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Anche San Paolo ci fornisce una documentazione storica relativa alla Resurrezione di Cristo, anche se non sotto forma di una narrazione. La tramanda nella Prima Lettera ai Corinzi, che la nuova critica data al 57. Il brano, secondo certa critica moderna, attesterebbe una tradizione kerygmatica diversa da quella dei angeli, in quanto le apparizioni ricordate sono pressochè sconosciute.
In realtà a mio avviso anche il concetto di kerygma andrebbe radicalmente ripensato, in quanto non ci fu una reale soluzione di continuità tra la predicazione di risto e la stesura dei Vangeli: le prime formule furono sunteggiate immediatamente, e i testi comparvero presto. Anche le divergenze tra i Vangeli sui temi cosiddetti kerygmatici sono la prova che essi erano assai più flessibili di quanto si creda, e che l'omileta-narratore kerygmatico poteva attingere a un repertorio di fatti più o meno vasto con una certa libertà. Diverso è il concetto catechetico, missionario di kerygma: lì per forza di cose l'annuncio della Morte e Resurrezione di Cristo era standardizzato e centrale. Ed è il kerygma di Paolo, che ammaestra tramite le lettere. Tuttavia le divergenze tra le apparizioni di Cristo indicate da Paolo e quelle dei Vangeli ci sono: kerygma o no, vanno motivate. L'apostolo delle Genti menziona le seguenti cristofanie: a Cefa, ai XII, a cinquecento discepoli in una volta, a Giacomo, ancora agli Apostoli, a lui stesso. Dove stanno le visioni della Maddalena, delle Donne, dei Due di Emmaus, di Tommaso, agli apostoli in Galilea ? Chiaramente, almeno l'Ascensione di Gesù non è in discussione perchè lo stesso Paolo enuncia la dottrina connessa all'evento suffragandola, in altri passi delle sue lettere, con citazioni bibliche. Andiamo per ordine: la prima apparizione è del 30-33, l'ultima del 34-36. Dunque il resoconto non è kerygmatico, almeno non nel senso tradizionale, che abbiamo contestato, in quanto abbraccia eventi che vanno dai due ai sei anni. Inoltre, il testo è costituito come un atto giuridico (v. 15, 1: "vi rendo noto.."; 15,3: "Vi ho trasmesso..e cioè.."), e in un atto giuridico, specie in ambiente semitico, la testimonianza delle donne non ha valore. E', per giunta, un testo precostituito, ossia Paolo lo trovò già bell'e fatto, poichè probabilmente era o una specie di Credo o - più plausibilmente - un memorandum catechistico, concepito come una testimonianza giuridica. Questo appare evidente dalle formule stilistiche, piane e ripetitive, che riecheggiano la Settanta, dei vv. 3b-8, diverse dal modo di scrivere di Paolo, complesso e tortuoso, ricco di incisi, che violenta la sintassi per sfogare il pensiero. Pertanto sono riportate apparizioni scelte da altri, e non dall'apostolo, nè dagli evangelisti, senza nessuna pretese di esaurire il racconto dei fatti di pasqua, ma di inserirli in un contesto che evidenzi che Cristo è vivo e perennemente accanto alla Chiesa e ai suoi capi. E' significativo infatti he i veggenti siano solo personaggi di spicco della prima comunità, e che i singoli siano ammassati in un anonimo gruppo di cinquecento testimoni di un'apparizione. Veniamo alla sostanza del racconto. Esso è impostato come dimostrazione della fondatezza del Vangelo annunziato da Paolo, e quindi della necessità di custodirlo inalterato, per poterne sortire gli effetti salvifici (vv. 15, 1-2). Dopo aver affermato che questo insegnamento è stato ricevuto da lui stesso che ora lo ripropone (v. 3a), Paolo asserisce che Cristo morì per i peccati dell'uomo adempiendo le Scritture, e che sempre conformemente ad esse fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, e che apparve a Pietro e ai XII apostoli (vv. 3b-5). Le due apparizioni a Pietro e ai XII sono strettamente connesse