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A cura di: Vito Sibilio
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NON ASSUMES NOMEN DOMINI DEI TUI IN VANUM
Appunti di teologia morale del Secondo Comandamento

“Non nominare il Nome di Dio invano”

“Non assumes nomen Domini Dei tui in vanum,
nec enim habebit insontem Dominus eum,
qui assumpserit nomen Domini Dei sui frustra”.

“Se non credete che Io Sono,
morirete nei vostri peccati”

Nostro Signore Gesù Cristo

“Ou l' mpsē tò ònoma Kyriou
toù Theoù sou epì mataíō.
Ou gar mē katharisē Kyrios
ton lambánonta tò ónoma autou
epì mataíō”

(Il Signore a Mosè)

“Padre, sia santificato il Tuo Nome”

(Nostro Signore Gesù Cristo)

“Non nominare il Nome di Dio invano” è la formula catechistica che esprime il Secondo Comandamento. Il Nome, nella Bibbia, esprime il mistero della Persona che lo porta. Il Nome di Dio esprime dunque tutto il mistero della Sua Natura, della Sua Essenza. E' il Nome Santissimo e Ineffabile: אהיה אשר אהיה’ Ehjeh ’Asher ’Ehjeh, ̉Εγώ ειμί ̉ο̉ ̃Ων; Ego sum Qui sum; Io Sono Colui Che Sono. Esso è più brevemente espresso con יהוה (YHWH), di solito tradotto con Io Sono. Esso è il Nome della Natura Divina, perchè La significa. Questo Nome non può essere adeguatamente compreso perchè il mistero di Dio non può essere mai esaurito. Ma proprio per ciò che esprime, questo Nome non va mai pronunciato invano. Nella tradizione ebraica il divieto di pronunziarLo è totale: al Suo posto si usa antonomasticamente l'espressione Signore Dio, Adonai Elohim, Kyrios Theos, Dominus Deus, che ancora oggi usiamo nel linguaggio comune per riferirci all'Essere Supremo. Una sola volta all'anno il Sommo Sacerdote di Israele pronunziava, con somma reverenza, il vocabolo celeste, nel Giorno del Kippur. Nel NT al Nome che esprime la Natura di Dio si aggiungono i Tre Nomina Sacra, che neanche vanno nominati invano, e che designano le Ipostasi Divine: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Del Figlio noi conosciamo anche il Nome che lo designa quale oggetto del Pensiero del Padre, ossia Logos o Verbo. Di questo Verbo, Incarnato e fatto Uomo, con Due Nature e una Persona, noi conosciamo il Nome:הושׁע' Yeoshua, Ἰησοῦς, Jesus, Gesù - che significa Dio Salva - מְׁשִיחָא Maschiach, Χριστός, Christus, Cristo – che vuol dire Unto, col senso di Re e Sacerdote, in quanto costoro erano consacrati con l'unzione. Anche per questo Nome Santissimo, solo nel Quale si può essere salvati e solo nel Quale ogni ginocchio si piega in cielo, terra e inferi, vale il precetto del Comandamento. Naturalmente i Nomi delle Persone Divine e il Nome di Gesù non sono sottoposti alla censura vocale del Nome della Natura Divina, ma possono essere correntemente e rispettosamente usati, anzi è d'obbligo farlo per il Nome del Redentore, perchè veicola la Sua potenza salvifica, pronunziato con l'intenzione di professare e confessare la Fede in Lui. Analogamente, i Nomi di coloro che sono più intimamente uniti all'economia ipostatica sono oggetto del medesimo rispetto, a partire dal Nome della Beata Maria, Vergine e Madre di Dio, di San Giuseppe Suo Sposo, dell'Arcangelo San Michele, dei Santi Apostoli, dei Cori Angelici, delle Schiere dei Santi, delle Anime del Purgatorio. Vediamo allora la sostanza etica del Secondo Comandamento.

