LA RESURREZIONE DI GESU'
NEI RACCONTI DEI QUATTRO VANGELI:
APPUNTI DI ANALISI STORICO-FILOLOGICA
A cura di: Vito Sibilio
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VI Lezione

APPENDICE A LUCA:
I FATTI NARRATI NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Gli Atti degli Apostoli prolungano la narrazione dei fatti della Pasqua sino alla Pentecoste. Lc, nell'introduzione, riprende il filo dei fatti narrati nel Vangelo. Questa parte iniziale degli Atti, fino alla fuga di Pietro ad Antiochia, è redatta volutamente in un greco semitizzante, che imita la versione biblica della LXX. Al v. 2 parla di Gesù "assunto in Cielo", riferendosi al fatto che egli è, in quanto uomo, glorificato da Dio Padre. Riprendendo quanto detto alla fine del Vangelo, Lc ne mostra gli aspetti più congruenti col mistero della Chiesa, che sarà l'argomento del libro. Così dice che Gesù, dopo la Resurrezione, fornì agli XI tutte le prove necessarie per ritenerlo realmente risorto, e così fondare la fede della Chiesa, di cui gli Apostoli sono l'embrione. Puntualizza che Gesù apparve per quaranta giorni, e che li ammaestrò sul Regno di Dio. I temi sono quelli ricordati alla fine del Vangelo, anche se in quella collocazione sottolinea specialmente quelli cristologici, che evidentemente non furono i soli trattati nei quaranta giorni. Il resto degli insegnamenti del Maestro non è riportato: si ricaverà dagli Atti, lungo i quali la predicazione degli Apostoli altro non è che la ripresa della parola di Gesù. Inoltre, tale dottrina era perciò nota ai cristiani, e quindi Lc, che non doveva scrivere un catechismo ma una storia delle origini cristiane, la tralascia. Furono realmente 40 i giorni intercorsi tra Resurrezione e Ascensione ? Ritengo che non ci sia alcuna ragione per ritenere che il numero, senz'altro ad alto contenuto simbolico, non sia tuttavia storicamente fondato. Individuare un simbolismo non significa negare un valore storico. E non c'è nessuna ragione per credere che Gesù si sia mostrato per un periodo più lungo o minore. Del resto, i quaranta giorni indicano il tempo del suo soggiorno sulla terra dopo la Resurrezione, non una sequenza ininterrotta di apparizioni. Molto probabilmente il grosso di queste visioni didascaliche accaddero nella riparata Galilea, dove i discepoli si andarono a rifugiare secondo l'indicazione del maestro. Qualcosa accadde, perchè essi poi, pronti a tutto, tornarono a Gerusalemme per la predicazione.

Il racconto lucano riprende dal v. 4, descrivendo l'ultimo incontro di Gesù con i suoi. Sono appena terminati gli incontri in Galilea, dove i XII si sono recati per obbedire al comando di Gesù alle Donne. Gesù stesso ha conferito loro il mandato missionario e li ha evidentemente invitati a tornare in Giudea, a Gerusalemme. Qui, 40 gg. dopo la sua Resurrezione, egli, mangiando con loro, probabilmente nel cenacolo, dove i XII risiedevano, o forse nella casa della Madonna - ubicata in Magdalìa, come attestano i documenti più autorevoli e antichi - riprende il tema della Promessa del Padre, che Lc da per scontata, pur non avendone mai parlato (esso è citato nel Vangelo di Gv). Questa promessa verte sullo Spirito Santo, che i XII devono attendere a Gerusalemme senza partire senza averlo ricevuto. La frase riportata ai vv.4-5 è chiaramente un estratto del discorso che Gesù fece ai suoi, di cui un altro frammento Lc conserva nel vangelo , in 24, 49. Qui supplisce tutto l'insegnamento che Gesù diede ai XII sullo Spirito. Probabilmente le frasi riunite suonavano così: E Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso, (in base a ciò) che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo tra non molti giorni. Ma voi tornate in città, finchè non siate rivestiti di potenza dall'alto. - Questo discorso fu pronunziato da Gesù un pò a tavola e un pò sul monte degli Ulivi, dove condusse i suoi commensali perchè fossero testimoni dell'ascensione. Il luogo è consegnato alla storia dai ritrovamenti archeologici sottostanti alla Cappella dell'Ascensione, attualmente esistente.

