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San Luca narra la Passione in due capitoli, il XXII e il XXIII. Il primo narra gli avvenimenti dal giovedì sera al venerdì mattina, il secondo i fatti del venerdì santo. Lo schema è il medesimo di Mt e Mc, ma Lc lo arricchisce. Mt ha fatto una catechesi storica che ha messo in evidenza il compimento soprannaturale dei destini di Gesù; coerentemente col suo Vangelo, in cui lo sforzo di presentarlo come Messia è punteggiato dall’annotazione dell’adempimento delle Scritture, con una linea di tendenza culminata nel racconto della Resurrezione, descritta con una netta preponderanza dell’elemento divino. Mc invece ha espresso la sua catechesi in modo più terreno, dovendo parlare di Gesù anche ai pagani e quindi in modo meno ancorato alla tradizione del VT; così nel suo racconto non si compiono profezie, non ci si discosta mai dal dato verificabile tratto dalla testimonianza e anche nella Resurrezione conta solo ciò che i testimoni hanno constatato in modo tale da essere accettabile anche da chi non ha una mentalità ebraica. Mt e Mc appaiono così complementari, espressione scritta di un cristianesimo giudaico dalle due anime: aramaico-palestinese e greco-ellenistica, unite nell’unico corpo del mondo religioso dell’epoca, legato sì alla tradizione mosaica, ma aperto a fermenti di rinnovamento e all’apporto della cultura classica. Mt e Mc fanno un uso sapiente di tecniche stilistico-narrative raffinate, come la forma veloce - alternandola con quella lenta in passi paralleli che l’uno o l’altro ha scritto nella forma inversa – o la forma schematico-cronachistica della tradizione della storiografia più scrupolosamente legata all’oratoria, o ancora la tecnica dei bozzetti, per cui la narrazione prosegue per giustapposizione di immagini poste su uno sfondo comune. Sia Mt che Mc sono saldamente legati alla catechesi degli apostoli – Mc più ancora – e la trascrivono in modo genuino, non perdendo mai il contatto con la tradizione orale dei fedeli, che conoscono molto più di quanto loro abbiano scritto. Da questo discende l’identità a volte assoluta del dettato, per cui Mc sembra una traduzione greca di Mt e questi un ampliamento del primo. In realtà, a parte l’uso che Mc fece di Mt, e la probabile traduzione di interi passi del secondo fatta dal primo nel suo vangelo, le somiglianze si debbono ai temi e ai testi catechistici pre-evangelici degli apostoli, per cui Pietro, maestro di Mc, e Matteo, sebbene predicassero rispettivamente a Roma e in Palestina, potevano dire le medesime cose per “abbordare” un pubblico pressoché simile – gli Ebrei – almeno nella prima tornata di predicazione. Ovviamente lo schema rimaneva uguale anche quando si predicava ai pagani. Da questo punto di vista, Mc e Mt sono indivisibili e forniscono una iniziazione sufficiente al mistero storico-salvifico di Cristo. Un nuovo evangelista che, pur volendo conservare lo schema catechetico, avesse voluto scrivere un nuovo vangelo, non avrebbe potuto esimersi dall’indicare episodi nuovi. Questo poteva essere fatto solo da un evangelista di cultura non ebraica, che concepisse in modo classicheggiante la predicazione, ossia che la orientasse a una penetrazione esclusiva nel mondo pagano, e che quindi la ancorasse a forme letterarie classiche come la storiografia. L’amore del particolare, la precisione della ricostruzione, la cura della lingua, la finezza dello stile, l’attenzione ad aspetti non prettamente religiosi – come l’elemento medico o psicologico- sono le prove dell’eccentricità dell’orbita culturale di Lc rispetto agli assi di Mc e Mt, di matrice giudaica. L’annotazione di elementi specifici della tradizione giudaica ne è una ripresa. Ma nel contempo Lc è cristiano fino al midollo: s’integra con Mt e Mc, si riconnette – come dicevo- alla predicazione orale e anzi la suppone, forse più dei due Vangeli sinottici, a riprova della sua maggiore libertà; inoltre non lascia spazio a teologismi che possano alterare il rigore storico, nonostante