LA PASSIONE E LA MORTE DI GESU'
NEI RACCONTI DEI QUATTRO VANGELI:
A cura di: Vito Sibilio
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Capitolo 5
CONCLUSIONE

Come possiamo, a distanza di circa duemila anni, commentare la straordinaria personalità di un uomo, Gesù di Nazareth, che scelse di consacrare la sua vita alla morte, nell’idea, sublime e sconcertante insieme, di salvare l’umanità con il proprio sangue? La fede c’insegna che Egli è portatore della Sapienza divina, di cui anzi è la Sussistenza Ipostatica. Ma storicamente possiamo supporre e dedurre il cammino che l’Uomo Cristo, unito per la fede al Dio Figlio nell’unica Persona omonima, compì per elaborare in termini intelligibili, culturalmente definiti, la sua straordinaria dottrina. Gesù compì un tragitto di autoformazione, in circostanze storiche che ci sfuggono ma che possiamo costruire, e mediante percorsi interiori che non conosciamo e che possono benissimo identificarsi con le conoscenze sovrumane che la Fede gli attribuisce, ma che lo studioso deve senz’altro tematizzare, aiutando peraltro il teologo a capire l’aspetto più profondo e sconcertante dell’Incarnazione: la formazione umana di Colui che miliardi di persone considerano anche Dio. E questo in relazione alla sua morte, che Egli visse come un fatto inevitabile e salvifico.

Una prima riflessione che s’impone è quella che facevamo già in precedenza: se Gesù è stato un semplice uomo, e non Dio, la sua generosissima idea di salvezza – la più alta istanza della morale umana – è anche il più grande abbaglio dell’umanità. Non è infatti questo un problema relativo solo all’inquadratura storica del pensiero di Gesù nel dibattito dell’ebraismo a lui coevo sulla purità: è una questione che ricade su tutta la nostra concezione morale, che è scaturita da quel dibattito ormai remoto. Se il sogno generoso di un Dio fattosi carne per salvare i malvagi – prodigio di misericordia – è solo il parto di una mente esaltata, allora realmente dobbiamo constatare sconsolati che la massima moralità coincide con la più miseranda decadenza, e che l’uomo nobile è sinonimo di folle. Veramente allora non rimarrebbe come pensa Nietzsche che una trasmutazione dei valori, dopo aver sconsolatamente constatato la fine di ogni criterio di giudizio con la morte non solo di Dio, ma di Cristo, il quale, nonostante la secolarizzazione, è ancora avvertito come un maestro di morale. Ma è questa una contraddizione che prima o poi si risolverà: via via che si prenderà coscienza che il Gesù storico è un Gesù che vuole redimere, ossia che la croce non è solo la sua fine sfortunata ma è il suo compimento esistenziale agognato e preparato, allora si porrà pure il problema di come valutare il senso etico di questa scelta: il più nobile degli insegnamenti di Gesù, dare la vita per i propri amici, sarà ricondotto al suo presupposto metafisico – spesso oggi mistificato: ossia che egli presumeva di applicarlo in prima persona per salvare il mondo. Inevitabilmente, o si riconoscerà che poteva farlo, o si dovrà archiviare definitivamente la sua figura storica e il suo insegnamento. Si è già provato a farlo e in gran parte ancora lo si tenta: con quali catastrofici risultati lo possiamo vedere tutti.

In effetti, all’idea della morte redentiva di Cristo è strettamente connessa quella dell’uguaglianza degli uomini, a cui essa è universalmente destinata, ed è legato anche il plesso tematico del Discorso della Montagna che, con le Tavole della Legge, costituisce il nesso dialettico fondamentale della morale semitica giudeo-cristiana che oggi ha praticamente conquistato tutto il mondo. Se fosse chiaro a tutti che il maestro Gesù, che c’insegna la morale della carità, è identico al redentore Cristo, per cui se l’uno è falso lo è anche l’altro, che accadrebbe alla civiltà? E’ una domanda che volentieri giro ad altri, essendo fermamente convinto della storicità della Resurrezione di Cristo, e quindi del valore espiativo reale della sua morte.

