LA PASSIONE E LA MORTE DI GESU'
NEI RACCONTI DEI QUATTRO VANGELI:
A cura di: Vito Sibilio
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Capitolo 2 - II parte
LA PASSIONE SECONDO MARCO

Il successivo racconto del processo giudaico (vv.53-65) è pressoché identico a Mt. Entrambi procedono in modo schematico, ma esauriente. Il racconto del rinnegamento di Pietro (vv.66-72) è la fonte più privilegiata che abbiamo su questo episodio, perché basato sulla testimonianza del Principe degli Apostoli. Tutte le divergenze tra questo racconto e gli altri devono essere risolte a vantaggio di questo. Al v. 68 Pietro esce fuori del cortile. Anche Mt parla di una uscita verso l’atrio, interrotta dall’apostrofe della serva. Ciò non significa che Pietro non si spostò. Significa solo che, mentre egli entrava nell’atrio dal cortile, fu riconosciuto. Infatti anche Mc dice che la serva ricominciò ad accusarlo mentre lo vedeva uscire (“idousa auton vedendolo”). Probabilmente Pietro, uscendo verso l’atrio, vi si trattenne continuando di lì a parlare con chi lo attaccava. Infatti, in Mt 26,73 i presenti si accostano a Pietro, a prova del fatto che lui non è più al centro del cortile, dove tutti gli altri, con lui, si erano seduti (v.69), scaldandosi al fuoco (Mc 14,54). Mc non dice questo perché ha fatto uscire Pietro del cortile. Dall’atrio, l’apostolo continua a parlare con gli astanti, che per questo gli si avvicinano e lo riconoscono dalla parlata galilea (Mt 26,73). Il v.69 ci dice che il primo e il secondo rinnegamento avvennero per l’apostrofe della medesima serva, e non da due serve diverse. Il racconto è diviso in due sezioni dal v. 68 b, che segna il primo adempirsi della profezia di Gesù. Dal v.66 al v.68 è la prima sezione, scandita da ritmi lenti e pesanti. Dal v.69 al v.72, è la seconda, in cui i ritmi sono più febbrili, in un climax di emozioni e in una ellissi di particolari: la seconda negazione è riferita indirettamente, i presenti si ritrovano accanto a Pietro nell’atrio, e dell’uscita dell’Apostolo dall’atrio non si fa menzione, sebbene essa sia indispensabile, a meno che non si voglia credere che egli rimase a piangere lì tutto il tempo. Il v.72 è l’apice del racconto: Pietro sente il gallo cantare per la seconda volta, ricorda le parole di Gesù e scoppia in pianto. Sono emozioni fortissime che l’autore rende sapientemente attraverso la distorsione della forma narrativa. Pietro sembra rientrare in sé al secondo canto, quasi che il primo lo avesse udito solo con le orecchie, e non col cuore, perché paralizzato dalla paura. La struttura delle case signorili era dunque: atrio o vestibolo, cortile, appartamenti – generalmente affacciati sui cortili interni. Se una delle stanze dove Gesù fu processato dava sul primo cortile, Pietro potè vedere Gesù durante il procedimento giudiziario, e Gesù potè sentire Pietro mentre lo rinnegava. Ma questo, o per forma veloce o perché non si verificò, non è citato. Se la casa era di tipo romano (e doveva esserlo per forza perché il quartiere della Città Alta in cui la si pone era costituito tutto da case signorili romane, e vi risiedeva certo l’ex-sommo sacerdote Anna: forse era dove sorge la chiesa di San Pietro in Gallicantu, sul lato orientale del Monte Sion, o dove sorgeva la chiesa delle Lacrime di San Pietro, attestata sul monte nell’808 da un antico itinerario di un pellegrino, o ancora dove la indicava l’Anonimo di Bordeaux nel 333, area in cui sono stati fatti scavi archeologici nel 1971-1972), forse bisognerebbe immaginare che il cortile è l’atrio, quello attorno all’impluvio, mentre l’atrio di Mt è in realtà il vestibolo. Infatti, le case romane avevano, dopo la porta, un breve e stretto corridoio su cui si affacciava la guardiola del portiere, che si chiamava vestibolo. Oltre il vestibolo c’era l’atrio, coperto, al cui centro c’era l’impluvio, a cielo scoperto. Sull’atrio si affacciavano le stanze, tra cui quella maggiore, dove si tenevano le riunioni. Generalmente essa era sbarrata d’inverno, mentre nella bella stagione solo una tenda la separava dall’atrio. Oltre c’era il cortile interno, ossia il porticato o giardino, su cui si affacciava, dall’altro lato, la stanza maggiore. Ora, è probabile che Gesù fu processato nella stanza maggiore, e che Pietro stesse nell’atrio con gli altri. Probabilmente la casa giudaica non aveva impluvi, o aveva atri più vasti, cosicché in essa potevano accendersi dei fuochi – certo però non nel giardino privato. Anzi, siccome il Sommo Sacerdote aveva molta servitù, un atrio grande era d’obbligo. Certo, nella casa del Sommo Sacerdote non potevano entrare tutti i soldati che avevano arrestato Gesù, ma qualcuno dovette pur scortarlo all’interno. Dunque Pietro, quando entrò nella casa, considerando che poteva essere riconosciuto, un po’ di coraggio lo aveva. Inoltre, considerando che “apo makrothen ēkolouthēsen autō lo aveva seguito da lontano”, il suo ingresso nella casa del Sommo Sacerdote è piuttosto problematico. Eppure Mt e Mc lo fanno avvenire senza difficoltà. Segno di forma veloce ma anche del fatto che i lettori sapevano com’era andata. Il contesto generale del dialogo del cortile è inoltre appena accennato. E’ singolare che una vera forma veloce si riscontra in Mc 15,69-72, quasi che l’interprete di Pietro potesse permettersi meno particolari, in quanto i suoi primi lettori, i cristiani “petrini”, ne sapevano di più proprio per la predicazione del Principe degli Apostoli.

