IL MIO INTIMO ACCORDO
ANALISI DEL RAPPORTO FRA PROSA E POESIA NELL'OPERA DI SANDRO PENNA
A cura di: Valeria Masciantonio
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Capitolo 2 (I parte)

Rapporto fra prosa e poesia: le tematiche del tempo e delle stagioni.

 

Come si è anticipato nel capitolo precedente, il rapporto che intercorre fra la produzione poetica e quella prosastica di Sandro Penna può essere indagato in vario modo e a più livelli.

In primo luogo è utile mettere in evidenza il fatto che il volume in prosa Un po’ di febbre abbia visto la luce nel 1973, pochi anni prima della morte del suo autore. La raccolta è costituita da prose e foglietti sparsi composti, stando alle dichiarazioni del poeta, per lo più fra il 1939 e il 1941 e apparsi già in parte su giornali e riviste. Penna stesso, nell’Avvertenza posta in chiusura del volume, rivela di aver sistemato le sue pagine non secondo un ordine cronologico, poco rilevante, ma una progressiva chiarificazione; per il lettore ovviamente e non per me (33). La datazione che egli propone per i suoi racconti lascia pensare che questi ultimi siano stati scritti successivamente alle poesie raccolte nel volume del 1939, e questo riferimento cronologico, sia pur vago, può risultare prezioso per stabilire la natura dei prestiti e dei rimandi fra le diverse espressioni della scrittura penniana. Recentemente Elio Pecora ha dato alle stampe alcune prose non comprese nel volume del ’73 (34), contribuendo così ad arricchire il repertorio del materiale penniano con testimonianze preziosissime.

È quasi superfluo rilevare come le tematiche affrontate nei racconti non siano troppo differenti da quelle cantate nei versi. Tuttavia un confronto approfondito fra le poesie e i testi in prosa non è operazione oziosa, dal momento che consente di far luce su diversi aspetti della poetica penniana, permettendo tra l’altro di sfatare alcuni luoghi comuni che ancora gravano sulla valutazione complessiva del poeta. Considerare inoltre la produzione di Penna nella sua totalità è una tappa obbligata per giungere ad una comprensione piena e profonda della sua vita, del suo pensiero e della sua attività poetica.

Per analizzare compiutamente le varie tematiche che ricorrono nelle pagine penniane sulla base del rapporto esistente fra le prose e i versi, è necessario innanzitutto tentare di risalire alla concezione che il poeta ebbe del fattore tempo e dell’avvicendarsi delle stagioni, intesi come misura primaria del divenire umano. Questo studio preliminare si rende indispensabile nel momento in cui si voglia evitare di relegare Penna fra quei poeti “ingenui” che cantano la natura e l’amore immemori della progressione cronologica. Nel capitolo precedente si è cercato di far luce sul rapporto che Penna ebbe con il tempo storico. Nelle pagine successive si indagherà invece sul concetto assoluto di tempo così come dovette apparire alla sensibilità del poeta umbro.

In via preliminare è utile evidenziare il fatto che la particolarissima modernità di Penna non si manifesta in forme stridenti o singolari, non si fa protesta o provocazione, ma si riversa nelle sue raccolte attraverso vie sotterranee, per poi affiorare in scelte tematiche e verbali che affrescano un presente fatto di viali e di fontane, piazze e scenari marini, ma anche di biciclette, stazioni, orinatoi.

La grazia cristallina degli epigrammi penniani spesso si adagia su espressioni prosaiche, su atmosfere grigie di fabbriche e di odori forti, su un’animalità della vita che è anche fotografia di un presente non certo analizzato ma incombente. Come non pensare all’abbassamento programmatico di tono di tanta poesia novecentesca? Eppure in Penna nulla tradisce la fredda lucidità del programma: la prosaicità di alcune sue scelte è verosimilmente la prosaicità della vita stessa e del suo fluire che, se a volte è zampillante, più spesso è monotono e scialbo. Penna è dunque capace di riprodurre nei suoi versi la contemporaneità sempre attuale che emerge dagli scenari di paesi o da quelli di città, manifestandosi in piazze, stazioni, fontane, fanciulli, stagioni. Su tutte, l’estate, coerentemente con quella che sembra essere in lui tematica costante, la luce: le poesie di Penna sono pervase da una pioggia di luce. La luminosità investe paesaggi e figure, si insinua nei giorni e nelle stagioni, anche solo come assenza, come anelito costante nel buio e nelle grigie piogge autunnali.

La luce, nelle sue variazioni semantiche come sole, oro, giallo, bianco, acceso, brillare, o affini, ricorre quasi ossessivamente, diventa il contenuto di una poesia che ha come sua cifra peculiare un anelito vitale e quasi primitivo.

La luce, così come l’estate, i fanciulli, i paesaggi, sembra essere colta e racchiusa nell’attimo che tutto contiene e tutto annulla in sé, restituendo la dimensione del senza tempo, o meglio, del tempo che si struttura circolarmente, senza progressione.