Una seconda considerazione che viene fuori riguarda Gesù in quanto tale. Per decenni la critica agnostica ha cercato di farlo svanire nelle nebbie di una speculazione teologica a posteriori dei suoi discepoli, edulcorando il suo insegnamento in una serie di formule vaghe, nelle quali non si sapevano riconoscere le ipsissima verba del Fondatore. Oggi, alle obiezioni tradizionali da muovere a questa critica più che di parte, perché ideologica – sia pure in modi differenti – si aggiungono i rilievi che scaturiscono da una mole sempre più impressionante di documenti storico-letterari: l’archeologia, da Nazareth a Betlemme, fino a Gerusalemme, passando per Cana, Ain Karim, Cafarnao, ecc., ci restituisce i luoghi in cui Gesù visse e operò; la critica testuale e la papirologia ci ridanno i testi originali dei vangeli così come uscirono dalla penna dei loro autori, praticamente contemporanei a Gesù stesso; la filologia ricostruisce i testi del Giudaismo coevo, da Qumran a molti altri siti, inquadrando in esso temi e problemi del Nuovo Testamento, che prima sembravano completamente avulsi dalla storia. La conseguenza è che Gesù assume una concretezza storica e una nettezza di profilo mai avute prima. Di lui possiamo dire che, pienamente inserito nel dibattito teologico del suo tempo, diede delle risposte originalissime ai problemi ad esso connessi, e fondando con questo ciò che noi chiamiamo il Cristianesimo. L’autocoscienza che egli ebbe di sé e che lasciò ai suoi discepoli, tutt’altro che sprovveduti e incolti, gli permise di elaborare una sofisticatissima concezione messianica che, sussumendo in sé elementi eterogenei, seppe tuttavia fonderli in una visione organica originale e perciò nuova, che fu capace – a conti fatti – di parlare a tutte le frange dell’ebraismo e di realizzare l’anelito al proselitismo universale che risaliva al profetismo esilico e postesilico.

In che maniera Gesù ripensò il messianismo? In una cosa egli fu fortunato: nel nascere dalla dinastia davidica, presumibilmente da un ramo cadetto. Non vi è ragione di dubitare di questo dato storico, tanto più che ai tempi di Gesù stesso il messianismo regale non era più legato alla Casa di Davide in modo netto. Molti attendevano un Messia re, ma pochi ancora dalla famiglia dell’antico sovrano: per i più la discendenza era metaforica, e Davide solo un archetipo della regalità messianica. Questo trapasso era già accaduto con Ez 34, 23-24 e con il Trito Isaia (60,17). Da questo re tuttavia i più attendevano trionfi politici. 2Sam 7, Is 11 e Ger 23,5 erano, dalla notte dei tempi preesilici o esilici, i testi di riferimento di questo messianismo davidico trionfalista, la cui ultima mimesi era stato l’acceso nazionalismo delle Odi di Salomone e degli Zeloti, che pure – con l’apostolo Simone, parente di Gesù – si avvicinarono al Cristo, evidentemente perché trovavano nella sua nascita un elemento di contatto con la loro ideologia. Gesù, vivendo e respirando anche una parte delle antiche aspirazioni familiari, trovò in esse l’humus per sviluppare una significativa correzione al messianismo davidico: non più un regno universale terreno retto da un re raffigurato in Davide, ma un regno spirituale retto da un re realmente discendente dell’antico sovrano. Ezechiele e i profeti avevano corretto la formula del Secondo Libro di Samuele e del Proto – Isaia perché sconcertati dalla decadenza della Dinastia e dalla distruzione del Regno per mano dei Babilonesi. Ora Gesù li corregge, e con un colpo di genio recupera il senso letterale del messianismo classico applicandolo a sé, e spostando la lettura spirituale sul concetto del Regno da realizzare. Potè fornire ai nazionalisti così un compromesso ideologico: non dovevano più rinunziare al Re legittimo, ma alla loro concezione del dominio. Questo permise a Gesù di saldare in una sola predicazione il tema davidico a quello spiritualistico, e fece della sua famiglia – dopo alcune perplessità attestate anche dai Vangeli – un suo forte supporto: Giacomo, Giuda, Simone erano suoi apostoli e cugini, mentre Alfeo, Cleofa e le loro mogli erano suoi zii e discepoli, come del resto il cugino Ioses e la madre sua Maria. Gesù potè inoltre così dire, senza smentita alcuna, che le profezie sulla discendenza davidica del Messia, sebbene ormai dai più dimenticate, si erano adempiute. In quanto poi alla spiritualizzazione del concetto di Regno, era di sicuro una mossa ardita – perché il nazionalismo era molto forte tra gli Ebrei – ma lungimirante: alle spalle aveva la consapevolezza di numerosi fallimenti temporalisti, sia nell’età del Ritorno dall’Esilio sotto il governo di Zorobabele – ultimo dinasta davidico, ancora vagheggiato messia dal Proto e dal Deutero-Zaccaria (3,6; 9,9) ma sconfessato e combattuto dallo stesso clero aronitico – sia in quella dei Maccabei –Asmonei. Gesù capì bene non tanto che non c’era più spazio per un impero di tipo salomonico, ma che c’era predisposizione per una grande espansione spirituale della cultura giudaica, fondata sulla lettura allegorica della tradizione profetica, riallacciandosi ad un filone già operoso da secoli. E non paiano queste riflessioni volte a umanizzare la figura di Gesù in senso deleterio, anzi vorrebbero sortire l’effetto contrario. Egli infatti voleva instaurare questo regno col suo sacrificio: non a caso accetta che Pilato lo chiami re, ma non senza spiegare il senso che per lui ha questo titolo. Ossia il messianismo regale si converte, nel suo pensiero, in quello espiativo. Non opportunismo settario, ma misticismo purissimo va rintracciato nel pensiero del nostro fondatore religioso.