alle spalle del testo si possa percepire, occasionalmente, la solenne architettura dottrinale di San Paolo. Incomparabilmente più fine ed elegante di Mt e Mc, Lc è tuttavia incomprensibile senza di loro, ed è un sussidio indispensabile per capirli a loro volta fino in fondo. Infatti, più lontano nel tempo dai fatti di Gesù – trent’anni circa- Lc ha più cura della ricostruzione storica, integrando i due Vangeli preesistenti con gli episodi – o almeno alcuni degli episodi – che erano stati da loro omessi. Con queste premesse, ci accingiamo a commentare la Passione e Morte secondo Lc. San Luca, in 22,1-2, usando gli imperfetti “ezētoun cercavano” e “efobounto temevano” , mostra d’intendere che le manovre del Sinedrio si prolungarono per molto tempo, e non furono limitate ad un giorno solo o a una sola riunione. Il tempo di questa congiura è indicato in modo incipitario, quando dice “Hēnghizen de ē eortē tōn azymōn si avvicinava la festa degli Azzimi”: evidentemente siamo nei giorni precedenti il 13 nisan. Quanti giorni siano occorsi ai sinedriti Lc non lo dice. Essi “ezētoun to pōs hanelōsin hauton cercavano come toglierlo di mezzo”, in quanto il sistema più semplice, ossia l’arresto e le condanne pubbliche, era ritenuto rischioso per la fama di cui Gesù godeva in mezzo al popolo. Bisognava dunque impadronirsi di lui in privato, e quindi con l’inganno. Mentre essi andavano organizzando questo inghippo, in un giorno imprecisato della settimana, Giuda andò dai capi del popolo per accordarsi per il tradimento. Lc non puntualizza quando questo accadde, coerentemente con la poco esauriente tradizione dei sinottici in merito. Lc omette anche il racconto dell’Unzione di Bethania: non ritiene necessario dimostrare che Gesù sapeva di dover morire con il convito in casa di Simone il Lebbroso, in quanto la prescienza divina è ovvia in sé e, soprattutto, per l’assoluta notorietà dell’episodio. Dal v.7 al v.38 Lc descrive l’Ultima Cena. Lo schema sinottico dei preparativi (vv.7-13) dell’istituzione dell’Eucarestia (vv.19-20), della profezia del tradimento di Giuda (vv.21-23) e del rinnegamento di Pietro (vv.31-34) è conservato, ma anche ampliato: c’è una introduzione all’aspetto conviviale della cena (vv.14-18) e una sezione che riassume i temi dei discorsi fatti quella sera e che erano orientati verso le imminenti vicende del sacrificio della croce (vv.24-30). Questa sezione fa un tutt’uno con la predizione del rinnegamento di Pietro e con l’avviso ai discepoli perché si preparino all’ora decisiva (vv.35-38), cosicché dal v.24 al v.38 la cena si configura come un momento speciale dell’insegnamento di Gesù ai suoi. Lc, non essendo un apostolo e non avendo alle spalle uno del gruppo dei XII, preferisce fissare sulla carta anche quegli elementi di catechesi che, da discepolo della seconda ora, lo incuriosivano e di cui, oltrepassando la generazione apostolica, si sarebbe potuto perdere anche memoria. Il giorno degli Azzimi (v.7) è giovedì, visto che Lc ci dice (23,54) che Gesù morì alla vigilia del Sabato. I due discepoli di cui né Mt né Mc hanno fatto il nome sono Pietro e Giovanni (v.8). Ciò da più autorevolezza alla testimonianza di Mc sui preparativi. Quelli di Lc sono identici a quelli di Mc, e costituiscono la prova definitiva della loro storicità. Al v. 14 si descrive ciò che Gesù disse di commento al rito della pasqua giudaica, descritto ai vv. 17-18. Siccome questo rito è distinto da quello cristiano, cade l’idea che Gesù abbia rivisitato il culto giudaico nell’istituzione dell’eucaristia. Lc non inventa, ma riporta un particolare omesso da Mt e Mc perché superfluo. Infatti, se Lc ha bisogno di mostrare che nella mente di Gesù il rito cristiano è distinto da quello ebraico, perché scrive per i pagani convertiti, è altrettanto vero che Mt e Mc sentono il bisogno di omettere un particolare che potrebbe urtare la sensibilità dei loro lettori ebrei. Anzi, è molto più logico che Mt e Mc omettessero il particolare per la sensibilità dei loro lettori, che Lc lo