Recensioni

A cura di: Simonetta Ruggeri

 

Titolo: Ad Istanbul, tra pubbliche intimità
Autore: Enrico Pietrangeli
Edizioni Il Foglio 2007

Prezzo: Euro 10,00

La poetica di Enrico Pietrangeli è costruita su un’idea antica ed epica di eroismo dove l’autenticità è fissata dalla sequenzialità degli eventi scaturiti dalla macrostoria. Il percorso a ritroso è scandito da fatti bellici, dalle grandi guerre all’11 settembre, ma è anche un tributo a maestri di poesia del passato, da Baudelaire a Rumi fino ad Ungaretti al quale è dedicata, oltre che una poesia, la chiusa della silloge: ”M’illumino di provvisorio”. Ad Istanbul, tra pubbliche intimità rivela, già nel sottile calembour del titolo, la disinvolta ‘pruderie’ che cerca sinergie tra ciò che eticamente inibisce lo sguardo di sé e ciò che umanamente spinge un ‘io’ svestito e indifeso a guardare il mondo al di là di se stesso e a creare equilibri, a volte persino sinistri o indecenti, con i potenti fermenti della realtà: “permango nel terrore che altri/possano guardarmi dentro:/nudo, impaurito, bambino./Sono un sassolino sul selciato,/scalciato, altrove abbandonato”. Il Perelà contemporaneo è ancora un cantore solitario e onanistico,”E canto un disagio/martire di esitazioni”. E’ l’allegoria spietata di un Cristo-giullare che vaglia possibili codici di comunicazione per interagire anziché scompaginare un mondo di regole ostiche e impenetrabili: “Cerco, di fondo, comunicazione,”. E’ l’uomo di fumo che lascia tracce di cenere dietro di sé, potente quanto inefficace nella sua disincantata denuncia. Spiragli di un funambolico Palazzeschi dunque, ma anche una prosodia ermetica che scarnifica le immagini e cesella la lingua inventando concatenazioni strutturali ad effetto e mélange musicali lontanissimi da speculazioni accademiche. Avanguardie e neoavanguardie garantiscono un persistente retaggio, ma l’organicità delle diverse combinazioni poetiche, che non escludono neppure tracce di ‘scapigliatura’, riesce a costruire un proprio linguaggio di cui, forse, la componente più viscerale è rappresentata da una sorta di modernismo dionisiaco e spirituale da cui emergono risvolti apollinei. L’autore sembrerebbe infatti recuperare sia il simbolismo francese che una versificazione libera che non rinnega affatto la rima. Nella poesia Non è l’amore, ad esempio, utilizza per lo più il tradizionale endecasillabo sebbene intervallato dal refrain del titolo:”Non è l’amore che non trovo/è la paura dei sentimenti/tra impalpabili, ordinari orrori./Non è l’amore che non trovo”. Feticismo e voyeurismo sconsacrati con ironia adolescenziale e sprezzante, sono la stessa cifra di un conflittuale approccio con la modernità-presente. In questo senso è forse possibile parlare di ‘modernismo apollineo’, interpretandolo come tentativo di cogliere bellezza e serenità in cui non è assente la compenetrazione religiosa. Il viaggio, sviluppato dentro la città esotica, erotica e comunque esoterica, è anch’esso un tentativo di elevazione dello spirito e assume il rigore della necessità. Gli interstizi dei luoghi sono spiati e dall’osservazione si può ipotizzare una sintesi che, in qualche modo, spieghi la storia nella sua miracolosa connivenza di contraddizioni e simmetrie. Una dimensione spazio-temporale danzante, permette all’autore di gettare ponti tra ciò che è stato vissuto e l’ignoto, di interrogarsi sulla propria condizione di bilico tra le epifanie del passato e l’assurdità del presente. Santa Sofia diviene potenziale crocevia per una lettura della storia che, partendo da “amorfi ruderi bizantini”, intreccia alle origini la cultura islamica a quella cristiana e ne esalta le singole peculiarità. Vitale e logorata, l’accettazione dell’’inspiegabile’, inteso come fenomenologia ineludibile cui è sottoposta la condizione umana, attraversa tutta la raccolta come elemento biologico e meccanicistico ancor prima che emotivo. Accettare non equivale a comprendere ma spinge, quasi di diritto, ad intraprendere un cammino epistemologico garantito dalla molteplicità degli stadi dell’essere e dalle imprevedibili manifestazioni del reale. Un colorito campionario femminile si inserisce armonicamente in questa accettazione esperienziale che avvicina senza stridore “qualche dolce sgualdrina/di cenerentola persiana/esposta in una vetrina” al confortante respiro di un pacato ventre, “promontorio/dove