A questo punto s’impone una pausa, per riflettere su quale possa essere la sostanza storica degli eventi narrati da Mt fino ad ora. Se la datazione dei testi, su cui mi sono ampiamente diffuso altrove
(30), esclude l’elaborazione leggendaria o mitica dei fatti, ci si può domandare se può esserci stata qualche alterazione volontaria, se non a scopo falsificatorio, almeno con l’intento di forgiare un teologumeno. Sotto accusa non tanto la congiura del Sinedrio, il tradimento di Giuda o la Santa Cena, quanto piuttosto la capacità divinatoria del Cristo, sempre a conoscenza dei maneggi dei suoi nemici e consapevole dell’imminenza della sua Morte, da lui accettata a scopo sacrificale.
La prima prova che si può addurre per dimostrare che realmente Gesù sapeva e voleva ogni cosa che gli sarebbe accaduta è sicuramente la sua stessa Resurrezione, la cui veridicità storica penso non abbia bisogno, almeno da parte mia, di ulteriori dimostrazioni. In relazione poi alla questione dei possibili teologumeni, che trasformino la fisionomia dei passi biblici da storica ad allegorico-teologica, rilevo quanto segue. Anzitutto distinguiamo una doppia prescienza di Gesù: una relativa a persone del Collegio apostolico (Pietro e Giuda) e una relativa al compimento generico del suo Sacrificio, collegato alla realizzazione di eventi specifici dal significato soprannaturale (la miracolosa preparazione della Pasqua e l’istituzione dell’Eucarestia). A parte sta la profezia incipitaria del cap. 26 sulla Passione e la Morte. Prendendo le mosse dalla prescienza che Gesù ha del tradimento esplicito di Pietro e di quello tacito dei XII, bisogna pur dire che per una comunità religiosa attribuire al proprio fondatore la consapevolezza in anticipo del rinnegamento di cui sarà oggetto è il metodo migliore per salvaguardarne la signoria sugli eventi e non farlo comparire come vittima delle circostanze. E tuttavia quando questa prescienza dovrebbe essere stata inventata Gesù era già morto da tempo. Posta la premessa che poi Egli sarebbe necessariamente risorto e apparso ai XII, perché altrimenti non si spiegherebbe la loro conversione, bisognerebbe chiedersi perché avrebbero essi stessi inventato la notizia che Cristo stesso avesse conosciuto il loro rinnegamento in anticipo. Da questa fola infatti ne sarebbero usciti ancor più screditati di quanto non fossero per il semplice fatto di aver tradito. Che essi infatti lo avessero fatto era fuori dubbio, essendo stata tutta Gerusalemme testimone della solitaria morte di Gesù. E quanto più si abbassa la data di composizione dei Vangeli – ossia se si parte da presupposti filologici diversi dai miei – tanto più è necessario che il racconto del tradimento, che pesa come un macigno sulle origini della Chiesa, risulti fondato su una tradizione storica che abbia obbligato gli scribi della seconda generazione cristiana a mettere per iscritto questa imbarazzante verità. Ora, appurata la storicità del tradimento, noi non possiamo non rilevare che il breve dialogo tra Gesù e i XII ai vv. 31-35 fa apparire questi ultimi come grossolani millantatori, così da aggravare la loro posizione: non più traditori occasionali, ma uomini che, invece di prendere sul serio i richiami di Gesù e le sue precise profezie (v. 31), gli mentono addirittura, contraddicendolo (vv. 33-35) con la professione di una fedeltà immaginaria. Teniamo presente la situazione generale della Chiesa tra il 40 e il 60, termini a quo e ante quem della tradizione mattana: Pietro governa da Roma e gli altri apostoli svolgono svariate missioni ai quattro angoli del mondo. Sulla loro parola e sulla loro autorevolezza si fonda la nuova fede, e in quella che è la prima biografia autorizzata di Gesù scritta da uno dei XII, si legge una pagina che è più di un atto di accusa nei confronti degli Apostoli: è una demolizione della loro credibilità. La considerazione qui esposta non muta se riferita ad un quadro politico-ecclesiastico più tardo, presumibilmente dopo il 70 e fino al 90 addirittura: la Chiesa è percorsa dai contrasti tra paolinisti e giudeo-cristiani, mentre sorgono gli gnostici. Il fronte ufficiale dei successori degli Apostoli è schierato per la Divinità di Cristo e per la suo Mediazione. I Vangeli, che stanno uscendo uno dopo l’altro, accreditano questa posizione basandosi sull’autorità degli Apostoli stessi. Ebbene, nel bel mezzo di queste dispute, su un vangelo “ufficiale”, la credibilità degli Apostoli, al cui insegnamento ci si vuole rifare (l’autore dello stesso testo sarebbe o si spaccerebbe per uno di loro), viene oltraggiosamente privata di ogni fondamento nel momento più solenne della vita di Cristo, attraverso un espediente letterario – quello della prescienza divina – che serve solo a denigrare maggiormente i XII, senza – si badi – contribuire in alcun modo alla soluzione della disputa teologica, in quanto le profezie di Gesù ai vv. 31-35 né attestano né smentiscono in senso stretto la divinità e la mediazione di Cristo, anzi la citazione di Zaccaria 13, 7, in cui il soggetto è Dio stesso, sembra creare uno iato tra Gesù, il pastore, e Dio medesimo, che lo percuote. In tal modo, non appare esserci nessuna ragione per credere che qualcuno abbia inventato la prescienza di Gesù descritta in questo brano. Gli oltranzisti di certa critica neotestamentaria potrebbero supporre una interpolazione, ma le caratteristiche stilistiche del brano sono conformi a quelle del resto del Vangelo: si tratta di un piccolo midrash costruito attorno a Zc 13,7, come ce ne sono tantissimi nel testo di Mt, e la costruzione di esso è organica a quella del racconto kerygmatico; vi è infatti la menzione dell’apparizione in Galilea dopo la Resurrezione, con una profezia fondamentale per lo sviluppo narrativo nell’ultimo capitolo del Vangelo.
In merito poi alla conoscenza dell’identità del traditore da parte di Gesù , si possono dire le stesse cose, partendo dal presupposto della sua Resurrezione. Più criticamente aggiungiamo qualche altro elemento: la maniera in cui è presentata questa profezia, che è assolutamente dimessa, mancando precisi riferimenti cronologici al momento del tradimento (v.21) e citazioni bibliche di sostegno (come ad es. al v. 31). Le parole con cui Gesù identifica il traditore: “Ho embapsas met’emou tēn kheira ev tō trybliō, outos me paradōsei, Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà”, non hanno alcun riferimento scritturistico, e anche i vv. dei Salmi (41,10; 54,14) a cui sono solitamente comparate appaiono profondamente diversi. Dice infatti il Salmo 41: “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”, con un riferimento più adatto casomai a Gv che a Mt. Infatti “colui che mangia il mio pane” si può dire di una persona abitualmente ospite di un’altra, e non certo di chi, con un gesto ovvio a mensa, intinge la mano nel piatto con un altro. Il Sal 55, poi, parla di un “amico e confidente” che genericamente insorge contro il protagonista della poesia. Dunque la profezia di Gesù è vaga, non è legata ad eventi imminenti, in senso stretto non dimostrerebbe che Cristo sapeva che subito Giuda l’avrebbe tradito, avrebbe potuto essere posta in qualsiasi punto del Vangelo, sarebbe imputabile alla grande perspicacia di Gesù nel giudicare gli uomini e qui acquista mordente solo perché posta tra profezie più precise, senza fornire loro alcun rafforzamento di credibilità. Infatti questa prescienza di Gesù non aumenta l’incisività delle profezie ai vv.1-2, 18, 30-35, ma trae da esse la sua precisione cronologica. Questa profezia potrebbe dunque essere falsa solo se lo fossero le altre. Per quella ai vv.30-35 abbiamo visto che è vera. E’ dunque vera anche quella in questione.