Appare chiaro sia da Mt che da Mc che l’episodio del rinnegamento è narrato in parallelo al processo, ma vi è legato cronologicamente e spazialmente. Infatti Mc 14, 53-54 introduce la sezione parlando contemporaneamente di Gesù e di Pietro, mentre al v. 55 apre la sezione del processo giudaico, che si prolunga fino al v.65 con l’avverbio kai intanto, cui fa da pendant il mentre del v.66 - espresso in greco con un genitivo assoluto - che apre la sezione su Pietro sino al v.72.

Nel cap. XV si descrivono gli eventi del giorno del Venerdì Santo. Al v. 1 c’è la seduta ufficiale del Sinedrio, che condanna Gesù a morte. Da 1b a 3 c’è la schematica descrizione del processo romano. Pilato prende ad interrogare Gesù con una domanda che suppone che i sinedriti gli avessero già esposto i capi d’accusa. Questi durante l’interrogatorio, muovono altre accuse a Gesù, ma non si dice quali siano. Pilato fa una nuova domanda per spingere Gesù a collaborare, ma senza successo. Chiaramente, ai vv. 2.5 si dà un condensato dell’interrogatorio, che dovette essere dapprima cognitivo e stringente e poi, constatata l’innocuità di Gesù, esortativo, per spingerlo alla difesa. Che Pilato si fosse fatta una idea specifica su Gesù lo attestano i vv. 10.14.15. A Mc e a Mt l’interrogatorio interessa poco, primo, perché Gesù non disse niente di rilevante –almeno dal loro punto di vista; secondo, perché non fu Pilato a condannarlo ma la folla; terzo, perché Gesù aveva già stabilito di morire, e ciò che accade è solo strumento della sua volontà salvifica. In effetti, nel corso dei processi è chiara la volontà di Gesù di non far nulla per sottrarsi alla morte. Rilevante è invece per l’Evangelista la scelta tra Gesù e Barabba: è uno snodo fondamentale che porta il Maestro sulla croce per volontà del popolo. Sia Mt che Mc sono concordi – contrariamente a quanto si legge di solito nelle note delle Bibbie più diffuse – nel dire che c’era l’usanza pasquale dell’amnistia a scelta popolare (Mt 27,15; Mc 15,6). Entrambi aggiungono che c’era un prigioniero importante, Barabba. L’altro era ovviamente Gesù, molto più importante di quanto non sembri a noi oggi, data la complessità politica e religiosa del suo movimento. Dunque il popolo va a chiedere la grazia per l’uno o l’altro ben sapendo chi fossero, e non è Pilato a proporre al popolo la liberazione di Gesù, ma è la scelta tra lui e Barabba ad essere obbligata. Barabba aveva commesso un omicidio en tē stasei nel tumulto. Questa indicazione antonomastica suppone un evento politico assai noto e recente, ma noi non ne sappiamo nulla. Il dialogo tra il governatore e la folla è schematico: ovviamente il primo, per opporsi, sprecò qualche parola in più. Il “eleghen autois diceva loro” del v. 14 suppone diverse ripetizioni di Pilato per convincere la folla, e le parole attribuitegli esprimono meno fedelmente il suo frasario reale dei suoi concetti, come del resto in Mt. Mc ricorda che Pilato sapeva bene che i sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia, e che per questo egli tentò di rivolgersi alla folla. Tra i vv.9 e 12 c’è iato temporale: Pilato prima presenta le due opzioni, poi attende il responso, che però è condizionato dai Sacerdoti (v.11), i cui seguaci sono evidentemente accorsi numerosi al raduno presso il pretorio. Mc non riporta l’episodio della moglie di Pilato, che esalta la colpevolezza dei Giudei e l’infingardaggine del governatore, perché non ha interesse a mettere in luce polemicamente nessuna delle due cose; allo stesso modo trascura la sorte di Giuda, in quanto a Roma, dove fu composto il Vangelo, essa non era legata ad alcun luogo, come invece a Gerusalemme. Al v. 15 “fraghellōsas” va inteso come “avendo fatto già flagellare”. Mc e Mt danno la notizia di straforo, perché essa era un preludio normale alla crocifissione, ma non puntualizzano che fu inflitta nel corso del processo popolare prima della sentenza. Per i due Evangelisti conta poco perché Gesù sia stato flagellato, ma che sia stato flagellato, patendo nel suo corpo le pene per la salvezza.

