LA PASSIONE E LA MORTE DI GESU'
NEI RACCONTI DEI QUATTRO VANGELI:
A cura di: Vito Sibilio
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Capitolo 4 - II parte
LA PASSIONE SECONDO GIOVANNI

La descrizione della tappa di Gesù sul Gethsemani (18,1-11) è anch’essa volta ad integrare ciò che gli altri tre avevano lasciato in ombra: perciò la preghiera di Gesù stesso, la sua agonia, la sonnolenza dei discepoli e lo stesso arresto coi suoi convulsi momenti sono saltati a piè pari o appena appena menzionati. A Gv – che dando l’indicazione del passaggiò del Cedron ma non chiamando il luogo Gethsemani sembra supporre un pubblico ormai dimentico della topografia gerosolimitana – preme soprattutto sottolineare che in questo luogo inizia il processo redentivo, indipendentemente da ciò che vi accade nei dettagli. Lo chiama infatti kēpos giardino, come l’Eden. Li ci fu la caduta dell’Uomo, qui la riparazione di Dio. Lo sottolineerà con l’uso del Nomen Sacrum, come vedremo. Al Gesù angosciato Gv accosta quello poi sicuro di sé, che mediante la preghiera ha acquistato il coraggio per la sua opera. In questo è più vicino a Mt e Mc che a Lc che parla addirittura di sudore di sangue. Ma ben conosce quei fatti, che per lui sono solo introduttivi alla Redenzione vera e propria, compiuta con coraggio da Gesù sopportando le torture e la morte.

Gv spiega come mai Giuda, che aveva lasciato la Cena, sapeva dove trovare Gesù (v.2). In effetti nessuno dei tre sinottici lo aveva spiegato, facendolo sparire dalla scena nel Cenacolo e poi ricomparire come un deus ex machina diabolico. Dell’arresto, Gv dà solo la parte introduttiva (vv.4-9) e spiega chi tagliò l’orecchio al servo, identificandolo (vv.10-11). Per la parte introduttiva, annoto che solo Gv spiega che ad arrestare Gesù sono soldati e guardie, mentre i sinottici avevano genericamente parlato di folla o turba armata. Omette il bacio, e spiega minutamente cosa accade dopo: un fatto miracoloso che i sinottici avevano omesso nella forma velocizzata del racconto. Gesù chiede ai suoi nemici chi cerchino, e questi gli rispondono: Gesù il Nazareno. Non che questa domanda escluda che egli fosse già stato identificato tramite il bacio, ma dà all’arresto di Gesù una maggiore nobiltà e dignità che, dato il personaggio, di sicuro ebbe. Alla controbattuta di Gesù: Egō eimi Io sono, i suoi nemici cadono a terra. Di nuovo Gesù domanda, e di nuovo rispondono. E questa volta la frase di Gesù non ha effetti imprevisti, ma mette in evidenza perché i suoi discepoli furono lasciati andare, creando un piccolo midrash sulla parola stessa di Gesù. Chiaramente Gesù coglie quest’occasione per una indiretta professione di divinità, che maldestramente è tradotta in italiano “Sono io”, ma andrebbe corretta in Io sono, per dare più chiarezza al riferimento che invece in greco è grammaticalmente evidente. Non sappiamo se le guardie ne intesero il senso. Il fatto che siano stramazzate al suolo non deve creare problemi allo storico: Gesù aveva compiuto prodigi maggiori, ma questo non aveva impedito ai sacerdoti di considerarlo un impostore, né a Giuda di tradirlo; perciò questo fenomeno parapsicologico non avrebbe spaventato più di tanto le guardie, peraltro cresciute in un’epoca in cui la commistione tra naturale e soprannaturale era molto più sentita e vissuta in modo meno problematico di quanto accade oggi. I soldati romani non avevano motivi di temere quella che poteva sembrare loro una semplice e furbesca magia, e quelli ebrei erano fanatizzati dall’odio ideologico, che li determinava ad arrestare Gesù, dopo un fenomeno del genere, con ancora maggiore inesorabilità. Ma a Gv premeva evidenziare che la divinità di Cristo, che nei sinottici si mostra soprattutto con la Resurrezione, era già consapevolmente manifestata da Gesù sin dalla Passione.