Ma un altro elemento va rintracciato nella formazione personale di Gesù per capire come egli arrivò ad un’altra delle sue sintesi eclettiche: quello relativo al messianismo sacerdotale. Già in Zc 4,12.14 compare l’idea di un messia che sia anche sacerdote, ossia che i Cristi debbano essere due. Questa idea implica che il secondo inviato divino venga dalla stirpe di Aronne. In embrione era già contenuto nella predicazione di Ezechiele, ma che avrà fortuna specie negli ambienti essenici: la Regola della Comunità 9,11, il Testamento di Ruben 6,8, quello di Giuda 21,4 descrivono un duplice messianismo in cui il sacerdote, non più aronitico – come il re non era più davidico – esercitava il primato. Egli interpreterà la Legge nei casi dubbi e annienterà Satana. Questa idea messianica, tutt’altro che isolata nell’ambiente essenico, certamente stimolava l’orgoglio della casta sacerdotale, sebbene nel Testamento di Levi il sacerdozio messianico non apparteneva alla casa di Aronne. Gesù, parente degli aronitici – Zaccaria e Elisabetta erano suoi cugini, e sua Madre era di famiglia levitica, come attestano antiche tradizioni – dovette, nella stessa maniera del cugino Giovanni il Battista, porsi il problema del rinnovamento del sacerdozio e del messianismo clericale; ma la soluzione che ne diede fu ancora diversa. Non contestò il principio che il messia sacerdote dovesse essere esterno alla casa di Aronne, né che dovesse interpretare la Legge e legare Satana. Ma identificò le due figure, la regale e la sacerdotale: non due messia, ma due funzioni. E le riunì nella sua persona. Solo così poteva, in se stesso, officiare il nuovo rito di riconciliazione. Ancora una volta l’elemento della redenzione domina la sua sintesi personalissima, dando forma ad un’intuizione geniale: fare di due messia uno solo. E che lui si sentisse messia sacerdote lo mostrano il Discorso della Montagna, in cui non abolisce ma addirittura completa la Legge – e non solo la interpreta – e le parole con cui accompagna l’Ultima Cena. La sua lotta senza quartiere al potere di Satana, con gli esorcismi e i riferimenti polemici alla sua persona nella predicazione, mostrano poi come egli volesse contrastarlo adempiendo i vaticini sul messia sacerdote. Che si sentisse sacerdote lo mostra poi l’investitura dei XII e dei LXXII, la concessione di poteri che noi oggi chiamiamo sacramentali e l’aver vissuto la Passione e Morte come un rito, citando le Scritture pure sulla Croce, fedele alla sua idea fino all’ultimo. E non meravigli che nella formazione di Gesù ravvisiamo elementi di origine per noi apocrifa: il concetto di canone e di apocrifo non era avvertito ai suoi tempi nel modo esclusivo che abbiamo noi, e inoltre le dottrine che a noi appaiono oggi più esseniche che farisaiche avevano tuttavia una forte base d’appoggio nella comune e antica letteratura profetica. Inoltre, Gesù non presentò mai il suo sacerdozio come scismatico – a modo degli Esseni – ma solo come il compimento di quello aronitico, da rimpiazzarsi certo, ma ancora in vigore e degno di rispetto, sebbene inferiore. E quindi frequentò il Tempio, praticò il culto, si confrontò coi Sacerdoti e gli Scribi e, soprattutto, si fece processare dal Sinedrio, professando solennemente innanzi ad esso le sue dottrine accettando l’interrogatorio. Questo suo rispetto trapassò poi negli Apostoli, sopravvivendo forte proprio tra i suoi parenti, capitanati da Giacomo il Minore.