Tra i vv. 5 e 6 c'è uno iato narrativo, in quanto Lc suppone la vaga collocazione spaziale del v. 50 a. del vangelo. In esso, Gesù conduce i XII "fuori" (le mura), verso Bethania (èos, pròs Betanìan). Solo che, mentre nel vangelo Lc si limitava a registrare l'ultimo gesto di Gesù (la benedizione) e l'adorazione dei XII (vv. 50b-51-52), qui riporta l'ultimo colloquio, introdotto dal v. 6a, la cui espressione introduttiva va intesa così: Venutisi a trovare insieme in queste circostanze, ecc.( Oi mèn oùn suneltòntes eròton ecc.) Lc inserisce negli At i discorsi di Gesù perchè danno inizio all'opera della Chiesa.

Al v. 8 ancora un richiamo allo Spirito Santo. Non c'è dubbio che questi passi parlino di cose diverse da quelle della finale di Mt: la diversa collocazione spaziale, la maggiore ampiezza del primo vangelo sul tema missionario rilevano la differenza con questo versetto degli At, che è solo una ripresa in Giudea di ciò che Gesù aveva già detto in Galilea sul monte. L'ipotesi per cui Mt si concluda con la descrizione dell'ascensione va dunque scartata, tanto più che il vangelo di Mt non finisce con la sparizione di Gesù, ma con un suo breve discorso, e gli At presuppongono un soggiorno galilaico - appunto quello di Mt e Gv - di Gesù prima dell'Ascensione, accaduta in Giudea. D'altro canto, qui negli At Gesù chiede ai XII di essergli testimoni fino ai confini della terra. Ma in che cosa consista questa testimonianza, non lo dice. Segno che lo ha spiegato altrove. Questo "altrove" e i contenuti della spiegazione ce li diceva appunto Mt, e Lc li conosceva. Egli stesso, nel condensato catechetico del suo vangelo, in 24, 45-46, dimostra di saper essere più esauriente all'occorrenza.

Non credo che la domanda al v. 6 sia temporalista, ossia che i XII pensassero che il Regno d'Israele da restaurare fosse quello davidico, altrimenti nei quaranta giorni Gesù non li avrebbe poi istruiti tanto bene, nè si spiegherebbe poi come mai nella loro predicazione essi avrebbero parlato di un regno spirituale. Essi avevano in mente il Regno del Nuovo Israele, quello vaticinato dai profeti, quello escatologico, su cui Gesù li aveva abbondantemente istruiti. Non a caso Gesù risponde dicendo che il Regno sarà ricostituito quando il Padre vorrà, e non che ciò non accadrà mai. E' una risposta troppo simile a quella che Gesù dava a chi gli chiedeva della fine del mondo, per non alludere alle stesse cose. Infine, proprio in vista di questa restaurazione, Gesù dà fiducia ai suoi col Paraclito, e li invita a lavorare per quel regno in qualità di testimoni.

Gli At omettono di menzionare la benedizione che Gesù dà, prima di ascendere, nel Vangelo di Lc. Questi, nel suo secondo libro, aggiunge però, ad incastro, che Gesù ascese subito dopo ebbe dette le cose che abbiamo ricordato. Forse li benedisse mentre parlava.

Secondo gli At, Gesù fu coperto da una nube mentre saliva verso il Cielo. Alcuni contestano la storicità di questo dato, considerandolo un espediente retorico legato alla tradizione teologico-letteraria dell'AT. Ma non è così. Stiamo ai fatti. L'Ascensione è una particolarissima apparizione di Gesù ai Suoi discepoli, troppo numerosi per essere suggestionati. E' dunque un fatto storico, ma anche trascendente. Gli apostoli devono averlo visto scomparire in un modo. Se lo avessero visto sparire diversamente, perchè si sarebbero sentiti in dovere di parlare di nubi ? Evidentemente la videro veramente. La struttura psicologica dell'uomo è fatta anche di elementi archetipici culturali, e l'idea della nube come velo della gloria di Dio era normale per degli Ebrei. Se Dio voleva far loro intendere che Cristo entrava nella sua gloria, doveva farlo sparire in una nube. Ossia, la percezione psichica ha strutture culturali che costituiscono le coordinate dei fenomeni parapsicologici, non perchè questi siano falsi, ma perchè siano intellegibili.

