LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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NOVA SERAPHICA SCHOLA

Breve introduzione a Duns Scoto e ai realisti del XIV secolo

Nelle pagine che seguono parleremo dell’ultimo grande esponente della Grande Scolastica, il Beato Giovanni Duns Scoto, del quale fa meraviglia che ancora non sia stato proclamato Dottore della Chiesa, essendo senz’altro il maggior teologo e filosofo del Trecento, iniziatore di una nuova scuola, francescana di spirito, ma estesa ben oltre i confini dell’Ordine dei Minori. Essa è a tutti gli effetti una pagina importante nella storia della teologia e quindi rientra a pieno titolo nel nostro discorso.

Per tracciarne il profilo dobbiamo prendere le mosse dalla condanna dell’averroismo del 1277, la quale, con i suoi riverberi anche sulla teologia tomista, da un lato arrestò temporaneamente l’avanzata tumultuosa del peripatetismo cristiano e dall’altro spinse gli intellettuali a cercare nuove strade oltre quelle sbarrate dai divieti, senza riprendere a battere quelle già percorse, come avrebbero voluto i censori. Se la linea agostiniana incarnata negli ultimi maestri della Scuola Serafica sembrò essere quella vincente alla fine del Duecento, essa poté colonizzare intellettualmente il secolo successivo soprattutto grazie alle modifiche che vi apportò Duns Scoto.

IL BEATO GIOVANNI DUNS SCOTO, DOCTOR SUBTILIS

Giovanni nacque a Duns presso Maxton in Scozia nel 1266 circa, da un nobile proprietario terriero avente come nome gentilizio lo stesso della sua cittadina. Francescano novizio a tredici anni, emessi i voti nel 1281, dallo stesso anno al 1291 studiò ad Oxford e a Parigi, dove approfondì le arti liberali. Ordinato sacerdote nel 1291, tornò nella capitale francese dove conseguì il magistero teologico; ottenne poi il baccellierato biblico nel 1296-1297e quello sentenziario nel 1298-1299. Nel 1299 tornò a Oxford per il commento delle Sentenze del Lombardo e poi impartì il medesimo insegnamento a Cambridge. Nacquero così la Lectura Prima o Opus Oxoniense o Ordinatio oxoniensis e la Reportatio cambrigensis. Nel 1301 il Beato tenne a Parigi questo suo insegnamento che poi venne messo per iscritto nei Reportata parisiensia. Dovette però interrompere il suo corso perché Filippo IV il Bello di Valois (1285-1314) lo espulse in quanto Giovanni si era schierato in pieno con Bonifacio VIII (1294-1303) nella controversia tra Regnum e Sacerdotium. Duns Scoto insegnò quindi dal 1303 al 1304 a Oxford, per poi tornare a Parigi e infine recarsi a Colonia per l’attività accademica nel 1307. Qui morì l’anno successivo, il 1308. Questa precoce dipartita impedì al Beato di portare a piena sintesi e maturità il suo pensiero.

Oltre alle tre monumentali opere summenzionate, Scoto ha scritto diverse altre cose importanti: commenti aristotelici (In duos libros peri hermeneias, In libros Elenchorum Aristotelis quaestiones, In librum Praedicamentorum quaestiones, In libros Metaphysicorum Aristotelis expositio testualis), l’opuscolo De primo principio e il Quodlibetum in ventuno questioni. Di queste opere, l’Opus oxoniense è la maggiore, la più sistematica, in cui vennero racchiuse le migliori lezioni dell’autore, e di smisurata vastità. Duns Scoto è autore di scrittura ardua e difficile, spesso disordinata a causa della tradizione manoscritta piuttosto negletta, certamente astratta e arida a tratti, penalizzata dal fatto che sovente l’autore non poté rivederne il dettato così da lasciarvici tortuosità e lacune sintattiche che diedero il destro alle manipolazioni dei copisti. Tuttavia il Beato è degno di essere accostato a Bonaventura e a Tommaso quale filosofo e teologo, nonché di essere collocato a pieno titolo nella teoria dei maestri francescani, il cui volontarismo egli porta alle estreme conseguenze sia in teologia che in antropologia e gnoseologia. Il Dottore ha come fonti Agostino e Bonaventura, ma attinge anche ad Aristotele e ad Avicenna, a cui deve importanti principi metafisici. Per l’acutezza del suo ingegno Giovanni Duns Scoto fu detto Dottor Sottile.

Nell’ambito della Scuola Serafica Duns Scoto prende posizione differenti da quelle di Bonaventura e di Alessandro di Hales, modificando l’impostazione agostiniana della loro gnoseologia. Infatti il Dottore sostituisce la dottrina dell’illuminazione con quella dell’astrazione. Per Scoto la conoscenza inizia con la percezione sensibile, prosegue con l’astrazione e culmina nella intellezione della natura della cosa, della sua essenza. Simile in questo a Tommaso, Duns Scoto considera la conoscenza come oggettiva ma non sottolinea eccessivamente l’aspetto realistico della questione. Soggetto e oggetto sono concause del concetto e quindi cooperano nel processo conoscitivo. In esso, la potenza mentale è senz’altro investita da una funzione maggiore, ma è sempre un fattore extramentale che imprime in essa la specie. Questo fattore è reale e Duns Scoto esclude ogni occasionalismo. Nel processo gnoseologico non vi è né una azione esclusiva dell’oggetto (materialismo), perché il sensibile è inferiore all’intellegibile, né del soggetto (idealismo), perché esso dovrebbe produrre da solo la cosa e il suo concetto. “L’intelletto e l’oggetto sono quindi cause essenzialmente ordinate in ultima analisi, perché l’una è semplicemente più perfetta dell’altra – dice Duns Scoto nell’Opus Oxoniense - così che ciascuna delle due è perfetta nella sua causalità parziale, non dipendente dall’altra”. Anche nel processo astrattivo Duns Scoto teorizza una duplice coppia di cause parziali per sé ordinate, l’una nell’ambito dell’intellezione agente e l’altra nell’ambito dell’intellezione possibile.

Sulla questione degli Universali Duns Scoto è molto vicino ad Aristotele, rigettando l’essenzialismo platonico e il nominalismo: per lui l’universale esiste in quanto essenza reale della cosa, che di per sé non è né universale né individuale, ma indifferente alla quantificazione. L’essenza è data dalla sua comprensione logica, ossia dagli elementi in cui è scomponibile. Nella natura tuttavia l’essenza è sempre individualizzata, in quanto le si aggiunge sempre quello che è proprio di ogni individuo. L’intelletto invece, cogliendo la sua realizzazione simultanea in più individui, Universalizza l’essenza, che quindi diventa tale solo nella mente dell’uomo. L’essenza è dunque la realtà della cosa, mentre la sua individualità è chiamata da Scoto ecceità, ossia il suo modo di essere un ente specifico, posto in un luogo particolare, indicabile con il deittico “ecce”, ”ecco”. Ecceità e realtà sono distinti formalmente, in un modo quindi più netto di una mera distinzione logica, ma meno forte della distinzione reale. La distinzione formale infatti è in Scoto quella possibile tra elementi costitutivi di una cosa che possono essere concepiti separatamente anche se sono dati sempre uniti.