CIO' CHE PRESCRIVE IL SECONDO COMANDAMENTO

Esso prescrive di rispettare il Nome del Signore. Esso è Santo, per cui non può essere usato senza criterio, va custodito nella mente con adorazione e amore, va usato solo per essere benedetto, lodato e glorificato, va ricevuto come un dono che instaura una particolare e piena intimità con Dio, va rispettato per il Mistero che veicola e significa. E' nel Nome di Dio Padre Figlio Spirito Santo che ogni cristiano deve iniziare e concludere ogni giornata, compiere ogni azione, benedire, ringraziare, supplicare, pregare e compiere le azioni del culto. Il Secondo Comandamento proibisce l'abuso del Nome di Dio, della Vergine e dei Santi. La bestemmia consiste nel proferire contro Dio, interiormente o esteriormente, parole di odio, rimprovero, sfida, volgarità, ingiuria e scherno o nel parlarNe male, nel mancarGli di rispetto non mantenendo i propri propositi, nell'abusare del Suo Nome. Tale proibizione si estende anche alle parole contro la Chiesa, la Vergine, i Santi, gli Angeli, i Defunti, le cose sacre. E' blasfemo anche servirsi del Nome di Dio per compiere e giustificare crimini, per ridurre in schiavitù, per torturare e uccidere, per sostenere tesi contrarie alla Rivelazione. In ragione di ciò, la bestemmia è una colpa mortale. Nostro Signore stesso più volte in rivelazioni private (come quelle a Santa Maria Margherita Alacoque) ha chiesto la riparazione delle bestemmie alle anime pie, con le preghiere liturgiche e private– magari simultaneamente alla bestemmia udita, sotto forma di giaculatoria – con il sacrificio e con l'azione. Questa è l'ammonizione di chi ha bestemmiato, qualora l'intervento non possa causare ulteriori ingiurie a Dio, o almeno il contegno di palese disgusto e disapprovazione. L'imprecazione, in cui si inserisce il Nome di Dio senza intenzione di bestemmia, è una mancanza di rispetto verso di Lui. Il turpiloquio, sebbene oggi molto diffuso, è pur sempre una colpa che aumenta a seconda del compiacimento volontario nelle sconcezze dette. La tentazione di Dio consiste nella pretesa di essere liberati da Dio da pericoli a cui ci si è esposti volontariamente o con leggerezza, di essere immediatamente esauditi nelle preghiere di guarigione o nella pretesa di essere preservati dalle disgrazie. L'uso magico del Nome di Dio è un modo superstizioso e peccaminoso di tentare di imbrigliare la potenza del Signore, senza la dovuta Fede e devozione. Il giuramento, compiuto chiamando a testimone di ciò che si dice (giuramento assertorio) o si promette di fare (giuramento promissorio) Dio stesso, vincola gravemente. Esso è valido se c'è l'intenzione di invocare Dio come testimonio e se c'è la manifestazione esterna di tale intenzione. E' lecito se si giura la verità nell'assertorio e se si promette una cosa non dannosa per sé o altri o non contraria alla Legge divina; diversamente il giuramento, se formulato, non va mantenuto. E' spergiuro chi giura in malafede o viola il giuramento, che naturalmente esige di essere fatto con la debita consapevolezza per essere valido. Gesù vieta il giuramento fatto senza criterio (Mt 5,33-34.37), mentre la Tradizione della Chiesa, sulla scorta di San Paolo (2 Cor 1, 23; Gal 1, 20), individua i pochi ma seri casi in cui è lecito giurare, come circostanze solenni e importanti o se lo richiede l'autorità civile o ecclesiastica, evidentemente in Nome di Dio. Le promesse, fatte ad altri nel Nome di Dio, vanno mantenute per l'onore di chi promette e di Chi è testimone della promessa stessa. Alla luce del Secondo Comandamento, merita rispetto il nome cristiano che ognuno di noi ha ricevuto nel Sacramento del Battesimo. Esso dev'essere quello di un Santo che possa offrire un patrocinio al neofita o almeno afferente all'alveo della Tradizione della Chiesa.

QUESTIONI FILOLOGICHE: QUAL E' IL NOME DI DIO NELL'AT.

Il Sacro Tetragramma YHWH è la sequenza consonantica più usata per indicare Dio e indica il Suo Nome proprio. Altri termini usati antonomasticamente come nomi sono אדני (Adonài, Signore), אל (El, Dio), אלהים (Elohìm, Dio, pluralia tantum). Il Tetragramma compare con tre grafie:יהוה (YHWH), nella sua forma piena; יהו (YHW), nella sua forma abbreviata propria in particolare dei nomi teoforici, come ישעיהו (Isaia) o ירמיהו (Geremia);יה (YH), nella sua forma abbreviata presente p.es. nella parola הללויה (Alleluia, ossia “lodate YH”). Nella traduzione greca della Bibbia, la Settanta, il Tetragramma è stato tradotto con Kύριος, Signore, che viene usato anche per rendere l'ebraico Adonai. Per quanto riguarda la sua scrittura, si tratta essenzialmente di quattro lettere dell’alfabeto ebraico, scritte una dopo l’altra, che vanno lette, secondo il modo di scrivere e leggere ebraico, da destra verso sinistra: יהוה . La seconda e la quarta lettera sono uguali: si tratta della lettera he che ha suono di leggera aspirazione, ma che nella lettura normale è praticamente muta. Quando bisogna traslitterare l’ebraico, sostituendo convenzionalmente ogni lettera ebraica con una occidentale, si usa sostituire la he con la lettera “H”. La prima lettera invece, quella più piccola, è una iod. Questa lettera ha suono “ i “, e viene solitamente traslitterata con “Y”. La terza lettera è una vau. Il suono di questa lettera è una “u”, che si confonde con quello di una “v”. Si traslittera con “W”. Da qui la traslitterazione con YHWH. Per ciò che concerne la lettura, come sappiamo, gli ebrei aggiungevano delle ulteriori coloriture di suono, ossia le vocali, che non venivano scritte, perché da tutti intuite per abitudine. Tra il II e l’VIII sec. d. C., si profilò il pericolo che si perdesse l’autentica pronuncia, per cui i Masoreti inventarono altri segni che tenessero traccia, nel testo scritto, anche delle coloriture che ogni ebreo aggiungeva leggendo; questi segni sono le vocali ebraiche scritte. Per inserire le vocali nel Tetragramma, i Masoreti dovettero tener presente un altro fatto: era pratica normale della lettura della Bibbia, per la sacralità del Nome Divino, non leggerLo, ma dire al suo posto Adonai, come si è detto. Normalmente questa parola era scritta, senza vocali, con un’alef, una dàlet, una nun, una iod: ’DNY in caratteri latini. Le sue vocali masoretiche sono una “a”, una“o”, un’altra “a”. Abbiamo quindi ’ADONAY. Questa è la parola che il lettore doveva far finta che fosse scritta al posto del Nome di Dio. Per assicurarsi che il lettore non dimenticasse mai di operare questa sostituzione nella lettura ad alta voce, i Masoreti pensarono allora di porre vicino alle lettere del Tetragramma non le vocali sue proprie, ma le vocali della parola che in realtà bisognava leggere, cioè ’ADONAY. Vediamo come appare il tetragramma se vi aggiungiamo le vocali di ’ADONAY: tenendo presente che la prima “a”, trasferendosi da sotto l’alef a sotto la iod, perde la sua colorazione di “a”, e ritorna ad essere “incolore”, si avrebbe YeHOWAH. L’ebreo conosceva la lettura originale e si accorgeva di trovarsi di fronte ad una parola assurda; ciò gli faceva ricordare che doveva dire ADONAY. Un non ebreo, che sappia appena leggere l’ebraico così com’è, leggerà esattamente ciò che è scritto, cioè “ieova”. Ecco come nasce una vocalizzazione erronea ma di successo, su cui si basa la pretesa dei Testimoni di Geova di possedere il Nome di Dio. Gli studiosi si sono chiesti se sia possibile risalire a come si sarebbe potuto pronunciare realmente il Nome di Dio nell'AT. Sono diversi gli autori non ebrei che ci hanno tramandato il ricordo di come fosse pronunciato il Tetragramma nella loro epoca. Per Diodoro Siculo e Sant' Ireneo di Lione (I sec.): era ΙΑΩ (iao) oppure ΙΑΩθ (iaoth). Nel III sec. Clemente di Alessandria riferisce ΙΑΥΩ (iaù), mentre Origene usa Ἰαο (iao). Nel IV sec. Porfirio usa invece ΙΕΥΩ (ieuo). Nel V sec. abbiamo per Sant'Epifanio di Salamina Ἰα (ia) e ΙΑΒΕ (iabe); per San Girolamo II I II I usata da "greci ignoranti”, ossia una verosimile traslitterazione visiva del Tetragramma stesso. Nel V sec. Teodoreto di Ciro riferisce Ἰάω (iao); ΙΑΒΕ (iabe) e Ἰαβαι (iabai) erano usati dai Samaritani, mentre gli Ebrei usano Ἀϊά (aia). Nell'Alto Medioevo lo Pseudo-Girolamo ha Iaho. Queste varie pronunce corrispondono alle vocalizzazioni delle tre forme del Tetragramma, partendo dalla voce verbale "Io Sono”:

