Questo studio che segue completa quello già edito sulla Resurrezione
(1), la cui introduzione può agevolmente utilizzarsi per prepararsi alla lettura seguente. In questa sede voglio dimostrare che i testi evangelici possono essere concordati nel racconto della Passione, appianando le apparenti discordanze.
Che senso ebbe per Gesù la sua morte ? Questa domanda, a cui la fede da la risposta più nobile e consolante che mai sia uscita dalla bocca degli uomini, poiché ne fa la scelta libera di un amore redentivo che non si è risparmiato nel soffrire per tutti, assume un significato particolarmente importante per lo storico, sia credente che agnostico o ateo, perché gli permette d’interrogarsi sull’autocomprensione che l’uomo Gesù ebbe di sé e del suo ruolo. Non a caso tutti quei pensatori, quegli studiosi e quegli intellettuali che hanno voluto in qualche modo diminuire la caratura di Gesù in quanto Cristo e Figlio di Dio hanno svilito la sua fine terrena, o considerandola casuale o addirittura passandola sotto silenzio: in effetti, se da un lato l’idea del Cristo Dio implica, nei Vangeli, quella del Redentore, dall’altro, anche se paradossalmente Gesù non fosse Dio e quindi non fosse mai risorto, qualora realmente avesse concepito la sua morte come sacrificio – e avrebbe potuto farlo benissimo, in un processo di autoconvinzione mistica – allora il più nobile messaggio etico-religioso della storia sarebbe basato sulla convinzione, sublime anche se inutile, di un personaggio reale. Sarebbe cioè storico anch’esso, e paradossalmente il pensiero più nobile della storia, quello del morire per salvare tutti gli uomini, sarebbe anche il più falso. Grottesco risultato di una possibile ricostruzione dei fatti, che renderebbe ancor più stupefacente il messaggio evangelico, e più sconcertante ed enigmatica la natura affascinante di Gesù.
Personalmente, alla luce delle analisi filologiche e letterarie, come dei riscontri archeologici, e delle analisi critiche sui fatti evangelici, sono fermamente convinto che l’uomo Gesù non fosse solo uno della nostra specie, ma realmente Dio, perché storicamente risorto. E tuttavia mi sembra giusto, indipendentemente da questa convinzione suffragata da fatti, chiedermi ora se realmente egli volesse morire, e perché.
Condivido pienamente il giudizio di illustri studiosi
(2) per cui è certo che Gesù abbia voluto la sua morte e la sua passione. La sua volontà di morire si configura come un ricercare le circostanze in cui egli sarebbe stato condannato, ma non certo nel modo in cui lo avrebbe fatto un provocatore o un incauto esaltato. La sua è la morte tipica di chi è soppresso per la fedeltà alla propria coscienza. Un Socrate ebreo di diversa levatura e maggior formazione, come del resto apparve a Erasmo da Rotterdam, che arrivò ad inserire l’invocazione al filosofo martire nelle litanie dei Santi, riconoscendo in lui quindi una figura del Cristo. Contrariamente a ciò che diceva Loisy, le circostanze in cui capitò la morte di Gesù ci sono ben note, e i Vangeli in questo sono fin troppo eloquenti: la predicazione riformatrice di Cristo e le rivoluzionarie asserzioni religiose fatte sul suo stesso conto gli causarono l’implacabile ostilità della gerarchia sinedritica, resa ancora più forte dalle polemiche personali, e più determinata dal non voler permettere la nascita di una nuova setta all’interno dell’Ebraismo e dal non voler correre il rischio di complicazioni politiche strumentali. Il fascino carismatico di Gesù resero, agli occhi dei suoi nemici, ancor più necessaria l’estrema misura dell’esecuzione, e giustificano a posteriori l’uso del complotto. Gesù fu consapevole del suo destino, e gli attribuì un significato specifico. Sapendo bene a quale orrenda procedura di morte