Sommo metafisico, il Beato studiò profondamente le filosofie precedenti sul tema, che sviscerò appieno. Duns Scoto fu l’ultimo grande metafisico della filosofia classica e desunse concetti e temi da Agostino, da Boezio, da Proclo, da Avicenna, da Averroè, da Anselmo, da Tommaso e da Sigieri di Brabante. Scoto mise alla base della sua metafisica l’essere, esattamente come lo Stagirita e l’Aquinate, ma elaborò un’ontologia trascendentale dell’univocità, delle sue proprietà inerenti e coestensive – unità bontà e verità- e dei suoi attributi disgiuntivi che fondano l’ordine universale e le sue relazioni, da cui si inferisce la Causa prima di ciò che è intrinseco all’essere stesso attraverso molteplici vie; costruì altresì una metafisica delle perfezioni pure formalmente riscontrabili solo nell’infinita Essenza divina. Di questa metafisica quattro sono i pilastri: univocità dell’essere, ilemorfismo universale, ecceità e distinzione formale tra essenza ed esistenza.

Attorno alla metafisica il nostro eresse diversi steccati: la distinse dalla teologia perché questa studia Dio in quanto tale e quella solo in quanto essere, essendo questo l’oggetto suo proprio; inoltre, affermando che la conoscenza dell’uomo è basata sull’esperienza, Scoto implicitamente asserì che l’essere non può diventare oggetto di conoscenza diretta se non in quanto realtà massimamente astratta e indeterminata. L’essere di Scoto è innanzitutto l’essere comune, la perfezione più generica ed indeterminata, che non è suscettibile di differenziazione nemmeno tra finito e infinito e che si predica di ogni cosa. Questo essere è tale perché si oppone diametralmente al non essere. La concezione scotista dell’essere è univoca perché solo così è possibile, per il Dottore, risalire dalle cose che sono all’esistenza di Dio. Tuttavia per Scoto l’essere univoco non è un genere perché è superiore a tutti i generi. Gli atti dell’essere di tomista memoria non gli interessano: sono a suo avviso irriducibili gli uni agli altri. Solo l’astrazione del senso massimo dell’essere, cosi come esso si applica a tutti gli enti, dà unità e reale esistenza all’oggetto dello studio metafisico ed è anche in questa prospettiva che si deve intendere l’univocità dell’essere, ossia quale presupposto ineludibile della possibilità stessa della metafisica e suo punto di partenza.

Inoltre il metafisico non deve considerare l’essere quale principio primo ricavabile per deduzione dalle cose finite, perché se fa così non esce dall’ordine fisico. Deve invece considerare l’essere quale prima nozione che cade sotto la presa dell’intelletto, quale realtà intellegibile che coincide con la sua stessa natura, che di per sé non è né universale né particolare. In tal senso l’essere non è un predicato universale vuoto di contenuto ma una realtà dotato di modi intrinseci determinanti e possibili. I primi due modi sono il finito e l’infinito. Essi precedono anche le categorie aristoteliche, che sono di per sé forme della finitezza. L’essere infinito si identifica con Dio, la dimostrazione della Cui esistenza sarà dunque la dimostrazione dell’esistenza stessa dell’essere infinito.

Per giungere all’esistenza di Dio, Giovanni Duns Scoto procede in due tappe: prima dimostra la necessità di porre un Principio primo e poi che esso esiste realmente. A tale riguardo, egli considera la prova ontologica persuasiva ma non probante, rigetta quella del moto che porta solo ad un Primo motore ma non ad un Essere infinito e fa sua quella della causalità, ma rimaneggiandola profondamente.

Egli infatti non parte dal presupposto che esistano cose prodotte da altre, ma cose che possono essere prodotte. Sottolinea così l’immensa potenzialità dell’essere. Questa mera possibilità non si giustifica da sé, ma implica una catena causale che, per non risalire all’infinito, termina con una Causa prima incausata e onnipotente, perché capace di produrre non solo quanto realmente esistente, ma anche quello che potrebbe esistere. In ragione di ciò tale Causa prima non è solo efficiente ma anche formale e finale, mentre in quanto prima è completamente improducibile.

In effetti, in ordine alla causalità efficiente, ogni ente finito producibile può essere prodotto o da sé o dal nulla o da altro, ma solo la terza possibilità è accettabile perché non contraddittoria. Inoltre tutte le cause possibili devono avere una causa prima che le renda reali per non regredire all’infinito. In ordine poi alla causa formale e finale, procedendo alla stessa maniera si individua non solo un fine ultimo e un grado supremo di perfezione per tutti gli enti finiti, ma si scopre la coincidenza delle cause stesse, formale finale ed efficiente, perché ciò che è primo diviene anche ultimo in virtù della interconnessione delle tre forme di causalità. In ragione di ciò, la Prima causa è necessaria da un punto di vista logico, perché non si può porre un ente finito che sia incausato, non misurabile nelle sue perfezioni e senza scopo.

Che poi la Prima causa esista, Scoto lo dimostra necessariamente e non empiricamente. La Causa prima è senz’altro almeno possibile, ma anche incausabile. Se la Causa prima incausabile è possibile, o esiste o non esiste. Le due ipotesi sono contraddittorie, per cui o è vera l’una o è vera l’altra. Se la Causa incausabile non esistesse, quale sarebbe il motivo? Non per una causa, perché essa è incausabile, sia nell’ordine dell’essere sia, a maggior ragione, nell’ordine del non essere. Non per incompatibilità con altre cause, perché se così fosse non solo non sarebbe possibile essa, ma nemmeno le altre, che, ritrovandosi sole e senza causa prima, sarebbero impossibili anch’esse in quanto divenute prime esse stesse. Ragion per cui, la Causa incausabile, possibile di per sé, è impossibile che non possa essere e quindi esiste di per sé, in quanto non vi è nessuna ragione per cui essa non debba essere.

Il metodo fin qui seguito da Scoto non deve meravigliare: sembrano distinzioni intellettualistiche ma in realtà sono ragionamenti deduttivi basati sul possibile e non sull’atto, in quanto, secondo il nostro, ponendo premesse e conclusioni al e dal possibile, inevitabilmente le si pongono anche per l’essere in atto. Il contrario non sarebbe possibile, perché è dal necessario che si deduce il contingente e non viceversa.