Ai vv.16-20 è descritta, per il suo alto valore simbolico, la coronazione di spine. Gli imperfetti ai vv.18-19 sottolineano la ripetizione delle torture. Mc come Mt dice che Gesù fu subito dopo condotto alla crocifissione: in realtà egli fu condotto fuori per essere crocifisso nel senso che fu condotto a ricevere quella condanna, come spiega Gv. Anche in questo Mt e Mc sono stati volutamente schematici, riferendo a parte la coronazione di spine. Il ”dè allora” iniziale è puramente paratattico, indica che Gesù fu coronato in vista della crocifissione. Anche la Via Crucis è descritta sommariamente, in quanto i dolori di un condannato alla crocifissione lungo il tragitto verso il luogo dell’esecuzione erano fin troppo noti agli antichi: probabilmente numerose cadute, andatura barcollante, insulti della plebaglia, sofferenze del seguito dei parenti, pianti rituali, angherie degli aguzzini. L’unico evento rilevante è il Cireneo che aiuta Gesù. Anche per Mc quegli fu incontrato fuori città; il nostro autore annota che Simone era padre di Alessandro e Rufo. Questi è salutato da Paolo nella Lettera ai Romani (16,13). Non essendoci nessun’altra identificazione possibile per questo Rufo, e non ostando nulla alla sua identificazione col figlio di Simone di Cirene, dobbiamo identificare il personaggio di Rm con quello di Mc. Infatti il Rufo paolino, “ton elekton en Kyriō questo eletto nel Signore”, la cui madre è la madre dell’Apostolo, è l’unico la cui importanza giustifica la menzione nel Vangelo. Questo fatto poi corrobora la convinzione che il Vangelo di Mc sia stato redatto a Roma e per i Romani anzitutto. Può darsi che anche Mt abbia ricordato il Cireneo per rispetto ai suoi illustri figli, pur non avendolo citati perché scriveva in Palestina, limitandosi a citarne il padre per la fama.