  1. יהוה (YHWH): Ἰαβέ (iabe); Ἰαβαι (iabai). Si tenga presente che nel greco classico il dittongo αι aveva valore fonetico di "e";
  2. יהו (YHW): Ἰαῶ (iao); Ἰαοὺ (iaù); Ἰαο (iao); Ἰευώ (ieuo); Iaho. Il suono "o"/"u" finale deriva dalla mater lectionis ו waw;
  3. יה (YH): Ἰα (ia);
  4. אהיה (eie, "io sono"); Ἀϊά (aia).

Quanto alle forma piena del Tetragramma, secondo la Jewish Encyclopaedia la pronuncia Iabe propria dei samaritani "rende indubbiamente la pronuncia" dell'epoca antica. Anche secondo la Catholic Encyclopaedia la pronuncia samaritana Iabe probabilmente approssima più da vicino il suono reale del nome divino. Gli altri scrittori antichi trasmettono abbreviazioni o corruzioni del nome sacro". Alcune sette pseudocristiane ancora oggi si agganciano alle altre vocalizzazioni delle forme brevi del Tetragramma, senza nessun fondamento. Dice a questo proposito il Vocabolario di Brown-Driver-Briggs: “la pronuncia Jehovah era sconosciuta fino al 1520, quando fu introdotta da Galatino; ma fu contestata da Le Mercier, J. Drusius, e L. Capellus, come contraria alla grammatica e alla storia. Il tradizionale ‘Iaße di Teodoreto ed Epifanio, il suffisso -iau e il prefisso Io- di alcuni nomi propri composti (ricorrenti nella Bibbia) e la forma (del nome di Dio) contratta Iah, sono tutti elementi che fanno propendere per Iahweh… Molti studiosi spiegano Iahweh come forma grammaticale Hiphil di Hawàh (= haiàh) = “Colui Che porta all’esistenza, Colui Che dona vita, Creatore”. Il Magistero cattolico non si è mai direttamente e autorevolmente pronunciato circa la correttezza dell'effettiva pronuncia del Tetragramma, dato che le traduzioni della Bibbia cattoliche rendono il Nome di Dio col termine "Signore" o equivalenti, proseguendo la consuetudine dell'Ebraismo, della LXX, del NT e della Vulgata. La corretta dizione "Yahwèh", quando viene riportata, è presente nell'apparato critico (introduzioni e note) delle versioni, oltre che negli studi esegetici. Per ribadire questa millenaria tradizione, e con un occhio di riguardo alla sensibilità degli Ebrei, la Sacra Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha promulgato, il 29 giugno 2008, con l'approvazione del Beato Giovanni Paolo II, la Lettera alle Conferenze episcopali sul Nome di Dio nella quale impone che:« Nelle celebrazioni liturgiche, nei canti e nelle preghiere, il Nome di Dio nella forma del tetragramma YHWH non deve essere né usato né pronunciato. Per la traduzione dei testi biblici in lingua moderna, destinata all'uso liturgico della Chiesa, dev'essere seguito quanto già prescritto nel n. 41 della Istruzione Liturgiam Authenticam, cioè che il Tetragramma divino venga reso col suo equivalente Adonai/Kyrios: "Lord", "Signore", "Seigneur", "Herr", "Señor", etc. Traducendo, in contesto liturgico, testi in cui siano presenti, uno dopo l'altro, sia il termine ebraico 'Adonai' che il tetragramma YHWH, il primo deve essere tradotto con 'Signore' e il secondo con 'Dio', similmente a quanto avviene nella traduzione greca dei Settanta e nella traduzione latina della Vulgata. » Nella sua forma consonantica יהוה il Tetragramma è simile alla forma verbale יִהְיֶה (yhyèh), terza persona singolare dell'imperfetto del verbo essere הוה =) היה), che può essere tradotto con "è, era, sarà", perchè il tempo imperfetto ebraico indica un'azione non ultimata, indipendentemente dall'effettivo contesto temporale passato, presente o futuro. La radice del Nome ha verosimilmente un'origine preisraelitica, dato che in altre antiche religioni politeiste semite sono presenti divinità con nome simile che richiamano parimenti la radice del verbo essere. Ci sono molti significati, non mutualmente escludibili, che possono essere dati al Nome e che sottolineano variamente la natura ontologica, provvidenziale, creatrice di Dio: Colui Che è Creatore, ossia Colui Che dà l’essere a tutte le cose; Colui Che è sempre, cioè Colui Che mai smetterà di essere; Colui Che è da se stesso, cioè non ha avuto bisogno di un altro essere per essere; Colui Che esiste in opposizione agli dei che non sono (Is 42,24); Colui il Cui Nome è impronunciabile perché non si potrebbe spiegarne totalmente il mistero; Colui Che è agente, cioè cammina al nostro fianco, sta unito al suo popolo (p.es. Es 3,12). L'accostamento del nome di Dio al verbo essere è presente nello stesso testo masoretico: in Es 3, 14 Dio, che presentando Se stesso non può usare che la prima persona, si definisce "אהיה אשר אהיה", Ehjèh Ashèr Ehjèh, ossia, in senso letterale, Io Sono Ciò Che Io sono, Io Sono Chi Io Sono o Io Sono Colui Che Sono; in senso semplice, Io Sono Chi Egli È o Io Sono Colui Che È; in senso teologico, Io Sono l'Esistente, e in senso ipotetico a valore causativo, Io Sono Colui Che fa essere o Io Sono Colui Che porta all'esistenza. Va infine notato che, quando Dio parla di Se Stesso senza presentarsi lo fa anche con la terza persona usando il Tetragramma.