Il nesso tematico tra queste due “rivoluzioni copernicane” è dato dall’idea del messianismo salvifico basato sul dolore. E’ in vista di ciò che Gesù spiritualizza il regno davidico e unisce la figura del sovrano a quella del sacerdote, superando il sacerdozio aronitico. I passi che Gesù stesso – senza contare i suoi discepoli – utilizza per suffragare l’idea del Messia sofferente sono diversi: Zc 13,17; 11,12-13; 12, 10; Is 53; i Sal 68, 22, 30; Ger 32,9-10; Es 12,46. Ma quelli dominanti sono il Sal 22 e i Canti del Servo del Signore in Isaia (42,1-9; 49, 1-6; 50, 4-11; 52, 13-53, 12).

In questi brani, che potevano anche essere letti in modo messianico, ma che pochi consideravano in tale prospettiva ai suoi tempi, Gesù trova la chiave della sua missione, e su di essi impernia la propria autocomprensione e la conseguente manifestazione. Per molti il Servo sofferente era il popolo nel suo complesso, con un’interpretazione che si era diffusa in età persiana, quando il messianismo regale era ormai decaduto – a causa del perdurante dominio straniero – e quando quello sacerdotale aveva scarso appeal nello stesso clero, pago della protezione del Gran Re. Ma quando i Canti furono scritti dal Deutero-Isaia, tra il 550 e il 538 a.C., l’anonimo profeta seguiva un’ispirazione chiaramente messianica, anche se in un senso completamente diverso da quello tradizionale e da quello sacerdotale, che s’impose di lì a poco. Gesù, cinquecento anni dopo, riprese l’interpretazione letterale. E - come probabilmente aveva fatto l’anonimo autore – l’applicò a sé. Trovò in quei brani il senso della sua missione: l’idea della redenzione del mondo (53,10-11) che, nella sua natura evidentemente delicata e sensibile, fecero maturare una vocazione profetica che non lo fece indietreggiare dinanzi alla morte, anzi gliela fece, per quanto gli fosse possibile, cercare e accettare deliberatamente. Gesù infatti sapeva che la sua predicazione avrebbe comportato la morte tra gli spasimi, poteva ragionevolmente temere la crocifissione – o la lapidazione –con i suoi prodromi – come la flagellazione – e i suoi strascichi – rinnegamenti, tradimenti, abbandoni, processi, oltraggi, maltrattamenti – e li volle deliberatamente, anche se non provocatoriamente. L’ispirazione desunta da Isaia gli fece dunque adempiere le Scritture, in quanto la profezia non è tanto la previsione di un evento i cui protagonisti ignorano di essere stati preconizzati, ma la forza spirituale che riesce a muovere, anche dopo secoli, le persone devote, suscitando in loro una vocazione e un fervore specifico. La profezia si adempie in Gesù, perché trova in Lui colui che se ne sente vincolato, così da agire per forza in un certo modo, dopo averlo deliberatamente scelto. In ragione di ciò, nella sua scelta teologica di fare del Messia un Servo sofferente che per questo diventa Re e Sacerdote, e nella conseguente sua azione di identificarsi con questa figura noi rinveniamo, obiettivamente, la realizzazione dell’antica profezia. Il Messia, per espiare offrendo se stesso, doveva essere sacerdote, ossia compiere un atto cultuale, e una volta compiutolo, avrebbe acquistato la dignità regia, di dominio su tutte le cose (Is 53, 10.12). In questo senso, Gesù è pienamente nel solco della tradizione di Isaia, e per questo riprende e riadatta anche il messianismo davidico, da Isaia stesso patrocinato. Ed è alla luce di questa teologia isaiana che Egli legge anche altri testi basilari nella sua formazione, come il Sal 22, anch’esso di ispirazione davidica e che appunto giunse a citare persino in croce. E in generale, Gesù deve aver fatto ampio uso della lettura spirituale e personale dei salmi e dei profeti, per rintracciare in essi le anticipazioni di quelle sofferenze salvifiche che Egli riteneva dovessero essere caratteristiche del Messia. L’originalità di questa ampia sintesi teologica non ha bisogno di essere commentata.

