Mt inizia il suo racconto kerygmatico al cap. 26. Gesù, terminati i discorsi escatologici del cap. 25, annunzia ai suoi discepoli: “Oidate hoti meta duo ēmeras to paskha ghinetai, kai ho uiòs antrōpou paradidotai eis tò staurōthēnai. Fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell’Uomo sta per essere crocifisso.” Questa frase ci introduce al problema della cronologia della Settimana Santa. Anzitutto, sappiamo da Mt, Mc e Lc che Gesù fu crocifisso il giorno della Parasceve, ossia la vigilia della Pasqua. La Pasqua poi iniziava il 14 nisan col banchetto commemorativo, e proseguiva per sette giorni, durante i quali si mangiavano gli Azzimi . Mt, Mc e Lc ci dicono dunque che Gesù morì il 14 nisan. Ma Gv e Mc aggiungono che il 15 nisan di quell’anno fu di sabato, così sappiamo che Gesù è morto di venerdì, e di conseguenza che la Cena eucaristica fu fatta di giovedì. Poiché il 14 nisan cadde di venerdì il 30 e il 33 d.C., Gesù è morto in uno di questi anni.
Sulla base di quanto detto, possiamo formulare due ipotesi sul momento in cui Gesù profetizzò la sua morte (26,1): può essere stato il lunedì (11 nisan) se il v.2 va inteso in senso generale (e quindi l’espressione “etelesen pantas tous logous toutos, terminati tutti questi discorsi” va intesa in senso lato), o il mercoledì (12 nisan), se consideriamo il v.1 come termine di tutti i discorsi che Mt pone il lunedì in 21,18-25,46. Tuttavia il v. 17 dice che Gesù organizzò la Cena “tē de prōtē tōn azymōn, il Primo giorno degli Azzimi”, tanto che sembrerebbe che ci troviamo nel giorno 15. In realtà, la fitta narrazione seguente dimostra che la Passione avvenne lungo tutto il giorno successivo che fu, inequivocabilmente, la Parasceve (27, 62).
Dunque i sinottici, chiamando “Primo giorno degli azzimi” il 13 nisan, danno prova di un uso più largo. Non solo, ma anche che la Cena poteva essere anticipata al 13. Infatti, se fosse stato il solo Gesù a volere l’anticipazione, per festeggiare coi Suoi alla vigilia della morte, i discepoli avrebbero dovuto meravigliarsi di questa scelta, mentre dal v. 17 traspare che essi stessi chiesero al Maestro dove preparare, a dimostrazione di un uso comune del popolo giudaico. Diversamente, l’Evangelista non avrebbe mancato di segnalare una così significativa innovazione cultuale introdotta da Gesù. Né si può credere che questa anticipazione fosse abitudinaria tra i discepoli di Gesù, perché non abbiamo nessun elemento che lo suffraga.
Ma su che cosa si basava questa difformità dell’uso tra ebrei ed ebrei? Sul fatto che il calendario liturgico non era unico e che Gesù ne seguiva uno diverso da quello che anche noi oggi utilizziamo per ricostruire la sua ultima settimana; i sinottici seguirono quello del Maestro in parallelo a quello del Sinedrio, mentre Gv seguì solo quest’ultimo
(17).
Tuttavia i discepoli di Gesù dicono al Maestro: “Pou teleis hetoimasōmen soi faghein to paskha, Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua” il “Primo giorno degli Azzimi”. Dunque Gesù, quando profetizza in 26, 1-2, potrebbe riferirsi a questo giorno, giovedì, e non al venerdì. E’ ciò assolutamente certo se consideriamo che per gli Ebrei il giorno iniziava al Vespro. Dunque Gesù fa la sua cena il vespro del 13, ossia già nel 14, secondo la mentalità giudaica, e poco dopo viene consegnato (da Giuda) ai soldati del Sommo Sacerdote. In conseguenza di tutto ciò, la cronologia è questa: profezia l’11, Mercoledì 12 pasqua per Gesù e tradimento di Giuda; Giovedì 13 primo giorno degli Azzimi per Gesù, Venerdì 14 giorno di Passione, secondo degli Azzimi per Gesù ma Parasceve per il Sinedrio, Sabato 15 terzo degli Azzimi per Gesù e Pasqua sinedrita, Domenica 16 giorno di Resurrezione, quarto degli Azzimi per Gesù e Primo per il Sinedrio.
Vale la pena di rilevare che Gesù, adottando il calendario esseno, ha potuto simbolicamente anticipare il suo sacrificio, facendolo però coincidere fattivamente con la Pasqua farisaica, così da consegnare alla storia una coincidenza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento che ha fatto sì che il calendario ripudiato da Lui stesso divenisse il nostro riferimento cronologico dal Vangelo di Giovanni in poi. Credo che questa coincidenza fosse chiara a Gesù stesso, essendo egli consapevole del tradimento di Giuda, per cui il salto teologico fatto da Gv nella sua cronologia rispecchia il pensiero stesso del Maestro, ed è embrionalmente contenuto anche nei sinottici, quando devono per forza ricordare la Pasqua del Sinedrio.