Al v. 23 Mc indica correttamente l’anestetico; al v. 25 si indica l’orario: l’ora terza, tra le nove e le dodici. Lo schema è lo stesso di Mt: insulti dei passanti (vv.29-30), dei sacerdoti (vv.31-32 a), dei crocifissi (v.32 b), ancora una volta riconducibile alla predicazione apostolica e che ben tratteggia l’assoluta solitudine di Gesù, alla mercè dei suoi nemici. Al v 33 si descrivono le tenebre, dalle dodici alla quindici. Se Gesù fu crocifisso verso le undici-dodici, le tenebre furono immediate, ma pressoché sicuramente Gesù fu crocifisso almeno due ore prima. Mc è, come Mt, colpito da questo segno, ma non sembra che esso abbia sconvolto anche gli altri presenti. Al v.34 è descritto il culmine della sofferenza di Gesù, espresso mediante il famoso grido di dolore, che Mc riporta in aramaico, forse perché credette che Gesù lo pronunziasse in quella lingua, perché probabilmente in essa Pietro predicava ai giudeo-cristiani, essendo come una sorta di lingua franca della Diaspora. Trattandosi tuttavia di una citazione biblica, che Gesù fa per testimoniare la sua fede anche in mezzo ai dolori, credo sia più plausibile che egli la fece in ebraico, ossia nella lingua liturgica, così come la riporta Mt. Certo la citazione fu in una lingua diversa da quella che Gesù aveva usato fino a quel momento. Peraltro, Mt scrisse in aramaico, per cui la citazione del Salmo in lingua semitica potè sopravvivere anche nella traduzione greca proprio perché sin dalla versione originale fu fatta in ebraico, ossia in una lingua differente da quella del resto del Vangelo. Infatti Mt, che scrisse per gli Ebrei, aveva tutti i motivi per riportare fedelmente la citazione biblica nella lingua in cui fu fatta. Inoltre Mt è più antico, e la sua versione è in tal caso da preferire. Peraltro, proprio sull’Elì ebraico, meglio dell’Eloì aramaico, si gioca la confusione tra il Nome di Dio e quello di Elia, che i soldati romani, certo non buoni conoscitori dell’ebraico, fecero nell’ascolto. Peraltro, l’Eloì marciano attesta una variante del termine aramaico Elahì, a noi noto. Mc potrebbe in genere essere incappato in qualche imprecisione linguistica, perché non era di cultura esclusivamente ebraico-aramaica, ma anche greca – avendo scritto in questa lingua il Vangelo - e addirittura latina, come mostra il suo nome. Peraltro lo stesso aramaico doveva avere all’epoca confini linguistici meno netti di quelli che conosciamo, con solecismi e barbarismi. Infine, se il Vangelo di Mc fu composto dopo che Pietro lasciò Roma (34), quest’ultimo potrebbe, nella revisione, non aver notato questo dettaglio, specie se si suppone che il testo gli fosse letto, magari non in greco, non dovendo certo lui provvedere a revisione linguistica.

Secondo Mc, Gesù morì mentre gli davano da bere; l’evangelista tuttavia non dice cosa gridò in quel momento estremo: anche a lui, come a Mt, interessa solo la citazione del Sal 22,2 e i fatti concomitanti che preludono alla morte. I due sinottici sembrano colpiti dalla bevanda offerta a Gesù per tenerlo in vita da chi sperava di vedere Elia liberarlo: ai loro occhi sembra un ultimo gesto di incredulità. Ai soldati non interessava niente delle sofferenze di Gesù, volevano solo farlo vivere fino alla liberazione da parte di Elia. E così anche il suo drammatico trapasso avviene in mezzo alla curiosità beffarda e alla crudeltà incredula.

Il v. 38 attesta lo squarcio del velo come Mt, ed è dunque una conferma della storicità dell’evento, anche se ad alto tasso simbolico, poiché si credeva che il velo templare, tessuto dalle vergini tessitrici – del cui gruppo parlano vari documenti ebraici del I sec., come l’Apocalisse di Baruc, una baraita di rabbì Simon ben Segun, e altri, nonché il Protovangelo di Giacomo, che vi ascrive pure Maria SS.- servisse per ricoprire il “Santo dei Santi”, considerato come un corpo umano e per rivestire l’angelo ruah suo custode, identificato col Messia.