Il Primo esistente è infinito: nulla lo limita e quindi non ha confini. Primo nella perfezione, è anche il Primo Intelligente, che conosce infiniti possibili. Egli è appunto Dio. Verso di Lui l’uomo ha una inclinazione innata, che si manifesta nel desiderio di un bene e di una sapienza infinite, e che è essa stessa una prova della Sua esistenza. A Dio Scoto attribuisce il nome di Ente infinito in atto, perché nel concetto di infinito il Dottore rintraccia quello che permette di cogliere quasi descrittivamente l’essenza divina; una essenza nella quale coincidono perfettamente tutte le perfezioni in grado sommo, e che proprio per questo è infinita, senza che però in essa sia impossibile distinguere formalmente gli attributi che le appartengono – come invece penserà Cartesio. Dio è dunque infinito nell’ordine dell’essere, e l’essere per Duns Scoto è l’infinito che è Dio stesso. Egli è dunque infinito anche nel conoscere e nel volere. Questa infinitezza nel volere è il caposaldo del volontarismo di Scoto. Per lui Dio vuole quel che gli pare ed è il Suo volere che produce le cose come sono, dapprima pensandole come ha voluto e poi conferendo loro l’esistenza. Se Tommaso diceva che Dio ha fatto il mondo secondo la Sua sapienza, Duns Scoto dice che l’ha fatto secondo il Suo volere, un volere che non solo non è limitato dalla stessa Sapienza divina che pone le idee al Suo interno, ma che anzi ne è la causa, potendo Egli pensare infiniti modelli di cose. Dio avrebbe potuto fare un mondo con leggi completamente diverse e dove il male fosse stato bene e il bene male, ma non l’ha fatto perché Egli è libero. Inoltre, poste queste leggi per il mondo così com’è, dapprima nell’ordine del pensiero e poi in quello dell’essere, Dio non le modifica perché non agisce ad arbitrio e vuole solo ciò che è possibile logicamente, anche se le possibilità della Sua logica sono per noi incomprensibili perché infinite.

In questa prospettiva, l’essenza divina diventa molto più misteriosa del solito e a maggior ragione il mistero soprannaturale trinitario per Scoto è inesprimibile, per cui non può essere esplicitato da nessuna speculazione o immagine. In generale, se è vero che la Volontà di Dio è il fondamento anche del Suo pensiero del mondo creato, è altrettanto vero che in Dio volere e sapere coincidono, per cui da un lato Dio può creare infiniti mondi basati su infiniti progetti, dall’altro Egli crea volendo e pensando sulla scorta della Sua perfezione, così che ogni Sua legge voluta e creata corrisponde ad un ordine oggettivo, che è il riflesso di quello Suo proprio. L’oggettività di Dio non possiamo conoscerla pienamente, ma quella della cosa sì: per cui se Dio vieta di uccidere o di rubare o ordina di adorarlo, è perché ha creato l’uomo degno di vivere e bisognoso di proprietà e dotato di senso religioso. Se avesse voluto un mondo diverso, avrebbe dovuto conferire alle cose uno statuto ontologico diverso. Senza questa puntualizzazione, Scoto può essere letto solo in modo arbitrario. Per questo in tale campo Tommaso gli è superiore, in quanto non potrebbe mai essere frainteso. D’altro canto va puntualizzato che Scoto, proprio col volontarismo, voleva assumere un contravveleno per il necessitarismo che gli giungeva da Aristotele letto tramite Averroè, mentre la filosofia dello Stagirita di cui si era nutrito Tommaso era quella interpretata da Avicenna.

Duns Scoto sostiene che la materia abbia una sua attualità, sia pure povera, ma positiva; essa non esiste mai senza una forma, ma non vi è mai nemmeno nessuna sostanza che sia priva di materia, anche se spirituale. Questo è il principio ilemorfico a cui facevamo cenno. Per Duns Scoto esso è fondamentale: una pura forma separata sarebbe, a suo dire, immutabile, perché non suscettibile di modifica, a sua volta derivante da interazione, possibile solo attraverso la materia, passiva e recettiva di per sé. Proprio perché nessun ente è immutabile e tutti sono in relazione, il Beato ne inferisce l’universalità della materia. Questa, nella sua componente primitiva, è comune a tutti gli enti, che si diversificano tra loro per le varie forme che ricevono. Infatti in ogni ente esiste la forma specifica, modellata sull’essenza o universale, che fa si, ad esempio, che un uomo sia simile agli altri uomini; l’ultimo atto della forma specifica nell’individualità, facendo sì che ogni ente sia il singolo ente che è, corrisponde alla summenzionata ecceità. Infine, nell’ente così composto, il Dottore distingue solo a livello formale, l’essenza dall’esistenza.

In antropologia Scoto afferma che l’uomo è fatto di anima e di corpo, ma anche che la forma del corpo non è solo l’anima, ma anche la forma della mescolanza, ossia quella particolare forma che sovrintende al composto umano. Non ritiene inoltre che si possa dimostrare con assoluta certezza che l’anima sia immortale, se non a partire dalla fede. Infatti non si può provare che l’anima sia una forma sussistente di per sé, né che essa esista in vista di una retribuzione ultraterrena – di per sé pure bisognosa di dimostrazione – né che ci sia per via dell’anelito umano all’immortalità – anch’esso suscettibile di dubbio. In essa Scoto distingue solo formalmente intelletto e volontà, attenuando l’insegnamento tomista e inasprendo quello di Enrico di Gand. La caratteristica precipua dell’anima umana e quindi dell’uomo stesso è la libertà, che lo rende simile a Dio. Essa non è necessitata da nessun bene, nemmeno da se stessa, in virtù dell’immaterialità dell’anima stessa. Essa può rifiutare anche la beatitudine. La libertà appartiene solo al volere, perché l’intelletto opera secondo il principio di necessità. Esso infatti deve cogliere l’intellegibile dal sensibile, ed esso è sempre uguale a sé e non è oggetto di scelta; inoltre l’intellegibile è fissato da Dio e non dall’uomo, per cui precede l’intellezione. Ordunque natura- come ordine necessitato – e volontà – come ordine libero – sono le due grandi regioni dell’essere, che coincidono solo in Dio, mentre nell’uomo si spartiscono le facoltà e le parti del composto sostanziale. L’uomo è libero nella volontà e necessitato nell’intelletto, per cui la sua anima è divisa in due, mentre il suo corpo è tutto necessitato. Tuttavia l’intelletto, conoscendo l’oggetto, rende possibile l’atto volitivo, anche se esso dipende dalla volontà stessa e non dal conoscere.

Ad ulteriore sostegno del primato della volontà, Duns Scoto adduce come prove rivelate il primato della carità, che dipende dal volere, il valore del merito e del demerito fondate sul libero arbitrio, la gravità della corruzione della volontà e il fatto che odiare Dio è peggio di non conoscerlo. La volontà dunque non è un appetito razionale come diceva Tommaso e non è vero che nulla è voluto se prima non è conosciuto. Diversamente, anche gli atti del volere sarebbero necessitati dalla conoscenza che li precede. In ragione di ciò, l’unione con Dio non è più la conoscenza di Lui con soddisfazione del volere, ma l’adeguamento della volontà alla Sua con realizzazione dell’intelletto. Ciò implica anche che l’anima sia di per sé atta all’incontro con Dio.