Al v. 3, Mt descrive la congiura del Sinedrio; quell’avverbio “tote, allora” all’inizio del versetto contiene il segreto della collocazione cronologica del fatto all’interno della Settimana Santa. E’ probabile che i Sinedriti si riunirono già la sera del martedì, allarmati dalla diffusione della predicazione di Gesù e volendo pianificare in tempo le contromosse. Mt costruisce questo breve passo, 26, 1-5, dividendolo in due sezioni: 1-2 e 3-5. La prima descrive la profezia e la prescienza di Gesù, la seconda il loro compimento pressoché sincronico, indicato appunto dall’avverbio “tote, allora”. Infatti Mt annota che i Sinedriti non avevano pianificato che Gesù morisse durante la festa, come invece poi avvenne, cosicché appare assoluta la prescienza di Gesù stesso, il quale evidentemente sapeva come sarebbero andate le cose anche a dispetto delle intenzioni che avevano allora i suoi nemici. Infatti il v. 5, che narra la riserva del Sinedrio, è introdotto dall’avversativa “ de, ma”, che non ha nulla a cui contrapporsi se non alla profezia di Gesù, relativa al momento della sua cattura. Questa riserva cade dinanzi alla inopinata offerta di Giuda Iscariota (14-16), che chiede una ricompensa per consegnare il Maestro. Questa offerta, accettata dai Sinedriti, non si concretizza in un piano specifico, cosicché Giuda non fissò una data per la consegna, non conoscendo in anticipo tutti gli spostamenti di Gesù, ma cercò costantemente l’occasione propizia per consegnarlo, finchè non la trovò, nella notte tra il 13 e il 14 nisan.
Quando l’Iscariota si recò dai sacerdoti? Certo non il martedì, giorno della loro riunione, in cui non fece in tempo neppure a propalarsene la voce; e tuttavia neanche il giovedì, quando il traditore trascorse la giornata col Maestro e gli altri Apostoli, coinvolto nella solennità delle celebrazioni pasquali. Rimane dunque il mercoledì, come unico giorno utile. In base a ciò che dice Mt, Giuda non necessariamente sapeva della riunione del Sinedrio, ma secondo Gv i Sacerdoti avevano già fatto una sorta di ordinanza, con cui chiedevano a chiunque sapesse dove si trovasse, di denunziare Gesù
(18); a questa si deve dunque essere rifatto l’Iscariota per concepire il suo tradimento. Tuttavia questa ordinanza non ebbe ampio seguito, come registra sempre Gv
(19); ciò giustifica la circospezione e il timore della folla con cui il Sinedrio circondò la sua deliberazione definitiva, quella riferita da Mt, in cui stabilì il modus procedendi contro Gesù, e che dunque apparve all’Evangelista come l’unica degna di nota.
Ai vv. 6-13, sembrerebbe che Gesù si recò a Bethania il Mercoledì Santo, ossia il giorno della sua Pasqua, quella del calendario solare. Per cui l’episodio narrerebbe quanto accaduto nel convivio sacro del gruppo di Gesù. Questa ipotesi va però scartata, a causa dei vv. 8-9, dove si parla di alcuni discepoli che reagirono scandalizzati all’Unzione del capo di Gesù con olio prezioso. Ora, Gv 12, 1-11 ci informa che quelle voci di dissenso partirono da Giuda, che evidentemente era a Bethania durante lo svolgimento del banchetto e presumibilmente anche per tutta la giornata. (come dice Gv
20) col Maestro. Infatti il IV Vangelo dice che questo simposio avvenne sei giorni prima della Pasqua (ossia il Sabato che nel nostro calendario liturgico precede la Domenica delle Palme, in quanto Gv segue il calendario giudaico ufficiale).
Ma anche Mt, a mio avviso, suggerisce con qualche elemento che Gesù non andò a Bethania il Mercoledì Santo. Anzitutto l’espressione “tou ghenomenou en Bēthania, mentre si trovava a Bethania” sembra spezzare l’unità temporale del racconto e rimandare a un tempo evidentemente anteriore. Inoltre il racconto sembra rimandare ad un contesto noto al pubblico, come suppone la menzione di Simone il Lebbroso, indicato senza nessun altro elemento che ne chiarisca l’identità; ora, un simile dato rende ancor più possibile che Mt abbia spezzato la continuità cronologica, riferendosi a un episodio che, proprio perché noto, poteva essere inserito con facilità in ogni luogo narrativo e che veniva citato per il suo significato simbolico. Questo significato emerge prepotente dai vv.12-13: l’Unzione di Gesù è, per sua stessa ammissione, orientata alla sua sepoltura, a riprova che il Maestro sapeva qual era il suo destino sin da molto prima, e che anzi vi si era preparato anche da un punto di vista rituale. E la centralità di questo messaggio è ancor più evidente se si considera la povertà di altri dati che facciano di contorno all’Unzione del capo: non si dice perché Gesù fosse da Simone, né quando vi andò – né qui né altrove nel Vangelo – né chi fosse la donna che lo unse, né se accadde a pranzo o a cena. Si parla solo genericamente di “mensa”. L’atto dell’Unzione, gesto di cortesia per gli ospiti di riguardo, assume qui un significato diverso sia nell’intenzione di Gesù che – probabilmente – in quella della donna. Essa, che sicuramente non prevedeva la morte del Maestro, lo unse tuttavia per un affetto particolare. Infatti la donna avrebbe potuto crederlo soltanto se avesse avuto presenti le reiterate predizioni che Gesù aveva fatto della sua Passione, preconizzandola sempre per la Pasqua, ma questo contrasterebbe con l’atmosfera di generale ottimismo che regnava tra i discepoli di Gesù, inclini a vederlo come un trionfatore e che infatti o non comprendevano o si spaventavano quando lui parlava della sua futura morte. Del resto, non sappiamo neanche se la donna fosse a conoscenza di tali profezie, in quanto potrebbe anche non aver seguito Gesù nelle sue peregrinazioni o averlo seguito solo in parte, e si sarebbe così trovata a dipendere da eventuali racconti degli Apostoli, che a loro volta dovevano essere, come dicevo, scettici e confusi sull’argomento.
