Recensioni

A cura di: Oscar Buonamano

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Titolo: Chi ha paura muore ogni giorno
Autore: Giuseppe Ayala
Editore: Mondadori 2008

“Lo Stato aveva deciso di fermare se stesso proprio nel momento in cui stava registrando risultati esaltanti. E perché? Perché la mafia ce l’aveva dentro. Si faccia avanti chi è capace di dare una diversa risposta plausibile”. Un’affermazione da far tremare le vene e i polsi e che fa indignare. Una delle tante affermazioni forti contenute in Chi ha paura muore ogni giorno, l’ultimo libro di Giuseppe Ayala. La pubblicistica sugli anni del pool antimafia e quindi su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino è molto vasta. Molto è stato già scritto e perciò ci si potrebbe chiedere: c’è qualcos’altro da scrivere su quegli anni e su quella stagione? C’è qualche aspetto poco chiaro che si può ulteriormente indagare? A cosa serve, ma soprattutto è utile un altro libro su quegli anni? La risposta è si se quel libro è scritto da uno dei protagonisti di quella stagione, uno dei sopravvissuti. E la risposta è si se l’autore è un fine dicitore e un raffinato intellettuale. Giuseppe Ayala confeziona una sorta di autobiografia minima, nel senso che autoindaga su un arco temporale breve della sua vita, nella quale è possibile rileggere la ricostruzione della storia del Palazzo di Giustizia di Palermo, la nascita del pool antimafia e la sua fine, ma soprattutto è possibile leggere la cifra umana e politica e sociale di un gruppo di uomini veri. Uomini morti una volta sola. “Ha raccontato Andrea Camilleri che quelle cinque lettere venivano pronunciate solo dopo che gli usci di casa erano stati chiusi, perché gli estranei non le sentissero. Nessuno voleva ammettere ciò che vi si celava dietro. Lo stesso accadeva a proposito di un’altra parola di sei lettere: «cancro». «il male incurabile» era l’eufemismo. Suonava meglio”. Quando non c’era il pool, quando il Palazzo di Giustizia di Palermo, “Un palazzo che aveva avuto un ruolo centrale nella storia del potere siciliano, distinguendosi più per la sua capacità di omologazione che per quella di contrapposizione alle connotazioni illegali, se non criminali, che pezzi di quel potere erano andati progressivamente assumendo”, quando la parola mafia non si poteva pronunciare, quando lo Stato non era in prima linea contro la criminalità organizzata, quando tutto era così, proprio in quel preciso momento inizia la storia che ci racconta, o conta come direbbe forse Camilleri,Giuseppe Ayala. Ed è una storia che ti fa stare con i pugni stretti in tasca dalla prima all’ultima parola. È una storia che fa rabbia a rileggerla. È una storia che ti pone la domanda, la domanda delle cento pistole: ma io che cosa ho fatto per cambiare in meglio il mio Paese? Ayala con certosina abilità crea una rete in cui ogni nodo è un piccolo affresco di quella Sicilia e di quell’Italia e che tutta insieme, tesa in modo da distanziare bene i singoli nodi e far guardare oltre i nodi stessi appunto, ci restituisce un mondo complesso di cui si percepiscono fatti, odori, parole, e di cui riusciamo a vedere i morti, i tanti morti ammazzati. E la scia di dolore e rabbia che quei morti hanno lasciato non solo nei parenti più prossimi ma in tutti quelli che non si arrendono allo status quo. “C’è qualcuno in questo Paese che si occupa della sottrazione dei documenti più personali delle vittime - cosiddette eccellenti – a cadavere ancora caldo…La borsa che Aldo Moro aveva con sé al momento del sequestro? Mai trovata. Il computer di Giovanni Falcone? Ripulito. L’agenda rossa di Paolo Borsellino? Scomparsa”. Rocco Chinnici, Aldo Moro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, sempre sulla scena del delitto “eccellente” s’intravede una figura che sottrae documenti, carte, appunti. Non è una chiacchiera da bar o il finale ad effetto di un