In Penna, in effetti, il sostrato ciclico del tempo, della Natura, delle stagioni, sembra assumere caratteri immutabili e immobili, andando quasi a costituire il punto di riferimento stabile della sua strana gioia di vivere. Sono molti gli indizi che orientano in questo senso: le metafore ricorrenti, il selezionato vocabolario penniano, l’assenza di forti individualità e il conseguente schiacciamento delle persone che compaiono nelle sue liriche, eccettuate rare eccezioni (35), in figure genericamente determinate attraverso gli appellativi di fanciulli, uomini, operai, ciclisti. Penna ripropone a volte ossessivamente luoghi e situazioni, riutilizzando spesso nei versi strutture e immagini molto simili se non identiche, quasi a sottolineare una eterna e immobile contemporaneità delle cose come della poesia:

…è sul mondo la luna
e bagna il canto ai contadini… (p.75)

La luna di settembre su la buia
valle addormenta ai contadini il canto. (p.87)

Come è bella la luna di dicembre (p.220)

Come è forte il rumore dell’alba! (p.221)

Non rivedrò il paese ove la sera (p. 93)

Non era la città dove la sera (p.108)

Lo stesso avvicendarsi delle stagioni, la concentrazione dell’attenzione su oggetti inanimati o su animali, come i cani, i gatti, le vacche, sono segnali che indicano il delineamento di una dimensione priva di storia. In particolare, in alcuni dei suoi versi, il poeta sembra a volte addirittura trovarsi in una condizione simbiotica rispetto agli animali, quasi che egli stesso si voglia presentare come partecipe della loro esistenza acronica e statica, esclusa dalle dinamiche del vivere umano:

Io lo rividi allora entro quel giuoco
nella nuova città. E mi sentivo un cane
che non poteva parlare
(36).

Eppure, proprio dalla lettura di questi, come di altri componimenti, viene il sospetto di una deviazione rispetto alla valutazione d’insieme, dell’esistenza di una smagliatura che lasci intravedere una diversa possibilità interpretativa. Se si tentasse di evidenziare le scollature interne al sistema penniano, si scoprirebbe forse un autore la cui percezione del tempo è molto più complessa e sfumata rispetto alla visione ciclica e monotona che spesso gli è stata attribuita.

Le stelle sono immobili nel cielo.
L’ora d’estate è uguale a un’altra estate.
Ma il fanciullo che avanti a te cammina
se non lo chiami non sarà più quello… (p.32)

I primi due versi di questo brevissimo componimento descrivono una serata estiva rappresentata nel segno dell’immobilità. Attraverso l’immagine delle stelle e dell’ora l’estate viene colta nella stasi di un attimo che torna ciclicamente uguale a sé stesso.

In molte poesie penniane la tematica estiva sembra spesso assumere tratti comuni alla Grande Estate dannunziana, l’estate che ottunde i sensi per via dei suoi meriggi eccessivamente assolati, l’estate trionfante dei frutti maturi e dei sogni allucinati (37). Nella poesia presa in considerazione, però, l’estate sembra assumere contorni diversi, incarnando l’eterno ritorno di un presente che ad ogni suo riproporsi si fa nostalgia. Questo significa che, appena al di sopra della ciclica immobilità, si snoda il divenire incessante della vita, incarnato nei corpi e nei volti dei tanti fanciulli che popolano i versi penniani. Il “ma” che apre il terzo verso, così forte e così tipico in Penna, crea come una frattura, un vero e proprio strappo nella percezione ciclica della Natura, permettendo l’irrompere di un flusso vitale che si svolge linearmente nel tempo, consumandosi in esso senza possibilità di ritorno. Di fronte alle stagioni, le cui ore si ripresentano identiche ogni anno e per sempre, si pone la contingente ed effimera bellezza del fanciullo, così fugace da essere rappresentata sempre come fulminea apparizione. Si potrebbe affermare che le giovani vite di bellissimi ragazzi costituiscano il polo dinamico, che per questo può farsi nostalgico, di un discorso che altrimenti si presenterebbe adialettico e statico. I due piani dell’essere e del divenire generano l’energia drammatica di una poesia che solo apparentemente è del tutto uguale a sé stessa. La vita scorre in un continuo avvicendarsi di generazioni e, se questo garantisce la continuità dell’esistenza universale, dal punto di vista di un’unica vita produce una dinamica che alterna energia e malinconia, fino a sfiorare la malattia. Nella scrittura di Penna la vitalità, l’eros, il desiderio, esplodono gioiosi nella luce e nella pienezza ma poi sembrano ritrarsi, si ripiegano su sé stessi, subiscono un’involuzione nel buio, nella pioggia. L’estate si spegne nell’autunno e con essa l’esperienza individuale cambia forma, si modifica irrimediabilmente, svelando, nel segno fittizio dell’immobilità, l’illusione della durata e dell’eterna giovinezza dell’Amore:

[…]
Vanamente rivivo
in questi cuori: oh assorte
lontananze. È più vivo
distacco Amor che la confusa Morte. (p.23)


(33) Cfr. Sandro Penna, Un po’ di febbre, op. cit. p. 157.

(34) Sandro Penna, Cose comuni e straordinarie, a cura di Elio Pecora, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2002.

(35) Cfr. Voglio credere ancora in te, Marcello (p.279), oppure O Zelindo, non sa la tua notte (p.180).

(36) Cfr. Sandro Penna, Confuso sogno, a cura di Elio Pecora, Garzanti, Milano, 1980, p.11.

(37) Entro l’azzurro intenso di un meriggio d’estate / denso è il fogliame e assorto sotto il lucido sole. / Tutto è maturo e pieno. Non sono minacciate / le cose. E nondimeno, lontano come il sole, / e vicino, in sé vive - di sé solo - il mio amore .(p.173).


Theorèin - Luglio 2007