narrasse per i suoi, che pur sapevano di aver aderito a una fede giudaizzante. Non c’è dunque amplificazione teologica, ma nuda cronaca. Lc sceglie di ampliare lo schema narrativo di Mt e Mc, che invece seguono il modello narrativo della predicazione orale, nel quale la distinzione tra il rito del calice giudaico da quello cristiano era inutile e superfluo. Del resto, col background teologico paolino, Lc era meglio disposto a capire l’importanza della distinzione tra le due pasque, di quanto non potessero fare Mt e Mc. Al v. 14 sembrerebbe che Gesù abbia detto le parole dei vv. 17-18 subito dopo essersi seduto a tavola. In realtà il kaì del v.17 non indica contemporaneità ma successività. Lc condensa tutto il tempo della cena di cui non gli interessa in un’ellissi logica. E’ una tecnica tipica del suo vangelo. Per Lc “quando fu l’ora” non significa solo quando Gesù si sedette, ma anche quando parlò. La cena giudaica è il momento in cui Gesù pronunziò le parole riportate da Lc. La sua importanza sta nel fatto che in essa Gesù fece e disse cose significative al di là del rito giudaico. Il calice che gira tra i fedeli è l’ultimo atto fatto da Gesù, che dice infatti due volte che non farà più ciò che sta facendo, fino a quando non instaurerà il Regno (vv. 16.18). E cosa fa Gesù? Mangia la pasqua (v.15) e beve il frutto della vita (v.17). In realtà nessun accenno c’è nella cena dell’agnello e degli azzimi e delle erbe amare, a prova dello iato temporale tra i vv. 16 e 17. In quanto al calice, sembrerebbe che Gesù non ne beva (v.17), ma sarebbe strano che non ottemperasse al rito ebraico. A meno che egli non volesse astenersi dal vino perché altro era il calice che doveva bere (v.42). Le parole di Gesù al v.18 sono alla fine dei brani eucaristici di Mt e Mc, ma non sono un doppione di Lc, perché è probabile che Gesù le dicesse all’inizio e alla fine della Cena ebraica (Lc), e al termine del rito giudaico (Mt-Mc). Lo stesso Lc lo ripete ai vv. 15 e 18. In questo senso i sinottici si completano ancora una volta, giustificando l’omissione dopo il v.20. Alcuni rilievi sulle parole eucaristiche: al v.19, mentre Mt e Mc dicono: “labete faghete: touto estin to sōma mou, Prendete (“e mangiate”in Mt), questo è il mio corpo”, Lc dice “Touto estin to sōma mou, to hyper hymōn didomenon; touto poieite eis tēn emēn anamnēsin Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. Questa frase è identica a quella di 1Cor 11,24. Si potrebbe credere che sia influenzata da Paolo. Ma questo non è vero, perché la frase sul Sangue di Lc è diversa da quella di 1Cor 11,24. Dunque Lc sceglie di riportarla per ragioni precise. Forse ci saranno chiare se compareremo la sua frase sul Sangue con quelle di Mt, Mc e Paolo. Lc scrive: “Touto to potērion ē kainē diathēkē en tō aimati mou to hyper hymōn enkynnomenon Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”. Mc scrive: “Touto estin to aima mou tēs diathēkēs enkynnomenon hyper pollōn Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti”. Mt scrive: “Piete ex autou pantes; touto gar estin to aima mou tēs diathēkēs to peri pollōn enkhynnomenon eis afesin hamartiōn, Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati”. Abbiamo visto che Mt e Mc possono essere armonizzati così: “Piete ex autou pantes, touto estin to aima mou tēs diathēkēs to peri pollōn enkhynnomenon eis afesin hamartiōn Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti, in remissione dei peccati”. Paolo dice: “Touto to potērion ē kainē diathēkē estin en tō aimō estin; touto poieite, hosakis ean pinēte, eis tēn emēn anamnēsin Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Storicamente la frase dei Mt-Mc è la più vicina all’originale, sia per epoca che per autorità dei testimoni. Ovviamente ciò vale anche per la frase sul Corpo. La 1Cor è probabilmente del 57. Le frasi di Lc sono dunque le più recenti (61-63). Probabilmente le divergenze risentono di diversi sviluppi. Anzitutto il “faghete mangiate” di Mc, necessario più per chi legge che per chi si vede