Da tutto ciò emerge che la menzione di Gesù a Bethania è funzionale al discorso sulla sua preparazione alla morte, e non riferisce ciò che accadde il Mercoledì santo
(21). In quanto al modo in cui l’episodio è menzionato, esso prova ancora una volta l’interdipendenza tra il Vangelo scritto e la conoscenza orale diffusa tra i fedeli, capaci d’inquadrare l’episodio a partire da un luogo (Bethania) e da un nome (Simone il Lebbroso). Chi fosse poi costui non sappiamo più dirlo. Certo faceva parte di quel gruppo di fedeli che Gesù aveva a Bethania e che “epoiesan oun autō deipnon ekei, gli fecero una cena”, come dice Gv
(22). Forse era imparentato con Marta e Maria, visto che la prima, secondo Gv
(23), serviva anche a tavola.
In quanto alla donna misteriosa che unse Gesù, e che Gv indica come Maria
(24), non viene identificata da Mt perché essa non era mai entrata nel suo Vangelo in precedenza. Certo la menzione del nome non avrebbe creato problemi ad un pubblico che conosceva Simone il Lebbroso, ma – di converso – proprio la citazione del padrone di casa non rendeva necessari ulteriori precisazioni sui protagonisti della vicenda di Bethania.
Di questa donna Mt dice che cosparse con olio il capo di Gesù
(25), mentre Gv parla di una Unzione dei piedi, asciugati con i capelli
(26). In realtà le due pratiche non sono incompossibili: come disse Pietro a Gesù che gli lavava i piedi: “Kyrie, me tous podas mou, monon allà tas kheiras kai tēn kefalēn, Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!
(27)”, così tutti gli Ebrei non potevano considerare l’Unzione se non come un tutt’uno. E’ perfettamente plausibile che l’Unzione di Bethania fu su tutte o almeno alcune delle parti scoperte del corpo di Gesù, mentre automaticamente le gocce dell’unguento, dal capo, scorrevano sui suoi vestiti. Solo così si può giustificare la risposta di Gesù: “Pros to entafiasai me epoiēsen, Lo ha fatto in vista della mia sepoltura
(28)”. Infatti per la sepoltura i cadaveri erano completamente cosparsi d’olio. Mt, indicando l’atto del versare l’olio sul capo di Gesù, suppone, come conseguenza del colare delle gocce, l’omogenea unzione del suo corpo. Gv, più precisamente, ricorda l’unzione dei piedi, volendo mettere in evidenza la squisitezza del gesto di umiltà e amore. E’ ovvio che la donna abbia semplicemente versato l’olio sul capo di Gesù senza cospargerglielo se non sui piedi, in segno di umiltà innanzi a lui.
Perché Mt dice genericamente che i discepoli s’indignarono e Gv specifica che fu Giuda? Probabilmente l’Iscariota fu il primo a scandalizzarsi, e i suoi commenti furono condivisi da altri presenti. Oppure il primo evangelista nasconde Giuda dietro una generica pluralità di soggetti.
Il v.17 riprende il filo del racconto del v.2 e riferisce sommariamente i preparativi per la Pasqua. Problematica è la risposta di Gesù: “Hypaghete eis tēn polin pros ton deina kai eipate autō: ho didaskalos leghei: ho kairos mou engyse estin: pros se poiō to paskha meta tōn matētōn mou; Andate in città, da un tale, e ditegli: Il Maestro ti manda a dire: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te coi miei discepoli.” Anzitutto, arguiamo che Gesù era fuori città, forse sul Monte degli Ulivi, dove trascorreva la notte, come dice Lc e come suggerisce anche Mt per la domenica delle Palme (21, 17). Da questo momento la descrizione del Giovedì Santo prosegue mediante la rilevazione di alcuni momenti di rilievo. Anzitutto, proprio l’organizzazione della Cena. Quel “tale” è sicuramente tradotto male da un punto di vista concettuale: s’intende per uno qualsiasi e non per uno specifico. Gesù praticamente dice ai discepoli di rivolgersi a una persona qualsiasi, che immancabilmente sarà la persona giusta. Questo coincide con la preparazione miracolosa minutamente descritta in Mc e Lc
(29).