A margine di quanto detto, vale la pena di annotare che nei codici più antichi del NT i Nomi del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo e di Gesù Cristo sono abbreviati, in modo analogo ma non identico al Tetragramma – in quanto l'alfabeto greco usava le vocali – a testimonianza della Fede che si aveva nella Divinità delle Tre Persone e, ovviamente, di come tale Divinità fosse unita all'Umanità nella Persona del Verbo stesso. In genere, abbiamo le seguenti abbreviazioni di Nomina Sacra: IΣ (IS) per Iēsous, XΣ (KHS) per Christos, ΘΣ (THS) per Thèos, ΠΑΡ o ΠΕΡ (PAR o PER) per Patēr, quando è riferito a Dio Padre, ΠΝΑ o ΠΜΑ (PNA o PMA) per Pneuma Aghios, KΣ (KS) per Kyrios quando riferito a Dio, YΣ (HYS) per Hyios, quando riferito a Gesù. Sono anche abbreviati, perchè connessi ai Nomi di Dio, i termini David, Stauros, Sotēr, Mētēr, Anthropōs, Israēl, Ierousalēm, Ouranos, ossia David – antenato regale di Gesù- Croce, Salvatore, Madre – di Gesù- Uomo – in espressioni come Figlio dell'Uomo, riferita a Gesù- Israele, Gerusalemme, Cieli – nell'espressione “Regno dei Cieli” che indica Gesù stesso.

MEMENTO UT DIEM SABBATI SANCTIFICES

Appunti di teologia del Terzo Comandamento

“Ricordati di santificare le feste”

“Memento, ut diem sabbati sanctifices”.

“mv'stē tēn ēméran tõn sabbàtõn haghìazein aut'v”

(Il Signore a Mosè)

“Fate questo in memoria di Me”

(Nostro Signore Gesù Cristo)

“Ricordati di santificare le feste”, prescrive il Terzo Comandamento nella sua forma catechistica. Il sabato è il giorno consacrato a Dio, il Suo riposo dopo la Creazione, conformemente al significato della parola shabbat. La prima funzione della festa è dunque quella di ricordare il compimento del mondo, il memoriale della Creazione, il ringraziamento al Creatore a Cui è riservato un tempo specifico (Es 20, 12). Esso suggella il ciclo ebdomadario o settimanale voluto da Dio stesso per la scansione del tempo profano (sei giorni) e sacro (un giorno). In questo senso, esso è un precetto naturale, perchè l'uomo, che scopre con la sua ragione il Creatore, con la stessa facoltà capisce di doverLo onorare in tempi precisi. Dio ripromulga il Comando per evitare che la ragione, oscurata dal peccato, lo dimentichi. La seconda funzione è la memoria della liberazione della schiavitù d'Egitto, figura della liberazione dal peccato (Dt 5, 15). Il Comandamento diviene così una norma positiva e soprannaturale, legata a ciò che Dio fa liberamente per l'Uomo, legato alla loro Alleanza. La terza e definitiva, che sussume e supera i significati precedenti, è il memoriale della Resurrezione di Cristo. Essa è la nuova Creazione, che ricapitola ogni cosa in Cristo. Il Settimo Giorno è ormai quello che era il Primo, perchè Terzo e ultimo del Tempo della Redenzione. Cristo, morto il sesto giorno, riposa il settimo e resuscita il primo, che diviene il Settimo di un nuovo computo, che non esalta più solo il riposo divino dopo la Creazione, ma quello dopo aver realizzato la nostra salvezza. Tale giorno è anche l'ottavo, ossia il prolungamento del tempo presente e secolare in quello metafisico e futuro. Perciò è questa, ormai, la dies dominica, o domenica, che chiude il ciclo ebdomadario cristiano. Su di essa vertono ormai le norme del Decalogo. Il Giorno del Signore – questo significa dies dominica – è quello in cui si celebra l'Eucarestia, nella forma solenne e pubblica della Chiesa, prescritta da Gesù nell'Ultima Cena. Solo nella Chiesa e con la Chiesa, visibilmente e quindi nei tempi e nei luoghi adatti, può essere offerto a Dio il Sacrificio unico e definitivo. La preghiera privata non può esservi paragonata. Come poi nella Torah, a complemento del Terzo Comandamento, Dio stesso dettò tutta una serie di norme sulle feste liturgiche e sulla loro normatività, così nel NT sempre Dio, nella Tradizione, che accanto alla Bibbia è fonte della Rivelazione, fissa le nuove solennità che ripercorrono nel tempo l'eterno mistero di Cristo. Il cristiano ha bisogno della Liturgia per vivere: se non mangia la carne e non beve il sangue del Figlio dell'Uomo non ha in sé la vita; perciò il Terzo Comandamento è un precetto di etica che prescrive ben altro che un semplice obbligo, è un ordine divino che prescrive ciò che è indispensabile per avere la vita eterna.