porgere il pane (anche se Gesù potrebbe averlo aggiunto per esortare); poi “touto to potērion questo calice” di Lc, che serve più letterariamente che per chi lo vide coi propri occhi (ma anche qui Gesù potrebbe aver voluto essere didascalico). Analogamente il “to aima mou tēs diathēkēs mio sangue dell’alleanza” è un’espressione teologica primitiva di Mt, che risale a Gesù stesso. Probabilmente anche Lc quando dice “ē kainē diathēkē en tō aimati mou la nuova alleanza nel mio sangue” fa una chiarificazione teologica e terminologica. Se la faccia lui o Paolo o l’avesse fatta la Chiesa per loro, non sappiamo. Diverso è il caso del “touto poieite eis tēn emēn anamnēsin fate questo in memoria di me” che Lc collega al pane e Paolo pure al vino. Se Gesù non lo avesse detto, nessuno l’avrebbe fatto. Dunque Gesù lo disse. Mt e Mc lo omettono, perché a loro interessava non tanto perché celebravano ma cosa celebravano. La liturgia invece, di cui Paolo è custode, aveva motivo di conservare queste parole, per motivare se stessa. Anche Lc condivide in parte la posizione di Mt e Mc: probabilmente questa espressione da lui connessa al pane è inserita giusto per suggestione paolina. Per le parole “to hyper hymōn didomenon che è dato per voi”, che Lc e Paolo aggiungono per il pane, ci si domanda perché, se Gesù le disse, Mt e Mc le omisero. Credo che si tratti perciò di un’aggiunta esplicativa di origine liturgica. A questo punto anche “eis afesin hamartiōn in remissione dei peccati” potrebbe esserlo, ma il vangelo di Mt è assai antico, e queste parole sono la spiegazione dello scopi del rito che risale a Gesù stesso. Sia Mt che Mc dicono “enkynnomenon hyper pollōn versato per molti”, mentre Lc dice “to hyper hymōn enkynnomenon versato per voi”. Forse furono dette entrambe le cose, l’una riferita ai discepoli presenti, l’altra a tutta l’umanità; Mc e Mt potrebbero aver uniformato l’espressione per una semplificazione di origine catechetica, e Lc potrebbe aver ripreso l’espressione in parallelo al “to hyper hymōn didomenon che è dato per voi” riferito al corpo. Cosicché Gesù potrebbe aver detto: “Labete faghete, touto estin to sōma mouto hyper hymōn didomenon; touto poieite eis tēn emēn anamnēsin; Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E per il sangue, considerando che il “bevetene tutti” di Mt è di sicuro una esortazione di Gesù stesso, il quale aveva peraltro tutti i motivi per essere esplicito nello spiegare ciò che faceva, possiamo ipotizzare: “Piete ex autou pantes, touto to potērion estin to aima mou tēs diathēkēs, to hyper hymōn kai hyper pollōn enkhynnomenon, eis afesin hamartiōn; touto poieite eis tēn emēn anamnēsin Bevetene tutti, perché questo calice è il mio sangue dell’alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Dopo, al v.21, c’è il riferimento al tradimento di Giuda. E’ un riferimento diverso da quelli di Mt, Mc e Gv. Anzitutto è successivo e non anteriore all’istituzione dell’eucarestia, perché Lc non vuole spezzare l’unità narrativa e teologica costituita dalla pasqua ebraica e cristiana. Tuttavia la collocazione anteriore è da preferirsi perché attestata da due fonti più antiche, Mt e Mc. Lc condensa l’episodio, eliminando la rivelazione di Gesù, le domande dei XII e dando direttamente la risposta, presentandola come una frase detta da Gesù ex-abrupto, a cui segue poi la formula deprecatoria degli altri due evangelisti. Lc non dice: “Ho embapsas met’emou tēn kheira en tō trybliō, houtos me paradōsei Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà” (Mt), né: “Ho embaptomenos met’emou eis to tryblion Colui che intinge con me nel piatto” (Mc), ma preferisce una formula più elegante: “hē kheir tou paradidontos me met’emou epì tēs trapezēs La mano di colui che mi tradisce è con me sulla tavola”. Il “plēn idou ma ecco” iniziale sembra suggerire che Giuda fu presente all’istituzione dell’eucaristia, tuttavia non si può esserne sicuri. Al v.23 si riferisce il brusio che accompagnò queste parole. L’ “allora kai” non indica la fine