Dopo questo battibecco ci fu il piccolo tafferuglio descritto dai sinottici, le parole di Gesù e la fuga dei XII. Colui che taglia l’orecchio è Pietro: identificarlo ora non è più pericoloso per nessuno, visto che lo stesso apostolo è morto. Ma per dare più spessore storico alla narrazione, Gv cita anche il nome del servo, Malco, che evidentemente era l’uomo di fiducia del sommo sacerdote Caifa, visto che è presentato come ho doulos il servo, e non come un servo qualsiasi. Gv non dice che Gesù sanò l’orecchio del servo, ma sa benissimo che avvenne. Condensa inoltre il rimprovero a Pietro nel v.11. Esso era in Mt 26,52-54 –come si è visto – piuttosto complesso. Dopo le parole di Mt 26,54 va bene Gv 18,11b. Poi Gesù rimproverò gli altri discepoli che si apprestavano a resistere, come dice Lc, guarì il servo ferito e poi fece il suo breve discorso alle guardie, secondo quello che abbiamo già visto. Fu dunque abbandonato da tutti - a questo punto se non fuggivano i XII potevano essere arrestati - tranne che dal giovinetto che lo seguiva con il lenzuolo. Scacciato anche questo, i soldati lo portarono via definitivamente (Gv 18,12).

Al v. 13 l’espressione ēgagon pros Annan prōton lo condussero prima da Anna è l’ennesima prova – ammesso che ce ne sia bisogno di altre – dell’interdipendenza dei Vangeli a scopo di completamento: quel prōton serve a far capire che Gesù fu condotto anzitutto davanti al suocero di Caifa, e poi da Caifa stesso (v.24), dove avvenne il processo descritto da Mt e Mc la notte, mentre poi al mattino si tenne – sempre a casa di Caifa, come attesta anche Gv al v. 28, quando dice che Gesù da lì fu condotto a Pilato – la seduta formale del sinedrio. Caifa viene identificato da Gv come arkhiereus, sommo sacerdote; dunque tutte le volte che si parla di questo prelato ci si riferisce a Caifa stesso: è lui che lo interroga, anche da Anna (v.19), ed è a lui che Gesù risponde; sua è la casa in cui entrano Pietro e l’altro discepolo (ossia Gv stesso), ed è a lui che è noto quest’ultimo. E’ dunque il vero deuteragonista di Gesù. Il passaggio da Anna è dunque menzionato solo per precisone storica, e per integrare la storia dei processi religiosi di Gesù: Lc aveva completato per i paralipomeni, Gv per i prolegomeni.

In merito al rinnegamento di Pietro Gv da indicazioni cronologiche importantissime ma problematiche. Stando al textus receptus, Gv entra nel cortile del sommo sacerdote e fa entrare anche Pietro quando Gesù è ancora da Anna (vv.15-16). Il primo rinnegamento avviene dunque quando Gesù ancora non arriva da Caifa (vv.17-18). Evidentemente dopo questo c’è il primo canto del gallo di Mc. Nel frattempo Gesù è interrogato da Caifa a casa di Anna. Quando l’interrogatorio finisce, Gesù è mandato da Caifa (v.24). Mentre è da Caifa – o mentre viene mandato: l’aoristo puntuale apesteilen può essere inteso in entrambi i modi- Pietro lo rinnega altre due volte (vv.25-27). Se lo rinnega quando Gesù esce dalla casa di Caifa, a questo punto lo sguardo di Gesù stesso a Pietro e a cui Lc fa riferimento potrebbe collocarsi nel momento in cui il maestro arriva nella casa di Caifa. Ma, coerentemente a quanto detto per i sinottici, possiamo ritenere che i rinnegamenti successivi siano accaduti quando Gesù era già nella casa, sottoposto a processo. Gv parla poi di canto del gallo senza specificare il numero delle volte, perché anche noi parliamo di “canto del gallo” senza voler dire che ogni mattina canti solo una volta. I comprimari del racconto giovanneo corrispondono a quelli del racconto marciano: il primo rinnegamento è con una giovane serva di Caifa sia in Mc che Gv, il quale la identifica con la portinaia; il secondo è con generici interlocutori in Gv che Mc identifica nella stessa ragazza; il terzo è con personaggi non precisati in Mc che Gv specifica in un servo parente di Malco. Mc non specifica perché ha omesso di identificare con Pietro il discepolo che ha tagliato l’orecchio a Malco e non ha dato un nome al servo mutilato. Erroneamente Mt separa l’unica serva in due persone distinte per i primi due rinnegamenti: dettaglio in cui Mc lo corregge, lasciando intatto il generico riferimento agli altri interlocutori di Pietro nel terzo rinnegamento presente anche in Mt per le stesse ragioni. Lc ha conservato l’identificazione della serva per il primo rinnegamento, mentre ha parlato anch’egli erroneamente di un altro non identificato personaggio per il secondo rinnegamento, per poi indicare un altro ancora, singolo ma senza nome, come interlocutore del terzo. Naturalmente, se tra i sinottici va privilegiato Mc come fonte dei brevi dialoghi del rinnegamento, questo vale anche per Gv, il quale peraltro non differisce significativamente, avendo riportato frasi brevi esemplificative. Anche i movimenti di Pietro nell’atrio in Gv corrispondono a quelli degli altri Vangeli, descritti in modo migliore nei sinottici. In effetti, la prima uscita di Pietro dopo il primo rinnegamento fu seguita da una nuova entrata quando Gesù passò, scortato, nell’atrio entrando nella casa. Perciò Pietro si ritrovò di nuovo vicino al fuoco.