sarebbe andato incontro per prassi, le attribuì un valore spirituale tutto particolare, preannunziato agli Apostoli e conservato nei Vangeli in quei suoi singolarissimi detti chiamati “Profezie della Passione”, della cui storicità non è dunque il caso di dubitare. Egli non attenuò i contrasti con i suoi nemici religiosi, né – sulla scorta del più rigoroso profetismo – usò cautela diplomatica nel suo insegnamento. Quando furono celebrati i processi religiosi, non rifiutò di esporre il punto più controverso della sua dottrina – la sua stessa divinità – e in quelli civili non tentò una difesa di alcun genere, incapace – o non desideroso – di alcun compromesso. Egli riteneva di aver fornito argomentazioni teologiche sufficienti per convincere i suoi correligionari della sua dottrina, e di averla dimostrata con i suoi gesti taumaturgici. E lo riteneva sulla scorta della tradizione profetica. Perciò accettava e pianificava deliberatamente le conseguenze della missione di cui si sentiva investito. In questa personale elaborazione della morte che lo minacciava, capitale è l’importanza della ricerca del dolore e del sangue, conseguenza ovvia della sorte patibolare a cui egli si esponeva assumendo le posizioni che assumeva. Questa ricerca consapevole orienta sin dall’inizio la sua missione, e conseguenzialmente ha impregnato di sé tutti e quattro i vangeli. La prescienza di Gesù è sottolineata come il suo stato di angoscia sempre più forte nel progressivo avvicinarsi dell’evento. I quattro evangelisti poi insistono, sobriamente ma esaurientemente, sulle torture nel campo romano, sullo stato debilitato di Gesù che deve portare la sua croce fino al luogo del supplizio, sulla sua percezione profetica di quanto gli accade, che lo spinge a citare persino sulla Croce il Salmo 22: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Questa estrema citazione esplicita, lungi dall’essere posticcia, rivela il senso mistico con cui l’uomo Gesù affrontò il supplizio. In una magistrale scena del Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, a chi credeva che Gesù profferisse l’incipit del Salmo per disperazione, il sinedrita Habbacuk, interpretato da Lee Montague, faceva notare sconcertato che in realtà egli citava le Scritture, ossia applicava a sé il senso profetico del testo biblico. La tradizione cristiana, seguendo il senso dei Vangeli, quando intendeva parlar della morte di Gesù, l’ha chiamata «Passione» e «Passione» non è solo «morte». Tutto lascia pensare che il dolore e il sangue fossero sentiti dalla tradizione cristiana e da Gesù stesso come compimento della propria missione.
Questo appare assai evidente nella cena pasquale, nella quale Gesù spezzò e benedisse il pane e il vino dicendo: «Touto estin to soma mou Questo è il mio corpo» e «Touto estin to aima mou Questo è il mio sangue». Questo episodio, di capitale importanza per la storia del Cristianesimo, vero paradigma fondativo della liturgia, del dogma e dell’etica cristiana, si spiega coerentemente con la volontà di Gesù di ripensare tutto il culto ebraico in temini nuovi. Proprio la possibilità di compararlo con una ricca tradizione precedente e contemporanea esclude che esso sia una costruzione a posteriori della Chiesa nascente, di cui non si capirebbe la ragione, data la complessità. Gesù, spiegando anche il significato per cui versa il sangue, la stipulazione del Patto, mostra chiaramente di voler sostituire alla liturgia mosaica basata sui sacrifici cruenti un sacrificio simbolico, attraverso un banchetto. Ma la cosa più originale è che in questo banchetto “povero”, simile a certe tradizioni comunitarie qumraniche ma da esse radicalmente diverse per il significato (oltre che per la presenza del vino, escluso in quelle assemblee), egli