Mc invece non rileva il terremoto di Mt. Anche se il centurione confessa che Gesù era il Figlio di Dio “idōn ..oti outō exepneusen vedendolo spirare in quel modo”, e anche se il modo, oltre all’oscurità, potrebbe riferirsi al terremoto, bisognerebbe trovare motivi seri per giustificare quest’omissione. Certo, va detto che le stesse tenebre rammentate hanno ragion d’essere solo come anticipazione del sisma. Inoltre, in Mc – e anche in Mt – non trovano posto neanche cose più importanti del terremoto, come il processo davanti ad Erode, l’incontro delle Pie Donne, ben sei delle sette frasi dette da Gesù dalla croce, la lanciata al costato, ecc. Anche nella Resurrezione Mt e Mc omettono tante cose dette da Gv e Lc. Hanno due diverse impostazioni nel narrare i fatti del Sepolcro. Adoperano la forma veloce nascondendo diversi particolari perché non funzionali all’ottica narrativa che hanno fatto propria: Mc per esempio non menziona le guardie al sepolcro perché descrive le cose come le videro le Donne. O ancora, dall’altro capo del Vangelo, non ha una parte dedicata all’Infanzia. Allora Mc potrebbe aver tralasciato di descrivere il terremoto perché non aveva la prospettiva di Mt. E questi lo fa in funzione della descrizione della liberazione dagli Inferi dei Santi del VT. Mt sembra considerare il sisma come un evento che, più che accompagnare la morte di Gesù, ne è l’effetto, in quanto apre i sepolcri, ossia il Limbo. Non dimentichiamo che gli Apostoli, compresi i più dotti, credevano che il soggiorno dei morti fosse realmente un luogo sotterraneo. Dunque il terremoto è, in superficie, la manifestazione di ciò che accade sotto terra. I vv. di Mt che gli sono dedicati sono una parentesi in cui l’evangelista descrive ciò che Gesù fece per i giusti del VT: scuotendo la terra e spezzando le rocce, Egli apre i sepolcri e le persone dei Santi morti sono immediatamente risvegliate dal loro torpido oblio di attesa. Esse, dopo la Resurrezione, forniscono la prova della veracità di ciò che l’evangelista ha narrato per ricostruzione teologica, perché appaiono a molti entrando in Gerusalemme. Ma tutto questo si è verificato perché Gesù, morendo, ha lacerato il velo del Tempio, ossia ha aperto l’accesso celeste. Ora, Mc non ha voluto descrivere l’effetto della morte di Gesù per i Santi dell’AT, bastandogli descrivere la lacerazione del velo, che indica che la strada del Cielo è ormai aperta a tutti, anche ai giusti dello Sheòl. Mt e Mc hanno chiaramente in comune la precisione cronistica della Passione, e Mc, in un vangelo più sobrio di quello di Mt, che lo completa – o eventualmente ne è completato – ha voluto mantenere una prospettiva rigorosamente storica, senza incursioni metafisiche, adottando in tutto l’angolo visuale del protagonista della Passione, ossia Gesù stesso. Pur mantenendosi sempre fedele a quanto narrato dai testimoni, Mc ha parlato sempre e solo di Gesù, escludendo dal racconto anche parentesi del tipo di quella dedicata da Mt alla fine di Giuda Iscariota. Questa selezione dei fatti in base all’angolo visuale ricorda la scelta stilistica e narrativa fatta dallo stesso Mc a proposito della Resurrezione, quando sceglie di adottare il punto di vista delle Donne, escludendo guarda caso ancora una volta i fatti soprannaturali prediletti da Mt, e utilizzando la forma rallentata proprio nei punti in cui Mt aveva usato quella veloce (35). Si nota anche nella storia della Passione la volontà di essere complementare e alternativo a Mt, cosa che prova l’intima relazione che lega i due Vangeli, la cui comune diffusione divenne ancor più omogenea dopo la traduzione di Mt in greco. Mt – giova ricordarlo ancora – un apostolo, e il suo scritto fu conosciuto inevitabilmente dagli altri apostoli e quindi dai loro collaboratori, così fu noto a Pietro e a Marco. Questi, sia che avesse letto la versione aramaica di Mt sia che avesse letto quella greca, sia che le avesse lette entrambe, concepì il proprio testo in relazione a quello, con le opportune variazioni per il pubblico. Mc, che scriveva per i pagani convertiti o anche per essi, potrebbe infatti aver omesso la dottrina della liberazione delle anime dallo Sheòl perché forse gli apostoli credevano che i pagani morti prima di Gesù fossero perduti. In quanto poi al fatto che egli conoscesse la dottrina della Discesa agli Inferi, lo attesta la 1Pt, in cui se ne parla: chiaramente la lettera era nota a Mc !