Per alcuni la successione degli eventi è risultata problematica: il codice siriaco sinaitico, la versione siropalestinese e un sottogruppo di testimoni della recensione cesariense sposta il v.24 dopo il v.13, ossia fa trasferire Gesù da Caifa immediatamente, senza nessun interrogatorio ambientato da Anna, e senza nessun parallelismo tra ciò che avviene a casa di Caifa per Pietro e a casa di Anna per Gesù. Questo permette di dar significato all’espressione del v. 15, dove si legge che Pietro entrò con Gesù (syneiselthēn) nel cortile del sommo sacerdote. In effetti, se Gesù fosse ancora da Anna, come potrebbe Pietro entrare con lui da Caifa? Coerentemente con questa idea, il codice siriaco sinaitico sposta il racconto del rinnegamento dopo il processo, copiando la struttura dei sinottici. Tuttavia vanno rilevate alcune cose:

  1. Se Gv avesse voluto raccontare le stesse cose dei sinottici, non avrebbe fatto un brano così lungo: non corrisponde a quanto ha fatto per la Cena e per il Gethsemani e per tantissimi altri brani del Vangelo, di cui altri ne vedremo tra poco, né al modo in cui ha narrato la Resurrezione, integrando e omettendo il noto. Gv avrebbe citato solo il v. 13.
  2. Se avesse citato il v.13, avrebbe avuto senso che narrasse qualcosa che fosse accaduto in casa di Anna, come fa nel textus receptus.
  3. Se accettiamo le correzioni della versione siropalestinese, lo schema narrativo peculiare del Vangelo di Gv scompare: vv. 12-14 Gesù, vv.15-18 Pietro, vv.19-24 Gesù, vv. 25-27 Pietro, con un parallelismo stilistico a cui corrisponde uno dei luoghi. Infatti il racconto cessa quando Gesù va da Caifa, e di ciò che accade qui Gv non dice nulla. Gv infatti ha costruito il brano proprio per spiegare la cronologia del processo e dei rinnegamenti.
  4. Se spostiamo solo il v. 24 il danno è minore, ma non avremmo in Gv nulla che ci dica cosa accadde da Anna. L’unica ragione per cui dovremmo spostarlo è quel syneiselthēn tō Iēsou, ma syneiserkhomai vuol dire “entrare con qualcuno in un luogo”, con una compagnia che non implica una successività. In poche parole, Pietro e Gv stesso poterono entrare anche prima di Gesù nell’atrio di Caifa perché l’imputato, che essi accompagnavano, sarebbe arrivato a breve. E il fatto che Caifa, che conosceva Gv, non fosse in casa, non significa che Gv stesso non potesse entrare: se lo conosceva il padrone di casa, lo conoscevano anche i servi.

Ritengo dunque che il passo di Gv sul rinnegamento di Pietro e sul processo di Anna vada lasciato così com’è.