vuole presentare come vittima se stesso, anticipando il suo sacrificio cruento e dispensando i suoi discepoli dal ripetere qualsiasi rito di sangue, ma vincolandoli alla ripetizione perpetua del nuovo rituale. Tutti e tre i sinottici puntualizzano che il sangue è «enkhynnomenon hyper versato per», seguito da «pollon molti» in Marco e in Matteo, da un «hymon voi» in Luca. Il Patto, concetto tipicamente ebraico, come è ebraica la necessità che sia stipulato mediante il sangue, appare essenzialmente espiativo. Nel momento in cui Gesù rimpiazza tutta la complicata liturgia sacrificale del suo Popolo con un solo atto cultuale, dimostra tuttavia di avere ben chiari i punti cardine del culto mosaico: l’Alleanza e l’Espiazione, riassemblati nell’unico atto che rifonda il Patto. E’ uno sfondo profondamente semitico, e quindi arcaico, in cui il valore sacrificale e il senso di banchetto, propri dei sacrifici antichi, sono ripensati in modo originalissimo, che tradisce la presenza originale di un fondatore religioso dotato di personalità autonoma, Gesù appunto. Nella Torah il sacrificio è condiviso tra l’offerente e Dio, che ne mangiano l’uno materialmente, l’altro mediante il profumo soave che sale verso il cielo. Nel nuovo rito ne mangiano i discepoli e il Padre, al quale il sacrificio è offerto. In questo la tipologia dell’eucarestia di Gesù è simile ai sacrifici per il peccato, di riparazione, di comunione e simili descritti nel Levitico. Ma, abolendo il sacrificio di un animale, e facendo del pane una mimesi del corpo immolato e del vino una del sangue sparso, Gesù nello stesso tempo può far convivere la tipologia di cui sopra con quella dell’olocausto, in cui la vittima –in questo caso lui stesso – è completamente annientata. Si tratta di una sofisticata operazione di contaminazione teologica tra riti diversi, in vista della formalizzazione di una celebrazione nuova, ad un tempo cruenta e pacifica. Il progetto della nuova liturgia, coerentemente con la consapevolezza del proprio destino, dev’essersi definito nella mente di Gesù da molto tempo prima, come dimostra il suo discorso eucaristico nel Vangelo di Giovanni. In esso – autentico di certo come tutti gli altri giovannei, a causa di peculiarità stilistiche che si ritrovano anche negli altri discorsi di Gesù nei sinottici, e diligentemente conservati grazie presumibilmente alla stenografia – tutta la portata di rottura della nouvelle theologie di Gesù si palesa concretamente, causando tra l’altro l’allontanamento di un gruppo di discepoli (ad ulteriore prova della storicità del discorso stesso). In questo contesto di rifondazione della religione dei padri, per cui dal mosaismo si passa al Cristianesimo, il dolore e soprattutto il dono della vita, materialmente simboleggiata nel sangue, coerentemente con la tradizione del Pentateuco, torna ad essere essenziale nella vicenda di Gesù, e naturalmente in vista della morte imminente. Anche se essa fosse accaduta molto dopo, ormai era imprescindibilmente legata al nuovo rito. Il testo matteano eís áfesin hamartion, in remissione dei peccati, non è affatto un’aggiunta alle parole effettivamente pronunciate da Gesù, anzi ne è l’esplicazione, dovuta dal rabbì ai suoi fedeli discepoli, e soprattutto è lo strumento concettuale con cui Gesù stesso si aggancia al bisogno prepotente di espiazione avvertito dai suoi contemporanei, attestato dai Vangeli stessi e dalla letteratura biblica coeva. Il concetto di áfesis hamartion dal punto di vista dell’ebreo del tempo aveva peraltro un valore molto più vasto che per noi, perché il peccato era la radice di tutti i mali. E naturalmente l’ebreo Gesù condivideva appieno. Egli si inserisce nel dibattito teologico del tempo e ne fornisce la sua personalissima soluzione.