CIO' CHE PRESCRIVE IL TERZO COMANDAMENTO

Il Comandamento impone la soddisfazione del precetto festivo. Per esso, tutti i fedeli dai sette anni compiuti sono tenuti a partecipare alla Santa Messa nei giorni festivi, purchè il rito della sua celebrazione sia quello cattolico, in un tempo compreso dal vespro del giorno precedente sino a quello dello stesso giorno festivo. Sono giorni festivi di precetto tutte le domeniche, memorie settimanali della Pasqua che senza soluzione di continuità arrivano al giorno della Resurrezione e in cui cadono le solennità della Pasqua stessa, della Pentecoste, della SS. Trinità; il Giorno Natale del Signore; la Sua prima Epifania; la Sua Ascensione; il Giorno del Suo Corpo e del Suo Sangue eucaristici; i Giorni dell'Immacolata Concezione, della Maternità Divina e dell'Assunzione in Cielo della Beata Vergine Maria; i giorni di San Giuseppe e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Coloro che non ottemperano a tale precetto non adempiono alla condizione posta da Dio per la comunicazione ordinaria della Sua Grazia e la perdono, commettendo peccato mortale. La partecipazione dev'essere personale e attiva, per cui non solo ognuno è tenuto a recarsi in chiesa, ma a compiere l'ufficio suo proprio (celebrante, lettore, semplice fedele ecc.); dev'essere altresì integrale, ossia dall'inizio alla fine della celebrazione. Chi, senza giustificato motivo, non partecipa alla prima parte della Messa, ossia la Liturgia della Parola, commette peccato almeno veniale. Partecipando alla Messa, i fedeli si accaparrano i meriti infiniti di Gesù, ricordano di essere una sola famiglia spirituale, ricordano l'invito di Gesù al banchetto del Paradiso, santificano tutta la settimana offrendo a Dio anche i giorni feriali. Solo determinate condizioni giustificano l'assenza dal precetto festivo: la malattia, l'impossibilità fisica (come un lungo viaggio nel corso della domenica), l'impossibilità morale (come l'eccessiva distanza della chiesa dal domicilio del credente, ossia almeno tre chilometri per chi non usa mezzi di locomozione), il pericolo di un danno grave (come il rischio di un licenziamento), la carità (come l'assistenza ad un malato), eventuali dispense ottenute dal proprio Parroco. Nei luoghi in cui, per scarsità di clero, non si può celebrare, si tengono delle Liturgie della Parola autorizzate dai Vescovi o almeno raduni di preghiera, all'occorrenza anche in case private.

Il Comandamento impone altresì anche il riposo, come astensione dai lavori servili, ossia quelle opere in cui è più impegnato il corpo che la mente, onde potersi dedicare meglio alle attività spirituali ed evitare di essere fagocitati sempre e solo dalle cose del mondo. Il riposo e il precetto vanno insieme e sono un diritto del cristiano. I fedeli devono sostenere quelli tra loro che per svariati motivi non possono riposare. Il tempo libero sarà usato per compiere opere di misericordia e dedicarsi agli affetti, allo studio e alla meditazione come alla riflessione e alla contemplazione, nonché al legittimo svago, senza cedere alle suggestioni del paganesimo di massa oggi imperante. In genere solo legittime tutte le attività liberali, ossia quelle in cui si adopera più la mente che il corpo. Anche coloro che hanno la necessità di lavorare si devono ritagliare lo spazio per Dio e il Suo precetto. Le necessità per cui si può derogare al riposo festivo sono solo alcune: la necessità pubblica o privata (ossia coloro che svolgono un servizio alla collettività come i ferrovieri, autisti, operai e medici di turno ecc. o coloro che sono in gravi situazioni finanziarie o anche chi, come chi miete o vendemmia, provvede indirettamente al bene di tutti), la carità (come l'aiuto ai bisognosi non retribuito), il servizio di Dio (come il lavoro del sacrestano o la preparazione dei luoghi di culto) oltre che i casi singolarmente sottoposti a dispensa dal proprio Parroco. Lo Stato deve tutelare il diritto al riposo, anche a dispetto delle invadenti leggi economiche. Per garantirsi la tranquillità del precetto e del riposo, i cristiani devono adoperarsi perchè la domenica e le altre feste siano riconosciute ai sensi della legge civile, e gli Stati cristiani devono sancire tale riconoscimento nonostante il rispetto delle libertà religiose altrui.

ADNEXUM I

PRAECEPTA ECCLESIAE

Brevissima esposizione sui Precetti della Chiesa

“Gli porrò sull'omero le chiavi della Casa di David:
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno aprirà”.