Il racconto dell’Ultima Cena va dai vv.17-35. Sono suddivisibili in quattro gruppi: vv. 17-19, 20-25, 26-29, 30-35. Il primo gruppo riguarda l’organizzazione della Cena, il secondo l’annunzio del tradimento, il terzo l’istituzione dell’Eucarestia, il quarto la profezia del rinnegamento di Pietro. Sono quattro momenti assai significativi ma che, evidentemente, non esauriscono tutto quanto avvenne. Basta evidenziare i versetti di connessione. Tra l’organizzazione del banchetto e l’episodio dell’annunzio del tradimento il v.20 annunzia laconicamente: “Opsias de ghenomenēs anekeito meta tōn dōdeka, Venuta la sera si mise a mensa coi Dodici.” In quanto all’annuncio stesso del tradimento, esso avviene “mentre mangiavano” (v. 21 a), senza ulteriore specificazione. Tra questo episodio e quello dell’istituzione dell’Eucarestia, l’unico trapasso è un dè e la collocazione temporale “esthiontōn de autōn, mentre mangiavano” (v. 26 a). Infine, il trapasso da questo momento alla profezia del rinnegamento è dato dalla locuzione: “Kai hymnēsantes exēlthon eis tò oros tōn Elaiōn, E dopo aver cantato l’inno uscirono verso il Monte degli Ulivi” (v. 30). Evidentemente il canto dell’inno (i Salmi 114-117) rimanda alla fine del rito. Cosicché noi conosciamo i punti salienti della Cena, ossia tutti quelli orientati al mistero imminente della Passione, ma tutto ciò che potrebbe essere accaduto d’altro è dimenticato da Mt. E’ una dimenticanza volontaria, in quanto serve a presentare la Cena come un fatto kerygmatico, ossia strettamente connesso alla Passione e Morte di Gesù. Questo aspetto, se è assolutamente evidente nei casi dell’annunzio del tradimento di Giuda (senza il quale Gesù non sarebbe stato arrestato) e dal rinnegamento di Pietro (parte integrante delle sofferenze inflitte al Cristo), appare segnalato, negli altri due episodi, da Gesù medesimo, le cui parole servono a mostrare il significato dell’Eucarestia in relazione al suo sacrificio (vv.26 d –28) e la natura reale della Cena che, con i suoi stessi preparativi, è una sorta di prologo dell’immolazione del Salvatore (v. 18 b). Su tutto domina la soprannaturale prescienza di Gesù, che determina gli eventi distinguendoli in anticipo, li carica di un significato nuovo e li subisce spontaneamente (vv. 18.21.23-25.26 c. 29.31-32.34). Gli apostoli non comprendono che queste parole si riferiscono ad un futuro imminente, come attestano le loro reazioni: nessun commento all’emblematica frase: “ho kairos mou engyse estin, Il mio tempo è vicino” (v.18 b), probabilmente intesa come annunzio del suo arrivo nella casa scelta per la Cena; un silenzioso stupore dinanzi alla rivelazione del traditore, tanto che l’Evangelista non può registrare alcuna parola al di fuori di quella di Gesù che conclude il v. 25; una protesta superficiale di fedeltà (vv. 33.35 b) che mal si accorda con quello che succederà al momento dell’arresto.
A questa schematicità e a questa passività degli Apostoli – rotta solo dalle loro costernate domande su chi fosse il traditore (v.22) – fa da pendant la sistematica esclusione che l’Evangelista fa dei particolari minori: non indica per esempio cosa fece Giuda dopo essere stato smascherato, e lo fa uscire di scena, per poi farlo rientrare al v. 47, senza spiegare quando egli avesse chiamato le guardie del Sinedrio, se allontanandosi dal convivio (come ci dirà Gv) o dal Gethsemani.
Come mai gli Apostoli e Giuda stesso non reagiscono alla profezia del tradimento ? Evidentemente i primi pensavano che l’evento non fosse prossimo, mentre il secondo deve averlo inteso come un sospetto su di lui, e non come una divina conoscenza del suo infame operato. Questo episodio cade durante le prime portate, come suggerisce quel “esthiontōn de autōn, mentre mangiavano”, messo subito dopo aver indicato che Gesù e i Dodici si misero a mensa.