In 18,28 inizia la sezione del processo romano. L’allora oun congiunge in modo discorsivo, con una falsa consequenzialità, i fatti della notte con quelli del pretorio: in mezzo c’è il processo del mattino. I vv. seguenti spiegano che non furono i sacerdoti ad entrare nel pretorio, ma Pilato ad andare loro incontro per non farli contaminare in luogo impuro. Anche questa sequenza integra in modo mirato i sinottici, specie dopo le novità inserite nello schema tradizionale di Mt-Mc da Lc. Ma una struttura di fondo è ben visibile anche in Gv. C’è un primo colloquio stringato e schematico ai vv.29-32 tra il procuratore e il sinedrio. Alla domanda di Pilato sulle accuse da muovere a Gesù i sacerdoti danno qui una risposta che è chiaramente allusiva, e cioè che non l’avrebbero consegnato se non fosse stato un malfattore. Ossia che lo portarono lì per un reato di competenza del governatore. Le accuse mosse sono senz’altro quelle di Lc 23,2, relative al suo messianismo, a cui il sinedrio da un colore politico. Che queste accuse siano state formulate lo attesta pure Gv quando, ai vv.33 ss fa riferimento a Gesù come Re dei Giudei e alle accuse mossegli in tal senso dalla sua gente. Evidentemente Pilato all’inizio non deve aver prestato molta attenzione a quelle accuse, che per lui erano in fondo paccottiglia religiosa in salsa politica. Deve perciò aver tentato di sbarazzarsi del caso come dice Gv al v.31, invitando il sinedrio a giudicare Gesù secondo la legge giudaica. E qui i sacerdoti devono aver stizzitamente replicato che per la legge giudaica doveva morire (v.32) magari esponendo le accuse raccolte da Lc. Nei sinottici c’è una simultaneità di interrogatorio di Pilato e di accuse del sinedrio, e in mezzo un Gesù silenzioso, che pronunzia solo un “Sy legheis Tu lo dici” come risposta alla domanda “Sy ei o basileus tōn Ioudaiōn Tu sei il Re dei Giudei?”. Nemmeno all’invito di Pilato di rispondere alle tante accuse mossegli Gesù replica. Credo che questa sobria esposizione sinottica sia il condensato di quanto Gv narra con più dovizia di particolari, probabilmente autoptici, nei vv. 33-38. Pilato sicuramente tentò un primo interrogatorio fuori del pretorio, ma poi proseguì all’interno con più calma. Nel dialogo tra lui e Gesù il “Sy legheis Tu lo dici” assume una collocazione più consona e significativa, nel v.37 b, dove introduce una digressione di Gesù sul concetto stesso di verità. Gesù può dire quella frase perché Pilato stesso l’ha chiamato re, dopo che lo ha sentito parlare della natura ultramondana del suo dominio. Pilato, scettico per formazione, si convince che Gesù è assolutamente innocuo, anche se per sue misteriose ragioni rifiuta di difendersi in modo energico. Il colloquio tra i due, che se non ebbe interpreti si svolse presumibilmente in greco, persuase il governatore a rilasciare Gesù.

Nel frattempo si andava radunando la folla per la richiesta consueta di liberazione di un prigioniero, come attesta Mt 27,13. Da questo momento – ossia dall’uscita di Pilato dal pretorio per la prima volta – si parla di folla e non più solo di sacerdoti, almeno nei sinottici. Gv parla genericamente di Giudei. Questi ribadiscono le accuse a Gesù, fanno riferimento alle sue origini galilaiche e Pilato ne approfitta per mandare quello strano prigioniero da Erode Antipa (Lc 23,5-12). Ma anche questo escamotage è inutile, e Gesù, riconosciuto innocente anche da Antipa, torna al pretorio.

A questo punto Pilato pronunzia alla folla il discorsetto di Lc 23,14-19, che Gv sintetizza ai vv.39-40, in cui sottende sia l’arrivo della folla che il processo erodiano. Lc fa riferimento ad Antipa, che scompare in Gv. Pilato ha appena ricevuto il messaggio della moglie riportato in Mt 27,15-19, ma la folla è ormai forcaiola. In Gv i Giudei – generica definizione dei sediziosi- chiedono una prima volta a gran voce la liberazione di Barabba e la morte di Gesù. Pilato allora, come compromesso, fa flagellare Gesù, in vista di altri più aspri castighi, pur di liberarlo dalla morte. Gv descrive la flagellazione e la conseguente coronazione di spine in 19,1-3. E’ il primo evangelista a dare una collocazione precisa alla flagellazione, presentata come antepreparatoria alla morte in Mt e Mc, supposta in Lc ma non collocata precisamente nella giornata. Inoltre Gv vi lega la coronazione di spine, che era stata ampiamente descritta in Mt e Mc, e che seguiva sì la condanna a morte popolare, ma senza specificare che era avvenuta dopo la prima richiesta. Siccome Gesù era stato alla fine condannato, e siccome Mt e Mc avevano riunito in una sola sequenza il processo popolare con la triplice richiesta di morte, la coronazione era stata descritta prima della Via Crucis. Qui come nel processo religioso Gv ricostruisce la cronologia più difficile.