alla Morte, Sepoltura e Resurrezione di Gesù: esse avvengono subito dopo, come dimostra il fatto che le azioni del soggetto grammaticale, appunto il nome Cristo, sono descritte in quattro frasi legate per coordinazione all'interno di un unico periodo. Inoltre, le apparizioni sono legate strettamente tra loro dall'avverbio "quindi" (èita), quasi ad indicarne la stretta successione ed una sorta di propedeuticità. Si tratta dunque, senza ombra di dubbio, delle apparizioni cosiddette kerygmatiche, quelle cioè dei Vangeli, senza tuttavia le visioni senza significato delle Donne o dei Due di Emmaus. Essi infatti non sono stati costituiti da Cristo predicatori del vangelo come Pietro e gli Apostoli; di questi invece va dimostrata l'attendibilità e l'autorevolezza, che si fonda appunto sul fatto di aver visto Gesù. Dicendo che "apparve"(òfte), Paolo non esclude che Cristo sia apparso più volte sia a Pietro che ai XII. In questo senso, il verbo racchiude tutte le apparizioni fino all'Ascensione. Del resto, questa concisione si rintraccia pure in Mc e Mt: solo Lc parla dei quaranta giorni, ma narrando per esteso solo l'Ascensione, e Gv ne descrive solo due episodi. Inoltre l'idea connessa al termine òfte è più esatta se espressa come "essere visto" che come "apparire". Pietro e gli altri sono credibili perchè hanno visto. Cristo si è fatto vedere, ossia li ha scelti come testimoni privilegiati e quindi come predicatori privilegiati. E Paolo esaurisce il racconto del kerygma tradizionalmente inteso nel v. 5. Al v. 6, Paolo riprende il filo del racconto, spezzato dalla pausa logica, e dice che "in seguito" (èpeita), Gesù apparve a 500 fratelli tutti in una volta. Paolo ben comprende l'eccezionalità probatoria dell'evento, e infatti vi si dilunga enumerandone gli aspetti significativi: il numero dei veggenti, la simultaneità della visione degli stessi, e il fatto che molti di essi fossero ancora vivi. Proprio questo dimostra che l'elenco di tali visioni non è esauriente, ma probatorio, legato al loro significato. Tale visione è extrakerygmatica, successiva alla Pentecoste - prima della quale i cristiani erano circa centoventi, come dicono gli Atti - quando la Chiesa raggiunse le tremila unità. Le altre apparizioni sono prive di ogni problema ermeneutico: l'"èpeita" del v. 6 appare adesso investita di un nuovo significato, perchè dimostra che Gesù continuò ad apparire molto dopo la sua Ascensione, ed in modo ben più spettacolare. Lo stesso significato ha l'"inoltre" del v. 7, un altro èpeita, che introduce altre visioni che provano ulteriormente, di rincalzo, sia la Resurrezione che l'autorevolezza del magistero ecclesiastico. Ne sono infatti testimoni "Giacomo e quindi tutti gli apostoli"; probabilmente le due visioni furono propedeutiche l'una all'altra, come quelle del v. 5. I XII del v. 5 sono gli apostoli del v. 7, anche se si potrebbe supporre che al v. 7 "apostolo" sia termine valido anche per un gruppo più vasto di predicatori. Infine l'ultima apparizione è a Paolo stesso, l'aborto del v.8, magistralmente descritta negli Atti. Qualche piccolo ritocco fu apportato da Paolo al testo, al v. 6b e ai vv. 8-10, dove parla di sè con imbarazzo e stupore. Il valore storico delle apparizioni descritte è grandissimo: le visioni di gruppo ricordate sono inspiegabili per autosuggestione e confermano indirettamente quelle ai singoli. La visione di Paolo è quella di un ex-persecutore, non certo inconsciamente voglioso di conferme della veracità della fede che andava a perseguitare. Inoltre gli Atti ci confermano che coloro che accompagnavano Paolo sentivano la voce di Cristo, ma non lo vedevano. Del resto, la visione comportò la cecità del veggente. Tutti elementi ben lontani dal suffragarne l'origine isterica. Theorèin - Ottobre 2004 |