Passiamo al v. 18. Qui Gesù non si limita a profetizzare, ma organizza la sua Cena in modo miracoloso. Ora, quando si afferma che è avvenuto un miracolo e si dice dove, quando e con chi, vuol dire che è accaduto. Il tempo è il 13 nisan del 30-33 (data conosciuta più precisamente dagli antichi !), il luogo è Gerusalemme, la persona è il padrone del Cenacolo, dove gli Apostoli si trattennero almeno fino a circa sessanta giorni la Cena stessa. Si può obiettare che Mt non dà il nome del padrone del Cenacolo, forse per nascondere dietro un’atmosfera miracolosa una mistificazione, ma la perifrasi è troppo diretta anche senza il nome preciso. La verità è che l’Evangelista riporta le parole stesse di Gesù, che mostrò la sua potenza ai XII inviandoli alla cieca da uno qualsiasi. Così almeno il Vangelo di Mt. Quello di Mc fa invece un quadro più dettagliato di questa profezia. Ora, chi vuol mistificare, aggiunge e non sottrae particolari. Mt, che conosce luoghi e tempi della preparazione miracolosa, ma tuttavia la dipinge coi colori della sobrietà, non può avere inventato. Egli avrebbe creato un episodio senza eccessivo colore, ma che – se falso – poteva essere smentito. La situazione non cambia se ipotizziamo una composizione tardiva di Mt: quanto più un testo falso è tardivo rispetto ai fatti che vuole alterare, tanto più è ricco di particolari; invece i vv. 17-19 sono assai semplici, molto di più del passo parallelo di Mc che, paradossalmente, se accreditiamo la datazione bassa di Mt, verrebbe ad essere più antico sebbene più fantasioso nel riferire la stessa falsità. E’ degno di nota che la frase ““ho kairos mou engyse estin Il mio tempo è vicino” dà una collocazione cronologica più precisa al trapasso di Gesù, ponendolo in un futuro vago ma incombente. Il linguaggio di Gesù diventa allusivo con sfumature che gli interlocutori non potevano capire al momento: “poiō to paskha farò la Pasqua” significa non solo “festeggerò”, ma anche “farò la vittima sacrificale”, con un riferimento all’Eucarestia. Mi sembra ovvio che un simile passo non possa essere interpolato, sia perché obiettivamente di secondaria importanza, sia perché coerente con la struttura stilistica del resto del Vangelo. E’ importante tuttavia storicamente: sappiamo da esso che una comunità di un buon numero di persone in Gerusalemme festeggiava la pasqua secondo il calendario esseno, altrimenti Gesù non avrebbe potuto rivolgersi ad alcuno per questo fine il giorno 13, e tantomeno trovare un locale per il suo gruppo, peraltro riccamente addobbato. Evidentemente il Cenacolo era una sorta di locanda essena, cosa possibilissima essendo gli esseni sparsi per tutta la Palestina; date le usanze comuni, è logico dedurre che gli esseni gerosolimitani vivessero in un solo quartiere, che dunque sorgesse nella zona del Cenacolo.
Sicuramente la profezia più esplicita di tutte è quella dei vv. 1-2, dove, il 12 nisan, Gesù prevede la sua dipartita per il 14, attraverso la crocifissione. Nessuna ragione intrinseca può essere addotta per mostrare la verità storica di questa profezia fatta a quattr’occhi da Gesù ai suoi discepoli. Tuttavia essa si accorda perfettamente con quelle successive, di cui si è dimostrata la veridicità, e si riallaccia agli annunzi sulla Passione fatti da Gesù stesso, nei capp. precedenti di Mt. Dunque tout se tient ! Inoltre, se è vero che l’Evangelista poteva inventarla per rafforzare il carisma profetico del suo Messia, è altrettanto vero che questo espediente non era strettamente necessario, bastando una generica attestazione di consapevolezza in Gesù della sua fine ineluttabile, per cui cade una qualsiasi plausibile motivazione di mistificazione. E’ tuttavia giusto rilevare che in Mt la consapevolezza di Gesù sembra assoluta, mentre Gv riferisce che i complotti del Sinedrio erano in atto da tempo. Evidentemente, come riferisce Gv, le prime misure del Sinedrio contro Gesù erano state inutili perché vanificate dall’entusiasmo popolare da Lui suscitato la Domenica delle Palme. Così la citazione del complotto e della profezia appaiono sotto una nuova luce: il primo è la riunione definitiva, quella in cui il Sinedrio organizza il piano per uccidere Gesù, piano destinato ad avere successo, per cui l’Evangelista può omettere i conciliaboli precedenti, focalizzando la sua attenzione sull’ultimo; la seconda, dunque, appare come la consapevolezza che Gesù ha del fatto che il rischio ancora sussiste, mentre gli altri sembrano averlo dimenticato, e soprattutto dei contorni concreti che questo rischio assume nella realtà.
Ai vv. 26-29 l’istituzione dell’Eucarestia appare come la vetta della consapevolezza che Gesù ha degli eventi che sta per vivere. Egli li conosce, dà loro un nuovo significato sacrale, li collega ad una nuova economia religiosa, e pretende di anticiparli in un banchetto, in forza della sua divinità. Se c’è un falso, è questo ! Ma la motivazione a favore, giustificare il rito centrale del Cristianesimo, la fractio panis, con un precedente tanto illustre, può essere ribaltata facilmente: il peso storico-teologico degli eventi dei vv. 26-29 è l’unico motivo per giustificare l’instaurarsi del rito in questione; inoltre il significato teologico delle frasi qui riportate va ben oltre della dottrina eucaristica primitiva e implica posizioni cristologiche e soteriologiche forse più ingombranti che utili per la Chiesa primitiva: il superamento della Vecchia Alleanza è definito chiaramente e la Divinità del Cristo è il presupposto di tutto il discorso. Considerando l’ambiente di origine di Mt, semitico se non aramaico, non credo si possa trovare nulla di più eloquente. Né si può credere siano interpolate le espressioni più forti (vv. 28-29), in quanto in esse il senso primitivo dell’Eucarestia risulta già legato stabilmente sia da un punto di vista logico che teologico a quelle dottrine cristologiche e soteriologiche di cui ho fatto menzione.
E’ appena il caso di far notare che, a rincalzo della storicità dei passi biblici qui esaminati, si può e si deve addurre il fatto che essi siano stati narrati anche da Lc e da Mc, cosicché dalla concordanza delle fonti emerge un ulteriore elemento di storicità.
Lo stesso argomento vale per l’unzione di Bethania e per la spiegazione che ne dà Gesù. Essa è attestata infatti pure da Mc. La predizione di Gesù è collocata nella casa di una persona nota, Simone il Lebbroso, quasi a garantirne l’autenticità (cosa che non si fa se non si vuol essere smentiti: evidentemente la comunità cristiana di Betania si riuniva nella casa di questo Simone a noi sconosciuto, e poteva ben conoscere se la tradizione narrata nel Primo Vangelo avesse fondamento). L’Evangelista inoltre non avrebbe avuto nessuna ragione d’inventare questo particolare profetico, in quanto ai vv.57-61 del cap. 27 egli spega bene la procedura della sepoltura, per cui il riferimento mortuario all’unzione appare qui inutile e in fondo un po’ bislacco. Anche se Gesù non fosse stato debitamente sepolto, infatti, sostituire i riti di ordinanza con un’unzione avvenuta quasi sette giorni prima sarebbe stato piuttosto ridicolo, se fatto apposta. Questo taglia la testa al toro anche in caso di composizione tardiva del Vangelo o di una sua interpolazione. Aggiungo peraltro che tutte le volte che ho avanzato il dubbio di interpolazioni l’ho fatto per principio, non essendoci nei passi considerati varianti nella tradizione testuale.
Completiamo l’analisi chiedendoci se il prezzo fissato per Gesù, i famosi trenta denari, sia storico o simbolico. Anzitutto, il testo greco parla di triakònta harghyrìa, trenta pezzi d’argento monetato. La moneta del tempio era il siclo e non il denaro. Questo era poi il prezzo della vita di uno schiavo (Es 21,32). Così era già evidenziato in Zc 11, 12-13. La cifra potrebbe essere stata in effetti arrotondata per eccesso o per difetto. Mt è l’unico che quantifica la somma. C’è da chiedersi se per lui le ragioni che creassero un addentellato tra questo passo evangelico e la Scrittura fossero più forti di quelle del rispetto della stessa verità storica. Chiaramente ci troviamo dinanzi ad un midrash. Spesso i midrashim sono guardati con sospetto: sarebbero amplificazioni narrative prive di reale fondamento storico. Ma, a parte che questa è una cultura del sospetto che non tiene conto né del fatto che per la cultura veterotestamentaria il midrash, costruito dal testo sacro al fatto narrato, è storia – anche se a volte ingenuamente creduta tale
(31) - né che nel NT esso è costruito invece attorno a un fatto dato, tratto dalla vita di Gesù, andando a ritroso verso le profezie, va detto che questo midrash dei trenta denari è a dir poco anomalo. Infatti non ha un testo profetico ben preciso attorno al quale strutturarsi, per cui presumibilmente non è affatto un midrash, ma un fatto storico di cui si cerca il precedente profetico. Una chiarificazione può venirci dalla descrizione del pentimento di Giuda (27, 3-10).