film di terza o quarta visione è una delle affermazioni contenute nel libro. Una affermazione grave che chiama in causa le Istituzioni della Repubblica e chi le governa. È una storia che pone la vicenda umana al centro del ring. Solo da rapporti umani forti e saldi possono nascere le grandi imprese della vita siano esse della sfera lavorativa, siano esse della sfera personale. “Il dolore e la paura avevano partorito un sodalizio che non era solo professionale e ideale. Era umano e personale. E definitivo”. Così descrive Ayala il rapporto che si era stabilito tra lui e Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un rapporto cementato dal dolore per la perdita di cari amici e colleghi che con loro lavoravano in una terra di frontiera qual’era e qual è ancor oggi la Sicilia. La paura di andare incontro ogni giorno alla morte, quasi a mani nude. “L’intesa tra i due era formidabile quanto l’effetto e la stima che li legava. Si conoscevano da bambini, essendo nati entrambi nello storico quartiere della kalsa. Erano diversi, ma si completavano a vicenda”. Dolore e paura che appunto potevano essere affrontati solo in presenza di un rapporto indistruttibile, prim’ancora umano che professionale: questo era il rapporto che legava Giovanni a Paolo. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino due eroi contemporanei. C’è anche la vita personale di Giuseppe Ayala in questo libro. La sua vita di padre e di marito. Di marito che affronta la separazione dalla moglie nel bel mezzo dell’inchiesta più importante che ci sia mai stata in Italia contro la mafia. E in quei momenti così difficili, quando entrano in ballo gli affetti e le decisioni da prendere sono decisioni davvero importanti, proprio in quei momenti ad Ayala non manca la vicinanza di Giovanni Falcone che lo aiuta a capire e in silenzio accompagna le sue decisioni. “Il nostro amore si stava consumando, senza colpe e senza ragioni. Ma la nostra intesa era un’altra cosa, tanto che dura ancora e non dà alcun segno di stanchezza. Il fatto che siamo genitori degli stessi figli non è secondario, per niente, ma non spiega tutto. L’affetto quando è veramente profondo è un legame molto forte. Meno dell’amore, ma con maggiore garanzia di durata”. Le continue incursioni nella vita privata della famiglia Ayala, come ad esempio le lunghe chiacchierate con il Presidente della Repubblica, quando Ayala e Falcone sono a Roma dopo aver assistito allo smantellamento scientifico del pool antimafia e di tutta la struttura che era stata messa faticosamente in piedi, non distolgono l’attenzione e si giustappongono alle vicende di malaffare trattate. “Il siciliano, per evidenti ragioni storiche, non possiede la cultura del diritto, perché conosce solo quella del favore…La mediazione del favore, negatrice del diritto, ha esaltato al massimo la percezione e, quindi, il fascino del potere. Esiste, forse, un solo posto al mondo in cui vale un proverbio che recita «cumannari è mugghi di fùttiri»”. Una “sentenza senza appello” scritta da un siciliano sui siciliani. Una riflessione che c’interroga sulle ragioni più profonde della condizione d’illegalità diffusa in cui vive la Sicilia e l’intero Paese. Ayala non dimentica i tanti ragazzi e ragazze delle forze dell’ordine che sono morti per difendere con il proprio corpo il corpo di tanti magistrati, che hanno immolato la loro vita per difendere lo stato di diritto e per servire lo Stato. Per tutti usa splendide parole che vanno dritto al cuore. E poi ci sono tante altre cose ancora da leggere in questo bel libro di Giuseppe Ayala come ad esempio un ampio stralcio della storica requisitoria finale del maxiprocesso che vide proprio Ayala intrattenere tutti con il fiato sospeso con il suo facile eloquio e che concluse come un consumato attore di teatro:“Questo e non altro, signori della Corte, è la Mafia”.

Oscar Buonamano


Theorèin- Giugno 2008