Impostando i rapporti tra fede e ragione, Duns Scoto accetta l’autonomia della seconda solo in ordine alle realtà di questo mondo, mentre la espelle rigorosamente dalle verità rivelate, soprannaturali ed esistenziali. La conoscenza umana infatti è confusa e inadeguata specie per i principi primi, che invece sfavillano davanti alla mente che ha accettato la Rivelazione anche nella sua apparente povertà teoretica. Non dunque scetticismo o fideismo, ma ridimensionamento della ragione. Essa avanza verso Dio solo mediante le immagini sensibili; esse non servono a conoscerne l’essenza né a determinare quel fine proprio dell’uomo che è Dio stesso e che non si evince dalla realtà fisica in quanto in essa solo l’uomo ha questa finalità che è peraltro spirituale e quindi inattingibile direttamente. L’intelletto infatti ricava i concetti dall’esperienza, ma l’esperienza che l’uomo fa degli altri viventi oltre che di sé nella sua corporeità non gli fa constatare l’ordinazione delle cose verso Dio, per i primi perché non c’è, per la seconda perché non è evidente tramite essa. Duns Scoto teorizza quindi che l’uomo non sa qual è il suo fine, per cui se Dio non gli si rivela egli conduce una esistenza apparentemente senza scopo e praticamente inutile. L’uomo deve accettare la Rivelazione, che lo eleva ad un rango che è superiore a qualsiasi altro a cui egli avrebbe potuto tendere.

In teologia, Duns Scoto pone come oggetto il Cristo integrale, la piena conoscenza e realizzazione di Lui. Il fine di questa disciplina è pratico, ossia la beatitudine. La scientificità che essa possiede è superiore a quella di ogni altra in virtù del fatto che essa si occupa di Dio ed è garantita da Lui. In tale senso è una scienza superiore al concetto stesso di scienza. Tuttavia la pienezza di questo statuto epistemologico spetta alla conoscenza teologica dei comprensori, dei beati, che vedono direttamente Dio, mentre ai viatori pertiene solo una conoscenza comune di elementi noti e appartenenti sia al Creatore che alla creatura. Duns Scoto non ritiene che le verità rivelate, per quanto credibili, possano fondare una scienza subalterna, come diceva Tommaso. Infatti tali verità sono prive di evidenza e la conoscenza dei beati non è la stessa che noi abbiamo per fede. Inoltre Duns Scoto toglie alla tradizionale teoria agostiniana, per cui alla luce della fede se ne aggiunga un’altra che anticipi in terra quella della gloria, ogni fondamento, per cui alla fine egli nega lo statuto di scienza alla teologia in quanto tale, se non intendendola in modo molto vago, rendendola però superiore alla semplice opinione.

La teologia scotista è agapica. Dio è amore. Egli ama Se stesso e suscita altri enti ordinati ad amarlo e messi in condizione di farlo. Il decreto della predestinazione è orientato proprio al compimento di questo amore perfetto, immenso e appagante. La scienza di Dio è ordinata all’amore, qui in terra e lassù in cielo. L’amore teologale è l’atto religioso per eccellenza, che coglie Dio nella Sua bontà assoluta, è l’atto puro e retto che ha il primato nella vita morale.

In cristologia, Duns Scoto sostiene che Gesù sia il termine primo ed assoluto dell’amore infinito di Dio al di fuori di Lui stesso, sia perché solo Cristo è infinitamente amabile per Dio, sia perché solo Cristo può amarlo infinitamente. Per questo Dio ha decretato l’Incarnazione: per avere Chi lo amasse perfettamente. Essa sarebbe accaduta anche se il Peccato originale non fosse stato mai commesso. Dio ama Se stesso, indi ama Se stesso negli altri, poi vuole essere amato sommamente da un Altro, infine prevede l’unione a Sé di quella natura che deve amarlo sommamente. Naturalmente, se Cristo non si è incarnato per il Peccato, anche se poi ci ha redenti, per Scoto viene meno anche l’esigenza di una riparazione soddisfattoria che eguagli l’offesa. Infatti, secondo il nostro, l’uomo, essere finito, non può offendere infinitamente Iddio.

L’azione salvifica di Cristo si prolunga nella Chiesa mediante i Sacramenti. La sacramentaria di Scoto si basa anch’essa sul volontarismo: i segni sacramentali sono efficaci per la produzione della Grazia, ma non in quanto cause efficienti, ma perché cause occasionali. Ossia, Dio ha posto un nesso inscindibile tra il segno sacramentale e il suo significato, così che esso sia il mezzo fortuito mediante cui Egli operi sempre le medesime cose, purché celebrato nella Chiesa. In questa posizione nulla lascia preludere alla svalutazione dei Sacramenti che avverrà da parte dei riformatori protestanti, anche perché l’efficacia del segno sacramentale è la stessa insegnata dalla Tradizione e non dipende dalla condizione del soggetto che lo riceve.

In mariologia, Duns Scoto è un maestro fondamentale. Infatti, elaborando il concetto di redenzione preservativa, egli ha permesso una formulazione della dottrina dell’Immacolata Concezione. Presentandola con circospezione, Scoto asseriva che era il frutto necessario, perché più maturo, della Redenzione, che nella fattispecie fa si che una creatura sia libera dal peccato stesso e quindi di macchie attuali.

Meno mistico di Bonaventura, meno platonizzante dei Padri e dei Dottori francescani, Scoto ha sintetizzato agostinismo e aristotelismo salvaguardando il primato del primo. Diverse sono le valutazioni di questo sistema e sulla sua stessa consistenza. Tuttavia, sebbene sia senz’altro inferiore a quello tomista, lo scotismo ha aperto la strada alla teologia nuova che seguì alla crisi scolastica che in un certo qual modo egli stesso aveva aperto, criticando almeno implicitamente le basi della teologia naturale – tanto che per lungo tempo gli furono attribuiti dei Theoremata, in cui tale critica era chiara e senza appello, a loro volta redatti un un ambiente influenzato dal suo pensiero.

I SEGUACI DI SCOTO

Sono ovviamente tutti francescani e accentuano o correggono questo o quell’aspetto del pensiero del maestro.

Francesco di Meyronnes (1288 ca.-1328) identificò l’essere con l’essenza e distinse all’interno di questa una serie gerarchica di modi intrinseci, culminanti nell’Essenza di Dio. Fu inoltre fautore della teocrazia pontificia. Vanno poi ricordati almeno di nome Giovanni di Bassoles (†1347) e Guglielmo di Alnwick (†1332).

