio sostiene che noi non ci dobbiamo stupire se la nostra intelligenza non è capace di comprendere perché Dio fa quello che fa. E che non abbiamo nessuna ragione di dubitare la sua esistenza dal fatto che forse vediamo dall'esperienza molte altre cose senza poter comprendere per quale ragione e in che modo Dio le abbia prodotte.

«Io non ho più difficoltà a riconoscere che un'infinità di cose è in sua potenza, le cause delle quali sorpassano la portata del mio spirito». (32)

La risposta generale sembra non rendere ragione dell'errore, adesso Cartesio cerca di rispondere un po' più puntualmente. Siccome non sappiamo tutto, andiamo per tentativi ed errori (Popper) e anche per via negativa, ossia a volte sappiamo più ciò che non è che ciò che è. Bisogna vedere come queste due realtà siano compatibili, cioè che Dio non è ingannatore e che noi possiamo sbagliare.

«Considerando i miei errori, trovo che dipendono dal concorso di due cause, e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere, o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà. Con l'intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le idee delle cose, considerando così precisamente, si può dire che non si trova mai in esso alcun errore, purché si prenda la parola errore nel suo proprio significato». (33)

E continua:

«Noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che, per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l'intelletto ci propone, noi agiamo in modo, che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore».(34)

Questa è la facoltà di volere. Ma anche questa facoltà si può dire che di per se è fonte dell'errore, perché essa è amplissima e perfettissima nella sua specie; e neppure la facoltà d'intendere o di concepire:

«Perché, che Dio m'ha dato per concepire, è fuori dubbio che tutto ciò che concepisco, lo concepisco come conviene, e non è possibile che in ciò m'inganni. Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò solo, che la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell'intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l'estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa si ch'io m'inganni e che pecchi».(35)

Nell'uomo ci sono dei segni di vero di giusto incancellabili. Questo fatto, che, Cartesio poggi tutto sull'evidenza originaria, non è che l'evidenza originale della verità. Parla spesso del lume naturale, che non è altro che la presenza originale di questi segni di verità dell'uomo. L'uomo è costituito in quanto positività. Se è stato voluto, vuol dire che c'è questo disegno di positività, che è un valore, altrimenti non esisterebbe. La "costutia creazionista" significa proprio questo; esattamente il contrario di quello che vuole attribuirgli ad esempio Nietzsche.

Appetito razionale e appetito sensibile. L'appetito sensibile è il tendere verso un oggetto che mi è presentato dalla sensibilità. Il senso di per se e limitato ad una cosa precisa, l'animale che ha fame tende verso il cibo, mentre l'uomo è capace di distogliere l'attenzione verso l'oggetto stimolato dall'appetito sensibile, ciò vuol dire che l'uomo oltre all'appetito sensibile ha un appetito razionale (rappresentato dalla volontà). Per quanto riguarda l'esercizio dell'intelligenza c'è un primato della volontà; invece per quanto riguarda l'oggetto della volontà c'è un primato dell'intelligenza. Dice Tommaso: "intelligo quid avolo", cioè, conosco perché voglio. Dice Cartesio:

«Tutte le volte che tengo la mia volontà nei limiti della mia conoscenza, in modo tale che essa non rechi alcun giudizio se non sulle cose chiaramente e distintamente rappresentate dall'intelletto, non può accadere che io m'inganni». (36)


(29) CARTESIO: Opere filosofiche 2. Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, Laterza, Bari, p.51
(30) Ibidem, p.51
(31) Ibidem, p.52
(32) Ibidem, p.52
(33) Ibidem, p.
(34) Ibidem, p.
(35) Ibidem, p.
(36) Ibidem, pp.54-55


Theorèin - Novembre 2004