Al v. 40, il “Ēsan de c’erano anche”, uguale a Mt, attesta che, oltre ai personaggi poi indicati (vv.40b-41), c’erano altri ai piedi della Croce. Ciò rende scontata la presenza della Madre e di Gv, che viene infatti passata sotto silenzio, in quanto parenti e amici potevano essere ammessi, ed era inutile menzionarli. Invece la presenza delle Donne – la zia di Gesù, Maria di Giacomo e le altre – era insolita, proprio perché femminile, e particolare, perché esse non ebbero la forza di avvicinarsi (“apo makrothen da lontano”). Tale particolare menzione prelude al racconto della Resurrezione.

Ai vv. 42-46 sono descritte la Deposizione e la Sepoltura. L’espressione “kai ēdē opsias ghenomēnes sopraggiunta ormai la sera” non va intesa in senso assoluto: se così fosse stato, Giuseppe di Arimatea non avrebbe potuto neanche schiodare il cadavere dalla Croce. Lc specifica che i fuochi del sabato brillavano già quando la deposizione era completa, segno che Giuseppe aveva avuto tutto il tempo di compiere l’operazione. Mc, per la sua mentalità ebraica e quindi legalista, parla del sabato come incipiente già dai rituali antepreparatori del vespro. Se Gesù morì alle quindici (v.34), Giuseppe di Arimatea potè andare da Pilato già per le sedici, per avere tutto il tempo di schiodare e imbalsamare la salma; anche tenendo conto del tempo che impiegò a parlare con Pilato, almeno dalle sedici e trenta Giuseppe potè andare sul Calvario. In un’ora circa potè anche compiersi tutto, poiché Giuseppe non era solo, ma ovviamente con i suoi servi e con Nicodemo, come ci informa Gv, evidentemente anche lui con un seguito. Mc e Mt non nominano Nicodemo perché l’iniziativa fu di Giuseppe. In quanto poi al tempo trascorso tra il colloquio con Pilato e la deposizione vera e propria, molto deve aver influito la convocazione del centurione perché delucidasse il governatore sul decesso di Gesù. Certo il centurione non era più sul Calvario, a fare la guardia ai morti, quindi il tempo per convocarlo non dev’essere stato molto. Forse addirittura l’espressione “proskalesamenos ton kentyriōna chiamato il centurione” potrebbe significare che egli era stato già chiamato ed era presente, così come al v 46 l’acquisto del lenzuolo è indicato con un espressione analoga che però suppone che esso fosse stato già comprato prima dell’arrivo sul Calvario. Ma è solo una supposizione: credo sia più plausibile che il centurione non fosse presente quando Pilato incontrò Giuseppe, e che arrivasse solo in un secondo momento. Probabilmente accompagnò Giuseppe al Calvario, per dare seguito al mandato di Pilato, che permetteva la sepoltura di Gesù in una tomba privata. Questa tomba è presentata come “mnēmeion lelatomēnon un sepolcro scavato nella roccia”, senza puntualizzare che era di Giuseppe. Chiaramente, gli antichi lettori sapevano bene che lo era, in quanto era proprio dei ricchi avere tombe così, e sarebbe stato impossibile seppellire qualcuno in un sepolcro di lusso altrui. Il monumento era dunque di raffinata fattura, e Mc lo rileva, forse avendo a mente la profezia isaiana: “Con il ricco (΄ashîr) fu il suo tumulo (bômatô)”, almeno in una delle sue vocalizzazioni possibili. Più preciso era stato Mt, quando aveva scritto che la tomba era di Giuseppe. Al v. 46 l’espressione “eneilēsen tē sindoni avvoltolo nel lenzuolo” indica i riti sepolcrali. Mc non parla della custodia della tomba, per la complementarietà nella diversità con Mt: avrebbe aperto una digressione, e avrebbe ripetuto quanto già affermato dall’altro evangelista; tale omissione è in linea con quella del terremoto, che è legato alla Resurrezione nel racconto di Mt, e con il taglio che Mc dà ai fatti del sepolcro, non menzionando l’angelo che rotola la pietra ma descrivendo tutto dal punto di vista delle Donne. Queste sono citate con le loro capogruppo al v.47, e stanno ad osservare dove e come è sepolto Gesù. Sanno già che torneranno a completare l’opera, incompiuta per il trascorrere del tempo. Ma non sanno che troveranno i segni della Resurrezione.


34 Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in Teresianum LVII /1 (2006), pp. 10-11, nota 19.

35 Cfr.SIBILIO, La Resurrezione, pp.33 ss.


Theorèin - Novembre 2006