Giovanni di Ripa, anch’egli del XIV sec., sostenne una forma di realismo essenzialista nella questione degli Universali e venne per questo censurato da Giovanni Gerson nel secolo successivo. Detto il Dottore Difficile, Giovanni fu uno dei massimi maestri della metà del suo secolo e prese posizione anche sulla disputa sulla Visione beatifica accesa dalle opinioni personali del papa Giovanni XXII (1316-1334) e corretta da papa Benedetto XII (1334-1342).

Pietro Filargis (1340-1410), papa dal 1409 col nome di Alessandro V (anche se illegittimo), sostenne una linea moderata in gnoseologia e sulle le contese sorte tra occamisti e scotisti. Questa grande figura di erudito rappresenta al meglio il senso di stanchezza intellettuale del tardo medioevo scolastico. Ricordiamo infine anche Walter Chatton (1290-1343), Giovanni di Rodington (†1362), Tommaso Bradwardine (1290-1349) – che ebbe un orientamento molto diverso da quello degli scotisti pur essendo un francescano –e l’agostiniano Ugolino Malabranca (†1374).

GLI ULTIMI MAESTRI DELLA SCOLASTICA

Sono cinque e al di fuori dello scotismo, ma non tutti della medesima importanza. Vivono la fase della crisi della scolastica, legata al dissolvimento dell’obiettivismo e alla devoluzione dell’attenzione ai meri problemi concreti, con conseguente primato della logica e della gnoseologia sulla metafisica, della rottura dell’armonia tra fede e ragione e dell’ascesa del nominalismo, del fideismo e del volontarismo, oltre che del misticismo speculativo e della proliferazione delle eresie. I maestri in questione inaugurano la rottamazione della via antica in filosofia, preparando la nuova che sarà di Ockham, in un quadro reso più fosco dal trasferimento del Papato ad Avignone e dalla decadenza dell’Impero, del Libero Comune, delle monarchie nazionali e dalla crisi economica e sociale culminata nella peste nera.

Giacomo di Metz, domenicano del Trecento, sostenne che è la forma a dare unità alla materia e che è quindi essa il principio di individuazione. Fu per questo contestato dal confratello Herveo de Nedéllec (1260-1323).

Enrico di Harclay (1270-1317) sostenne che la forma specifica coincide perfettamente con quella individuale, per cui la specie stessa è solo individuale.

Guido Terrena (1270-1342) fu il maggior maestro carmelitano dell’epoca. Tuttavia i maestri maggiori furono Durando di San Porziano e Pietro Aureolo.

Durando di San Porziano (1270-1334), domenicano, detto Dottore risolutissimo o Moderno, fu lettore del Sacro Palazzo sotto Clemente V (1305-1314) e pugnace avversario del tomismo. Riprovato per questo dal Capitolo domenicano di Metz del 1313, aggrava la sua posizione con una autodifesa che comportò una ulteriore condanna. Si trattava tuttavia di questioni filosofiche che non gli impedirono di diventare vescovo di Meaux nel 1326 per volere di Giovanni XXII, dal quale però dissentì sulla questione della visione beatifica delle anime prima del Giudizio Universale. Tuttavia anche la sua posizione in materia fu censurata da Benedetto XII (1334-1342).

Durando rifiuta la molteplicità dei concetti a favore di un principio di semplicità logica che diviene poi gnoseologica e ontologica. Senso e immaginazione bastano per fornire alla mente i contenuti di cui essa ha bisogno per la conoscenza e gli Universali sono un mero concetto logico basato sui tratti comuni delle cose. In tale modo egli anticipa gli empiristi del Settecento inglese. Durando sostiene altresì come Scoto che l’individuazione si basa su una sorta di forma speciale, simile all’ecceità, mentre introduce il concetto di nascondimento delle forme per spiegare la loro successione in una medesima sostanza soggetta a modificazione. In merito alla relazione, Durando distinse una reale da una logica, la prima tra cose distinte e la seconda come risultato dell’analisi razionale. La relazione reale è un modo di essere, distinto dalla realtà individuale ed esterna al composto cui si riferisce. Da qui il nostro inferisce che l’Essenza divina differisce in qualche modo dalle Relazioni delle Persone Divine, ma senza cadere nel triteismo come sostennero i suoi avversari.

In teologia Durando fu accusato anche di pelagianesimo, perché distinse l’imputazione della colpa originale dal Peccato stesso, in quanto la prima è della specie mentre il secondo è solo di Adamo. Inoltre sostenne che i Sacramenti fossero segni occasionali della Grazia e non strumentali. Nonostante queste ambiguità, Durando ebbe molto successo nei secoli XIV e XV e preparò certa filosofia moderna.

Pietro Aureolo (1280 ca.-1321), francescano, fu provinciale del suo Ordine e uomo di fiducia di Giovanni XXII che lo consacrò personalmente vescovo. Fu detto Dottore facondo e scrisse molto, tra cui anche il primo trattato sull’Immacolata Concezione. Pensatore assai libero, fine conoscitore di Tommaso, di Scoto, dei greci e degli arabi, non appartenne a nessuna scuola e usò ampiamente il senso critico, collocandosi nella tradizione aristotelica in chiave antiaverroistica. In gnoseologia respinse la dottrina dell’illuminazione di Agostino e identificò le sue ragioni eterne con le proposizioni necessarie che si formano sui concetti oggettivi, ossia su ciò che essi rappresentano e non su di essi quali atti mentali. In ragione di ciò, esattamente come i concetti, le ragioni eterne si formano sull’esperienza. Aureolo respinge il realismo estremo per la questione degli Universali, proponendo una soluzione realistica moderata, per cui essi si trovano nelle cose solo potenzialmente, desunti dai concetti oggettivi.

Aureolo negò che l’anima potesse essere forma del corpo pur essendo un composto con esso; asserì altresì l’indimostrabilità razionale della sua immortalità. Rifiutò la prova ontologica dell’esistenza di Dio ma insegnò che ogni uomo, avendo una tendenza insita verso il meglio, ha una notizia innata di Dio stesso in sé. Aureolo inoltre afferma che Dio ha conoscenza di tutti gli atti liberi dell’uomo, ma non prima che accadano, semplicemente perché Egli è fuori dal tempo e vede tutto simultaneamente.

In politica Aureolo sostenne la necessità di obbedire all’autorità in vista del fine di vivere bene, rifiutando tale obbedienza solo in caso di tirannia. Aureolo sostiene la dottrina della traslatio Imperii, per cui il Signore interviene spostando la sovranità universale da un popolo all’altro, ma ritiene che nei corpi sociali minori Egli agisca solo tramite cause seconde. Asserisce il primato del Papa sulla Chiesa per le stesse ragione con le quali sostiene la causa dell’autorità nella vita civile e afferma che egli è infallibile tanto quanto la Chiesa di Roma che presiede. Rigetta le forme curialistiche della teocrazia pontificia che renderebbero inutile la società, la morale e la filosofia naturali.