In questo brano, Giuda Iscariota pentito restituisce i trenta denari. I sommi sacerdoti, non potendoli mettere nel tesoro, se servirono per comprare il Campo del Vasaio. In questa circostanza, Mt vede il compimento di una specifica profezia, attribuita a Geremia: “Kai elabon triakonta hargyria, tēn timēn tetimēmenou, on etimēsanto apò hyion Israēl, kai edōkan auta eis ton agron tou kerameōs, katha sunetaxen moi Kyrios; E presero trenta denari d’argento, il prezzo del venduto, che i figli d’Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il Campo del Vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”. Certo, se nella Sacra Scrittura ci fosse un versetto siffatto, tanto preciso da sembrare una cronaca dei fatti relativi a Giuda, si potrebbe ben sospettare che il brano del tradimento sia un falso, inventato da Mt sulla falsariga del testo profetico. Se non si potesse dubitare della storicità del suicidio di Giuda, si potrebbe dubitare dell’acquisto del Campo del Vasaio con il denaro restituito dal traditore. E tuttavia il passo scritturistico citato da Mt non esiste: è un collage assolutamente libero di passi assolutamente diversi: Zc 11, 12-13; Ger 32, 6-15 e sullo sfondo addirittura Ger 18,2 ss. e 19,1 ss. Dice Zc 11, 12-13: “Poi disse loro: “Se vi pare giusto, datemi la mia paga; se no, lasciate stare”. Essi allora pesarono trenta sicli d’argento come mia paga. Ma il Signore mi disse: “Getta nel tesoro questa bella somma, con cui sono stato da loro valutato!”. Io presi i trenta sicli d’argento e li gettai nella Casa del Signore”. Questo brano appare assai congruente con la vicenda di Giuda, però di esso non si ravvisa il compimento nei vv. 26, 14-16 e 27,3-10. Quando si parla di trenta argenti, non si cita il profeta Zaccaria, quando si citano i vv. 9-10 non si mette in evidenza il contenuto del brano di Zaccaria, ma piuttosto quello dei passi di Geremia. All’evangelista non preme neppure di conservare la menzione del siclo fatta da Zaccaria ma, sia al v. 26,15 dove si parla genericamente di argenti, sia al v.29, dov’è citata la moneta romana del denaro, anch’essa d’argento, quel conio ebraico non compare. Zelo dell’evangelista, che al 27, 29 indica il cambio di moneta fatto dai sacerdoti per procedere ad una compravendita profana? Può darsi, visto e considerato che gli acquisti si facevano in moneta romana. Forse l’evangelista parla genericamente di monete d’argento, sapendo che solo il siclo era la valuta del Tempio? Sicuramente è così ! Ma in ogni caso i termini concreti del prezzo di Zc non sono mai ripresi in Mt. Nemmeno il gesto di Giuda, con cui egli getta le monete nel Tempio, così precisamente profetizzato da Zc, è esplicitamente ricordato dall’evangelista. Dunque Mt non aveva intenzione di evidenziare la connessione dei suoi racconti con Zc 11, 12-13. Certo, il rapporto tra i due testi è evidente, ma se l’evangelista lo avesse falsato in qualche punto, avrebbe voluto metterlo in evidenza. Nel Vangelo di Mt non mancano casi di passi biblici che, in buona sostanza, risultano forzati nell’interpretazione che l’autore ne dà ravvisandone il compimento nella vita di Gesù. Essi sono tutti citati. Perché non citare anche l’assai esplicito brano di Zc ? Si potrebbe obiettare che l’immediatezza di somiglianza tra Zc 11, 12-13 e Mt 26,15. 27,9 non ha bisogno di citazioni, e questo è senz’altro vero. Ma l’evangelista non si limita a passare sotto silenzio l’adempimento della profezia, ma addirittura a riassorbirla in quella di Geremia, quasi che quest’ultima fosse per lui prioritaria. L’evangelista non deve fare nessuno sforzo per dimostrare che nella vicenda di Giuda si è adempiuto Zc 11, 12-13, ma ne fa molti per dimostrare che anche l’acquisto del Campo del Vasaio è stato profetizzato. Se si trattasse di un falso, sarebbe ridicolo. Tanto valeva non inventarsi che Giuda avesse fornito al Sinedrio la somma per acquistare il Campo. Il fatto è davvero storico e Mt si sforza di trovarne l’anticipazione tra le profezie del VT. Ma Ger 32,6-15 ha poco a che fare con l’acquisto del Campo del Vasaio: in questo brano il campo è a Anatot e non a Gerusalemme, l’acquirente è il profeta, il venditore suo zio, il prezzo 17 sicli d’argento; vi è inoltre descritta minutamente la procedura di compravendita. Come Mt possa aver visto il compimento profetico di questo brano in ciò che scriveva per me è francamente incomprensibile. Credo che anche l’evangelista abbia avuto qualche perplessità. Ora, se Mt avesse potuto rendere più simili le due vicende, non l’avrebbe fatto ? Se Giuda non avesse avuto realmente 30 argenti, non avrebbe Mt falsificato la somma con 17 sicli ? Non fosse altro perché il testo gli stava tanto a cuore ! Credo che da questa dimostrazione per absurdum emerga chiaramente che non vi è stata falsificazione alcuna. Giuda ricevette trenta argenti e poi li restituì, e i sacerdoti li usarono per comprare il Campo del Vasaio. L’unico caso in cui si potrebbe mettere in discussione quanto acquisito è l’ipotesi di una interpolazione. In effetti un uso così apparentemente maldestro del testo biblico è imbarazzante. Di tutte le citazioni bibliche di Mt questa è la più libera. Tuttavia la tradizione manoscritta non ha nessuna esitazione nel riportare questo brano, salvo alcuni mss. che riportano “Zaccaria” al posto di “Geremia”. Cosicché noi non abbiamo nessun elemento per supporre l’interpolazione, e tantomeno per attestarla. Del resto tale interpolazione non avrebbe un gran significato: mettendo l’accento sull’acquisto del Campo del Vasaio più che sui trenta denari o sulla loro restituzione, essa ha evidenziato un fatto obiettivamente secondario, di scarsissima o nulla rilevanza teologica. Apparirebbe strano che una simile aggiunta, peraltro maldestra, si imponesse poi in modo tale da essere ritenuta canonica. Ancora una volta, paradossalmente, dobbiamo ritenere che proprio l’evangelista abbia scritto i vv. 9-10, in quanto solo per il suo prestigio essi potevano essere accettati, e che egli ritenne di dover mettere in relazione i fatti di Giuda con Ger 32, 6-15. 18, 2 ss., 19, 1 ss. per ragioni ignote. Sulla morte di Giuda e sull’Akeldamà mi sono già dilungato in un altro studio, a cui rimando: ribadisco qui a sommi capi che l’Akeldamà giudaico è diverso da quello cristiano, e che l’impiccagione è una generica indicazione del suicidio, le cui modalità sono quelle degli At. (32)
La nostra analisi prosegue con l’episodio del Gethsemani. Mt dice: “Tote erkhetai met’autōn ho Iēsous eis khōrion legomenon Ghethsemanì, Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Gethsemani”. La frase non è chiara. Potrebbe trattarsi della descrizione dell’ultimo tratto di strada fatto da Gesù dal Cenacolo al Monte degli Ulivi. Dopo aver indicato il momento dell’uscita di Gesù e dei discepoli dal Cenacolo con un aoristo ingressivo (“exēlthon eis tò oros tōn Elaiōn uscirono verso il Monte degli Ulivi”, v. 30 b), ora Mt, che ha descritto il colloquio avvenuto lungo la strada, specifica dove il gruppetto si recò quando giunse al monte stesso. Certo, l’evangelista potrebbe aver indicato la meta di Gesù in due maniere l’una più chiara dell’altra (v. 30 b; v.35 ss.), e spezzare il riferimento con l’inserzione dei vv. 31-35, anticipando ciò che sarebbe accaduto nella notte ma senza con questo voler dare indicazioni su ciò che Gesù disse lungo il tragitto. L’avverbio “ tote allora” sarebbe al v.31 indicatore di contemporaneità tra la fine della Cena e il discorso.