L'episodio degli angeli e del loro colloquio con i XII (vv. 10-11) esige qualche puntualizzazione. Evidentemente Gesù saliva sempre più, e in quel momento apparvero due uomini, che però sono chiaramente angeli come al Sepolcro. Essi non compaiono, si presentano: i XII erano tanto immersi nella contemplazione celeste da non vederli apparire. Il loro messaggio richiama ai XII la necessità di una attesa nella speranza e ci parla del compimento della Resurrezione: la Parusìa. Non bisogna guardare il Cielo, come se Gesù fosse irraggiungibile: di là tornerà, un giorno. Queste parole sono un'ulteriore conferma del senso spirituale delle parole di Gesù ai vv. 7-8 e della domanda dei XII al v. 6. Va notato che nelle parole degli angeli, il termine "cielo"(eìs tò ouranòn) ritorna tre volte . E' un'espediente stilistico rozzo, che però è voluto: ricorda il modo di scrivere delle parti più antiche della Bibbia. Siamo infatti nel contesto di una teofania, esattamente come nella Genesi o nell'Esodo.

Con gli angeli, si chiude, com'era iniziato, il ciclo della Resurrezione. L'annuncio del risveglio è portato dai messi celesti, come quello della parusìa. Alcuni hanno dubitato della reale comparizione angelica. A parte i soliti rilievi psicanalitici e storici, faccio notare che aggiungere un episodio complementare come l'angelofania conclusiva non muta di tanto il quadro degli eventi pasquali. Credere che sia problematico aver fede in angeli, dopo aver parlato di morti che risorgono, rende ridicoli gli esegeti moderni, così come sarebbe stato ridicolo Lc se avesse prima narrato la Resurrezione e poi avesse "abbellito" il fatto con gli effetti speciali..

Finito il racconto, con una tecnica già adoperata per Lc 24, 1-12, l'autore sacro indica i protagonisti. Infatti nessun soggetto è stato indicato dall'inizio degli Atti, dopo la menzione generica degli apostoli. Ma siccome il v. 4 degli At , cap. 1, si riconnette ai vv. 49-53 del cap. 24 del Vangelo, in senso narrativo, e che essi si riconnettono allo stesso modo ai vv. 36-48, ecco che i personaggi di At 1, 13, sono i soggetti di tutto quanto è raccontato da Lc 24,36 fino a At 1, 12. L'espressione "salirono al piano superiore dove abitavano" ( èis tò uperòon anèbesan où èsan katamènontes) significa che si ritirarono nel piano rialzato dove avevano dimora (quello che oggi è il Cenacolo) e lì rimasero per quel periodo; così si giustifica il v. 14 che ne descrive le attività e la compagnia, informazioni che fanno infatti da corollario a quella che ci dice dove vivevano. In questo periodo essi erano assidui nella preghiera, e con loro lo erano alcune Donne, la Madonna e i "fratelli" (adelfòi) di Gesù. Naturalmente, questi non stavano nel piano rialzato, che altrimenti sarebbe stato troppo pieno...La Madonna, come dicevo, aveva casa a Gerusalemme.

Al v. 12 si specifica in quale punto, tra Gerusalemme e Betania, Gesù ascese, appunto il Monte degli Ulivi, distante da Sion quanto "il cammino permesso in un sabato" (sabbàtou èkon òdon). E' un riferimento difficile per un pubblico pagano. Ma si giustifica per la cornice semitizzante che Lc dà al racconto.