VIAE DOCTORES MODERNAE

Breve introduzione alla Scuola di Ockham

La storia della Scolastica e dei suoi dottori comprende a pieno titolo quel suo particolare crepuscolo che fu causato dal magistero di Ockham. Non che la Scolastica non avesse iniziato un processo dissolutivo già precedentemente, sia perché dopo una sintesi inarrivabile come quella tomista qualsiasi corrente di pensiero o si esaurisce o va in crisi, sia perché già maestri come Durando o Pietro Aureolo avevano gettato le basi di un rinnovamento radicale del pensiero, sia perché le ragioni di crisi della cultura medievale classica erano già all’opera, ma senz’altro il magistero del Venerabilis Inceptor contribuì in modo decisivo a portare a compimento quel processo disgregativo. Nella Scuola occamista non vi sono dottori della Chiesa e lo stesso fondatore eponimo è stato censurato più volte e giustamente per eresia. Ma come mi sono occupato di Sigieri di Brabante e – trattando in altra sede dei Padri della Chiesa – di Origene e di Scoto Eriugena, in quanto maestri decisivi per lo sviluppo del pensiero anche ortodosso sebbene spesso tentati dall’ambiguità ereticizzante, come dovrò occuparmi alla stessa maniera di Eckhart, così mi occupo in questa sede di Guglielmo di Ockham, soffermandomi soprattutto sugli aspetti ortodossi del suo pensiero e sul quel tanto di eterodosso che serve per capire lo sviluppo ulteriore del pensiero cattolico.

GUGLIELMO DI OCKHAM, VENERABILIS INCEPTOR

Fu lui a intraprendere per primo la via moderna della teologia e della filosofia, portando a compimento non solo i germi di crisi posti dalla condanna dell’aristotelismo del 1277, ma anche da Duns Scoto, il cui pensiero, sia pure originalissimo, era stato costretto a volgersi verso la tradizione platonizzante, come segno dello sfilacciamento dell’ispirazione filosofica della Scolastica. Era uno sfilacciamento invisibile ai contemporanei perché gli ingegni esistevano ancora ed erano possenti, ma le frequenti condanne in cui incorsero attesta che essi erano ormai contro il sistema intellettuale tradizionale e, nello stesso tempo, impossibilitati a crearne uno nuovo. Tali ingegni battevano le strade che i sofisti avevano battuto dopo i presocratici e che certe scuole ellenistiche avevano battuto dopo Socrate, Platone ed Aristotele, e che nel futuro gli empiristi inglesi avrebbero percorso dopo Cartesio. Tra essi Guglielmo di Ockham esprime al meglio la loro dicotomia di fondo: forza speculativa e potenza distruttiva. Egli abbandona la metafisica e il realismo, abbraccia lo spirito critico, la logica, il nominalismo, il volontarismo, il fideismo e il razionalismo, spezzando con questo strano binomio finale il connubio tra fede e ragione faticosamente costruito da Clemente di Alessandria in poi. Per secoli la sua scuola sarà la più influente nell’Occidente cristiano. A lui un singolare merito: aver allevato nugoli di filosofi e teologi cristiani che però non seppero più fare una filosofia cristiana e, ad un certo punto, nemmeno una teologia cattolica. Padre di una modernità che lo ha rinnegato, Ockham col suo rasoio alla fine tagliò via anche se stesso. In effetti, gli sviluppi del suo pensiero avvennero a dispetto della sua intenzione, in quanto egli mantenne alcuni importanti legami con la Tradizione e non intese il suo nominalismo nel senso estremo che di solito gli si attribuisce, quale cesoia che taglia del tutto i legami tra fede e ragione.

Guglielmo nacque a Ockham in Inghilterra nel 1285 Entrò nell’Ordine francescano nel 1307, divenne baccelliere sentenziario ad Oxford nel 1318 e nel 1324 sempre nello stesso ateneo consegue il magistero biblico. Già noto ed affermato autore, lo stesso anno venne convocato ad Avignone da papa Giovanni XXII (1316-1334), che lo accusava di diffondere dottrine erronee. Quattro anni dopo la Curia condannò sette proposizioni tratte dal Commento di Ockham alle Sentenze del Lombardo, mentre trentasette furono dichiarate false e quattro ambigue o temerarie. Prima della condanna definitiva Ockham fuggì da Avignone assieme a Michele da Cesena, generale francescano (1316-1329) sotto inchiesta per le sue teorie sulla povertà, che il filosofo aveva fatto proprie. I fuggiaschi si rifugiarono alla corte di Ludovico IV il Bavaro (1314-1347) e lo indussero a dichiarare decaduto Giovanni XXII e a sostituirlo con l’antipapa Niccolò V (1328-1330), ma vennero scomunicati nel 1329 per il loro pauperismo. Ritiratisi col Re il Baviera, nel convento di Monaco i ribelli e Guglielmo in particolare si impegnano in una lotta senza esclusione di colpi col Papato avignonese tramite libelli e altri scritti. Il filosofo morì nel 1347.

Fino al 1328 Ockham scrisse di filosofia e teologia: Expositio in Librum Porphyrii de praedicabilibus, Expositio super librum primum Perihermeneias, Expositio super Phisicam Aristotelis, Philosophia naturalis, Ordinatio Ockham sive Scriptum in librum primum Sententiarum, Reportatio Ockham sive quaestiones in libros secundum, tertium et quartum Sententiarum, Summa Logicae, Quodlibeta septem, De Sacramento Altaris, Tractatus de praedestinatione et de praescentia Dei et de futuris contingentibus, De Relatione, Compendium Logicae, Elementarium Logicae. Dal 1328 fino alla morte scrisse in polemica col Papa opere dal contenuto spesso eterodosso: Opus nonaginta dierum, Epistola ad fratres minores, Dialogus, De Dogmatibus papae Johannis XXII, Compendium errorum Papae Johannis XXII, Tractatus contra Johannem XXII, Tractatus contra Benedictum XII, Allegationes de potestate imperiali, Breviloquium de Potestate Papae, Tractatus de iurisdictione Imperatoris in causis matrimonialibus, De Imperatorum et Pontificum Potestate.

La famosa frase di Ockham, per la quale non va supposta una pluralità di enti logici o reali se non quando è necessario, e che è desunta dall’aristotelismo ed è il principio del cosiddetto rasoio del filosofo, col quale egli sfronda il mondo concettuale di tutto quello che gli sembra soverchio, contiene in sé il motivo per cui egli non solo non volle ma non poté costruire una somma sistematica del pensiero umano e della verità rivelata, ponendo un ostacolo insormontabile a chi, dopo di lui e tenendo conto del suo pensiero, avrebbe voluto farlo. Ockham rigettò le distinzioni tra potenza e atto, tra essenza ed esistenza, tra gli attributi di Dio e tra la conoscenza naturale e rivelata di Lui, asserendo che la ragione può solo scoprire un principio primo del mondo e non l’Essere divino.