A questo punto vi è l’episodio dell’Ecce Homo, in 19,4-7: ancora Pilato tenta di salvare Gesù, ma la folla ne reclama la condanna per la seconda volta, grazie al vivo intervento del clero e delle guardie. Segue allora il secondo colloquio tra Gesù e Pilato ai vv.8-11: il governatore, stretto tra il tumulto popolare e i richiami della coscienza e della moglie, è turbato, ma Gesù è imperturbabile. Pilato allora tenta un’ultima convinzione della folla, quella di Lc 23, 22 ss., perché cercava di liberarlo (Gv 19,12), ma senza successo. Il sinedrio, che aveva ampi poteri d’autonomia, ventila a Pilato la minaccia di accusarlo dinanzi a Cesare per aver sostenuto un aspirante Re dei Giudei, autointitolatosi senza permesso. Accusa insidiosa pure per Gesù in quanto discendente di Davide. Pilato tenta di far leva sull’orgoglio patrio, presentando Gesù ancora alla folla come re, in un luogo separato del pretorio, diverso da quello in cui si era presentato alla folla nella volta precedente: il Litostroto, luogo adatto ad un’istruttoria pubblica in cui la folla era ultimo giudice. Ma il clero, rinnegando se stesso, afferma coi soldati di non avere altro re eccetto Cesare. In questo contesto si dev’essere collocato il gesto della lavanda delle mani, di Mt 27,24-25, a cui seguì la condanna vera e propria. L’ora è la sesta, tra le nove e mezzogiorno; il giorno è la Parasceve della Pasqua. Coincidenza liturgica importante per Gv.

Al v.17 Gv condensa tutto l’itinerario di Gesù al Calvario, omettendo sia i particolari di Mt-Mc che quelli di Lc. Parla genericamente di altri due crocifissi con lui, omette sia l’offerta del vino mirrato con il conseguente rifiuto di Gesù, sia la parola di perdono da lui pronunziata durante la crocifissione. Riprende tuttavia un particolare che ebbe in lui un teste oculare: la questione del cartello di condanna. Essa era stata portata con Gesù al Calvario, per cui i sacerdoti la lessero prima che il popolo potesse vederla sulla croce (vv. 20-21). L’ “allora oun ” del v. 21 non va inteso in relazione al fatto che i Giudei lessero l’iscrizione, e se ne scandalizzarono, come sembrerebbe da una prima lettura, ma dal fatto che i sacerdoti dissentirono dal contenuto. Alla loro legalistica protesta, che voleva far intendere che Gesù aveva preteso di essere re, senza che nessuno lo riconoscesse, Pilato dà una sprezzante e sbrigativa risposta. Peraltro, la triplice lingua dell’iscrizione attesta da un lato il trilinguismo di Gerusalemme, e dall’altro la presenza di Ebrei della diaspora per la festa di Pasqua, che potevano da esso venire a conoscenza delle pretese messianiche di Gesù e, indirettamente, dell’esistenza di un suo gruppo, che le aveva evidentemente assecondate, così da giustificare quel titolo regio. Era una cosa che il sinedrio non poteva gradire.

Un altro episodio di complemento, derivato da una testimonianza oculare, viene dato da Gv ai vv. 23-24, quando riprende il tema della spartizione delle vesti, a cui i sinottici avevano dato uno spazio essenziale, spiegando che solo la tunica fu sorteggiata, mentre le vesti furono strappate, e annotando che proprio questo modo di fare adempì la Scrittura, nel Sal 19,21. L’episodio ci fa sapere che quattro erano i soldati che piantonavano Gesù dopo averlo accompagnato, e che le sue vesti erano di ottima fattura, ad onta di chi ancora oggi lo descrive come un predicatore assolutamente povero di stampo essenico.