della frase, ma la contemporaneità. Al v.24 l’ “anche de kai” fa capire che la discussione di cui si parla è avvenuta durante la cena, ma in un momento imprecisato. I termini della discussione sono vaghi, a differenza dell’episodio analogo in Mt 20, 25-28 e Mc 10, 42-45. Una somiglianza tra le parole di Gesù in quei passi e in questo lucano c’è, ma non c’è motivo di dubitare che lo spostamento di Lc sia arbitrario. Infatti, c’è un’espressione che lega queste parole al contesto: “Tis gar meizōn, ho anakeimenos ē ho diakonōn? Oukì ho anakheimenos? Egō de en mesō hymōn eimi ōs ho diakonōn Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve.” Quest’espressione suppone che si stia realmente a tavola, e che Gesù serva. In quale maniera? Il testo non lo dice, ma suppone evidentemente che i lettori lo sappiano. Si potrebbe pensare ad un servizio figurato, ma la dicotomia tra chi sta fisicamente a tavola e chi serve è troppo forte, per non implicare che il servizio non sia realmente concreto: i XII erano a tavola e Gesù serviva. Evidentemente ci si riferisce alla lavanda dei piedi descritta da Gv con toni simili a questi: clamoroso esempio di interdipendenza dei vangeli e della tradizioni orali. Lc riporta solo le parole, perché sufficienti per mostrare il significato dell’episodio: Gesù è servo, e questi momenti che preludono alla Passione, esigono, per essere esattamente compresi, che questa realtà sia sempre presente alla mente. Ai vv. 28-30, infatti, Gesù ricorda che, dopo le prove, i discepoli arriveranno con lui alla gloria. Al v.31 molti codici hanno una lezione per me da conservare: “Kai Kyrios eipen E il Signore disse”. Quest’espressione rompe l’apparente continuità tra quel discorso e questo che ora inizia. In verità una certa continuità potrebbe esserci, in quanto solo per la conferma di Pietro gli apostoli saranno fatti degni della beatitudine promessa ai vv. 28-30: infatti Gesù dice: “Hymeis de este oi diamemenēkotes Voi siete quelli che avete perseverato..”, però sa bene che i suoi lo tradiranno (v.32). Anche Pietro lo tradirà, ma si ravvederà e confermerà i suoi fratelli (vv.32.34). Probabilmente Gesù disse queste parole subito dopo l’apostrofe a tutti gli apostoli, terminata con la profezia sulla Resurrezione. Lc non riprende quell’apostrofe perché non parla della Galilea – come Mc – e perché prepara al ruolo che Pietro avrà negli At. Il tema della predizione del tradimento è dunque conservato ma variato. La sua collocazione potrebbe dimostrare che i colloqui che Mt e Mc riferiscono alla fine della cena siano invece accaduti nel corso di essa. Ma la predizione potrebbe aver avuto anche una collocazione casuale, per connettere i vv.31.34 al 30, per le summenzionate ragioni, e sarebbe possibile perché Lc non narra tutta la cena. Non sembra poi che i vv.31-34 narrino un episodio diverso rispetto a quello di Mt 26, 30-35 e di Mc 14,26-31: lo esclude la risposta al v.34, la stessa di Mt che Mc dà più precisamente. Tuttavia, siccome anche Gv riporta le parole di Gesù come Lc, e ben le sentì da dove era seduto, si deduce che Gesù predisse prima in genere il canto del gallo, e poi le volte che avrebbe cantato. Questo dato fu ripreso da Mc e confuso da Mt. Potrebbe essere andata dunque così: nella cena, Gesù dice di colpo: “Simōn Simōn, idou ho satanas exētēsato hymas tou siniasai ōs ton siton. Ego de edeēthēn peri sy, ina mē eklipē ē pistis sou. Kai sy pote epistrepsas stērion tous adelfous sou. Ho de eipen autō: Kyrie, meta sou etoimos eimi kai eis fylakēn kai eis thanaton poreuestai. Ho de eipen: legō soi, Petre, ou fōnēsei sēmeron alektōr, eōs tris me aparnēsē mē eidevai. Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli. E Pietro gli disse: Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte. Gli rispose: Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte abbia negato di conoscermi [“canterà” è infatti un futuro semplice, che in greco indica azione puntuale e durativa. Se gli diamo un accezione durativa, possiamo intendere che il gallo non avrà finito di cantare prima che Pietro finisca di rinnegare il Maestro]”. Alla fine della cena va il brano di Mt-Mc: “Pantes hymeis skandalisthēsesthe en emoi en tē nykti tautē; ghegraptai gar: pataxō ton poimena, kai diaskorpisthēsontai ta probata tēs poimnēs. Meta de to egherthēnai me proaxō hymas eis tēn Galilaian. Apokritheis de ho Petros eipen autō: ei pantes skandalisthesontai en soi, egō oudepote skandalisthēsomai. Efē autō ho Iēsous amēn legō soi oti en tautē tē nykti prin alektora fōnēsai tris aparnēsē me. Leghei autō ho Petros: kan deē me syn soi apothanein, ou mē se aparnēsomai. Omoiōs kai pantes oi mathētai eipan. Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e le pecore del gregge saranno disperse. Ma dopo la mia resurrezione vi precederò in Galilea. E Pietro gli disse: Anche se tutti si scandalizzassero di te, io non mi scandalizzerò mai. Gesù gli disse: In verità ti dico: questa stessa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte. E Pietro gli rispose: Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò. Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli.” Mt potrebbe essere giustificato nella sua confusione tra un canto (primo dialogo) e due del gallo (secondo). I sinottici avrebbero poi indicato sempre solo un colloquio per conservare lo schematismo di base. In effetti, l’episodio di Lc è incentrato sul solo Pietro, mentre Mt e Mc si allargano agli altri apostoli. Se dunque la profezia del rinnegamento di Lc 22,31-34 è distinta da quella di Mt e Mc, si capirebbe perché l’una è nella cena e l’altra alla fine; peraltro i due brani hanno una differenza importante: Mt-Mc fanno una profezia vera che annunzia in modo via via più preciso il tradimento ai XII e a Pietro; Lc invece riporta un’ammonizione a Pietro perché eserciti il suo primato sui fratelli, in cui la menzione del tradimento – del solo Pietro – entra di sbieco (“pote epistrepsas una volta ravveduto”) e viene ampliata solo per l’obiezione di fedeltà dell’interessato. Inoltre le parole di Gesù in 31-32 sono ottimistiche nonostante gli assalti di satana: gli apostoli rimarranno fedeli, grazie alla preghiera di Cristo. In un contesto meno preciso di Mt-Mc si adombra una preveggenza di tradimento, anche se non si capisce se avverrà – e sarà riparata dalla testimonianza di fede di Pietro – o se sarà solo una tentazione, da cui Simone li preserverà. Il fatto che i XII non protestino fedeltà dà corpo alla seconda ipotesi. E questo silenzio dei XII è una forte differenza tra Mt-Mc e Lc. Questi poi, se avesse voluto riferire lo stesso detto profetico di Mt-Mc, lo avrebbe pasticciato, in quanto nel suo stesso vangelo i XII si ravvedono non per Pietro, ma per le apparizioni del Risorto. Dunque qui Gesù fa riferimento ad altro, al ministero petrino nella Chiesa che neanche il tradimento scalfirà. E quando parla di satana che cerca i suoi per vagliarli, adombra prove diverse da quelle della Passione, riferendosi a quelle future relative all’esercizio del magistero e alla predicazione, per le quali sì ci sarà bisogno della conferma di un capo, come mostrano gli At. Perciò, contrariamente a quanto ipotizzato prima, dobbiamo dedurre che Lc 22,31-34 narra un episodio diverso da quello di Mt-Mc. Gesù predisse a Pietro due volte il tradimento perché due volte Pietro gli protestò fedeltà, come avrebbe continuato a fare se lo avesse ritenuto necessario. Del resto Mc e Mt dicono che “ekperissōs con grande insistenza” continuò a protestare la sua fedeltà, anche dopo la profezia, perché credeva di averla. L’episodio di Lc mostra un Gesù assai delicato, che rassicura in anticipo Pietro sulla validità del primato, anche dopo il suo rinnegamento: quasi lo conferma in anticipo. La stessa reiterazione dell’annunzio del tradimento di Pietro e dei XII prepara gli apostoli alla conversione, perché li renderà sicuri, dopo, del fatto che il Maestro, prevedendo il loro gesto di viltà, li abbia perdonati preventivamente, confermandoli nella fede tramite Pietro e attendendoli in