Il racconto del Gethsemani (=frantoio per l’olio) segue scrupolosamente i ricordi dei discepoli che Gesù prese con sé. Così, tra i vv.39-40, 42-43 e 44-45 c’è iato narrativo: gli apostoli si addormentarono e non videro ciò che accadde a Gesù (per cui Mt omette il sudore di sangue di Lc), fino a quando lui stesso non li sveglia. La durata degli eventi non è precisamente misurabile: dipende da quanto dormirono i discepoli. Il v. 47 può essere inteso letteralmente: Giuda si avvicina con le guardie mentre Gesù dice le parole del v.46. Tuttavia il v.48, parlando di un segnale, lascia intendere che le guardie, pur arrivando con Giuda, non avanzarono con lui. Al v. 50 b la descrizione dell’arresto è sommaria, in quanto non vi è alcuna contestazione di reato né scambio di battute. La stessa reazione dei XII è solo indicata in modo emblematico, mediante il gesto più plateale, quello della spada, al v. 51, senza menzionare nient’altro, neanche la reazione della guardie. L’andamento appare concitato. Gli apostoli, avendo visto la reazione di Gesù (vv.52-54) e avendo capito chi mandava le guardie (vv. 55-56), decidono allora di fuggire (v.56). L’episodio risulta quindi narrato in modo schematico: tradimento (vv.47-50), arresto di Gesù e resistenza dei XII (50-51), interpretazione soprannaturale dell’evento fatto da Gesù (vv.52-56), fuga dei XII (V.56).
Siccome i XII si sono allontanati, Mt non ha testimoni che gli raccontino cosa è successo lungo il tragitto tra il Gethsemani e la casa del Sommo Sacerdote. Segue tuttavia l’evento da lontano, con gli occhi di Pietro (vv.57-58). Il processo è descritto sommariamente (vv.59-60), e Mt si sofferma solo sulla parte conclusiva (vv.61-66). Alla domanda precisa di Caifa, capo dell’antica alleanza, al v. 63, Gesù risponde proclamandosi Figlio di Dio e Dio egli stesso, con una citazione combinata di passi biblici dal significato inequivocabile. Il Figlio dell’Uomo che viene sulle nubi è infatti il Messia che inaugura l’età nuova, e Dio gli conferisce tutte le sue prerogative (Dn 7). Egli è alla destra di Dio, quindi è partecipe della sua dignità (sal 110). Caifa capì benissimo che Gesù pretendeva di essere consustanziale a Dio medesimo e non solo di essere messia, perciò agì di conseguenza condannandolo a morte. E’ evidente che Gesù era tra coloro che interpretavano Dn 7 in senso personale, e lo è ancora di più che considerava se stesso adombrato in quella profezia. Non a caso egli, nella sua predicazione, parlò spesso di sé in terza persona, usando l’espressione “Figlio dell’Uomo”, evidentemente nel senso che ha poi esplicitato davanti al Sinedrio. Ai vv. 57-59 si descrivono gli oltraggi dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani. Il particolare degli altri sinottici, per cui Gesù ebbe il volto coperto, è omesso perché scontato per gli Ebrei, ma presupposto: da qui la domanda del v. 68. Gli sputi, gli schiaffi, le bastonate e le beffarde forme di scherno, unite alla procedura prima caotica e poi fraudolenta del processo, gettano una luce sinistra sul Sinedrio. Tuttavia la descrizione è cronachistica, senza concessioni alla polemica. Mt conobbe con facilità gli eventi della notte: debbono essere subito trapelati; inoltre gli At ci dicono che molti sacerdoti aderirono alla fede, e possono essere stati testimoni dei fatti; lo stesso Pietro deve aver ascoltato ciò che accadeva dai servi riuniti fuori.
La vicenda del rinnegamento di Pietro (vv.69-75) è descritta in modo sincronico al processo (v.69: “De ekathēto exō Intanto se ne stava..”). A Gesù non è risparmiata neppure l’umiliazione del rinnegamento dell’ultimo discepolo. Era nel cortile. Mt s’introduce subito nel fatto, descrivendo il primo rinnegamento (vv.69-70). Tra il cortile e l’atrio avviene il secondo rinnegamento, con giuramento (vv.71-72). Nell’atrio, durante le chiacchiere, tra giuramenti e imprecazioni, l’ultimo rinnegamento (vv.73-74), a cui segue il canto del gallo. E’ ormai mattina. Pietro, rammentatosi della profezia di Gesù, lascia il palazzo e sfoga il suo pentimento. Non avrà più il coraggio di essere presente.
Definire amaramente sublime questo passo di Mt è il minimo che si può dire. Chi crede che il pathos non possa essere comunicato anche da una pagina composta e misurata, appena appena velata dalla mestizia di chi vede fino a che punto l’uomo può essere costretto ad abbassarsi moralmente, deve leggere questo testo. Chi pensa che il Vangelo di Mt non sia stato scritto da un apostolo di Gesù, deve leggere questo brano, dove il rinnegamento è visto con gli occhi del tradimento. Infatti, mentre Pietro rinnegava Gesù, Mt era lontano, in fuga. Ecco perché non vi è alcuna condanna esplicita di ciò che è narrato, ma tutto è gravato dal senso di umile vergogna, che grava su chi è descritto e su chi lo descrive. Chi non crede che il Vangelo di Mt non sia un libro storico, deve leggere questo brano, dove la precisione cronistica non ha mai la meglio sulla piena dei sentimenti, pur dolorosa. Chi dubita del pregio letterario del Vangelo, deve considerare le fugaci pennellate che bastano a Mt per suggerire, in modo grave e composto, la tragica grandezza, l’incommensurabile enormità dei gesti ordinari che qui si compiono. Pietro “ērnēsato emprosthen pantōn negò, davanti a tutti”. E in silenzio tenta di uscire, ma viene ancora bloccato: da quell’atrio, dove cercava scampo, gli venne una nuova prova. Spesso anche noi fuggiamo, ma la prova c’insegue e ci viene ancora incontro, sotto i tratti di una ordinaria umanità. Sembra di vedere Pietro che, in silenzio, va verso l’atrio e, di contrasto, la serva che rumorosamente lo addita agli astanti. “kai palin ērnēsato meta orkou Ma egli di nuovo negò, giurando.” Alla fine l’Apostolo perde il controllo “e incominciò a imprecare e a giurare”. Povero Pietro, uomo debole ! Lui vorrebbe solo essere lasciato in pace, vorrebbe tacere, e invece è costretto a parlare. Lui non vorrebbe negare, ma l’inesorabile inquisizione dei presenti gli tira le parole di bocca. Povero Pietro. La paura di fare la fine del maestro gli sembra un motivo sufficiente per negare di conoscerlo, sebbene l’avesse in parte sfidata “hidein to telos per vedere la conclusione”. Ma quando il gallo subito cantò, senza aspettare, il vile Pietro, traditore per umana debolezza e non per odio, ricorda le tristi parole di Gesù. E allora un’ultima fuga, “exeltōn exō esce all’aperto”, e piange “pikrōs amaramente”. Mai la debolezza e la piccolezza dell’uomo furono descritte in modo più grande e forte.
Poco dopo che Pietro se ne andò, il Sinedrio ufficializzò la condanna (27,1-2). Il pentimento di Giuda, che ha come testimoni i sinedriti, dev’essere accaduto o dopo la consegna di Gesù a Pilato – dopo che essi lasciarono il pretorio – o contemporaneamente, se solo alcuni di loro accompagnarono Cristo dal governatore. Era presente Giuda al processo? Il v. 3 non lo dice con chiarezza. Forse, se fosse stato fisicamente presente, avrebbe testimoniato lui stesso contro Gesù. Evidentemente, non era disponibile a farlo, e quindi non fu presente. Del resto, chiamare a testimoniare un traditore prezzolato, o anche solo accettarne la testimonianza, era contro ogni diritto !