Al v. 13, troviamo l'espressione Giuda di Giacomo. Questo ci porta alla questione dei fratelli di Gesù. Abbiamo questi dati: Giacomo il Minore era detto figlio di Alfeo (v. 13). Tuttavia, in Mc 15, 40 si parla di una Maria, madre di Giacomo il Minore e di Joses. La stessa donna torna in Mt 27, 56 e Lc 24, 10. Sia Mc che Mt, tuttavia, avevano fatto i nomi dei due suddetti fratelli del Signore (Mc 6,3; Mt 13, 55). Cosicchè Maria è identificata come madre degli unici due Giacomo e Ioses già citati. Marco cita Ioses tre volte, senza mai cambiare la grafia (p. es. Iosef, come invece fa per Giuseppe d'Arimatea). Questo prova che lo Ioses di 6, 3 è lo stesso di 15, 40. Ciò identifica rigorosamente due fratelli del Signore (Giacomo il Minore e Ioses) con i figli di una Maria distinta dalla Madonna. Possiamo identificare Giacomo il Minore con Giacomo d'Alfeo? Questi è citato in tutti gli elenchi che i sinottici fanno degli apostoli. In Mt e in Mc l'elenco precede la prima menzione di Giacomo e di Ioses. Anche in Mc è così. Stricto sensu, nulla identifica l'Apostolo col fratello del Signore. Tuttavia, latu sensu, considerando che la prima menzione di Giacomo è fatta col patronimico, sarebbe logico supporre che la successiva menzione sia sempre dello stesso, senza alcuna identificazione perchè ben nota a chi leggeva, in quanto l'autore sacro aveva già fornito la paternità nell'elenco degli apostoli. Viceversa parrebbe strano che gli Evangelisti citassero i fratelli di Gesù senza fornire alcuna indicazione sulla loro origine familiare, per poi darla all'improvviso alla fine dei loro scritti, fornendo il nome della madre di due di loro. Comunque sia, se Mt e Mc non hanno dato il nome del padre dei fratelli di Gesù, lo hanno fatto o perchè il pubblico lo conosceva, o perchè l'avevano già fatto nell'elenco dei XII. Nel primo caso c'è dipendenza dalla tradizione orale, nel secondo coerenza interna. Se però Mt e Mc supponevano di aver già dato il patronimico dei fratelli di Gesù nell'elenco dei XII, ne conseguono due cose: la prima è che Alfeo fosse il padre di tutti i fratelli di Gesù, la seconda che sin dalla prima menzione di Giacomo essi diedero per scontato che la parentela tra lui e Gesù fosse nota ai lettori; la seconda che sin dalla prima menzione di Giacomo di Alfeo essi dessero per scontato che la sua parentela con Gesù fosse nota al pubblico. Ciò appare piuttosto nebuloso, e la discussione è aperta. Tuttavia non è necessario che, quand'anche Giacomo di Alfeo fosse fratello di Gesù, anche gli altri fratelli del Signore fossero figli di Alfeo. Un solo dato emerge chiaro: è possibile che Giacomo di Alfeo sia Giacomo figlio di Maria, perché il primo sintagma serve ad identificare il figlio, il secondo la madre. In Luca, poi, noi abbiamo l'espressione "Maria di Giacomo", adoperata anche in Mt e Mc. Ora, a meno che l'evangelista non rimandasse alla traduzione degli altri Vangeli, l'unico Giacomo che aveva indicato nel suo racconto e che quindi poteva essere figlio di Maria era l'apostolo, indicato come figlio di Alfeo. In ogni caso, quand'anche rimandasse alla tradizione degli altri evangelisti, nulla osterebbe all'identificazione. Se dunque nulla osta, noi diremo che è assai presumibile che Giacomo di Alfeo e Giacomo fratello del Signore siano la stessa persona, come suggerisce la tradizione paolina, che infatti espressamente dice (Gal 1, 19): Degli apostoli non ho visto nessun altro eccetto Giacomo il fratello del Signore. Giacomo di Alfeo è dunque il fratello del Signore. Luca ha citato Maria di Giacomo identificandola con l'Apostolo, Mt e Mc hanno citato Maria di Giacomo e di Ioses, avendo già già indicato il padre di entrambi menzionando Giacomo come figlio di Alfeo nell'elenco dei XII. Possiamo a questo punto dire che Giuda di Giacomo, citato nell'elenco apostolico degli At, è suo fratello, o dobbiamo ritenere che sia un patronimico? Cosa possiamo dire in proposito? Mc e Mt lo chiamano Taddeo, e non lo ricordano se non subito dopo Giacomo di Alfeo, come se tra i due ci fosse un rapporto (anche se in altri casi, come Giacomo il Maggiore e Giovanni, tale rapporto è menzionato esplicitamente). In Lc lo si chiama pure Giuda di Giacomo. Nella lettera che porta il suo nome egli si firma Giuda fratello di Giacomo - evidentemente di Alfeo. Ora, ha senso che Giuda, fratello di Gesù, si firmasse fratello di Giacomo? In effetti, se Giacomo è fratello di Gesù, lo dovrebbe essere - ai fini del riconoscimento - pure Giuda. Ma siccome l'unico Giacomo conosciuto di cui Giuda potesse essere fratello è proprio quello di Alfeo, allora bisogna ammettere che Giuda stesso preferisse firmarsi così piuttosto che "fratello di Gesù". Può darsi che questo dipenda da un uso consuetudinario della comunità cristiana e del collegio apostolico, preesistente agli stessi vangeli. In questa prospettiva, Giacomo è il "fratello" più importante, perché nella triade maggiore degli apostoli, e gli altri sono fratelli suoi più che di Gesù, a cui furono meno vicini. D'altro canto, Giuda non è mai detto "figlio di Maria", anche perché citato secondariamente nell'elenco dei presunti figli della donna. Dico presunti, perché lo storico Egesippo (II secolo) ci dice che Simone, altro "fratello" di Gesù, era figlio di Cleofa, fratello di San Giuseppe, e sposato con un'altra Maria. Ora, nell'elenco di Mc, Giuda è terzo dopo Giacomo e Ioses, seguito da Simone, per cui potremmo credere che i primi tre avessero tutti lo stesso padre (Alfeo), tranne l'ultimo; ma in Mt Giuda è quarto, dopo Simone, per cui potrebbe benissimo non essere figlio di Alfeo. A questo punto, nulla vieterebbe di sdoppiare il Giuda apostolo "di Giacomo", da intendersi persino come patronimico, dal Giuda "fratello di Giacomo" e quindi di Gesù. Questo sdoppiamento sarebbe in linea con l'espressione "e i fratelli di lui" riferito ai fratelli di Cristo in aggiunta agli apostoli (At 1, 14), per cui essi non sarebbero tra i XII. Ma attenzione: questi fratelli non sono, come abbiamo visto, figli né di Giuseppe - come qualche storico antico credeva - né tantomeno di Maria madre di Cristo. Hanno un padre - Alfeo o Cleofa - e una madre - due Marie - che evidentemente sono parenti di Giuseppe - fratelli - o anche di Maria - Gv allude alla sorella di lei nel racconto della Passione, che potrebbe essere Maria di Giacomo, ossia la moglie di Alfeo - per cui il termine fratello è un aramaismo, comprensibile in Lc per la patina semitizzante dei primi capitoli degli At, e anche negli altri autori evangelici, ebrei di nascita. Essi - e Lc in particolare - conoscono il termine greco per cugino, ma adoperano adelfòs (fratello) perché condizionati dagli epiteti della Chiesa giudeo-cristiana. Epiteti tanto più vincolanti, se consideriamo il ruolo di primo piano dei parenti di Cristo nella comunità primordiale. A questi si riferisce At 1, 14 aggiungendoli agli apostoli. In questo senso va letto anche "Giuda fratello di Giacomo": erano cugini, perché avevano padri diversi, ma il termine semitico rimane quello. E i ruoli nella Chiesa condizionano gli identificativi: Giacomo è il più importante dopo la morte di Gesù e la sua resurrezione, e s'identifica o col patronimico o con la fraternità col fondatore. Gli altri invece contano meno, e sono identificati in relazione a lui (Giuda) o con altre apposizioni (Simone lo Zelota). A questo punto, possiamo dire che Giuda di Giacomo è Giuda fratello di Giacomo sono la stessa persona.