Galilea. Né si veda nell’episodio lucano un puntello del primato petrino, in quanto quando Lc scrive il pontificato di Pietro sta per finire e non è stato mai seriamente contestato, come dimostra il NT. A tal punto il v.35 può anche essere preso alla lettera e il “kai poi” può essere realmente consecutivo cronologicamente. Al v.37 c’è una chiara profezia della morte di Gesù: “touto to ghegrammenon dei telesthēnai en emoi Infatti tutto quello che mi riguarda volge al termine”, mentre le due spade del v.38 attestano che il gruppo era meno impreparato ad eventuali aggressioni di quanto si creda, e non era poi così inerme: le voci del complotto, pur attutite dalla festosa accoglienza della domenica precedente, erano giunte ai XII e li avevano allarmati. A cacciare le spade fu forse anche Pietro, che Gv descrive armato e aggressivo nel Gethsemani. Proprio il pacifico atteggiamento di Gesù e la presenza dei Romani, che rendevano pericolosa la resistenza e ineluttabile la cattura avrebbero spinto i XII alla fuga. Proprio l’interdipendenza tra Lc e Mt-Mc giustifica che il primo non descriva l’uscita di Gesù dal cenacolo come negli altri due, e ci fa credere che il colloquio di Mt-Mc alla fine della cena avvenne per strada come loro dicono. Questa interdipendenza che integra i Vangeli è la chiave di lettura dell’Agonia nell’Orto di Lc (vv.39-46). Mt e Mc descrivono tre momenti di preghiera, Lc uno solo, sviluppato notevolmente, quasi volesse sopperire ad una carenza degli altri evangelisti. Questo momento di Lc è il secondo di Mt e Mc. Lc esordisce dicendo: “Exelthōn eporeuthē eis to oros tōn elaiōn; ēkolouthēsan de autō kai oi mathētai Uscito, se ne andò al monte degli ulivi e anche i discepoli lo seguirono”. Quell’ “exelthōn uscito” va inteso come “una volta uscito” o “quando uscì”: serve a indicare il momento in cui Gesù si recò all’Orto: a Lc non interessa descrivere ciò che Gesù fece quando uscì – la discussione lungo il tragitto riportata da Mt e Mc – ma quando appunto si diresse al Gethsemani. A differenza di Mt e Mc, Lc non dice che Gesù prese con sé tre apostoli in particolare, ma si limita a dire: “ghenomenos de epi tou topou eipen autois: proseukhesthe mē eiselthein eis peirasmon Giunto sul luogo disse loro: Pregate, per non entrare in tentazione”. Sembra dunque che “ghenomenos de epi tou topou giunto sul luogo” non indichi il momento preciso in cui Gesù parlò, ma che lo fece quand’era già al Gethsemani. Ossia quell’espressione sottintende tutto ciò che Gesù fece prima di dire quella frase, e che Mt e Mc raccontano, mentre Lc lo omette perché non vuole ripetere ma integrare. Anche l’espressione “proseukhesthe mē eiselthein eis peirasmon Pregate per non cadere in tentazione” ricorda più che la prima (“Perilypos estin ē psykē mou, eōs thanatou; meinate ōde kai grēgoreite.. La mia anima è triste fino alla morte, restate qui e vegliate..”), la seconda frase di Gesù nel brano parallelo di Mt-Mc, detta al primo ritorno (“Simōn, katheudeis ? Ouk iskhysas mian ōran grēgorēsai? Grēgoreite kai proseukhesthe, ina mē elthēte eis peirasmon; to men pneuma protymon, e de sarx asthenēs. Simone dormi? Non sei stato capace di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate per non cadere in tentazione. Lo spirito è forte ma la carne è debole”). Considerando che la seconda frase di Lc (“Ti katheudete? Anastantes proseukhesthe, ina mē eiselthēte eis peirasmon! Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione!”) non è per certo la terza di Mt e Mc, completamente differente (“Katheudete loipon kai anapauesthe! Idou ēnghiken ē ōra, kai ho Hyos tou anthrōpou paradidotai eis kheiras amartōlōn Dormite ormai e riposate! Basta, è venuta l’ora! Il Figlio dell’Uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo. Ecco, colui che mi tradisce è vicino!”), si deve dedurre che il v.46 riporta le parole del secondo ritorno di Gesù, che né Mc né Mt hanno trasmesso. Questo era per Lc un buon motivo per riportarle: erano un inedito! Egli tra i vv.40-46 racchiude il