Ed è proprio in vista di questo sacrificio, tanto cercato e agognato, oggetto di riflessione negli anni della vita nascosta e di predicazione, sia pure solo agli intimi, nella vita pubblica, che Gesù formula la dottrina più controversa del suo messianismo: la sua divinità. Il tema della soddisfazione onorevole implicava una relazione tra la colpa e la vittima, e Gesù ben capiva che un semplice uomo non poteva soddisfare Dio. Se il Messia doveva salvare l’umanità, placando Dio, doveva essere alla sua altezza. Ma solo Dio è all’altezza di Dio. Il Messia doveva dunque essere Dio egli stesso. E siccome Gesù si identificava col Redentore, automaticamente doveva fare di sé Dio stesso, quello che Lui chiama il Figlio, e che Giovanni poi identificò con il Verbo, desumendo da Filone un’ispirazione apposita.

Ma anche questa enorme idea, sulla quale si gioca tutta la credibilità storica di Gesù, non nasce dal nulla, ma è preparata nel suo ambiente, a prova che essa non è una tardiva invenzione avvenuta per gradi, ma una matura manifestazione del suo pensiero, in relazione al dibattito dell’epoca. Solo il fondatore del Cristianesimo poteva formulare la dottrina della sua divinità, perché solo Lui aveva sia l’autorevolezza per farlo sia le motivazioni culturali per arrivarci. Ciò ci introduce al tema del messianismo sovrumano, col quale pure Gesù si relazionò, appunto proponendo – in nome di un rigoroso monoteismo ortodosso – l’identificazione tra il Messia e la maggiore figura sovrumana, Dio stesso.

Il messianismo sovrumano, a torto considerato esoterico o essenico – era invece molto popolare, anche se inviso ai Farisei e al Sinedrio, come del resto dimostrano i Vangeli- si imperniava su quattro figure, teologicamente in concorrenza tra loro: Elia, Enoc, Melchisedec, il Figlio dell’Uomo. Con queste figure, che incarnano un messianismo escatologico molto particolare, Gesù entra in concorrenza. Se da un lato la loro esistenza giustifica il grande salto dal Messia Uomo a quello Dio, il cui iato è colmato proprio dalle teologie che le riguardano, dall’altro Gesù, proprio per acclarare se stesso come Messia sovrumano, polemizza indirettamente con loro, per eclissarle, fino a distruggerle, agendo – in tal senso – in sintonia con la teologia farisaica.

Cominciamo dalla figura di Elia. Nel¬l'ultima parte del libro di Malachia compare la sua figura, destinata a tornare sulla terra in un giorno futuro (3, 23-24). Dunque, Elia non è morto e tornerà dal cielo sulla terra per collaborare in qualche modo alla salvezza di Israele. Gesù si guardò bene dall’identificarsi con lui, ma ne sterilizzò la figura, facendone un tipo profetico, di cui rintracciò il compimento in Giovanni Battista, che presentò come suo precursore. Inserì dunque la teologia eliatica nella sua in modo ancillare. Mostrò anche una istintiva, farisaica direi – nel senso intellettuale – diffidenza per le figure mitiche della teologia contemporanea.