L’idea che il peccato andasse espiato risaliva di certo al mosaismo primitivo, anche se risulta fortemente sentita dai tempi esilici del profeta Ezechiele e sfociò nel rituale della festa dell’espiazione, regolato definitivamente in epoca postesilica
(3). Il principio dell’espiazione è costituito anzitutto dalla consapevolezza dell’esistenza del peccato, e poi dall’idea che il sangue espia
(4). Poiché il peccato merita la morte, l’offerta di una vita placa la divinità che rinuncia così a richiedere la vita del peccatore. Gesù dev’essersi interrogato sulla contraddizione dell’offesa fatta a Dio e dell’espiazione fatta dagli animali. Grande è la sproporzione tra i due termini di confronto. Se il nucleo di questo rituale penitenziale risale ad un’epoca in cui l’idea stessa di vita umana è di poco distinta da quella degli altri viventi, in cui Dio stesso è concepibile solo in modo antropomorfo e soprattutto l’etica stessa è molto grossolana, ai tempi di Gesù la riflessione profetica e la cultura ellenica facevano notare gli stridenti contrasti. Mancava un termine tra il Dio offeso e l’animale espiatore. Era l’uomo stesso, il peccatore. Ma finchè ognuno offre in espiazione per i suoi peccati, ha sempre bisogno di un’espiazione vicaria che è quella degli animali immolati. A Gesù viene il lampo di genio di offrire un terzo per le colpe altrui: se stesso. Ciò implica tre cose: che egli fosse capace di un amore sconfinato, che si ritenesse senza colpe, e che si ritenesse Dio. Senza colpe come gli animali sacrificati, e infinito come il Dio da placare. In poche parole, si era identificato con una parte della tradizione profetica, reinterpretandola ed applicandola a sé. Forse era nel giusto, forse era un illuso. Ma il suo pensiero storico è questo. E soprattutto è suo, in quanto rivela l’impronta del rinnovatore, che vincola i suoi discepoli con le proprie concezioni. Qui passa la cesura tra Ebraismo e Cristianesimo, come nella concezione monoteista di Maometto passa quella tra queste fedi e l’Islamismo, o nella concezione della purificazione di Buddha passa quella tra Brahamanesimo e Buddhismo. Naturalmente ciò implica che Gesù ritenga insufficiente il sacerdozio levitico. Era questa un’opinione diffusa specie tra gli enochici e gli esseni, oltre che a Qumran. Ma anche qui, il suo apporto al dibattito teologico è originale: ad un sacerdozio escatologico o restaurato, atteso da tanti, egli sostituisce il proprio, colmando un altro iato della teologia cultuale mosaica, quello tra sacerdote e vittima, a volte offerta per sè dal sacerdote stesso. E’ solo tenendo presente questa concezione del sacrificio espiatorio che si comprende il ragionamento dell’autore della Lettera agli Ebrei nel cap. 9. L’allusione al rituale dello yom kippurim è chiarissima. Gesù lo ripete e, se il suo gesto ha un valore superiore a quello del Sommo Sacerdote, è per due motivi: il primo è la superiorità del sacerdozio del Cristo rispetto a quello del Sommo Sacerdote, il secondo è la superiorità dello strumento, perché al sangue delle vittime è sostituito il sangue stesso di Gesù. Il valore del sangue come strumento di sacrificio, qualunque sia il fine del sacrificio, è chiaro e si comprende bene solo nella luce delle idee di allora. E si comprende ancor meglio se consideriamo cosa fosse il peccato per Gesù, e come egli lo abbia percepito in relazione alla cultura teologica a lui coeva, componendola in una sintesi nuova.