Anche il processo civile (vv.11-13) è descritto assai sommariamente. A Mt non interessa altro che evidenziare gli aspetti della passione di Gesù scanditi dalle condanne, e non i particolari accessori. Mt descrive ciò che fa soffrire Gesù e basta. Le condanne, gli oltraggi e i tradimenti sono il suo solo interesse! La presentazione dell’imputato è omessa, l’interrogatorio è schematico, ridotto ad una domanda e a una risposta. Si dice che, nel corso delle accuse mossegli e delle domande fattegli, Gesù non rispose. Naturalmente, ciò va inteso nel senso di non aver dato alcuna giustificazione al suo operato. Alle accuse dei sacerdoti corrisposero delle domande di Pilato, che però Gesù non degnò di risposta (vv. 11-13). Le fasi dell’interrogatorio, i particolari del processo e persino la motivazione della consegna a Pilato sono omesse. Una così smaccata forma ellittica dimostra che il pubblico conosceva l’essenziale degli eventi. La domanda pilatesca “Su ei o basileus tōn Ioudaiōn? Tu sei il Re dei Giudei?” lascia intendere l’accusa politica di sovversione, connessa al messianismo, ma mai esplicitamente menzionata. Nemmeno le molte e gravi accuse, mosse a Cristo dai sacerdoti e usate da Pilato per scuoterlo dalla sua apparente apatia sono registrate, a prova del fatto che erano note. Il v. 15 ci introduce alla condanna di Gesù. Si fa menzione di un diritto consuetudinario del popolo ebraico, la liberazione di un prigioniero per la Pasqua. Questo diritto è attestato storicamente. La scena si sposta allora al momento in cui la folla fa ressa attorno al pretorio per chiedere ciò che le spetta. Senza attardarsi sulle modalità del deferimento della causa di Gesù a quella specie di giudizio popolare, e motivandolo implicitamente col fatto che quegli era ormai prigioniero di Stato, Mt descrive sommariamente il tentativo di Pilato di svincolarsi dalla decisione. Infatti nota argutamente al v.18 che “ho ēghemōn ēdei gar oti dia fthonon paredōkan hauton il governatore sapeva bene che glielo avevano consegnato per invidia”, ossia suggerisce l’idea che Pilato, sapendo che il popolo amava Gesù, che era significativamente chiamato “Cristo” (v.17), sperava che lo liberasse. A ciò Mt aggiunge che, nello spazio di tempo intercorso tra la petizione ufficiale del governatore al popolo (v.17) e la richiesta della risposta (v.21), Pilato, mentre presiedeva il tribunale, ossia aspettava il responso popolare, ricevette il noto messaggio della moglie (v. 19). Potrebbe anche averlo ricevuto quando interrogava Gesù, in quanto anche a questa procedura – forse più che all’altra – si addice l’espressione “kathēmenou de hautou epì tou bēmatos mentre sedeva in tribunale”. In questo caso, sarebbe stato il messaggio della moglie a influire sulla decisione di Pilato di ricorrere al popolo. Si può mantenere l’ipotesi che tra i vv. 17 e 21 ci sia distinzione, e che la seconda domanda chieda il responso definitivo, mentre la prima aveva invitato il popolo a riflettere su chi scegliere. Invero, se non vi fosse spazio di tempo tra la domanda al v.17 e la risposta al v.21, i sacerdoti non avrebbero potuto influenzare la folla. Tuttavia le circostanze misero Pilato in contrasto col suggerimento datogli, a causa dell’imprevisto influsso dei sacerdoti sulla folla (v.20). I tentativi di resistenza di Pilato caddero nel vuoto (vv.21-23). Allora egli, volendo assecondare il popolo per ragioni politiche, ma anche volendosi scaricare di ogni responsabilità, fece il famoso gesto della lavanda delle mani (v.24), assai eloquente per gli Orientali, che infatti fu ratificato dalla folla con la celebre formula “deicida”: “To aima hautou ef’hēmas kai epi ta tekna hēmōn Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (vv. 24-25). Al v. 26 l’espressione “dopo aver fatto flagellare Gesù” è traduzione impropria di ton de Iēsoun fraghellōsas, la flagellazione precede sì la consegna ai soldati per la crocifissione, ma non necessariamente è successiva alla condanna. La traduzione in volgare dovrebbe essere “avendo fatto già flagellare Gesù”, indicando un supplizio inflitto in un momento imprecisato del processo popolare. Questo processo è ricostruito in modo schematico, ma esauriente. Più del processo politico (in realtà inconsistente) e con quello religioso esso è il cuore del procedimento giudiziario, attraverso cui il popolo eletto completa la riprovazione del suo messia.
Ai vv. 27-31 è descritta la coronazione di spine. Sebbene non inusuale, essa attira di più della flagellazione l’attenzione di Mt. Questa era un preludio normale alla crocifissione e avveniva non infliggendo al condannato un numero limitato di sferzate (trentanove presso gli Ebrei), ma spingendosi sin oltre il centinaio. La frusta teminava con una sferza di cordicelle, munite all’estremità di pallini di piombo o frammenti di osso, che laceravano ulteriormente le ferite causate dal flagello. I Romani flagellavano omogeneamente il dorso del condannato, dal collo alle caviglie e, per evitare che questi, cadendo, non fosse più colpibile, lo legavano a una colonna di media altezza per i polsi e per le caviglie. Alcuni condannati più deboli morivano sotto le torture. In quanto al “gioco del Re”, era l’ultima crudeltà dei Romani sui poveri condannati: riverenze ad uno di loro, eletto re di burla, scherni, torture e botte. Questa crudeltà colpì l’evangelista per il suo valore simbolico: il Re messianico era deriso nella sua dignità. A questa tortura dovettero assistere anche gli altri condannati. Gli elementi della burla sono evidenziati: il manto scarlatto, ossia purpureo, che ricorda il mantello regio; la canna, che ricorda lo scettro; la proscinesi, beffardamente associata al saluto romano in un cerimoniale sincretico; la corona di spine, ovviamente forgiata all’orientale, in modo da coprire tutto il capo, a modo di una tiara. Questa corona fu più profondamente conficcata nel capo di Gesù a colpi di canna, accompagnati da sputi, non potendosi compiere questa operazione a mani nude. Gesù subì, secondo la prassi, la flagellazione e la coronazione di spine in totale nudità. Per Mt questa orribile tortura avvenne immediamente prima della crocifissione, sempre se l’avverbio “tote allora” del v. 27 è temporale e non consequenziale: in questo caso la coronazione di spine appare come un preambolo della crocifissione (“paredōke, ina staurōthē; tote oi stratiōtai.. lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso; in vista di ciò i soldati..”). Tutti i cento soldati della coorte si fecero beffe di Gesù, nel pretorio. Il luogo del processo e dei supplizi è tradizionalmente la Fortezza Antonia, anche se non mancano archeologi che, sulla base dei movimenti della folla descritti da Gv, suppongono che il pretorio fosse al Palazzo di Erode. Tuttavia è presso l’Antonia che sorgono attualmente la Cappella della Flagellazione e della Condanna, e le prime edicole della Via Crucis.