In quanto all’Eucarestia, è istituita nel cuore della Cena. L’espressione: “labete faghete: touto estin to sōma mou, Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo” non può assolutamente essere intesa metaforicamente. Ancora più categorico il messaggio che accompagna la distribuzione del calice: “Touto gar estin to aima mou tēs diathēkēs to peri pollōn enkhynnomenon eis afesin hamartiōn, Questo è il mio Sangue dell’Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati”. L’espressione “to aima mou tēs diathēkēs il mio Sangue dell’Alleanza” ricorda i riti cruenti con cui si era conclusa l’Alleanza del Vecchio Testamento. Gesù indica nel calice non il suo Sangue in genere, ma quello dell’alleanza, ossia il Sangue nell’atto della stipulazione dell’Alleanza, nella sua funzione salvatrice: è il Sangue con cui Gesù conclude la nuova alleanza, diverso da quello usato da Mosè. Esso infatti è “eis afesin hamartiōn in remissione dei peccati”, ed è “enkhynnomenon versato”. Ora, il Sangue nel calice non fu versato, dunque Gesù si riferisce allo spargimento sulla Croce, quindi il Sangue nel calice è il Sangue versato sulla Croce, ossia è il rinnovamento incruento del Sacrificio del Redentore e, in questo caso, la sua anticipazione. Esso è versato per “peri pollōn molti”, inteso come moltitudine, come i molti uomini che vivono, che vivranno e sono vissuti, per indicare la straordinaria efficacia della Redenzione. Non vi è una destinazione esclusiva del Sangue, altrimenti Gesù non lo avrebbe fatto bere a tutti i presenti (compreso il traditore, almeno secondo una interpretazione letterale del testo), inaugurando un rito che la sua Chiesa avrebbe indistintamente esteso a tutti i suoi adepti. Il v. 29 è giocato sulla contrapposizione tra “touto to ghenēma tēs ampelou, questo frutto della vite” e quello “kainon, nuovo” del “Basileia tou Patros, Regno del Padre”: Gesù annunzia che nel suo dominio escatologico il vino sarà rinnovato. Cristo, concludendo l’Alleanza nuova, si manifesta implicitamente ai suoi come Dio, che concluse l’Alleanza Antica. Tuttavia, aspergendo spiritualmente i suoi col suo Sangue, si mostra anche come Mediatore umano: appare dunque la sua consapevolezza di essere Uomo e Dio. E’ significativo che Gesù, istituendo l’Eucarestia, la metta in correlazione con l’inaugurazione del Regno dei Cieli: fino ad allora ci saranno questo pane e questo vino, e quindi questo sacramento. Dopo, col suo ritorno, non ci sarà più bisogno di sacramenti. In un certo qual senso, tra le righe, Gesù suggerisce che la sua stessa parousia è anticipata nell’eucarestia, o meglio anticipata e preparata. E’ anche molto significativo che Gesù non sembra mangiare né bere il pane e il vino: infatti l’Evangelista dice che “labōn arton..eklasen kai dous tois mathētais eipen, prese il pane..lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo..”, “labōn potērion..edōken autois legōn, prese il calice..lo diede loro dicendo..”. Gesù commenta in modo più particolareggiato il gesto della consacrazione del vino perché essa rende presente il Sangue sparso, senza la cui libagione il Corpo non sarebbe vera vittima. L’espressione “euloghēsas pronunziata la benedizione” dimostra che c’era una benedizione specifica eucaristica che da Gesù era passata agli Apostoli. Certo non era la tradizionale benedizione giudaica, perché tutto il rito è stato cambiato da Cristo. L’espressione “eukharistēsas dopo aver reso grazie” rimanda al significato del sacramento, che infatti fu chiamato “Eucaristia”, ossia atto di grazie nei confronti di Dio. E’ dunque una seconda parte della consacrazione.
Quando al v. 30 si dice “exēlthon eis tò oros tōn Elaiōn, uscirono verso il Monte degli Ulivi”, sembrerebbe che la conversazione dei vv. successivi si sia svolta per strada, ma non è necessariamente vero. Potrebbe trattarsi infatti di un aoristo ingressivo, indicante l’inizio dell’azione dell’uscire. Movendosi nel Cenacolo, Gesù avrebbe avuto ancora tutto il tempo di discutere coi suoi discepoli senza essere ancora per strada. In senso ancora più ampio, il v. 30 potrebbe indicare la fine del banchetto, e l’”allora, tote” del v. 31 potrebbe rimandare a questo momento, prima di essere un riferimento specifico all’istante dell’uscita.
Al v. 32 Gesù ricorda che dopo la sua Morte egli risorgerà. E’ l’ultima predizione che Gesù fa dell’evento. L’annunzio “proaxō hymas eis tēn Galilaian, vi precederò in Galilea” sarà ricordato dopo la Resurrezione ai vv. 7 e 10 del cap. 28.
Gli apostoli, che tuttavia non hanno mai capito le profezie di Gesù sulla sua Passione, Morte e Resurrezione, non vi prestano molta attenzione, né valutano con la dovuta serietà l’annunzio dello scandalo che avrebbero patito quella notte stessa, come attestano le loro avventate risposte, largamente smentite dai comportamenti successivi.