Gesù riprende dal Fariseismo il valore della Legge sia scritta, sia orale, pur non condividendo tutte le tradizioni farisaiche: per lui il peccato è una trasgressione della Legge, imputabile, come per i suoi implacabili nemici, alla piena libertà di scelta dell'uomo e quindi alla sua piena responsabilità, come attestano i suoi svariati appelli alla conversione, anche se paradossalmente rivolti non solo ai trasgressori delle norme mosaiche, ma agli stessi farisei. Come questi credono nella resurrezione e nell’immortalità dell'anima, anche Gesù ci crede, per cui la sua espiazione altro non è che un mezzo per stornare dagli uomini il castigo eterno, a cui egli fa sovente e cupamente riferimento; in esso c’è la sanzione che il Giudizio dopo la morte può dare degli atti di trasgressione della Legge, temuto da Cristo come dai Farisei
(5). In relazione all’argomento della purità, ampiamente tematizzato nella Torah, ma non riconducibile ad una definizione teorica precisa, il rapporto tra Gesù e il Fariseismo appare ancor più complesso. L'impurità non era un fatto puramente rituale, ma era, invece, un fatto reale che riguardava la vita quotidiana. Se un problema aperto c'era, esso riguardava la natura dell'impurità e la sua relazione col peccato. Non tutti accettavano che anche il peccato producesse impurità. In altri termini: trasgredire una legge riguardante la relazione con le cose impure è un peccato, ma non tutti accettavano che la trasgressione di un qualunque comandamento producesse a sua volta un’impurità. Se Gesù, come i Farisei, rifiutava una consistenza ontologica dell’impurità che noi chiameremmo legale, non era però pronto a rinunciare all’idea di una sua reale esistenza nell’ambito etico. E questo mentre i farisei rigettavano in blocco la sostanzialità dell’impurità, pur obbligando in blocco all’osservanza delle norme della Legge e della tradizione. Gesù, tagliando netto il nodo contraddittorio, negava la natura vincolante dei precetti a cui non corrispondeva una reale impurità, preparando il salto missionario verso il paganesimo di Paolo, fariseo anch’egli, mentre riconduceva ad un’impurità vera le norme che considerava vincolanti, anche qui spianando la strada alla riflessione sul peccato d’origine e sulla grazia di Paolo e Giovanni. In questo dunque mostrava una padronanza dei temi farisaici maggiore di quella dei Farisei stessi.
Complessa è anche l’interazione teologica su questi temi tra Gesù e l'enochismo. Scorrettamente si crede che Gesù fosse più vicino al Giudaismo alternativo che a quello ortodosso: in verità si differenzia e si avvicina ad entrambi, ed è artefice di un suo giudaismo tutto nuovo. L’enochismo, a differenza di Gesù, ignora la Legge mosaica
(6). Alcune opere fondamentalmente enochiche del II-I sec. a.C. (Libro dei Giubilei, Epistola di Enoc) riconoscono la Legge di Mosè, ma subordinata alla Legge delle Tavole Celesti (7), il cui contenuto resta, comunque, in termini generici, come la condanna dei ricchi, dei frodatori, degli idolatri
(8). Gesù accetta l’idea di una integrazione della Legge, e parla di sé come di colui che è venuto a completare la Legge, ma la sua normativa non è contenuta in Tavole Celesti, ma promulgata da lui stesso nel Discorso della Montagna. E’ anche per espiare le colpe contro le Beatitudini che egli vuole morire, ed è coerente con l’idea di una Legge nuova più completa quella di un sacrificio più efficace e nobile che riscatti le colpe commesse contro di essa. Con questa istanza, Gesù si differenzia nettamente dagli enochici, che non hanno mai atteso alcuna redenzione espiativa. Inoltre, se egli non condivide l’idea enochica del cosmo come realtà disordinata in tutto o in parte