In logica Ockham diede il meglio di sé, anticipando molti aspetti del pensiero formale della nostra epoca. Secondo il nostro, la dimostrazione è tale solo quando è conduce ad una certezza evidente e necessaria; la conoscenza sensibile è la sola sicura; la scienza è solo del particolare; l’universale non può esistere perché dovrebbe essere uno e molteplice, il che sarebbe contradditorio sia logicamente che fisicamente, in quanto dovrebbe contemporaneamente risiedere nelle cose ed essere al di fuori di esse; ogni cosa singola è tale di per sé e senza bisogno di nessun principio di individuazione; l’uomo conosce solo la cosa singola e in modo intuitivo, senza alcuna mediazione specifica tra oggetto e soggetto, in quanto la specie non serve a rendere comprensibile il primo al secondo. I concetti Universali di Ockham sono simili alle idee generali di Hume: immagini illanguidite ricavate dalla fantasia dai sensibili: infatti per il filosofo francescano più che dire qualcosa di comune alle cose a cui si riferiscono, i concetti la rappresentano. L’universale è solo nel pensiero ed è tale solo perché, come ente di ragione, è comprensibile a tutti coloro che hanno la ragione. Tuttavia è un dato di fatto che gli individui si prestino ad essere classificati per generi e specie, il che non è suscettibile di spiegazione, ma è da farsi e basta. In tal maniera Ockham anticipa il concetto di a priori categoriale di Kant. Il concetto universale si dice naturale in relazione a quello che rappresenta, che esiste nella realtà, mentre si dice convenzionale in relazione al modo in cui è espresso, ossia alla parola corrispondente, che è frutto di elaborazione umana. In virtù della comune adozione in uso, le parole sono univoche in relazione all’essere che designano. Più parole formano le proposizioni e queste sono il tessuto del sapere, afferma un Ockham precursore di Wittgenstein. In esse il termine tiene il posto dell’oggetto, come supposizione, che può essere materiale (quando ad esempio si dice: “uomo è una parola”), personale (quando diciamo invece “l’uomo corre”) o semplice (se affermiamo: “l’uomo è una specie”).

In metafisica Ockham come Scoto pone come oggetto l’essere comune e afferma l’inesistenza delle relazioni, del divenire, dello spazio, delle essenze e di tutto quanto non esiste in modo fisicamente distinto, e quindi individualmente separabile, da altro. Ockham considera reali solo le Relazioni tra le Persone Divine, ma sulla scorta della Rivelazione.

In antropologia Ockham nega che si possa dimostrare in modo necessario e chiaro l’esistenza dell’anima come sostanza immateriale, perché essa, esattamente come dirà Hume, non è oggetto di esperienza sensibile. pone il primato della libertà umana, identificata con la volontà. Essa è la capacità dell’uomo di autodeterminarsi nella realizzazione di sé senza concorso di fattori esterni, Dio compreso. Nemmeno l’oggetto conosciuto dall’intelletto determina la volontà, perché essa può rifiutarsi di volerlo. Ockham asserisce che la volontà umana non ha necessariamente come fine ultimo il Bene supremo ossia Dio, ma può acquietarsi anche in una felicità naturale, alla quale peraltro può, se vuole, rinunciare. L’uomo con le sue sole forze non solo non trova il senso ultimo della sua esistenza ma nemmeno quello dell’universo, per cui l’imperativo formale della coscienza, fonte della morale, perde ogni possibilità di comprensibilità logica, anche quando prescrive, in termini generalissimi, di fare il bene e non il male, in quanto nessuno può spiegare perché si debba fare così e cosa siano di per sé bene e male. Tuttavia Dio si rivela all’uomo e gli comanda di amarlo, mostrandosi a lui quale infinitamente amabile. Così l’imperativo morale razionale diventa l’amore di Dio, che esige la sottomissione a Lui e l’obbedienza ai Suoi comandi. In questa maniera l’amore di Dio e la conformità alla Sua volontà diventano il fondamento ultimo della bontà intrinseca dell’atto umano.

Ockham non crede che l’uomo possa conoscere con certezza l’esistenza di Dio per via di ragione, ma solo con probabilità, perché esse si basano tutte sulla causalità che, come principio fisico, è essa stessa priva di assoluta certezza. In effetti nessuna legge di natura è di per sé evidente, perché la conoscenza è solo del fatto singolo – come dicemmo – o necessaria, perché il volere divino potrebbe farla essere diversamente. In ogni caso, il filosofo considera con particolare attenzione la prova della conservazione del mondo, in quanto questo, una volta posto nell’essere, precipiterebbe nel nulla se non vi fosse Qualcuno che lo conservasse in tale stato senza dipendere da nient’altro. Rielabora così con acume la prova del possibile e del necessario che era di Tommaso d’Aquino. Ockham invece rigetta completamente la prova ontologica, in quanto l’uomo non solo non conosce l’esistenza ma nemmeno l’essenza di Dio. Della Sua Natura l’uomo può formarsi soltanto concetti comuni a lei e a quella delle creature, meramente nominali e non rappresentativi. Vi è in Ockham un ritorno a certa teologia apofatica che sembrava inaccettabile dopo le sontuose elucubrazioni della Scolastica. In Dio tuttavia Ockham scorge con sicurezza il primato della Volontà, che si identifica anche con l’Intelletto e che quindi produce immediatamente quanto conosce e lo conosce perché lo vuole. In questo volontarismo estremo la distinzione tra logicità e illogicità scompare e tutto si fonda sulla scelta divina libera e onnipotente. Ogni legge, da quella naturale a quella morale, obbliga soltanto in virtù del volere divino che l’ha posta e che potrebbe, se volesse, sovvertirla in qualsiasi istante. Tuttavia, se la potenza assoluta di Dio può questo e altro ancora, quella ordinata, ossia il modo in cui essa ha fatto il mondo, non compie inutili sovversioni e agisce secondo uno schema, sebbene esso non sia vincolante da nessun punto di vista. In questa maniera Ockham salva la stabilità ontologica del mondo ma distrugge la sua trama razionale e a maggior ragione devasta quella dell’economia salvifica, in quanto il piano di salvezza di Dio, pur essendo in un certo modo, potrebbe benissimo essere diversamente. In sacramentaria questo comporta la negazione di ogni causalità del segno sacramentale, essendo Dio che arbitrariamente lo pone. Anche nell’Eucarestia Ockham, pur accettando la Transustanziazione, preferirebbe parlare di Consustanziazione, sia pure a livello ipotetico. In soteriologia, la Grazia di Dio smette di essere una forza trasformatrice e diventa il mero favore che il Signore concede a chi vuole, senza che occorrano trasformazioni ontologiche del soggetto, e questo è senz’altro l’anticamera del Protestantesimo. Con questo metodo, Ockham non solo ha privato la teologia del sostegno della filosofia, ma l’ha asservita ad una logica nominalistica che la sovverte completamente, eliminando la Rivelazione quale suo oggetto formale.