Quando, al v. 15, si dice "in quei giorni" (èn tàis emèrais taùtais), s'intende nel periodo che va dall'Ascensione alla Pentecoste, e l'espressione " si alzò in mezzo ai fratelli" (avàstas èv mèso tòn adelfòn) indica che Pietro presiedette un'assemblea (tanto che ci si affretta a puntualizzarne il numero di partecipanti), ben distinta dal gruppo dei vv. 13-14, ben più esiguo. Il discorso riportato è senz'altro autentico. Pietro era ancora vivo quando gli At furono pubblicati, e inoltre lo stile arcaico, semitico, e gli stessi contenuti, assai antichi, depongono a favore di una sostanziale autenticità. D'altro canto, i discorsi di Gesù erano probabilmente stenografati dai discepoli, com'era prassi presso le scuole rabbiniche, e l'uso dovette conservarsi per i discorsi di Pietro, suo successore designato. Probabilmente, il greco semitico di Lc fu parlato dallo stesso Pietro. Egli veniva da una regione ellenizzata, la Galilea. Aveva un fratello, Andrea, dal nome greco. Molti apostoli avevano nomi greci, come Filippo, Simone il Cananeo e lo stesso Simon-Pietro, o Bartolomeo. Non è dunque da escludere che conoscessero un greco, magari stentato. Del resto, a Gerusalemme vigeva il bilinguismo, come attestano le iscrizioni del tempio e lo stesso cartello di condanna della croce, che era in tre lingue addirittura. Nulla di cui meravigliarsi se vediamo Pietro esprimersi in greco.