(9), tuttavia suppone, in molti discorsi, la concezione dell’influsso diabolico come origine del disordine etico e quindi ontologico, in questo avvicinandosi all’enochismo più maturo, ma superandolo con la proposizione di un sacrificio espiativo che restauri l’ordine perso
(10). Nelle opere enochiche non c’è nessun accenno all'esistenza delle norme di purità, che quindi sono negate come da Gesù
(11). E tuttavia l'impuro esiste realmente in natura come conseguenza del peccato angelico. Questo rappresenta l'origine del male permanente nella storia o attraverso l’impurità o attraverso l’opera diabolica stessa
(12). Tale concezione è presupposta più che esplicitata nell’insegnamento di Gesù, quando parla del diavolo come di colui che fu menzognero fin da principio o quando dice che i peccatori hanno per padre il demonio, ma non fa riferimento a nessun mito protologico. Gesù vuole morire dunque anche per liberare il mondo da questo influsso, e non solo per la salvezza delle anime dalla dannazione, nella cui possibilità peraltro anche l’enochismo credeva. Naturalmente nella tradizione enochica mancava, anche per il discredito gettato sul culto templare, proprio l’idea della redenzione legata ad un rito, con cui Gesù voleva risolvere il problema della liberazione dall’influsso satanico sulle coscienze. Differenza, questa, fondamentale. Infatti, quando il culto mosaico si formò, la demonologia del giudaismo era ancora pressoché inesistente, per cui il rituale espiativo della Torah fa scarsi riferimenti agli influssi del demonio (ad eccezione del ruolo di Azazel, che però è molto particolare). Solo su questa differenza tra Pentateuco ed enochici si innesta la convergenza tra Gesù stesso e costoro, quando l’uno e gli altri mettono in evidenza che la salvezza è legata esclusivamente al pentimento
(13), che naturalmente per Gesù ha valore solo in relazione al suo sacrificio. Con questa idea, più sottintesa che tematizzata da lui, ma ripresa ampiamente dai suoi discepoli più acuti, come Paolo e Giovanni nelle loro lettere, Gesù crea l’ennesima conciliazione degli opposti della teologia a lui coeva, mostrando l’originalità della sua creazione religiosa: quella tra la libertà di scelta del fariseismo e il predeterminismo assoluto professato a Qumran
(14) con la conseguente concezione dell’impurità congenita e della giustificazione per grazia
(15)presenti poi nella teologia cristiana come peccato originale e come giustificazione per fede. Questa rigida concezione, che affiora nella stessa parola di Gesù quando parla di coloro che il Padre ha scelto, assume nel suo pensiero una struttura più ariosa e un aspetto più umano, conforme al suo spirito delicato e sensibile, in quanto proprio la remissione dei peccati che lui vuole compiere permette la santificazione di alcuni e la perdita di altri, mettendo tutti alla pari.
A metà strada tra Gesù e lo spirito qumranico c’era stato il precursore di Gesù stesso, quel Giovanni il Battista che, pur considerando il più grande tra i nati di donna, egli non mancò di correggere in diversi aspetti significativi del suo pensiero, la cui conoscenza tuttavia ci aiuta ulteriormente a capire cosa fosse il peccato per il fondatore del Cristianesimo. Giovanni vedeva chiaramente i mali della sua società, che riteneva, come tutti, conseguenza del peccato. Guardando nel futuro, egli vedeva la rovina imminente ed inevitabile, se non ci fosse stato un cambiamento di rotta immediato. La scure era già posta alla radice; inutile appellarsi ai meriti dei padri; la responsabilità era individuale, e questa urgenza della conversione è ripresa da Gesù stesso in tantissime colorite parabole. Se molti accorrevano a Giovanni, Gesù compreso, vuol dire che la sua fama era divulgata e che condividevano la sua diagnosi dei mali del