(Il Signore ad Isaia)

“Chi ascolta voi ascolta Me”

(Nostro Signore Gesù Cristo)

Gesù ha dato a Pietro e agli Apostoli il potere di governare in sua vece (Gv 20, 21). Questa autorità è vera e reale e non dev'essere disprezzata (Lc 10, 16). Essa si esprime nella potestà di ordine, di magistero e di giurisdizione. In virtù di esse la Chiesa, pur non inventando leggi nuove, emana norme o canoni che rendono migliore l'osservanza della Legge di Dio. Le norme certo specificano quanto è generico e spesso sono riformabili, ma il potere normativo è proprio della Chiesa come Dio l'ha voluta ed è immutabile. Perciò i fedeli devono obbedienza alle leggi della Chiesa, in coscienza, e commettono peccato grave o veniale contravvenendo ad esse nella misura in cui queste sono vincolanti. Perciò, se la legge di natura ci ordina di onorare Dio e la legge positiva divina ci dice quando, ad esempio nella santificazione della festa, la legge ecclesiastica ci dice il modo. Non a caso i Cinque Precetti Generali della Chiesa – così chiamati perchè vincolanti per tutti - sono strettamente legati al Terzo Comandamento, perchè danno norme che lo rendono specifico nelle forme che esso assume nella Nuova Alleanza. Il Primo Precetto impone di partecipare alla Messa la domenica e le altre feste comandate. Lega dunque la Celebrazione Eucaristica, prescritta da Cristo, alle feste liturgiche sviluppatesi, per moto dello Spirito, nella Liturgia della Chiesa. Il Secondo Precetto ordina di santificare i giorni di penitenza secondo le disposizioni della Chiesa, innovando la prescrizione penitenziale del VT legata al culto e specificando quella del NT (Lc 13, 5). Le disposizioni della Chiesa in materia sono chiare: l'astinenza dalle carni, intese come ricchezza di mensa, in tutti i venerdì dell'anno, giorno della Passione di Cristo. Tale astinenza è tassativa nei venerdì quaresimali, legati al ricordo dei Quaranta giorni di penitenza di Gesù nel deserto. Negli altri venerdì dell'anno, per volontà di papa Paolo VI (1963-1978), a partire dal 1966, ognuno può, per propria scelta e necessità, surrogare l'astinenza con una preghiera particolare (Rosario, Via Crucis, Visita al Sacramento, la lettura della Bibbia) o con la partecipazione alla Messa, con una mortificazione o un'opera di carità come la visita ad un malato. L'obbligo dell'astinenza inizia a quattordici anni e dura tutta la vita. Va tuttavia rilevato che tale precetto va spegnendosi nella coscienza collettiva. Un'altra forma di penitenza è il digiuno, ossia il salto di un pasto o almeno una sua notevole restrizione, da farsi obbligatoriamente il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo, dal ventunesimo al sessantesimo anno. Ognuno poi può fare astinenza o digiuno o altre rinunce quando vuole, nello zelo e nella prudenza, per espiare le colpe, per mortificare la carne e per altre necessità anche a vantaggio di terzi, sia spirituali che materiali. Il Terzo Precetto impone di confessarsi almeno una volta all'anno e comunicarsi almeno a Pasqua. Unisce dunque l'obbligo sacramentale ad un determinato momento dell'anno liturgico e ad una quantità minima di pratica, essendo indispensabile mangiare la Carne del Figlio dell'Uomo e bere il Suo Sangue per avere la vita in sé, così come è indispensabile confessare le proprie colpe. Va da sé che è un minimo indispensabile e che ognuno è tenuto a confessarsi dopo ogni colpa grave, tanto più che il Precetto fu promulgato quando la pratica sacramentale dei laici era molto più rara perchè si sottolineava l'aspetto tremendo del Sacramento eucaristico. In realtà, anche quando non ci sono peccati gravi, è bene confessarsi almeno una volta al mese. In quanto alla Comunione, è prescritta a Pasqua perchè Gesù la istituì allora; si adempie al precetto eucaristico dalla Domenica delle Palme alla Domenica in Albis o II di Pasqua. Può essere anticipato alla IV Domenica di Quaresima e posticipato alla Festa della SS. Trinità. Tuttavia è bene comunicarsi più spesso, da una volta al mese o alla settimana od ogni volta che si partecipa alla Messa di precetto o anche per devozione, sino alla Messa con Comunione quotidiana.

Il Quarto Precetto non verte sul culto, ma sul sostentamento della Chiesa come comunità dei fedeli, come Popolo di Dio: soccorrere alle necessità della Chiesa contribuendo secondo le leggi e le usanze. Nell'AT sono stabilite, in relazione al culto, le forme di sovvenzionamento e di sostentamento del clero aronitico e del Tempio; nel NT questa regolamentazione spetta alla Chiesa in forme sottoposte a trasformazioni storiche. Esse sono diversamente regolate nel tempo ma sempre vincolanti, nella misura in cui una persona può accollarsele (1 Cor 9, 11-14). Dalla Tradizione e dalla Scrittura infatti emerge il diritto della Chiesa di imporre tributi e tasse ai suoi fedeli, come anche di avere e gestire il proprio patrimonio. Ciò è per il conveniente esercizio del culto e l'onesto sostentamento del clero, nonché il compimento della missione della Chiesa nelle sue varie forme. Il Quinto Precetto prescrive di non celebrare solennemente le Nozze nei tempi proibiti. E' una legge più specifica, relativa al Sacramento del Matrimonio nelle sue forme, che devono essere non solenni nei tempi di penitenza, ossia l'Avvento e la Quaresima, salvo dispensa del Vescovo.