tutto sembrerebbe meno vacuo”. E così, senza incorrere in volute di perbenismo, si finisce anche per esaltare un eros fuor di metafora o per invocare puro sesso come nell’esordio della poesia Sesso e liberazione: ”Necessito, privo di grazia alcuna,/di vorace ed inconsueto sesso”. Ma se è sulla strada dell’amore che ci si imbatte, allora diviene necessario il racconto del dolore e l’erotismo è l’incarnazione di un salvifico controdolore: “Quanto sangue era conoscenza,/un idillio per infiniti equilibri/sobbalzati in terra,”. All’idillio si ricuce la sconfortante realtà del quotidiano e l’amore, che indistintamente offre dignità tanto a ciò che è sporco quanto a ciò che incarna purezza, restituisce opacità, lacerazione. Il pube, l’ombelico, il clitoride, gli “spermatozoi morenti” di 2/3 di passione, resto masturbazione o i decadenti “profilattici con sembianze di meduse/che galleggiano fluttuanti” nel porto di Trieste, sono segni estetizzanti e labirintiche magie della memoria più che rimandi di pertinenza sessuale. Sono le organiche presenze che si sprigionano, come nella poesia Alchimia, “nell’armonia accordata/ai primari elementi”, dove l’amplesso è esplosivo e fecondo non meno del ciclo delle origini e dei riti stagionali della Madre Terra. E così amore e morte non identificano l’alfa e l’omega della vita ma piuttosto sistemi binari naturali, intrecciati e coesistenti: ”Lacrime di luce/colgono la tua essenza,/mistica e carnale presenza,/bacio quella fonte/con devoto ardore,/tocco l’aldilà, l’oltre”. Ad Istanbul, tra pubbliche intimità traduce anche l’ossimoro perdita-recupero. Germogliano incessanti le percezioni di riviviscenza sul piano storico e narrativo oltre che su quello stilistico orientandosi tematicamente in una duplice direzione: quella dell’infanzia appunto, e quella della guerra, tremenda e, anch’essa, inspiegabile. Ad entrambe corrispondono ironiche icone di uno stile classicheggiante, a tratti ottocentesco e immagini lessicali obsolete come “i moschetti” o “lo stridere di carrozze/e il tintinnio dei ferri/dei condannati a morte”, ma non mancano reperti della modernità rappresentati da un lessico semplice e connotativo all’interno della medesima poesia: “Corrono i cellulari/lungo quei viali,/onesti e sereni/di anonimi borghesi”. All’esigenza di recupero abbiamo detto che è collegata quella della perdita. Perdita di affetti, sottratti dalla memoria del tempo che smette di ricordare per poi disseppellire. Ma in un contesto sociale e culturale in cui l’artista non sa più a chi indirizzare la propria opera, la perdita è anche quella di un ipotetico “orizzonte d’attesa”. Il lettore è una massificata entità con strumenti critici ed analitici soddisfacenti ma insufficienti per scongiurare il declino dello scambio, della dialettica, del rigore. In alcuni casi poi è solo il fantasma di se stesso, solitario acquirente di oggetti da collezione. Ecco allora il bisogno di creare imprescindibili isole di sperimentazione per concedere all’arte potere comunicativo e identità grazie ad interferenze tecnologiche che ne armonizzino le diversità caratterizzandone le specificità. A questo è forse riconducibile la poesia “A Mosaic” che descrive la nascita della grafica: “Stringhe alfanumeriche/attraversano lo schermo/in un trascorso secolo/di avari elettrici impulsi/per una nuova comunicazione./E poi venne la grafica”. Quando tutto ha a che a fare con tutto si rischia di perdere la centralità del fatto poetico. Muoversi su più piani dell’arte significa invece garantire alla poesia aderenza alla realtà, significa orientarla verso un canone preciso, che includa o escluda, ma che nella dispersione quantitativa non consegni al lettore un’immagine di stagnante sopravvivenza. Purtroppo l’industria editoriale dei nostri giorni non sembra troppo attenta ad una progettualità sulla poesia che anticipi il futuro consolidando il presente. Opta semmai per un suo inserimento ‘tout court’ all’interno di leggi di mercato troppo competitive, omologanti, isolazioniste e alla lunga perdenti. Inserito in questo contesto, Enrico Pietrangeli, riesce a tracciare un suo percorso dilatando l’esperienza privata nella ricerca di sincretismo tra mondi eterogenei dell’arte. In tal modo coinvolge il lettore facendolo riflettere su un proprio punto di vista, su una propria poetica.

Simonetta Ruggeri


Theorèin- Dicembre 2007