La drammatica procedura del carico della Croce non è descritta, perché troppo comune: la trave orizzontale era legata alle braccia del condannato, gravando tra collo e spalle. Il piede destro di Gesù era legato al polso destro del condannato che seguiva. Egli infatti procedeva al centro del gruppo (v. 38). Tuttavia, se di solito i condannati incedevano in questa maniera, Gesù, la cui crocifissione non era stata preventivata, pressoché sicuramente portò non solo la trave orizzontale, ma anche quella verticale, che non si era impiantata in tempo sul luogo dell’esecuzione. Questa situazione giustifica la raffigurazione tradizionale, di un Gesù che porta la croce completa. Va ricordato che egli portò il patibolo vestito, conformemente alla decenza giudaica, come esplicitamente detto da Mt (“kai enedysan auton ta imatia autou kai apēganon auton eis to staurōsai; gli rimisero le sue vesti e lo portarono fuori per crocifiggerlo.”). Il peso della Croce, unito alla debilitazione di Gesù, rende assolutamente certo che questi sia caduto più volte lungo il tragitto. L’uso consuetudinario del conforto delle pie donne non è ricordato per la sua ovvietà; l’unico cenno è riservato al Cireneo (v. 32). E’ perfettamente plausibile che, in vista della Pasqua, vi fossero in Gerusalemme ebrei stranieri, e Simone di Cirene era tra costoro. L’espressione “ina arē ton stauron autou; a prendere su la croce di lui” va inteso “sulle spalle”, e non è necessario supporre che il Cireneo abbia preso tutta la croce su di lui: potrebbe aver preso sulle spalle un’estremità del patibolo, mentre Gesù portava l’altra, o una delle due travi. Evidentemente, si temeva che Gesù, già molto debole, morisse lungo il tragitto. Simone fu incontrato appena fuori le mura (“exerkhomenoi, mentre uscivano”), e quel verbo “euron incontrarono” suggerisce che sia Gesù coi suoi aguzzini sia il Cireneo stavano percorrendo, sia pure in sensi opposti, la stessa strada. Non può questo riferirsi all’uscita dal pretorio, essendo questa presidiata dalle guardie per evitare contatti tra la folla e i condannati. Anche per le strade di Gerusalemme era difficile trovare qualcuno che camminasse contromano rispetto al corteo di alcuni condannati a morte. E’ ovvio che tutto il tragitto fu curiosamente seguito dalla folla che troveremo vociante ai piedi del Calvario.
S’impone a questo punto una precisazione sulle fonti di Mt. Se infatti è possibile che l’evangelista, confuso tra la folla, abbia seguito e poi descritto sia il processo giudaico-romano sia la Via Crucis sia la crocifissione e morte, è impossibile che abbia assistito all’interrogatorio di Pilato o alla coronazione di spine. Quest’ultimo evento, descritto nei particolari, esige un testimone oculare. Forse un romano convertito? Forse Giovanni, che seguì il maestro, o la Madonna? Forse più testimonianze, raccolte dall’autore? E’ impossibile dirlo con certezza. Certo, una diligente e anche difficile ricerca è supposta da un particolare riservato come quello del v. 19. In ogni caso, tutto questo lavorio, unito allo schematismo cronachistico del Vangelo, per nulla incline al sentimentalismo o al pietismo, depone a favore del valore di storico di Mt. Questi, narratore di sicure risorse, riesce anche a calare una sottile patina di pathos sul racconto, giocandolo sul contrasto tra la mite rassegnazione di Gesù e la cupa ostilità dell’ambiente che lo circonda. L’ostilità è poi espressa per bozzetti: la livida acrimonia del Sinedrio, l’indifferenza e la viltà di Pilato, il furore cieco e anonimo della folla, la barbarie beffarda dei soldati e la loro calcolata pietà. Non è esclusa neanche la forzata collaborazione del Cireneo. Maestro di coralità, Mt descrive in modo icastico la folla forcaiola e la coorte torturatrice: esse agiscono come un solo uomo. Sempre tesa, la successione degli eventi si rallenta nella coronazione di spine, ma in compenso si satura di emozioni forti, quasi esterrefatte, dinanzi alla crudeltà dei soldati. Il tutto però sempre e solo grazie al sapiente uso dei fatti. Dal v. 33 al v. 66 si descrive la crocifissione e morte di Gesù. Il Golgota (Gulgolta=luogo del cranio) o Calvario è una collina dov’erano crocifissi i criminali più abietti. Il vino al v.34 è un anestetico che di solito si faceva bere ai condannati per lenirne i dolori. Il fiele desta qualche problema: infatti l’anestetico era di solito allungato con mirra. Sicuramente Mt lo chiama fiele per il sapore amaro, volendo evidenziare che persino l’unico lenitivo offerto a Gesù era sgradevole. Il fatto che Gesù non ne volle bere dopo averlo assaggiato dimostra che egli volle soffrire senza riserve. Ciò colpisce l’evangelista (v.34). La terribile pratica della crocifissione, peraltro tristemente nota nel mondo antico, è accennata da Mt, che la colloca immediatamente dopo l’offerta dell’anestetico a Gesù (v. 35 a). Attira l’attenzione di Mt il fatto che, subito dopo, i soldati (il soggetto è lo stesso del v. 27, e tutti i verbi dal v. 27 al v. 37 ne sono ellittici) si spartiscono anche le vesti della vittima, a sorte. Il compimento del Sal 22,19 è evidente, anche se non annotato. La pratica della spartizione doveva essere comune, e anche quella delle sorti, almeno per le vesti più pregiate e indivisibili. Non c’è dunque motivo di dubitare della storicità dell’episodio (v.35). Il quadro del Calvario è completato ai vv. 36-38.
Mt non riferisce alcuna parola di Gesù sulla croce: a lui interessa il supplizio in sé, nel suo assoluto abbandono. Perciò la sua narrazione può assumere un aspetto schematico. Dopo aver tratteggiato il quadro d’insieme, Mt può evidenziare come Gesù non solo patì l’estremo dolore ma anche l’oltraggio. I primi sono i passanti (v. 39), che percorrono la strada del Golgota, s’informano dell’accaduto e traggono le loro ciniche conseguenze. Gesù per loro è un fanatico, un bestemmiatore, un superbo e un esaltato, a cui quella fine orribile dovrebbe insegnare la sua impotenza (v.40). Anche i sacerdoti, gli anziani e gli scribi lo schernivano, continuatamene (v. 41). La loro malevolenza giunge a fare caricatura dei miracoli di Gesù, della sua bontà verso tutti e persino della sua fede in Dio, citando beffardamente la Scrittura, come ben si confaceva a gente con la loro cultura (vv. 41-43). Se i passanti parlano perché si sentono provocati nel loro senso religioso dalla predicazione di Gesù sul Tempio e su se stesso quale Figlio di Dio, i sacerdoti, riferendosi ai miracoli e alla fede di Gesù, mostrano la loro invidia. Persino i crocifissi lo insultano, sebbene condannati alla stessa pena (v. 44). Il plurale “oi lēstai, ladroni” è usato evidentemente in senso generico. Anche le frasi dei sacerdoti e dei passanti sono standardizzate, e le loro movenze schematizzate. La citazione della Scrittura al v. 43 è di Mt, in quanto i sinedriti non avrebbero mai usato la Bibbia per offendere una persona. La sostanza è quella, tuttavia. Anche il movimento del capo è dettaglio di cronaca (v.39): è movenza tipica della burla beffarda.
Al v. 45 si dà la prima indicazione di orario: l’ora sesta (dalle dodici alle quindici). Sembrerebbe che Gesù fosse in croce da un po’ di tempo. Il buio su tutta la terra è sicuramente un avvisaglia dell’imminente terremoto. Certo, Mt lo mette in relazione alla morte di Gesù ma noi, più laicamente, dobbiamo constatare l’ordinarietà dell’evento. Esso è tuttavia realmente accaduto: l’antica Cronaca samaritana di Thallus, scritta a Roma intorno al 60, polemizzava con i Cristiani sulla natura delle tenebre che avvinsero il Calvario durante l’agonia di Gesù: prova che esse ci furono davvero. “epì pasan tēn ghēn, su tutta la terra” indica tutta la zona (v.45). Verso le tre del pomeriggio (ossia verso l’inizio dell’ora nona, dalle quindici alle diciotto), Gesù gridò in ebraico: “Ēlì Ēlì lemà sabakhthanì?”. Probabilmente, Gesù lo disse realmente in ebraico e non in aramaico, come in Mc. Questo grido giustifica il gioco di parole degli astanti, non ebrei, che credono che Gesù chiami Elia. Infatti il profeta aiutava i giusti in difficoltà. Era questa una credenza che i crocifissori dovevano ben conoscere. Mt, che scrisse il Vangelo in aramaico, deve aver riportato la frase in ebraico anche nell’originale (v. 46). Uno dei soldati ha un po’ di pietà e dà a Gesù un poco di aceto da bere. Mt chiama infatti con questo nome la bevanda acidula dei soldati romani. Ma gli altri non volevano questo conforto, perché volevano vedere se alla fine Elia sarebbe arrivato (v. 48). Tuttavia, dopo aver emesso un grido non specificato, che forse l’evangelista non udì dal luogo dove si trovava, o che fu solo un espressione di dolore, Gesù morì (v. 49). Il “dè ma” incipitario attesta il contrasto tra le aspettative dei soldati e la fine del supplizio. Mt ha così narrato la morte del maestro. Dal v. 51 al v. 54 è descritto ciò che accadde subito dopo: la lacerazione del velo del Tempio e il terremoto. Sulla lacerazione del velo del Tempio c’è da notare che potrebbe anche non essere mai accaduta. Potrebbe essere una metafora per indicare che la strada del cielo era ormai aperta. Ma non possiamo esserne certi: nulla vieterebbe che sia stato un evento reale, inspiegabilmente accaduto tra il Santo e il Santo dei Santi. I sacerdoti potrebbero aver scoperto il velo lacerato nelle funzioni della pasqua, iniziate il 15 nisan e protrattesi per sette giorni. La notizia potrebbe essere stata messa in relazione alla morte di Gesù dai cronisti cristiani, come Mt. Non ho avuto modo di cercare riscontri nelle fonti giudaiche, il cui silenzio apparirebbe strano, se realmente lo strappo ci fu. Sarebbe stato infatti un fatto molto rilevante. A meno che non apparisse causato dalla caduta di qualche oggetto nel terremoto, che avesse strappato il tessuto. Ciò avrebbe depotenziato la carica simbolica del fatto, almeno agli occhi di cronisti giudei. Peraltro, i tre sinottici, riportando tutti la notizia, creano una convergenza di testimonianze che normalmente basterebbe per giustificare la storicità di un fatto.