16
La pasqua giudaica (pésah) si celebra nel mese chiamato Nisan (metà marzo - metà aprile), la sera del 14, che era considerato l’inizio del 15. Fin dalla sera del 13 di Nisan il capofamiglia doveva rovistare in tutti gli angoli della casa per eliminare ogni derrata fermentata, entro l’ora sesta (mezzogiorno) del 14 di Nisan. Nel pomeriggio di quel giorno nel Tempio avveniva l’immolazione degli agnelli portati da ogni capofamiglia, con tale affluenza che l’atrio non era sufficiente a contenerla, per cui si facevano tre turni d’accesso, e negli intervalli tra di essi le porte restavano chiuse. Il sangue delle vittime era sparso dai sacerdoti sull’altare degli olocausti, e dopo la preparazione rituale l’agnello veniva portato a casa per essere consumato la sera dopo il tramonto. Il pasto cominciava con la benedizione dì una coppa di vino presentata a colui che presiedeva (rito ricordato da Lc nel corso dell’Ultima Cena), quindi si recavano a tavola pani azzimi, erbe amare e una salsa in cui intingerle – in cui Gesù probabilmente intinse il boccone per Giuda Iscariota. Dopo aver riempito la seconda coppa, c’era la domanda convenzionale del fanciullo: “In che cosa questa notte differisce da tutte le altre?”, a cui il padre di famiglia o il presiedente rispondeva evocando i benefici di Dio verso Israele al tempo della liberazione dall’Egitto. Poi veniva presentata la vittima pasquale arrostita sul fuoco, che si mangiava senza spezzarne le ossa (Es. 12,46), con gli azzimi e le erbe amare, mentre si bevevo dalla seconda coppa e si recitava la prima parte dell’Hallel (inno costituito dai salmi 113-118). L’inizio del banchetto vero e proprio era una benedizione come rendimento di grazie e la lavanda delle mani (a cui fece riferimento Pietro quando chiese a Gesù di non lavargli solo i piedi). Si mesceva quindi la terza coppa, ed il tutto si concludeva con la recita dell’ultima parte dell’Hallel, seguita dalla quarta coppa (è proprio dopo aver cantato l’inno che Gesù e gli apostoli uscirono verso il Monte degli Ulivi). Il tutto avveniva proclamando salmi e letture bibliche, in famiglie o gruppi di almeno dieci persone (descrizione del rito nella Mishnah, trattato Pesahim X). Il giorno successivo, il 15, iniziava la Settimana degli Azzimi (massôt), dal 15 al 21, nella quale non si consumava pane lievitato, e in cui si offrivano le primizie del raccolto. La festa degli azzimi nacque come agricola, collegata con un pellegrinaggio al santuario locale; con la sedentarizzazione d’Israele le due feste vennero in pratica identificate. Di fatto, quindi, in epoca neotestamentaria si trattava da tempo di un’unica solennità che si protraeva per un’intera settimana, chiamata indifferentemente Pasqua o Azzimi. (Cfr. A.NICOLOTTI, Le istituzioni giudaiche, consultabile on –line sul sito www.christianismus.it.)
17
Le soluzioni che gli antichi adottarono per la misurazione dell’anno, furono differenti. Per esempio
gli Egiziani stabilirono un calendario solare, con un anno di 365 giorni (12
mesi di 30 giorni, più 5 giorni supplementari). Essendo tuttavia l’anno tropico
di 365 giorni, 5 ore 48 minuti e 46 secondi, si accumulò un errore che aumentò
ogni anno, a cui però le successive correzioni di Giulio Cesare (calendario
giuliano) e di papa Gregorio XIII (calendario gregoriano) diedero temporanea
stabilità, permettendo a tale calendario di essere il più utilizzato nel mondo.
I Babilonesi, rifacendosi ai Sumeri, si servirono invece del movimento lunare, che misura 29,530588 giorni, per cui si avevano mesi alternativamente di 29 (mesi difettivi) o 30 giorni (mesi pieni). Già però dal III millennio a.C., i popoli mesopotamici cercarono di armonizzare il calendario lunare con quello solare, introducendo insieme agli anni lunari di dodici mesi e 354 giorni (con un ritardo di 11 giorni l’anno), altri anni di tredici mesi, detti embolismali, di 384 giorni, forse ordinariamente inseriti ogni tre anni. In tal modo, i due calendari potevano procedere in modo pressoché parallelo, con un allineamento che poteva verificarsi ogni 30 anni. Il calendario giudaico ufficiale, lunisolare come il babilonese, ne ereditò le difficoltà, per il fatto che non era fisso, e quindi aveva un certo numero di variabili, e perciò dovette ricorrere a dei correttivi. I mesi, mutuati da Babilonia, (Nisan, Iyyar, Silvan, Tammuz, Ab, Elul, Tishri, Mareshvan, Kislev, Tebet, Shevat e Adar) iniziavano quando appariva la luna nuova. Il calendario lunisolare tuttora in uso fu elaborato dai Talmudisti definitivamente tra l’VIII e il X sec. d. C. La determinazione calendariale spettava al sinedrio, che fissava anche gli anni embolismali, all’incirca ogni tre anni, il cui mese intercalare aggiunto alla fine (II Adar), durava 29 o 30 giorni, con una scelta fatta di volta in volta – per cui ogni diciannove anni si avevano sei mesi intercalari. L’anno iniziava il primo giorno della settimana, ritenuto il giorno della creazione, e la Pasqua cadeva il 15 di Nisan, in cui appariva la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera. Questo calendario era il più diffuso tra gli Ebrei della madrepatria e della Diaspora, ma in Palestina si faceva uso anche di un altro calendario liturgico solare. Può darsi che esso derivasse da un calendario solare babilonese di 364 giorni, che sostituì un altro calendario solare precedente di 360 giorni a partire dal III sec. a.C. - come pare suggerire il Libro dell’Astronomia (82,4-6) – Probabilmente quindi l’antico Israele conosceva il calendario solare, come si deduce da alcune indicazioni veterotestamentarie