Gv esclude dalla narrazione gli scherni dei sacerdoti, delle guardie, del popolo e del cattivo ladrone; anche l’episodio di quello buono è tralasciato. In compenso apre una piccola parentesi su chi stava ai piedi della croce: la Madre, la sorella di sua Madre – ossia Maria madre di Giacomo, Ioses e Giuda, sposa di Alfeo, chiamata così per un semitismo - Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Aggiunge incidentalmente della presenza del discepolo da lui prediletto, ossia lui stesso – come attesta 21,20.24. Coglie l’occasione allora per riferire il toccante testamento di Gesù nei confronti della Madre. Siccome si tratta delle ultime volontà, è probabile che siano state pronunziate non subito, di sicuro dopo lo scambio di battute con il buon ladrone. Questo episodio, tralasciato dai sinottici – da Mt e Mc per la loro parsimonia annedotica, da Lc per ragioni sconosciute, forse perché la sua fonte, magari la stessa Madre, omise ciò che la riguardava per pudore – viene da lui narrato non solo per completezza storica, essendovi coinvolto, ma anche per scrupolo teologico, avendo intuito il suo particolare significato legato al termine ghynai donna, con cui sempre Gesù chiama la Madre nel suo Vangelo e che riecheggia la “ ̉ishsha donna” della Genesi. Non c’è ragione di dubitare della storicità dell’uso di questo termine da parte di Gesù: se non l’avesse usato, non ci sarebbe stata ragione che Gv lo utilizzasse. Gesù, intitolando se stesso con il biblico Figlio dell’Uomo, per forza di cose doveva scegliere un appellativo biblico anche per la Madre. In effetti, per una persona che, come lui, pensava di poter salvare il mondo in contrapposizione al peccato di Adamo, l’uso di un appellativo legato alla Genesi per la Madre non è tanto stupefacente.