Ai vv. 18-19 si descrive la morte di Giuda. Il racconto è in contrasto con quanto dice Giuda su due punti: 1. La morte del traditore; 2. L'acquisto dell'Akeldamà. Per il primo punto, è giusto partire da una semplicissima constatazione: l'uso del verbo greco "impiccarsi" (apènxato) in Mt è improprio, in quanto molto probabilmente esso rende un equivalente ebraico dallo spettro semantico più ampio di quello greco e italiano. La traduzione letterale è senz'altro "impiccarsi", ma il senso di Mt - senso della sua mente ebraica - è quello di "uccidersi violentemente". Pesava su Mt tra l'altro il precedente della LXX, che descriveva in termini analoghi il suicidio dell'altro grande traditore della Bibbia e unico suicida dell'AT, Achitofel, descritto nel Secondo Libro di Samuele. Infine, Mt non si dilunga sulle modalità del suicidio del traditore, perché gl'interessa parlare della profezia sul Campo del Vasaio, per cui la sua terminologia può essere volutamente generica. Lc invece negli At la descrive minutamente. Per il secondo punto, abbiamo qualche difficoltà. Se seguissimo in modo preciso la logica storicistica, dovremmo ritenere più credibile la versione di Mt, perché più antico, ebreo e perché scrisse a Gerusalemme o nei dintorni. Ma Lc aveva tutti i mezzi per appurarla. E allora bisogna supporre che Mt e Lc parlano di due diversi "campi di sangue". Uno è quello per la sepoltura degli stranieri, uno l'Akeldamà del suicidio di Giuda. Avrebbe mai potuto questi infatti comprare un campo tanto grande da farci un cimitero pagano, solo per suicidarsi ? Evidentemente no. Ma come mai due campi hanno lo stesso toponimo? In verità, l'unico campo di sangue è quello del suicidio di Giuda, in quanto è di esso che Lc, tramite Pietro, dice che fu chiamato così dai Gerosolimitani, nel loro dialetto (segno che Pietro parlava in greco). Invece, Mt, riportando la dizione "campo di sangue", non dice che essa era stata forgiata dai gerosolimitani, ma solo che era in uso fino ai tempi suoi, evidentemente tra i cristiani. Furono essi a chiamare così il campo del vasaio, non riferendosi al suicidio di Giuda, ossia al sangue del traditore, ma alla morte di Cristo, il cui sangue era stato venduto per trenta denari, quella somma che non fu rimessa nel tesoro perché prezzo di sangue. Quest'espressione è greca, non aramaica o ebraica, perché di tutti i cristiani. Invece i gerosolimitani chiamarono campo del sangue il campo del suicidio riferito al sangue di Giuda e non di Cristo. Non potevano certo chiamare akeldamà il cimitero pagano !