di origine sacerdotale, e poi lo sostituì col lunisolare all’epoca di Neemia. L’esistenza di questo secondo calendario è nota dal Libro dei Giubilei (ca 125 a.C.) e dall’Enoch etiopico, e la sua diffusione ancora ai tempi di Gesù, è stata confermata dal rinvenimento nella grotta IV di Qumràn di alcune tavole di concordanza tra i due calendari, allo scopo di calcolare i turni di servizio sacerdotale: si tratta di frammenti che rappresentano il pensiero di una setta che si opponeva al culto del Tempio, secondo loro celebrato da sacerdoti indegni (non sadociti) e con un calendario sbagliato, quello appunto lunisolare. Il primo giorno di questo calendario era un mercoledì, giorno di creazione degli astri. Esso era costituito da 8 mesi di 30 giorni e da 4 di 31, il che dava un anno di 364 giorni in 52 settimane esatte, facendo così cadere le feste sempre lo stesso giorno della settimana: i Tabernacoli, i primi del mese di Nisan e Tishri nonchè la Pasqua di mercoledì (celebrati dal martedì sera), la Pentecoste di domenica, l’Espiazione il venerdì. Gli Esseni di Qumràn usavano il calendario ufficiale lunisolare per gli affari quotidiani, ma per il servizio liturgico ammettevano solo quello solare descritto dal Libro dei Giubilei. Gli studi di padre Milik e della Jaubert hanno mostrato l’identità tra questo calendario esseno e quello già conosciuto dei Giubilei. Cfr. NICOLOTTI, Le istituzioni cit.; J. VERNET, Calendario giudaico, e J. CARRERAS, Calendario di Qumràn, in A. ROLLA – F. ARDUSSO – G. MAROCCO – G. GHIBERTI (a cura di), Enciclopedia della Bibbia, Torino 1969, vol. II, coll. 32-38 ; J. T. MILIK, Le travail d’edition des manuscrits du désert de Juda, in Volume du Congrès de Strasbourg 1956, Leiden 1957, pp. 24-26 ; A. JAUBERT, Le calendrier des Jubilés et de la secte de Qumràn, ses origines bibliques, in «Vetus Testamentum» 3 (1953), pp. 250-264 ; C. MARTONE, Un calendario proveniente da Qumràn recentemente pubblicato, in «Henoch» 16 (1994), pp. 49-76; ID., Calendari e turni sacerdotali a Qumràn, in F. ISRAEL - A. M. RABELLO - A. M. SOMEKH (a cura di), Hebraica. Miscellanea di studi in onore di Sergio J. Sierra per il suo 75° compleanno, Torino 1998, pp. 325-356. In merito poi a Gesù e ai suoi usi calendariali, Scrive sagacemente Paolo Sacchi ne La formazione di Gesù, in «Henoch» 14 (1992), pp. 243-260: “Secondo tutti e tre i sinottici Gesù celebrò la Pasqua prima che la si celebrasse in Gerusalemme. Quella festa importante che i tre sinottici fanno cadere nel sabato successivo alla morte di Gesù, Giovanni la chiama esplicitamente Pasqua, cosa che gli permette di sviluppare il teologumeno di Gesù agnello che muore insieme agli agnelli pasquali. Naturalmente Giovanni non dice che Gesù aveva già celebrato la sua Pasqua: Gesù aveva solo fatto «la Cena». Questa contraddizione aveva sempre molestato i critici. Credo che la soluzione prospettata dalla Jaubert e, nonostante le critiche, riconfermata più volte, sia della massima evidenza che Gesù non seguiva il calendario dei Farisei, ma ne seguiva un altro. Ora, questa presenza di due calendari liturgici diversi al tempo di Gesù è certa. Da una parte si seguiva il più antico calendario solare; da un'altra il calendario lunisolare proprio già da tempo dell'amministrazione di Giuda, perché era il calendario di tutti i popoli circonvicini. Il calendario lunisolare, che esisteva in Gerusalemme almeno dal tempo di Menelao, fu introdotto nella liturgia verso la fine del I sec. a.C., secondo un passo più volte riportato nelle scritture rabbiniche e che narra come ci si rivolse a Hillel (il vecchio) per risolvere il problema, se era più forte la legge del sabato o quella della Pasqua, «perché si era dimenticata la norma». Poiché la Pasqua cade di sabato con discreta frequenza, è assolutamente impensabile che nessuno si ricordasse più come ci si comportava in passato. In realtà ci volle una decisione normativa solo in quanto era un caso che prima non era mai capitato nel tempio. Questo fenomeno del doppio calendario lascia intravedere una società che, sul piano religioso, doveva essere in qualche modo spaccata in due: coloro che seguivano l'innovazione liturgica dei farisei e coloro che non la seguivano”. Cfr. JAUBERT A., La date de la Cène, Paris 1957; ID., Jésus et le calendrier de Qumran, in "New Testament Studies" 7 (1960-61), pp. 1-30; ID., Le mercredi où Jésus fut livré, in "New Testament Studies" 14 (1968), pp. 145-164; MODA A., La date de la cène; sur la thèse de M.lle Annie Jaubert, in "Nicolaus" 3 (1975), pp. 53-116; VANDERKAM J.C., The Origin, Character and Early History of the 364-Day Calendar: A Reassessment of Jaubert' Hypothesis, in "Catholical Biblical Quarterly" 41 (1979), pp. 390-411, BECKWITH R.T., The Earliest Enoch Literature and its Calendar; Marks of their Origin, Date and Motivation, in "Revue de Qumran" 10 (1981), pp. 365-403; CRYER F.H., The 360-Day Calendar Year and Early Judaic Sectarianism, in "Scandinavian Journal of Old Testament" 1 (1987), pp. 116-122; DAVIES P., Calendrical Change and Qumran Origins: An Assessment of VanderKam's Theory, in "Catholical Biblical Quarterly" 45 (1983), pp. 80-89; SACCHI P., Testi palestinesi anteriori al 200 a.C, in "Rivista Biblica" 34 (1986), pp. 183-204; VANDERKAM J.C., 2 Maccabees 6, 7a and Calendrical Change in Jerusalem, in "Journal for the Study of Judaism" 12 (1981), pp. 52-74; VANDERKAM J.C., The 364-Day Calendar in the Enochic Literature, in Soc. Bibl. Lit. Sem. Papers 22 (1983), pp. 157-165; MANNS F., Pour lire la mishna, Jerusalem 1984, pp. 50-51.