Al v.28 Gv dice che “meta touto dopo questo”, ossia dopo questo colloquio, disse “Dipsō Ho sete”. Questo apre una questione sulla successione delle parole di Gesù in croce. Se la prima fu quella di Lc: Pater, afes autois: ou gar oidasin ti poiousin Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno, e la seconda quella dello stesso Lc: “Amēn soi legō: sēmeron met’emou esē en tō paradeisō Oggi sarai con me in Paradiso”, rivolta al ladrone, ci si può chiedere: l’enigmatica frase “Eloì Eloì lemà sabactàni”, a cui è legata, in Mt e Mc, l’atto malevolo dei soldati che lo dissetano con aceto, fu pronunziata prima o dopo della frase rivolta alla Madre e a Gv? Se Gesù disse “Dipsō Ho sete” subito dopo il colloquio con loro due, allora la citazione del Sal 22 fu fatta prima, e Gesù potè essere dissetato più volte, anche senza averlo chiesto. A questa reiterata azione farebbe riferimento Lc in 23,36, attribuendola ai soldati. In effetti, per un condannato a morte in croce essere dissetato più volte, a causa della disidratazione dovuta all’emorragia e all’asfissia, era o poteva essere normale, persino come una forma di prolungamento del supplizio. L’aceto era poi la bevanda acidula dei soldati, l’unica che avessero sottomano. E infatti Gv vuole evidenziate che ad un certo punto fu proprio Gesù a chiedere di bere, atto che né Mt né Mc avevano indicato. Essi, dopo aver detto che Gesù gridò: “Eloì Eloì ecc.”, dicono che gli astanti, pensarono che chiamasse Elia e, avendo compreso che era prossimo alla fine, uno di loro prese una canna, vi infilò una spugna imbevuta d’aceto e dissetò Gesù, per vedere se veniva Elia a liberarlo. Mc fa intendere che quello che lo dissetò lo fece in contrasto con gli altri astanti – evidentemente i soldati, gli unici abilitati a dissetare il condannato – che volevano vedere se realmente Elia avrebbe liberato Gesù. Lo stesso voleva vedere l’anonimo soccorritore di Gesù, che però riteneva che bisognasse farlo vivere un altro po’, per vedere se Elia lo ascoltava. E Mt registra che gli altri soldati gli chiedevano di smettere di dargli da bere. Quando Gesù disse: “Eloì Eloì ecc.” i soldati fecero questa riflessione su Elia, e uno di loro subito – come dice Mt- prese la spugna. Potè Gesù, nel frattempo di questa stupita reazione e di questa operazione di preparazione della spugna, parlare con la Madre e Gv, così che “meta touto dopo questo”, potè chiedere lui stesso da bere, con un particolare omesso dai sinottici? Non possiamo dire con certezza. La logica dovrebbe separare le parole alla Madre e a Gv da quelle del Sal 22, che rivelano uno stato d’animo più angosciato, e un progredire nell’abbattimento legato all’ineluttabile consapevolezza della morte. Tuttavia Gesù potrebbe anche aver prima citato il Sal e poi, in un momento di tenerezza sconsolata, aver pensato alla madre. E dopo ciò aver chiesto da bere. I sinottici avrebbero omessa la richiesta perché probabilmente i soldati non l’avrebbero esaudita se non si fossero incuriositi della preghiera a Elia. Ma Gv, che simmetricamente esclude le cose dette dagli altri ma incastra le novità nel flusso dei fatti, precisa appunto che Gesù chiese da bere ina teleiōthē ē grafē per adempiere la Scrittura, ossia ricordando proprio ciò che dice il Sal 68,22, in cui si profetizza che per dissetarmi mi hanno dato aceto. In tal senso è molto più probabile che le parole Eloì ecc. e Ho sete siano state consecutive: Gesù gridò, e poi subito, ai soldati ben disposti dalla curiosità, chiese da bere. Non c’è motivo di dubitare della richiesta di Gesù, a cui Gv ha dato un senso profetico: è perfettamente naturale che avesse sete, almeno all’estremo. Dopo aver ricevuto l’aceto disse: Tetelestai Tutto è compiuto. Disse – eipen - , e non gridò – fōnēsas fōnē megalē in Lc, krapsas palin fōnē megalē in Mt. Perciò l’alto grido fōnē megalē di Mt e Mc, che Lc identifica con le parole: “Pater, eis kheiras sou paratithemai to pneuma mou Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, non fu l’ultima parola, ma l’ultima udita dai testimoni più lontani. Peraltro, furono queste di sicuro le ultime, perché anche da lontano si potè vedere Gesù chinare il capo. Ma Gv riporta ciò che udì stando ai piedi della croce, tralasciando senza ignorare – come dimostra l’uso accorto del verbum dicendi – la frase lucana, a cui meglio si addice di essere stata pronunziata col capo verso il cielo, come preghiera, così da farlo vistosamente reclinare in morte. Omette poi anche lui il terremoto, che non è assolutamente in linea con il suo angolo visuale, e tralascia la reazione del centurione. Salta a piè pari la lacerazione del velo, le tenebre e la discesa agli inferi. Ma descrive, ai vv.31-37, l’episodio della lanciata al costato, presentandolo come l’ennesimo adempimento delle Scritture. L’affrettamento dell’esecuzione mediante il colpo di lancia è giustificato dalla Parasceve, e assume un aspetto inusitato non per il modo ma per il tempo, appunto legato alla liturgia. Ancor più sorprendente appare dunque la morte rapida di Gesù, così da giustificare l’interpretazione mistica di Gv e la curiosità di Pilato in Mc al momento della visita di Giuseppe di Arimatea. Questa lanciata prova ulteriormente l’autentica morte di Gesù in croce. La ferita al cuore vanifica i dubbi di chi lo voleva solo svenuto; ma anche se fosse solo svenuto dopo l’alto grido, sarebbe morto in pochi minuti, non potendo alzarsi più sui piedi feriti per liberare la cassa toracica bloccata dalle braccia stirate nella crocifissione: sarebbe cioè morto asfissiato inconsapevolmente. Che poi Gesù sia morto relativamente presto si deve alle torture che forse gli altri due non ebbero – come la flagellazione e di sicuro la coronazione di spine – e per le altre sofferenze inflittegli nei vari processi, oltre che per lo sforzo di portare una croce completa – non essendo stato predisposto il palo nel terreno del Golgota, poiché erano previste solo due condanne – e per le ampie sofferenze interiori, già iniziate nella notte, il cui impatto emotivo si era visto nella sudorazione di sangue.

Nell’ultimo brano, Gv descrive l’imbalsamazione di Giuseppe d’Arimatea e di Nicodemo, nei dettagli non riportati dai sinottici: la presenza del secondo uomo, l’uso delle bende oltre che del lenzuolo – e quindi l’esplicita menzione dell’inizio dell’imbalsamazione stessa, supposta nei sinottici – e le ragioni della scelta della tomba di Giuseppe. Su questo ci siamo già diffusi in precedenza, e nella ricerca sulla Resurrezione.


Theorèin - Marzo 2007