Questo si vede ancor meglio con Enoc. La Bibbia accenna appena al fatto che non morì (Genesi 5, 24); poi non ne parla più. Egli è invece figura centrale di una vasta letteratura, enochica appunto, e che appartiene a quel gruppo di testi che, non essendo stati accolti in nessun canone, sono detti apocrifi. Nel Libro dei Vigilanti Enoc si trova in una posi¬zione addirittura supe¬riore a quella degli angeli, con funzioni che possono essere definite di mediazione e di rivelazione; conosce tutta la struttura celeste ed era riconosciuto come il fondatore dell'a¬stronomia da tutti, anche da coloro che appartene¬vano a quella parte del giudaismo, da cui sono derivati i testi diventati canonici ; fa un viaggio agli inferi . Alcune di queste cose le abbiamo già dette, e abbiamo visto come Gesù e i suoi apostoli si siano appropriati delle prerogative basilari di Enoc, rendendolo superfluo e inutile. Siccome poi il tardo enochismo identifica il suo eroe eponimo con il Figlio dell’Uomo, di cui diremo, Gesù, parlando sempre di sé come Figlio dell’Uomo, potè eclissare del tutto la figura di Enoc.

Il terzo personaggio superumano è Melchisedek. Fino a poco tempo della sua esistenza sapevamo soltanto da due testi: uno è l'Epistola agli Ebrei 7,3, l'altro testo è l'apocrifo contemporaneo Enoc Slavo, dove si narra che fu un personaggio prediluviano (2H, 71, 29). Ora abbiamo trovato un frammento di Qumràn, 11QMelch, scrit¬to verso la metà del I sec. a.C., il quale attesta che il mito di Melchisedek era già attivo assai prima di quanto pensassimo. Anzi, sia pure con un indizio negativo possiamo risalire fino al II sec.: il libro apocrifo dei Giubilei, risalente al II sec. a.C., che è un midrash della Genesi legato all’Enochismo, pur avendo l'abitudine di ampliare il testo con numerosi particolari, tuttavia omette completamente l'episodio di Melchi¬sedek, quale è narrato in Genesi 14, 17-20. Evidentemente Melchi¬sedek era una figura, della quale l'autore preferiva tacere o addirittura lasciar credere che non fosse mai esistita. Questi era un antagonista di Enoc con caratteri di salvatore decisamente marcati. 11QMelch è molto frammentario e non sempre il senso appare chiaro, ma da esso si deducono alcune cose: che Melkisedec è un essere sovrumano, un ’elohim (sostantivo che indica Dio), e che ha il compito di riportare gli ebrei sulla retta via, di farli convertire e di eseguire la vendetta di Dio. Queste funzioni sono tipicamente messianiche, perché funzioni salvifiche. Come si comporta Gesù con Melchisedec? Lo ignora del tutto. Rivendica per sé, come con Enoc, le sue funzioni, peraltro annunziando di esercitarle con mitezza. E saranno i suoi discepoli, proprio nella Lettera agli Ebrei, a presentare Melchisedec come una semplice figura anticipatoria di Gesù stesso, così da spingere i suoi seguaci a farsi cristiani.