In genere, tutte le norme canoniche specifiche sono riunite nel Codice di Diritto Canonico (promulgato dal beato Giovanni Paolo II nel 1984) (1), per la Chiesa Latina, e nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (promulgato dallo stesso Papa nel 1990) (2). Tali norme specificano i modi della custodia del deposito della fede; dell'azione missionaria; dell'elezione del Papa; dell'elezione, investitura, consacrazione dei Vescovi e dei prelati tutti; della determinazione delle circoscrizioni ecclesiastiche; del reclutamento, della formazione e della disciplina del clero, dei religiosi e dei laici nelle vocazioni loro proprie; dell'organizzazione dei seminari e degli istituti di studi; della disciplina e della regolamentazione del culto e dei Sacramenti nonché della loro amministrazione; della promulgazione e dell'interpretazione delle stesse norme canoniche; delle modalità concrete dell'esercizio dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso e con i non credenti; dell'esercizio della carità nella Chiesa stessa; del compimento dell'azione evangelizzatrice nei vari ambiti della attività umana; dell'amministrazione della giustizia e della grazia nella Chiesa, sia per il foro interno che esterno; dell'imposizione delle tasse ecclesiastiche e della gestione del patrimonio della Chiesa. A lungo nei secoli il Diritto Canonico si è evoluto e trasformato, ed è ancora destinato ad adattarsi ai tempi e ai luoghi. La sua trasformazione, assieme a quella della Liturgia e allo sviluppo teologico, è un luogo fondamentale della Tradizione. Perciò ne diamo una brevissima storia. Il primo periodo è detto pregrazianeo e comprende il primo Millennio di vita della Chiesa, dalle origini delle prime comunità fino all'avvento del grande giurista Graziano. Nella prima parte di questo periodo, quindi dalle origini della Chiesa fino all'Editto di Costantino (313) il diritto canonico aveva una scarsa elaborazione formale, non era distinto dalle norme liturgiche, era tramandato dai Padri e innovato dai Concili, basandosi essenzialmente sulle tradizioni apostoliche e consuetudinarie, con un forte riferimento alle Sacre Scritture. Poco diritto veniva disciplinato e molto veniva ereditato dal diritto ebraico Proprio perché siamo alla presenza di una legge rivelata da Dio, bisogna parlare di una legge di "Alleanza". In esso, oltre al diritto ebraico, un ruolo importante viene rivestito anche dal Diritto romano. Col formarsi di Chiese particolari con riti e liturgie propri, specialmente in Medio Oriente, i vescovi cominciarono ad intraprendere un'attività sistematica di legislazione religiosa. Dopo l'Editto di Milano, ossia dal IV sec., importanti sono i canoni dei Concili ecumenici. Inoltre, la pacificazione della Chiesa e la protezione dell'Impero fa sì che il Primato papale si evolva in forme giuridicamente definite e universalmente vincolanti: nascono le Decretali pontificie: la prima è quella di papa san Siricio nel 385. Esse vengono raccolte nelle Collectiones, che riportano in ordine temporale, le disposizioni e le parti normative. A Roma si forma la prima collezione completa e universale, fatta da Dionigi il Piccolo chiamata Collectio Dionisiaca tra il 498 e il 514. Fra il 629 e il 636 abbiamo la Collectio Isidoriana, attribuita ad Isidoro di Siviglia. Importante fu anche la legislazione canonica degli Imperatori Romani d'Oriente, che diede peraltro vigore di legge civile ai canoni. Si sviluppò così un diritto sostanzialmente omogeneo nella cosiddetta Grande Chiesa, ossia la Chiesa dell'Impero, anche se con delle diversificazioni interne tra le tradizioni giuridiche latina, greca, copta e siriaca. Le Chiese nazionali, sia romano-barbariche che precalcedonesi, spesso fuori dell'Impero, ebbero un diritto sinodale proprio. Sia la Caduta dell'Impero d'Occidente sia il cesaropapismo bizantino ritardarono la centralizzazione canonica nelle mani del Pontefice, anzi finchè questi fu suddito dell'Impero d'Oriente non mancarono forti divergenze canoniche tra la Chiesa Latina e quella Greca, volendo l'Imperatore uniformare il diritto canonico ai principi della Chiesa imperiale sempre più mediogreca. Separatasi Roma da Bisanzio e nato il Sacro Romano Impero, assistiamo ad una nuova evoluzione. Le norme consuetudinarie vengono messe tutte per iscritto; i canoni occidentali romano-barbarici sono adattati al diritto latino; gli elementi canonici greci sono espulsi dall'Occidente; il diritto si sviluppa verso la centralizzazione papale; rimangono tuttavia le norme dettate dagli Imperatori, che quelli franchi e poi sassoni vanno ad ampliare. Nascono la Collectio Hadriana di papa Adriano I (774) e le Decretali dello Pseudo-Isidoro che mettono per scritto molte norme che da secoli erano consuetudinarie. Nel cosidetto Periodo classico, che va dal XII al XVI secolo, il Diritto canonico prende una sua forma e si struttura nella sua autonomia epistemologica. Nel 1140 circa Graziano redige il famoso Decretum, collezionando un'enorme raccolta di fonti canoniche ed elaborando numerose interpretazioni su quelle contrastanti: fino a quel momento, infatti, il diritto canonico era solo un insieme di leggi, delle quali alcune potevano essere in contrasto con altre. Tale opera entrerà a far parte del Diritto canonico. Successivamente, in coincidenza col fiorire delle università italiane e della dottrina giuridica, il Decretum fu oggetto di numerosi studi, mentre prendeva piede la prassi pontificia di legiferare sulla base delle causae maiores da risolvere. Dalla Riforma Gregoriana in poi, il Papato si riserva il diritto non solo di custodire la legislazione, ma anche di interpretarla e innovarla. Essa si sviluppa in prospettiva di una plenitudo potestatis pontificia su tutta la Chiesa. Ciò è facilitato dalla separazione tra Roma e Costantinopoli anche in campo ecclesiastico. La legislazione imperiale e regia scompaiono dal campo canonico. Quella conciliare rimane fondamentale, ma sotto l'egida del Papato. Compaiono i grandi Papi giuristi: Alessandro III (1159-1181), Innocenzo III (1198-1216), Onorio III (1216-1227), Gregorio IX (1227-1241) – che promulga il Corpus Iuris Canonici nel 1234, detto anche Liber Extra, raccolta di tutte le decretali papali e fonte del diritto fino al 1917- Innocenzo IV (1243-1254), Bonifacio VIII (1294-1303), Clemente V (1305-1314), Giovanni XXII (1316-1334). La Chiesa, che ha una potestas coactiva materialis e una potestas directa in temporalibus, legifera anche in materia. Il processo di centralizzazione procede nonostante l'opposizione del Conciliarismo nel XV sec., ma a causa di molti abusi contribuisce alla Riforma protestante. Nella Controriforma il Concilio di Trento contribuisce al riassetto giuridico dell'organizzazione ecclesiastica in maniera rilevantissima. Nel 1582 papa Sisto V fece rivedere filologicamente il Corpus Iuris Canonici. Ciò destò grande interesse accademico e scientifico, tanto che il XVI sec. è il periodo d’oro del diritto canonico classico, grazie all’opera dei decretalisti. Nel Periodo moderno (XVII-XIX secolo) abbiamo un forte e sempre maggiore accentramento del potere a Roma discapito delle Chiese particolari e locali, naturale reazione al fenomeno protestante. Sorge perciò un sempre maggior conflitto con gli Stati temporali, che rivendicano il controllo della Chiesa con sempre maggior successo nel XVIII sec. ( giurisdizionalismo , febronianesimo, giuseppinismo, gallicanesimo) nonostante i canonisti si sforzino di affermare che la Chiesa e lo Stato nei loro ambiti siano due società perfette, e che la prima ha diritto alla sua libertà. Nel corso del XIX sec. L'ultramontanismo riaffermerà l'egemonia giuridica del Papato con la definizione dogmatica del suo episcopato universale nel Concilio Vaticano I (1870) sotto Pio IX. Si separano altresì le sfere giuriche laica ed ecclesiastica e si avverte l'esigenza di fare una cernita codificata delle norme canoniche. Nel Periodo contemporaneo san Pio X costituì una commissione (1904-1917) per la stesura del Codice di Diritto Canonico e Benedetto XV lo promulgò nel 1917. Perciò è detto Pio-Benedettino. Le norme di potestà coattiva e diretta in campo temporale sono abrogate perchè non ripromulgate. Le relazioni con gli Stati sono impostate con il sistema concordatario. Fu il papa Giovanni XXIII ad avviare la revisione del Codice di Diritto Canonico. Esso fu appunto promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983 tenendo conto specialmente dell'insegnamento del Concilio Vaticano II. La struttura del Codice attuale riflette l'ecclesiologia del Concilio Vaticano II. Norma generale è la salus animarum, la salvezza delle anime. Un primo punto importante di dottrina è la concezione della Chiesa come popolo di Dio. Il titolo del Libro II riflette questo nome che il Vaticano II dà alla chiesa. La successione dei titoli inizia dalla vocazione generale, la vocazione battesimale di tutti i fedeli, con i diritti e doveri che sono propri di tutti i membri della Chiesa. Solo dopo questa trattazione si passa a delineare la struttura gerarchica della Chiesa. La Chiesa è vista come "comunione". Ciò determina le relazioni che devono intercorrere fra le Chiese particolari e quella universale, e fra la collegialità di tutti i vescovi e il primato del papa. Un altro punto di dottrina importante è la concezione dell'autorità come servizio. Inoltre è importante la dottrina per la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale. Significativo è pure l'affermazione dell'impegno che la Chiesa deve porre nell'ecumenismo. In quanto poi al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, esso nasce, dopo secoli di stratificazione giuridica, di mescolanza di norme ecclesiastiche e imperiali, di incertezze per le dominazioni islamiche, di contrasti tra le Chiese orientali unite con Roma e quelle separate, di lotte per l'affermazione del particolarismo giuridico delle Chiese orientali, come sforzo codificatorio e unificante di ampio respiro. Nell'ottobre 2008 Papa Benedetto XVI ha approvato la nuova legge sulle fonti del diritto per lo stato della Città del Vaticano. La legge, entrata in vigore il 1º gennaio 2009, sancisce che l'ordinamento canonico diventerà la prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo dello Stato, mentre le leggi italiane e di altri Stati non verranno più recepite automaticamente, ma entreranno nell'ordinamento solo dopo una previa ed esplicita autorizzazione pontificia.