Generalmente, gli eventi portentosi di Mt sono considerati scenografici, per creare corrispondenze tra AT e NT. Ma si dimenticano i seguenti fattori:
- Mt annunzia con scrupolo il compimento delle profezie. Invece al v. 51 non ricorda la profezia di Amos 8,9 ss. o di Osea 2, 2 ss. né di altri profeti. Ha senso che un preciso osservatore di profezie che si compiono inventi fatti di sana pianta, senza neppure poi citare i testi scritturistici che li avrebbero preannunziati?
- Si sostiene di solito che una tale operazione non sarebbe stata un falso in senso moderno, ma solo l’allestimento di una cornice allegorica e teologica. Ma quanti tra i lettori avrebbero potuto distinguere? E quanti tra i pagani ? E tra i Giudei, che più di tutti erano interessati ad un messia che morisse tra i portenti del Giorno del Signore? E cosa avrebbero pensato i testimoni giudeo-cristiani del fatto che il loro messia era morto tanto ordinariamente da aver bisogno di amplificazioni retoriche nella descrizione? Non era forse questo un modo per sottolineare in modo paradossale ancora di più la divergenza tra la fine ideale e quella storica di Gesù?
- Ha senso che Mt, storico scarno, passi dalla cronaca sobria all’amplificazione apocalittica? Certo, può aver usato metaforicamente l’espressione “velo del Tempio”, rifacendosi alle parole stesse di Gesù che si era definito Tempio di Dio, ma non può aver criptato messaggi particolari dietro il terremoto o il buio.
- Che bisogno aveva Mt di questi teologumeni? Essi non motivano la fede ma la suppongono. Tanto valeva moltiplicare i prodigi lungo tutto il Vangelo. Ma Mt scrisse in tempi assai vicini ai fatti, quando difficilmente potevano ancora essersi formati cicli mitici.
In buona sostanza, credo che le tenebre e il terremoto, strettamente connessi, siano fatti rigorosamente storici. Si tratterebbe di un sisma le cui scosse si sarebbero avvertite anche il 16 nisan, a Pasqua, e che ovviamente l’Evangelista avrebbe connesso ai fatti di Gesù. D’altro canto, non credo che, tra tutti i temi teofanici, quello del terremoto sia il più adatto ad una allegoria. E’ infatti attestato assai raramente nella letteratura veterotestamentaria. A meno che, per principio, non si neghi che la morte di Gesù non possa essere stata accompagnata da eventi eccezionali.
Al v.52 i sepolcri sono gli Inferi, e i corpi sono le persone, mentre il verbo resuscitare ha un senso spirituale. La ragione di ciò risiede in un motivo religioso: se intendessimo in modo letterale, dovremmo ritenere che per Mt la risurrezione dei corpi avviene, almeno in parte, prima della fine del mondo. Invece l’Evangelista conosce la vera dottrina di Gesù sull’argomento (Mt 22, 23-33) e la condivide. Dunque non può credersi che il senso dei vv. 52-53 sia letterale. Per determinare il senso è indispensabile la 1Pt 3,19. Lì si parla di “pneumata en fylakē spiriti in prigione”, non essendoci termini più chiari per alludere a quello che diventerà il Limbo. Qui a Gesù, che si era autointitolato Figlio dell’Uomo, viene attribuito un viaggio nell’Oltretomba simile a quello di Enoc, che pure era intitolato così. E anche Eb 11, 39-40 parla della salvezza dei Santi del VT, che viene conseguita solo ai tempi del NT. Anche Eb 12,23 parla dei Santi del VT glorificati. Probabilmente essa compie nei confronti della dottrina del Melchisedec celeste la stessa operazione di cristianizzazione che la 1Pt ha fatto per quella enochica, anche se di questa dottrina non conosciamo molto
(33). Ora, la 1Pt è per forza di cose anteriore almeno al 64-67, e la Lettera agli Ebrei può essere datata al 63-67. Potrebbe esserci stato un processo di raffinamento terminologico della teologia: Mt parla di sepolcri, 1Pt di prigione, Eb usa i concetti teologici moderni. Questi brani rappresentano il modo con cui i cristiani presero posizione sul tema dibattuto della sorte dei defunti nell’aldilà, sul quale ai tempi di Gesù non vi era unanimismo. Chiaramente, apostoli ed evangelisti si potevano rifare alle dichiarazioni verbali di Gesù stesso, che aveva preso posizioni molto nette in materia. Mt parla di sepolcro, perché spesso lo sheòl è, nel VT, presentato come fossa. Pertanto “ta mnēmeia aneōkhthesan i sepolcri si aprirono” non è espressione metaforica, ma si riferisce all’altro mondo dove le fosse lasciano uscire gli “spiriti prigionieri”. Probabilmente i sepolcri sono, nella mente dell’autore, i borim, ossia quelle fosse dove sono contenuti i morti. In quanto ai “sōmata tōn kekoimēnōn aghiōn corpi dei santi morti”, sono in realtà le anime, intese nel senso di principio personale. Infatti in ebraico si parla sempre di basar, ossia di carne, intesa come singola realtà vivente, mentre l’equivalente di soma non esiste. Mt rifugge evidentemente dalla terminologia ellenizzante e usa espressioni ebraiche che il traduttore, per zelo, non volle correggere in greco. Lo stesso uso del termine “ēgherthēsan risuscitarono” è fatto secondo il suo etimo, nel senso di risvegliare, perché per gli Ebrei nello Sheòl le anime erano in uno stato di torpore. Quando si dice che le anime uscirono dai sepolcri, ci si riferisce sempre a quelli spirituali. Mt annota poi che, dopo la Resurrezione di Gesù, i defunti entrarono nella città santa e apparvero a molti. Forse va inteso come l’ingresso in Cielo con conseguenti apparizioni ai mortali, ma è molto più probabile che l’Evangelista volesse indicare solo che ad un certo punto essi comparvero in Gerusalemme. Infatti, per i primi cristiani i giusti entrano in Cielo già da dopo la morte di Gesù (“In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”).
Al v.54 c’è una nuova prova che il terremoto fu reale: il centurione e le guardie lo sentono, e vedono le rocce spezzarsi, e confessano, in modo parziale, che Gesù era Dio. L’indicazione delle rocce spezzate non va presa alla lettera: altrimenti il sisma avrebbe distrutto tutta Gerusalemme. Forse ci fu qualche smottamento sulla collina del Calvario.
Ai vv. 55-56 c’è un’annotazione su chi c’era al Calvario. Non sono nominati quelli che dovevano esserci per forza, la Madre e Giovanni, ma chi poteva anche non esserci: le Donne. Esse osservano da lontano. Sono dunque loro, almeno in parte, le fonti per il racconto dei vv. 33-51. Sono parecchie, e tra loro Maria di Magdala, mai citata prima nel Vangelo di Mt, ma nominata come se fosse nota, Maria madre di Giacomo apostolo, zia di Gesù (cfr. 13,55) e Salome, madre di Giovanni e Giacomo. Notare l’uso stereotipo degli epiteti: “madre di Giacomo”, invece che zia di Gesù; “madre dei figli di Zebedeo”, invece che madre di Giovanni e Giacomo o moglie di Zebedeo.