secondo momento di preghiera di Gesù. I due versetti estremi danno una collocazione cronologica sommaria, in quanto non riproducono esattamente le parole di Gesù – certo il v.40, probabilmente il 46- perché Lc, integrando Mt e Mc che dicono come Gesù sia stato lasciato solo, vuole descriverne la sofferenza interiore e solitaria. E siccome Mt e Mc lo hanno fatto dal punto di vista psicologico, parlando della sua paura, tristezza e angoscia, Lc lo fa dalla prospettiva traumatologica, parlando della sudorazione di sangue, incorniciata in un contesto soprannaturale, segnato dalla presenza di un angelo. Questo quadro è concepito per narrare l’Agonia dal punto di vista di Gesù, e non solo come la videro i discepoli, al cui angolo visuale si attengono Mt e Mc. Essi non ne parlano perché si attengono a ciò che videro i XII prima di addormentarsi. Gesù è infatti il soggetto dei verbi dal v.40 al 46. Dei rimproveri non si fa che un pallido cenno, per non dover dare le giustificazioni dei discepoli. Il racconto si chiude con l’espressione: “Eti autou lalountos Mentre egli ancora parlava”, che vuol dire che ciò che accadde dopo avvenne in un momento in cui Gesù parlava. E’ un legame narrativo tra i vv.46-47 che in realtà è fittizio, in quanto tra i due vv. si colloca il terzo momento di preghiera di Gesù che Lc non menziona. Se però il momento descritto è la seconda preghiera, perché la formula (“Pater, ei boulei parenenke touto to potērion ap’emou! Plēn mē to thelēma mou alla to son ghinesthō. Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà.”) ricorda la prima di Mt e non la seconda? Mt infatti recita: “Pater mou, ei dynaton estin, parelthetō ap’emou ti potērion touto. Plēn oukh ōs egō thelō, all’ōs sy. Padre mio, se possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu !” nella prima preghiera, mentre dice nella seconda: “Pater mou, ei ou dynatai touto parelthein , ean mē auto piō, ghenēthētō to thelēma sou Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà”. Forse Lc fu impreciso in questo particolare dopo essere stato preciso negli altri? La risposta può venire dalla comparazione tra il passo lucano e quello di Mt-Mc, considerando lo specimen di Lc che è la sudorazione di sangue. Accompagnata dall’apparizione angelica e introdotta proprio dalla preghiera in questione. Il testimone della sudorazione e dell’angelofania è lo stesso della preghiera, ed è diverso da quello da cui attingono Mc e Mt. Essi narrano ciò che Giovanni, Pietro e Giacomo videro e sentirono prima di piombare nel sonno, magari in tempi diversi. Lc invece attinge da un’altra testimonianza, che gli pare credibile anche nel riferire la formula di preghiera, avendo fornito notizie importantissime – il sudore di sangue appunto e l’apparizione angelica – sfuggite agli altri astanti, immeritevolmente addormentatisi. Del resto, Gesù pregò a lungo, e nel secondo, centrale momento di orazione può aver variato le formule, com’è logico e plausibile. Chi fu dunque il testimone? E’ difficile dirlo. Certo non bisogna dubitare della storicità del racconto: la sudorazione non è un teologumeno perché non ha precedenti nella letteratura veterotestamentaria, e inoltre si addice allo stato di eccezionale angoscia di Gesù, in quanto, come fenomeno naturale, avviene proprio in tali casi. E Lc tuttavia sottolinea le proporzioni eccezionali dell’evento: “egheneto ho hydrōs autou ōsei thromboi aimatos katabainontes epi tēn ghēn il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra”, ossia caddero per un tempo prolungato, evidentemente pure in abbondanza. Tanto basta per mostrarne la soprannaturalità, almeno dal punto di vista medico, allora e oggi. In quanto all’angelo, la sua apparizione è muta, per cui non potè essere inventata, perché troppo povera. Il testimone fu forse un discepolo curioso: uno dei XII lasciato fuori, o addirittura uno che non era apostolo; oppure una donna del gruppo. Certo non la Madre, che non avrebbe abbandonato il Figlio come avviene dopo, senza presumibili eccezioni. |