Il rasoio di Ockham diventa particolarmente tagliente in ecclesiologia e in politica, dove viene impugnato non in nome della logica ma della Bibbia. Il filosofo rigetta qualsiasi costituzione ecclesiastica che non sia nella Scrittura, ossia ha una concezione evangelica e non apostolica della Chiesa. Nonostante ciò, egli ebbe grande influenza fino al Concilio di Costanza, specie per ridimensionare le pretese del Primato romano e le forme concrete del suo esercizio. Ockham ha due concetti chiave in ecclesiologia: la comunità dei fedeli e il primato imperiale. La prima è la Chiesa, ma intesa non in senso mistico ed organico ma meramente sociale, come del resto dirà anche San Roberto Bellarmino. In questa comunità tuttavia il Primato del Papa non è né singolo né assoluto: potrebbero esserci più papi e nessuno sarebbe infallibile, perché infallibile è solo la Comunità nel suo complesso. Il Papa può essere eretico e il singolo può giudicarlo. In una Chiesa che è la somma dei singoli, la fede individuale si avvia a superare la mediazione sacramentale della comunità stessa e imbocca la strada del misticismo fideistico.

In quanto poi all’Imperatore, egli è il custode della Chiesa, il suo giudice, il suo vero capo visibile. Un po’ come David nell’AT, egli garantisce alla comunità quella protezione che è la separazione stessa dalla contaminazione mondana. Vicario di Dio nel temporale e nello spirituale, l’Imperatore è sostenuto energicamente da Ockham contro il Papa nelle loro lotte, sostenendo l’origine popolare e divina dell’autorità imperiale senza nessuna mediazione papale.

Come mai una simile sintesi ebbe fortuna e generò una importante scuola teologica? Perché Ockham fondò un ideale di scienza molto moderno, che permetteva acquisizioni certe senza ingerenze metafisiche e aveva un metodo logico senza problematiche fondative; nello stesso tempo però egli preservava la purezza della fede da ogni contaminazione filosofica, garantendole una assoluta superiorità morale e in un certo senso anche teoretica.

I SEGUACI DI OCKHAM

Furono presenti a Parigi e ad Oxford, nelle quali fecero fiorire rispettivamente la logica e la scienza. La Scuola occamista fu la più influente della Cristianità sino alla Controriforma. Si strutturò progressivamente imperniandosi su precise dottrine. Vediamo i suoi maggiori rappresentanti del XIV sec. Seguendo il maestro eponimo, saltando a piè pari gli scolastici, tornarono ai Padri e specialmente a Sant’Agostino. A volte si ispirarono agli antidialettici del XII secolo come San Pier Damiani. Vanno anzitutto menzionati il francescano Adamo Whoodam (†1358), il domenicano Roberto Holkot (†1349) e l’agostiniano Gregorio da Rimini (†1358).

Nicola di Autrecourt (1300 ca.-1350 ca.) fu assertore della separazione tra fede e ragione, del fideismo, della funzione critica della ragione, della decostruzione metafisica e dell’empirismo di stampo atomistico. Nonostante egli sostenesse di argomentare per indebolire la ragione e rafforzare la fede, il filosofo fu condannato da papa Clemente VI (1342-1352) e abiurò i suoi errori.

Anche Giovanni di Mirecourt fu condannato da papa Clemente VI nel 1347, per il suo volontarismo estremo. Egli distingueva tra l’evidenza speciale del Primo principio e l’evidenza sensibile, a sua volta interna ed esterna. Quest’ultima ha gradi differenti di validità.

Giovanni Buridano (1300-dopo il 1358) fu un occamista moderato, che teorizzò l’importanza della forza nell’accelerazione del moto e della capacità di sospendere l’assenso del volere quale espressione della libertà umana. Autore del celebre apologo dell’asino, fu il caposcuola occamista dei tempi suoi. Fu suo discepolo il filosofo Alberto di Sassonia (†1390).

Marsilio di Inghen (1340 ca.-1396) fu il corifeo degli occamisti in Germania. Fu importante per la sua logica terministica, i cui manuali furono studiati fino al 1500, per la fisica, il cui patrimonio concettuale parigino egli tramandò agli intellettuali italiani del Rinascimento, in gnoseologia, in cui attenuò la dicotomia tra fede e ragione, e in teologia razionale, in cui recuperò la validità della prova del moto per risalire al Primo motore. La filosofia non è una scienza per Marsilio, ma la ragione può portare conferme alla fede mediante il metodo scientifico, mentre la teologia ha per lui una finalità eminentemente pratica perché contemplativa. Marsilio inoltre asserì l’esistenza concreta delle sostanze quali elementi dell’essere oggetto della metafisica e recuperò il valore della dottrina degli Universali, intesi quali potenze naturali che si esercitano secondo una causalità universale. Amico e collega di Marsilio fu Enrico di Hainbuch (†1397). Costoro, assieme a Nicola di Oresme (†1382), che fu grande scienziato, costituirono una sorta di alta triade della cultura scientifica e logica dei loro tempi. Grazie a loro la cultura delle Arti e la tradizione delle Sentenze di Pietro Lombardo continuò a vivere in modo originale nella cornice della Sorbona, così da garantire una sopravvivenza più che dignitosa alla Scolastica stessa, quantomeno per il metodo.

Pietro d’Ailly (1350-1420) fu un genio enciclopedico autore di centosettantaquattro opere. Assertore della sfericità della terra, propose ampie riforme per la Chiesa e sostenne il Conciliarismo quale via d’uscita dalla crisi del Grande Scisma d’Occidente (1379-1415). Nominalista, ammise una conoscenza intuitiva sensibile non esente da errori e asserì che l’unica nozione non ingannevole è quella dell’autocoscienza. Tendenzialmente scettico e soggettivista, Pietro sostenne il realismo moderato nella questione degli Universali. Affermò che razionalmente l’esistenza di Dio è probabile e verosimile, come la distinzione dei suoi attributi; negò che si potesse determinare la bontà di un atto umano in quanto il fine dell’uomo non è razionalmente evidente; insegnò che la teologia non solo espone il dogma ma argomenta con la ragione naturale a favore della fede. Attenuò il contrasto tra la potenza assoluta e quella ordinata di Dio, affermando che Egli non ha condizionamenti soprannaturali ma è vincolato al corso naturale delle cose che Lui stesso ha stabilito. Perciò il Decalogo o i Sacramenti, pur riposando nella loro validità sulla volontà divina, vanno accettati senza nessuna disputa sull’ipotesi che non fossero mai esistite. Con Pietro siamo già nel clima dell’Umanesimo, sul quale torneremo più avanti.


Theorèin - Settembre 2017