Ai vv. 57-61 è descritta la Deposizione e la Sepoltura. Al v. 57 “ēlthen giunse” va inteso “sul Calvario”, dove si svolge la scena. Ora, siccome non ha senso che Giuseppe vada prima sul Golgota, poi da Pilato e poi torni al Calvario, bisogna intendere che giunga dopo essere stato da Pilato (v.58), per prendersi il corpo di Gesù. Non si tratta di un uso perfetto della consecutio temporum greca, probabilmente influenzata dalla più semplice forma ebraica, ma è pur vero che “ekeleusen ordinò”, “proselthon andò”, “ētēsato chiese” sono aoristi puntuali. Si mette in risalto la qualità dell’azione, non il tempo. Giuseppe venne solo? Le funzioni che compì lo escludono. Giunse verso sera, ma fece in tempo ad imbalsamare Gesù. L’espressione al v.59 indica infatti una vera sepoltura. Presso il Calvario c’erano delle tombe, tra cui quella di Giuseppe (v.60), come del resto confermato dall’archeologia. Gesù fu sepolto lì perché incombeva il riposo festivo e perché un condannato doveva essere sepolto in una tomba vuota. Ma Mt, da ebreo, dà tutto ciò per scontato. Al v.61, le due donne indicano tutto il gruppo. Così anche in 28, 1.
Ai vv. 62-66 c’è il passo storicamente più importante di tutta la Passione. I sacerdoti vi chiedono delle guardie, in quanto quelle ebree non potevano lavorare a Pasqua. Non è necessario che il sigillo sia stato messo dai sacerdoti stessi: possono averlo messo le guardie. Sicuramente nel giorno di Pasqua (v.62) i sacerdoti non entrarono nel pretorio, per non contaminarsi, come già in 27,12-14. L’azione svolta dal Sinedrio, pubblica e quindi non inventata, fornisce la più grande prova della Resurrezione di Gesù. Le guardie furono messe proprio per evitare i furti del cadavere. E come avrebbero potuto pochi fanatici sfidare i legionari romani? E anche se ci fossero riusciti, come avrebbero poi potuto predicare la Resurrezione, essendoci dei testimoni del furto? Infatti costoro, per salvare la faccia, ricorrono alla scusa puerile di 28, 13-15.
Peraltro, se Gesù non è realmente risorto, e il cadavere è stato rubato, questo furto può essere accaduto o durante la sorveglianza delle guardie, o dopo, o prima.
La prima ipotesi è quella avallata dalle guardie. Come possano aver rubato un cadavere undici ladri, di notte, rotolando una pietra ed entrando nella tomba, senza che le guardie se ne accorgano, esse che pure erano state messe lì per evitare una cosa del genere, è difficile immaginare. Tanto più che il fatto sarebbe attestato da chi, dormendo, non solo non avrebbero compiuto il suo dovere, ma non avrebbe potuto vedere alcunché. Scarterei quest’ipotesi.
Supponiamo dunque che il cadavere di Gesù sia stato rubato o prima o dopo della sorveglianza. Magari prima, nella notte tra il 14 e il 15 nisan. I XII vennero, rotolarono la pietra, rubarono il corpo, chiusero ovviamente la tomba, in attesa della notizia della Resurrezione da diffondere il terzo giorno. Diffusasi la voce, i sinedriti fanno aprire la tomba e la scoprono vuota, nonostante i sigilli siano intatti, perché messi dopo, e nonostante la sorveglianza, iniziata anch’essa dopo. Allora capiscono l’accaduto. A questo punto decidono di dire che il furto avvenne tra sabato e domenica. Perché ? Evidentemente per rendere innocua la voce della Resurrezione: sapendo che i discepoli la ponevano in un momento in cui c’erano le guardie, e che però esse la smentivano, chi ci avrebbe mai creduto? Certo, risorgere è più rumoroso di rubare…le guardie non potevano non svegliarsi! Sembrerebbe un’astuta bugia. Ma ci sono tre stranezze. Anzitutto i Sinedriti confermerebbero indirettamente la voce della Resurrezione al terzo giorno, diffusa dagli apostoli, mentendo. Considerando che la giustificazione delle guardie aveva le lacune che abbiamo esposto, ciò finiva per rafforzare la predicazione apostolica. Non sarebbe stato meglio dire che Gesù era stato rubato tra venerdì e sabato, e far dire alla guardie che esse non hanno assistito né a prodigi né a furti? Inoltre, se Gesù fu rubato da morto, perché non fu aperta un’inchiesta, e gli apostoli non furono arrestati, come tante altre volte? Non sarà forse perché l’inchiesta avrebbe dimostrato un’altra verità, e cioè che gli Apostoli se ne stavano ben lontani dal sepolcro la note tra il 14 e il 15, come quella tra il 15 e il 16? E che avrebbe appurato il ritrovamento delle bende e del sudario nel sepolcro? Strana asportazione, quella di un cadavere senza bende! E che avrebbe appurato un ribaltamento della pietra tra il 15 e il 16, con conseguente rottura dei sigilli? E qui siamo alla terza stranezza: se la tomba era stata sigillata dopo il furto, perché il Sinedrio avrebbe fatto ribaltare la pietra e rompere i sigilli per messinscena? Bastava dire che essi erano sempre rimasti intatti. Invece, con la versione del furto, i sinedriti attestavano una rottura dei sigilli, mai accaduta, che i cristiani avrebbero attribuito alla Resurrezione di Gesù. Scarterei dunque l’ipotesi del furto prima della sorveglianza.
In quanto poi ad un furto dopo la sorveglianza, sarebbe dovuto accadere non prima di lunedì-martedì. Praticamente avrebbe sottratto un cadavere in putrefazione! Al Sinedrio poi sarebbe bastato far notare che la Resurrezione era avvenuta oltre i tempi profetizzati da Gesù, per screditare la predicazione apostolica, già poco credibile perché senza la testimonianza delle guardie, andatesene il giorno prima. Inoltre, bastava aprire la tomba e controllare se il cadavere ci fosse ancora, ma il Sinedrio non fece neanche questo, limitandosi a fornire quella strana versione del furto nel sonno delle guardie. Peraltro, se la voce della Resurrezione si diffuse subito, i XII la predicarono dopo 50 giorni! Strana reticenza, per un fatto che la testimonianza ferma e chiara delle guardie avrebbe smentito chiaramente, se ci fosse stata. Ma non ci fu, perché quelle anonime guardie, provenienti da chissà dove, tra il 15 e il 16 nisan, videro ciò che mai prima era accaduto, e che ancora oggi non si è ripetuto.
30 Cfr. SIBILIO, La Resurrezione di Gesù, pp. 3 ss.
31
Pensiamo al midrash della Genesi 1QLamech e al midrash escatologico di 11QMelch.
32 Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII / 2, 2006.
Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII / 2, 2006.
33 Enoc conobbe tutta la struttura celeste (LA, in 1H, 72-82), i movimenti degli astri e la natura dei venti, perché ha percorso tutto il Cielo; conobbe dunque il vero calendario (secondo la Bibbia visse 365 anni) ed era riconosciuto come il fondatore dell'astronomia da tutti, anche da coloro che appartenevano a quella parte del giudaismo, da cui sono derivati i testi diventati canonici. Fu anche il primo che fece un viaggio agli inferi (1H [LV], 22), dove visitò all'estremo occidente il luogo in cui stanno le anime dei defunti, già giudicate singolarmente e in attesa del Grande Giudizio collettivo e finale, i buoni separati dai malvagi. In quanto a Melchisedec, dal fr.11QMelch abbiamo scoperto –poco in verità – una dottrina che attribuiva a questo personaggio una funzione mediativa di tipo apocalittico-escatologico. Considerando che la Lettera agli Ebrei sviluppa una comparazione tra Gesù e Melchisedec, è probabile che anche Melchisedec avesse compiuto, nel suo ciclo agiografico non pervenutoci, un viaggio agli Inferi.
Theorèin - Settembre 2006 |