1. Si compone di sette libri: norme generali, il Popolo di Dio, la funzione di insegnare della Chiesa, la funzione di santificare della Chiesa, i beni temporali della Chiesa, le sanzioni della Chiesa, i processi; ciascuno diviso in titoli, capitoli, articoli e canoni.

2. E' diviso in trenta titoli, con capitoli, articoli e canoni. I titoli sono, dopo i canoni preliminari: i fedeli cristiani e i loro diritti e doveri, le Chiese sui iuris e i riti, la suprema autorità della Chiesa, le Chiese patriarcali, le Chiese arcivescovili maggiori, le Chiese metropolitane e tutte le altre Chiese sui iuris, le eparchie e i vescovi, gli esarcati e gli esarchi, le assemblee dei gerarchi di diverse Chiese sui iuris, i chierici, i laici, i monaci e tutti gli altri religiosi e i membri degli altri istituti di vita consacrata, le associazioni dei fedeli cristiani, l'evangelizzazione delle genti, il magistero ecclesiastico, il culto divino e i sacramenti, i battezzati acattolici che convengono alla piena comunione con la Chiesa Cattolica, l'ecumenismo, le persone e gli atti giuridici, gli uffici, la potestà di governo, ricorso contro decreti amministrativi, i beni temporali della Chiesa, le sanzioni penali, la procedura penale, la legge le consuetudini e gli atti amministrativi, la prescrizione e il computo del tempo.


Theorèin - Dicembre 2011