Ma se i sacerdoti comprarono il campo del vasaio con i trenta denari, con che soldi Giuda comprò il suo campo ? Che Giuda abbia restituito i soldi ai sacerdoti è innegabile; d'altro canto, se non l'avesse fatto, e avesse comprato un campo con trenta argenti, ne avrebbe preso uno grandissimo, assolutamente spropositato per un suicidio. Inoltre, se avesse comprato un piccolo campo, dove sarebbero finiti gli altri soldi ? Infine, appare strano che uno, prima di suicidarsi, vada a comprare un campo, con tutti gli adempimenti burocratici connessi, ritardando così la morte. Non solo, ma che bisogno c'è di suicidarsi in un campo scosceso di proprietà privata ? Evidentemente, l'acquisto fu fatto prima della passione, con i proventi della disonestà di Giuda, che faceva la cresta sulla cassa - come dice Gv. Infatti, At parla dei proventi "tès adikìas", ossia dell'ingiustizia, intesa come indole, difetto stabile. Non dunque i trenta argenti, ma i soldi già rubati.

La riunione dei 120 non avvenne nel cenacolo, troppo piccolo per ospitarli tutti, ma in un altro luogo imprecisato, forse all'aperto, sicuramente non fuori Gerusalemme, perché Gesù aveva vietato di lasciarla. Forse fu sul Monte degli Ulivi.

L'espressione di 2, 1, "epì tò autò", nello stesso luogo, indica il Cenacolo, ossia il luogo solito delle riunioni dei XII e dei personaggi di 1, 13-14. Con la Pentecoste si chiude la pasqua, e infatti inizia un nuovo capitolo. Il brano 2, 1-13 è narrato, come quelli della Pasqua in Mt e Mc, in forma veloce: essa è introdotta dall'avverbio "improvvisamente" (àfno). Non descrive l'uscita dei XII all'aperto, ma la folla si raduna per sentirli. Non si dice cosa gli apostoli dicessero, ma si dà un elenco dei popoli presenti. Non si dice che i XII si fermarono e si sedettero, ma si afferma (v. 14) che ad un certo punto Pietro e gli altri si alzarono in piedi. Il discorso di Pietro è a mio giudizio autentico: si conservò probabilmente per stenografia o nella memoria, almeno a sommi capi. Lo dimostra il modo di citare la scrittura, a braccio (con inserzioni improprie nei versetti, come "in alto" o "in basso" nella citazione di Gioele), l'uso di incisi oratori, la cristologia assai arcaica (Gesù è più servo che Figlio di Dio) e la dizione impropria di patriarca attribuita a David, che non avrebbe avuto ragione di essere in un testo scritto se non era contenuta in una fonte preesistente e vincolante come il primo discorso del papa.

La visione di Saulo, che ne segnò la conversione, è senz'altro l'ultima grande visione del Risorto. Lc la descrive in tre occasioni diverse, dando particolari diversi per i suoi scopi (9, 1-29; 22, 3-21; 26, 9-20). In esse, Gesù è sentito improvvisamente da un gruppetto di persecutori e visto dal loro capo. Anche questa è un'esperienza parapsicologica psicanaliticamente inspiegabile, peraltro anche per via dell'accecamento di Paolo. Nella terza versione della visione, data da Paolo ai Romani, Gesù cita Euripide ("duro è per te recalcitrare contro il pungolo", skleròn soi pròs kèntra laktìzein), ma lo fa in ebraico.


Theorèin - Maggio 2004