18 Cfr. Gv 11, 57. Cfr. anche 11, 45-54; 12, 9-11 e come presupposto di un atteggiamento sempre più ostile, 9, 22-23.
19 Cfr. Gv 12, 12-19.
20 Cfr. Gv 12, 1.
21 Quanto detto suppone però che l’Evangelista, sebbene seguisse il calendario solare per la liturgia, conservando l’uso che era stato di Gesù stesso, non abbia ritenuto di dover narrare alcunché sulla sua ultima Pasqua cultuale. Se si conoscesse solo la triade sinottica, alla luce delle scoperte sui calendari dell’epoca, potremmo credere senza dubbi che il convito di Bethania sia stato pasquale. Ma l’integrazione di Gv lo esclude. Probabilmente Gv diede indicazioni cronologiche proprio per evitare l’equivoco. In subordine rimangono due ipotesi, assai meno probabili: che Gv abbia retrodatato l’episodio per sganciarlo dal calendario solare e allinearlo agli eventi della Pasqua sinedrita, legata al sacrificio cruento di Gesù e quindi alla Pasqua cristianamente intesa – ma questa operazione, più che essere letteraria, sarebbe sostanzialmente falsificatoria, data la precisione della cronologia giovannea – o che l’episodio dei Sinottici e quello di Gv, sebbene entrambi ambientati a Bethania, siano differenti e quindi ripetutisi nel tempo. Ciò potrebbe anche essere possibile per elementi come il convivio, l’unzione e persino le critiche dei discepoli, ma appare francamente difficile per la giustificazione datane da Gesù, che due volte avrebbe preteso di essere unto per la sepoltura. Se però questa differenziazione fosse possibile, allora i Sinottici avrebbero raccontato qualcosa per la Pasqua celebrata da Gesù, che invece allo stato attuale è occupata, come vedremo, solo dal tradimento di Giuda.
22 12,2 a.
23 12, 2 b.
24 12, 3 a.
25 26, 7.
26 12, 3 b c.
27 13, 9.
28 26, 12 b.
29
Con chiunque si possa identificare questo “tale”, evidentemente seguiva anche lui il calendario solare degli Esseni e di Gesù. Forse dunque il Cenacolo altro non era in origine che una sorta di locanda essena.
30 Cfr. SIBILIO, La Resurrezione di Gesù, pp. 3 ss.
31 Pensiamo al midrash della Genesi 1QLamech e al midrash escatologico di 11QMelch.
32 Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII / 2, 2006.
Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII / 2, 2006.
33 Enoc conobbe tutta la struttura celeste (LA, in 1H, 72-82), i movimenti degli astri e la natura dei venti, perché ha percorso tutto il Cielo; conobbe dunque il vero calendario (secondo la Bibbia visse 365 anni) ed era riconosciuto come il fondatore dell'astronomia da tutti, anche da coloro che appartenevano a quella parte del giudaismo, da cui sono derivati i testi diventati canonici. Fu anche il primo che fece un viaggio agli inferi (1H [LV], 22), dove visitò all'estremo occidente il luogo in cui stanno le anime dei defunti, già giudicate singolarmente e in attesa del Grande Giudizio collettivo e finale, i buoni separati dai malvagi. In quanto a Melchisedec, dal fr.11QMelch abbiamo scoperto –poco in verità – una dottrina che attribuiva a questo personaggio una funzione mediativa di tipo apocalittico-escatologico. Considerando che la Lettera agli Ebrei sviluppa una comparazione tra Gesù e Melchisedec, è probabile che anche Melchisedec avesse compiuto, nel suo ciclo agiografico non pervenutoci, un viaggio agli Inferi.
Theorèin - Luglio 2006 |