Una quarta figura superumana, ancora più tarda, ma la più grande di tutte, è quella del "Figlio dell'Uomo" del Libro delle Parabole, che certamente deriva da Dan VII. Ma nel libro di Daniele il Figlio dell'Uomo era – nell’interpretazione corrente ma non esclusiva - simbolo del popolo di Dio; invece nel Libro delle Parabole diventa una figura autonoma vera e propria, che viene identificata con Enoc (1H [LP], 71, 14) e dichiarata Messia (1H [LP], 52, 4). Gesù, che utilizzò il testo di Dan VII combinandolo col Sal 110 per rispondere a Caifa dando una base scritturistica alla sua pretesa divinità, condivideva la lettura letterale di Daniele, e faceva del Figlio dell’Uomo una persona singola, La differenza capitale sta nel fatto che Gesù identifica se stesso col Figlio dell’Uomo, e parla di sé sempre in terza persona con questo titolo, dimostrando da un lato che l’uditorio ben sapeva a chi facesse riferimento – ossia conoscesse la figura mitica – dall’altro di credersi messia e Dio ad un tempo. Il Figlio dell’Uomo, di cui la mitologia giudaica diceva che era preesistente alle altre creature, giustifica la convinzione di Gesù di essere esistito prima della nascita. Con questa tesi, Gesù si era appropriato della figura sovrumana più importante di tutte, ma anche più evanescente, tagliandola su misura per sé. E ne aveva dato la lettura più radicale di tutte, quando aveva interpretato la sua divinità, adombrata in Daniele, non nel senso generico di un Elohim, ossia di un Dio qualsiasi, ma in quello unico di YHWH, come mostra sia la condanna scandalizzata di Caifa, sia l’uso che del Nome Santo Gesù stesso spesso fa nei Vangeli. I discorsi giovannei, infatti, che più di tutti lo attestano, ricevono da quanto detto una nuova e fortissima attendibilità storica, perché ci restituiscono una polemica teologica fortissima che non aveva più ragione di essere quando il Quarto Vangelo fu scritto. Non a caso Gv, scomparsa ai suoi tempi la letteratura sul messianismo sovrumano, lega la Divinità di Cristo ai Libri Sapienziali e alla rilettura che ne aveva dato Filone d’Alessandria, personalizzandola tuttavia in modo drastico, mediante l’equiparazione tra il Verbo e il Padre. E da questo, paradossalmente, si evince che Gesù, scartando la letteratura apocrifa – ancora non considerata tale ai suoi tempi da tutti – potè argomentare, partendo dalla sola scrittura universalmente considerata ispirata, che il Messia doveva essere Dio. Non aveva poi tutti i torti quando accusava i suoi nemici di incredulità, specie quando – coi suoi prodigi, inspiegabili per la scienza e storicamente certi – forniva riscontri delle sue asserzioni.

Gesù inoltre appare qui chiaramente, con dei motivi che forse saranno ancor più chiari in futuro, come l’inventore di quella che sarà la Trinità. Come abbia potuto arrivare a concepire una pluralità in Dio non possiamo saperlo; forse l’uso di un pluralia tantum in ebraico come sostantivo che significa Dio lo ispirò. Certo, legò questo tema a quello messianico della redenzione, e lo padroneggiò con maestria, come attestano i Discorsi dell’Ultima Cena. Un concetto così astruso non si sarebbe mai imposto se non fosse venuto dal Fondatore. A distanza di secoli, la Trinità e la Redenzione, realtà costitutive della Fede, appaiono come le vere caratteristiche della predicazione sconvolgente di Gesù.

Dinanzi al suo mistero, alla sua fortissima personalità, alla sua dialettica aggirante e profonda, quasi ipnotica, eternata nei discorsi evangelici, tutti noi uomini non possiamo cessare d’interrogarci. Eppure la sua essenza reale ci sfugge, la sua immagine spirituale appare cangiante. Nel film The Passion Satana, in nome del buon senso, sussurra a Cristo nel Gethsemani che nessuno mai potrà mai lavare il peccato degli uomini. Gesù, rinunciando al buon senso, vince dunque una forza diabolica. Ciò vuol dire che da quando Gesù è comparso sulla terra, l’ordine normale delle cose è scomparso, e l’occhio dell’uomo che accetta di vedere tutto coi parametri evangelici scopre nessi insospettabili che si muovono dietro una realtà ingannevole. Gesù dunque, uomo tra gli uomini, si è eternato divenendo per tutti la parte più riposta della coscienza, l’interprete di quelle istanze più intime, con cui tutti dovrebbero confrontarsi, e che rimangono là, dentro e fuori di noi, anche quando le ignoriamo. Gesù ci è dunque divenuto indispensabile, è per tutti ineliminabile: un enigma che interroga ognuno, una risposta che domanda a ciascuno, un’immagine che vede come siamo, una parola che sente le nostre voci di dentro. E’ l’anima dell’umanità, e più di essa perché la supera in tutte le sue miserie. E’ per questo che, dopo tante parole su di Lui, quella più strabiliante di tutti, pronunziata da Lui stesso, da tanti confessata anche a prezzo della vita, rimane, non solo emotivamente e religiosamente, ma anche scientificamente, la più appropriata, quella che sola può emergere dal silenzio che lo riguarda nei suoi aspetti più intimi: Egli è Dio. Il senso di questa frase ci opprimerà sempre tutti, come il Cristo fa con la sua libertà con l’Inquisitore di Dostoevskij, ma non lo potremo mai cancellare. E’ la solo frase che da senso alla sua irripetibile esperienza.


Theorèin - Aprile 2007