tempo. Giovanni predicava anche un battesimo di penitenza (báptisma metanoías), che doveva seguire al pentimento. Il battesimo era un rito purificatorio, serviva, cioè, per togliere dal peccatore un'impurità reale, secondo una teologia le cui radici possono risalire fino a Isaia (cap. 6), ma che era particolarmente attiva presso i qumranici, e che viene ripensata nel battesimo cristiano, che attinge la sua energia efficace dalla morte di Gesù. Evidentemente Giovanni riteneva che il peccato producesse un'impurità che doveva essere tolta. La sua via verso Dio era fatta, pertanto, di purità: per evitare qualunque contaminazione, anche minima, mangiava solo cibi, non solo di per sé puri, ma raccolti e preparati dalle sue stesse mani: cavallette e miele selvatico. Si trattava, perciò, di cibi non elaborati né raccolti da altri, che potevano anche essere in stato di impurità e quindi corrompere la purità del cibo. Norme, queste, che Gesù rigetta già nel celebrare una Cena con cibi preparati da altri. L'avvicinamento a Dio non era impedito solo dalla trasgressione, ma dallo stato di impurità conseguente. Anzi il vero ostacolo permanente doveva essere proprio questo. L'ostacolo fondamentale verso la salvezza era costituito per Giovanni dall'impurità conseguente sia al contatto con cose impure, sia al peccato. Ed è ciò che Gesù voleva rimettere col suo sangue. Se dunque questo è il peccato per Gesù, ancor più logicamente capiamo quale sostanza storica egli dava a ciò che voleva rimettere generosamente col suo sangue. E comprendiamo come il suo messaggio, coonestato dalla sua fine, potesse avere successo, appagando contemporaneamente le composite esigenze delle molte anime del Giudaismo.
Per lo storico, che cerca di rappresentare il passato quanto più possibile per mezzo delle categorie che produssero gli avvenimenti che narra, Gesù fu cosciente della sua morte, che accettò pur potendola chiaramente evitare, cioè la volle e la volle particolarmente dolorosa. Il fatto «morte di Gesù», interpretato come sacrificio in funzione del Patto, non deriva dall’interpretazione dei contemporanei, ma dalla stessa intenzione di Gesù, un uomo che credette di salvare il mondo a prezzo della sua vita – e forse lo ha fatto davvero.
1 Cfr. V.SIBILIO, La Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, in “Teresianum – Ephemerides Carmeliticae” LXVII 1 [pp.3-66] e 2 (2006). Edito anche on-line sul sito www.theorein.it. Una versione senza apparato erudito è edita sempre su www.theorein.it.
2 Come l’italiano Paolo Sacchi, per esempio.
3 Il rituale è descritto in Lev 16; 23,27-32 e in Num 29,7-11.
4 Lev 17,11: «La vita (nefesh) della carne (habbasar) è nel sangue; Io l’ho dato a voi per fare l’espiazione sopra l’altare per le vostre vite; perché il sangue espia per mezzo della vita (bannefesh).”
5 Pirqe Avot 3,16.
6 Prima Visione di Enoc [sigla 1H] - Libro dei Sogni [LS] 89,27-38; 2B 4,5.
7 1H Epistola di Enoc [EE] 99,2.
8 1H [EE] 94,6 - 103,5.
9 1H Libro dei Vigilanti [LV] 8 [a livello storico], 18,15 [a livello cosmico]; 1H 2,1.
10 Nel Libro dell’Astronomia [LA] il cosmo è ordine. Cfr. anche il Libro dei Giubile [Giub] 5,11-12; 10,7-10.
11 Eccetto mangiare il sangue: 1H [LV] 7,5; Giub 7,31; 1H [EE] 98,11 e il generico riferimento alle offerte impure di [LS] 89,73, con un binomio che sarà conservato anche dal Concilio di Gerusalemme.
12 1H [LV] 10,8; 19,1; 10,7.8.22;12,4; cfr. il peccato delle sette stelle in 1H [LV] 18,15; 21,3. ma è il senso generale del libro che porta in questa direzione; chiarissimo il Testamento di Ruben 2,1-3. 15).
13 Libro delle Parabole [LP] 50; 63; 68,5; cfr. l’Apocalisse di Sofonia 10, 11.
14 Regola della Comunità [1QS] 4,1b.
15 Inni [1QH] 4,29-30, 1QS 11,3.
Theorèin - Giugno 2006 |